Ripropongo un mio intervento pubblicato nel 1991 sul mensile Mondoperaio dal titolo "I contabili del pacifismo" (Mondoperaio, agosto-settembre 1991, pp. 116-122), sulla scia del dibattito sulla Prima Guerra del Golfo. In particolare, critico un lungo articolo di Umberto Eco sullo stesso argomento. Lo ripropongo perché quel che dicevo oltre trent’anni fa si può applicare, con poche modifiche, alla situazione di oggi, che vede l’invasione non del Kuwait ma dell’Ucraina.
È spiacevole il fatto che Eco non possa oggi rispondere perché non più in vita, ma avrebbe potuto rispondere allora. Cosa che non fece. Ci tengo comunque ad esprimere il mio affetto e ammirazione per Umberto Eco, anche se talvolta, proprio su questioni politiche, ci siamo trovati su posizioni divergenti. La Guerra del Golfo per l’invasione irachena del Kuvait fu una di quelle occasioni di divergenza.
Da un po’ di tempo a questa parte Umberto Eco pare sedotto dalla categoria economica come risolutiva. Di recente ha pubblicato un libro, I Iimiti dell’interpretazione (Bompiani, 1990), nel quale si chiede in sostanza: «Quale metodo proporre ai critici e ai lettori di un’opera letteraria per interpretarla in modo non del tutto cervellotico?». La risposta è: un criterio di economia. Un’interpretazione è non falsa (non esistono interpretazioni false) ma inaccettabile quando è poco economica, quando produce uno spreco di vis interpretativa.
Questo stesso modello, pragmatista e un po’ yuppy, viene applicato da Eco quando interviene nel dibattito tra interventisti e pacifisti a proposito della guerra del Golfo1. Detto sbrigativamente: per Eco non conviene fare la Guerra (con la G maiuscola), in nessun caso, perché costa troppo anche a chi la vince. La guerra mette in moto forze e processi che chi ha deciso la guerra non controlla più. «[La Guerra] — conclude Eco — è peggio di un delitto: è uno spreco». Come si vede, siamo in apparenza lontani dai comizi edificanti di tanto pacifismo tribunizio e gandhiano. Eco è un intellettuale raffinato, Eco is an honourable man.
«La Guerra è un sistema neoconnessionista — scrive — […]. Essa non è più un fenomeno in cui il calcolo e l’intenzione dei protagonisti abbia valore; […] in linea di principio, in quanto sfida ogni calcolo decisionale, essa è perduta per entrambi […] La Guerra contemporanea è come una partita a scacchi in cui entrambi i giocatori mangiano e muovono pezzi di uno stesso colore […]. Essa è un gioco autofago […]. Comunque la Guerra vada, essa, avendo provocato un riassetto generale di pesi che non può corrispondere pienamente alla volontà dei contendenti, si prolungherà in una drammatica instabilità politica, economica e psicologica per i decenni a venire, che altro non potrà produrre che una politica guerreggiata».
Eco in certa misura ha ragione, direi anzi che ha troppa ragione, dato che quel che dice vale non solo per la guerra, ma per qualsiasi iniziativa politica in qualsiasi «rete» sociale. È l’eterogenesi dei fini. Facciamo una riforma politica, ma non ne controlliamo mai gli effetti. Eco dovrebbe concludere: non solo «la guerra è impossibile», ma «l’azione politica è impossibile». Anzi, l’aleatorietà delle misure sociali ed economiche in pace è di fatto ben più marcata dell’aleatorietà di un’azione bellica come Desert Storm2. In effetti, i rapporti sociali e politici sono reticolari, quindi non c’è un rapporto lineare tra cause ed effetti. Volesse il cielo che un governo, abbassando il tasso di sconto o bloccando i redditi per un po’, riuscisse a ottenere effetti così netti come, malgrado tutto, son riusciti a ottenere Bush e Schwarzkopf con la Guerra del Golfo! Questo pessimismo della ragione neoconnessionista rischia di screditare completamente ogni «ottimismo della volontà» in politica.
Ma davvero le teorie sistemiche e neoconnessioniste implicano un totale scetticismo sulla possibilità d’influenzare i sistemi complessi? Non è detto. Le teorie sistemiche sono all’origine di psicoterapie varie, di strategie di consulenze politiche e industriali, di tecniche «decisioniste», insomma, di pratiche che mirano a un miglioramento. Queste teorie ispirano pratiche che fanno a meno delle ingenuità ideologiche, cieche ai paradossi e alle curvature che i sistemi a rete impongono alle azioni umane.
Si è tentati di rigettare tutto lo sforzo argomentativo di Eco con un’alzata di spalle, e dire: «La guerra sarà antieconomica, ma spesso non la scelgo: mi è imposta dall’aggressore». Al che però subito il pacifista risponderà che, nel caso specifico del Golfo Persico, l’Occidente non era direttamente attaccato, e quindi esso ha scelto la guerra. «Si potevano continuare le sanzioni economiche», non si cessa di ripetere. Ma la vanità di questo ritornello sulle sanzioni è presto palese. Uno come Saddam Hussein sarebbe forse stato piegato dal blocco commerciale solo se questo avesse avuto effetti apocalittici, vale a dire conseguenze probabilmente anche più micidiali della guerra: carestie, epidemie, flagelli biblici, bambini scheletrici, esodi in massa. Per essere davvero efficaci, le sanzioni devono essere più micidiali della guerra. Non è la sola guerra a uccidere la gente, anzi, una carenza di medicinali può mietere più vittime di una guerra. Ma siccome le sanzioni di solito non producono effetti tali, esse si rivelano inefficaci. Anche perché esse colpiscono il popolo iracheno, non certo la persona Saddam Hussein né i suoi gerarchi. Come furono del tutto inefficaci le sanzioni contro l’Italia nel 1936 da parte della Società delle Nazioni dopo che l’Italia ebbe sottomesso l’Etiopia: mai Mussolini godette di tanto consenso come all’epoca.
Il pacifista dice che la pace e la guerra si scelgono, mentre in realtà nell’inferno della storia gli agenti hanno spesso una sola scelta: quella di cercar di subire il male minore. E cercano di evitare il male maggiore sulla base della pura probabilità, di un calcolo virtuale di effetti verosimili. Una pace può risultare — proprio sulla base della complessità sistemica — più catastrofica di una guerra (in Cambogia, ad esempio, la pace dei Khmer rossi si è rivelata ben più micidiale della guerra scatenata dal Vietnam, la pace ha prodotto un genocidio). La scelta non è dicotomica, manichea, tra Pace e Guerra, se non per certi forzati mentali del pensiero lineare. La Guerra con la G maiuscola, quella che interessa Eco, sarà sempre negativa, ma le guerre con la g minuscola, le guerre concrete, possono essere il danno minore.
E del resto, come calcolare l’entità dei danni? Quanto valgono i morti in una guerra, quanto vale la fine della libertà, o il declino economico?
Si può concedere che nessuna guerra è giusta: ciò non toglie che alcune guerre siano necessarie, ed è quanto basta. Nella realtà, la politica è un gioco, rischioso talvolta come la roulette russa, ma un gioco. La tragedia della condizione umana è che il benessere e la rovina delle nazioni sono effetti spesso della logica opaca e azzardata del gioco, dove si calcolano effetti probabili e mai certi. Molte guerre erano state progettate come guerre-lampo, e poi si sono rivelate massacri interminabili.
Va quindi denunciato l’equivoco comune, nel quale cade persino Eco — citando a sproposito Clausewitz — di considerare guerra e politica incompatibili, due opzioni esclusive. Credere che la guerra significhi la fine delle raffinatezze della politica, per dare il posto alla forza bruta bellica, è il risultato di una brutalità intellettuale. La guerra è forza feroce per chi la perderà, eppure è un modo per fornire altre carte, migliori, ai politici — come inversamente anche nel confronto politico più pacifico c’è sempre un orizzonte e una dimensione di guerra. Abbiamo l’esempio della guerra del Kippur (1973): vinta dagl’israeliani solo militarmente, ma da loro persa politicamente, dato che hanno dovuto restituire la penisola del Sinai all’Egitto. Persa? Solo in apparenza. Essa ha portato poi a un’alleanza tra Egitto e Israele che è andata a vantaggio di entrambi i paesi – quindi, la guerra è stata politicamente vinta da entrambi. Le chiacchiere interminabili dei diplomatici hanno un senso proprio perché la prospettiva della violenza come ultima ratio non viene mai meno: se una nazione rinuncia a priori, pubblicamente e solennemente, alla possibilità della guerra, non ha nemmeno spazio per la trattativa politica. Guerra (anche se solo minacciata) e diplomazia si sostengono sempre a vicenda. A meno che la diplomazia non si riduca a semplice resa della parte aggredita. Ma è giusto arrendersi senza nemmeno aver tentato di difendersi?
L’azione politica è comunque possibile, una volta acquisita una certa ironia e ingegnosità «sistemiche», perché «i sistemi paralleli» (come li chiama Eco) confondono dati e regole, ma gli attori sociali spesso non li confondono. Un sistema parallelo funziona divertendosi a tradire le intenzioni degli attori, ma un sistema è anche «fondato» dagli attori, grazie a regole e procedure decise da loro. Lo vedremo meglio in seguito.
Comunque, prendo sul serio gli argomenti di Eco. Tanto più che, per dimostrare l'impossibilità della guerra, egli fa ricorso alle teorie sistemiche e neoconnessioniste, e persino alla teoria dei poteri decentrati di Foucault — insomma a teorie non male, che in fondo condivido. Infatti, le teorie sistemiche e neoconnessioniste hanno aiutato molti (anche chi scrive) proprio a superare le pigre semplificazioni del «cuore di sinistra». Ad esempio, ad abbandonare la credenza che basti nazionalizzare delle industrie perché la produzione vada a vantaggio del popolo e non di alcuni privati; che basti esser pacifisti per evitare le guerre; che basti eliminare i capitalisti per eliminare il capitalismo; che basti aumentare i salari per aumentare davvero il livello di vita delle masse; eccetera. In altre parole, queste teorie ci hanno fatto capire che non c'è continuità tra gli atti e i fini, che non c'è un binario unico e diretto tra la bontà delle intenzioni e gli effetti delle azioni sociali ispirate dalle buone intenzioni. Che insomma l'azione politica e sociale non è lineare, trasparente, inequivoca, ma curva, intricata, opaca, indiretta, paradossale.
«Between the idea / And the reality / Between the motion / And the act / Falls the Shadow» (T.S. Eliot).
Ora, è sorprendente che Eco qui si richiami a queste teorie che ci hanno aperto gli occhi sulle semplificazioni per teorizzare una grande semplificazione, per predicare «il tabù della guerra» — senza sospettare che da qualche parte «cade l’ombra».
Tanto più che Eco qui compie il passo falso di promuovere questo «tabù della Guerra» attraverso un paragone con il tabù dell’incesto. Come l’umanità — scrive — ha imparato, per esperienza, che l’endogamia è nociva per ragioni genetiche, e s’è autoimposta il tabù dell’incesto, così l’umanità dovrebbe imparare dall’esperienza che la guerra è nociva, e decidersi per un tabù della Guerra. In che consiste il tranello di questo paragone? Che la proibizione dell’incesto esiste, certo, in tutte le culture umane (anche se nelle varie culture sono incestuosi parenti diversi), ma essa non impedisce che d’incesti reali se ne consumino! Anzi, in America molti giurano che sono molto più frequenti di quanto non si pensi. Prima Eco ci ha detto che i sistemi neoconnessionisti non distinguono tra dati e regole, ma qui egli stesso porta un esempio dove invece la differenza tra dati e regole è più che mai cogente: non bisogna confondere il tabù dell’incesto con l’inesistenza dell’incesto! Così come non bisogna confondere il fatto che l’omicidio nelle nostre società sia proibito con gli omicidi che di fatto si compiono ogni giorno. Certo, il tabù della Guerra esiste ormai, e non solo tra la sinistra pacifista: com’egli fa notare, chi elogia la Guerra ormai rientra più nella psichiatria che nella politologia. Ma il tabù della Guerra non impedisce che di guerre (con le g minuscole) se ne facciano, perché in molti casi esse appaiono essere, o si spera che siano, il male minore.
Ma non è sleale confutare Eco attraverso un suo esempio infelice? No, perché questa confusione tra regole e azioni, tra competence e performance, tra ideale e realtà, tra leggi e comportamenti, fa capolino lungo tutto il suo testo. Ad esempio, quando Eco decreta che «la Guerra è impossibile», impossibile tout court. Questo mi fa pensare alle argomentazioni del don Ferrante manzoniano, il quale dimostrò aristotelicamente che la peste è impossibile — salvo poco dopo tirar le cuoia a causa della peste.
L‘idea che le guerre vengano vinte non da chi le vince formalmente, data la complessità dei fattori, non è di per sé falsa. La guerra ingrassa i mercanti di cannoni — nota Eco — ma rovina le compagnie aeree e l’industria dello spettacolo3; e tutte queste industrie erano parte dell’Occidente schierato sul Golfo. Molti sono convinti che la seconda guerra mondiale sia stata di fatto vinta dalla Germania e dal Giappone, e persa dalla Gran Bretagna; basta guardare oggi le condizioni economiche di Germania e Giappone da una parte, e della Gran Bretagna dall’altra. Ma questo l’intuiva forse persino Churchill, il quale non a caso prometteva ai suoi compatrioti «sudore, lacrime e sangue». Possiamo dire che gli Inglesi nel 1939 furono pazzi a scatenare una guerra contro Hitler dato che poi, di fatto, questa guerra l’hanno «persa» economicamente? Un contabile, come Eco, dei costi e ricavi di una guerra potrebbe concludere che gli Inglesi furono turlupinati da quel fanatico guerrafondaio di Churchill (molti neo-fascisti di oggi sostengono questa tesi). Del resto, l’«aggressione» al Terzo Reich fu in linea con la strategia geopolitica secolare della Gran Bretagna: impedire che una sola potenza prevalesse nell’Europa continentale. Combatté Hitler per le stesse ragioni per cui combatté la Spagna di Filippo II e la Francia di Napoleone. Analogamente, non si può negare che Bush in Medio Oriente si sia mosso anche perché il Kuwait rigurgita di petrolio. Ma nessuno di noi si sente di affermare che l’eroica lotta britannica contro Hitler fu vana o cinica, perché molte volte si fa una guerra anche per ragioni morali. Ci credete? E’ incredibile, certe volte si fa una guerra anche per ragioni morali! I britannici si batterono contro Hitler anche per difendere la loro forma di vita, e quindi certi valori a essa indispensabili. La Germania e il Giappone oggi risultano vincitori, ma il fascismo ha perso, e questo, per i democratici, risulta importante — chissà perché! – anche se è costato sudore, lacrime e sangue.
L’Unione Sovietica per difendersi dall’aggressione nazista ha perso circa 23 milioni di persone, tra militari e civili. Fece male a difendersi? La sua vittoria sul nazismo valeva tanti milioni di morti? Cosa ne pensa il contabile?
Certa sinistra ha irriso sistematicamente le pretese della coalizione Onu contro l’Iraq di applicare norme di diritto internazionale, denunciandole come razionalizzazioni d’un misfatto, ipocrisie, pretesti. Come tutti sanno, non siamo andati nel Golfo Persico per liberare un paese invaso, ma per il petrolio, solo per petrolio… Quante volte l’ho sentita o letta, in questi mesi, questa parola d’ordine: «Si fa la guerra per il petrolio!». Me la son sentita dire anche da qualche illustre professore universitario, con la spocchia di chi ha fatto una grande scoperta politologica, come a dire: «Io so come va il mondo: l’Onu, il diritto internazionale, tutte baggianate per i gonzi. Quelli badano solo alla grana, te lo dico io!». Questa stessa verità da bottegaio risuona a eco milioni e milioni di volte tra le plebi del mondo intero, intonata in un concerto sconfinato dalle masse del pianeta. È un caso di distribuzione interclassista, egualitaria, dell’imbecillità. No, certo, Eco non si intona al coro della massa, Eco is an honourable man.
In effetti, pensare che l’avversario sia cinico, sia mosso esclusivamente da bassi motivi, e sia accecato dalla propria egoistica stupidità, è tipico di un’abituale sottovalutazione dell’avversario da parte del «cuore di sinistra». È quel disprezzo per l’intelligenza dell’avversario che faceva dire a Lenin: «I capitalisti occidentali ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo!». (Certo, l’Occidente ha venduto la corda, ma alla fine si sono impiccati i leninisti, come sappiamo). Questo disdegno dell’avversario in quanto baderebbe solo ai propri “sporchi interessi” è la ricetta sicura per andare incontro ad amare delusioni e catastrofiche sconfitte. Anche se il petrolio non fosse così importante com’è per la vita di tutti noi, anche di quelli poveri, pensare che trenta paesi sono intervenuti «solo per il petrolio» è frutto di un’erronea filosofia, per cui alla base del potere e degl’imperi ci sarebbe soprattutto la forza bruta. «L’America domina grazie alla forza delle armi e dei dollari». Quando Atene dominava il Mediterraneo del V° e IV° secolo a.C., essa dominava non solo grazie alla sua flotta superba: dietro quella flotta c’erano artisti, filosofi, scrittori, matematici… Un impero per esser tale non può mai reggersi sulla pura forza e sul cinismo: porta con sé una forma di vita, una cultura, paradigmi, regole, valori… La forza dell’Occidente è prima di tutto l’attrazione di certi suoi valori (pacifismo compreso), della sua forma di vita. E financo la sinistra terzomondista fa parte di quest’imperialismo culturale, l’ammetta o meno. Un terzomondista come Sartre oggi è componente del prestigio della cultura francese, non di quello dell’Algeria per cui aveva parteggiato, il suo pensiero è ben più presente nel governo di Mitterrand in Francia che in quello di Chadli Benjedid4 in Algeria.
Quindi, è vero che per la guerra alcuni settori industriali stavano entrando in crisi. Ma forse le società moderne non vivono solo di bilanci aziendali: vivono anche di regole e valori presupposti dai bilanci aziendali.
Non concordo con la strategia polemica di molti «interventisti», che mettono in uno stesso sacco antibellicismo laico di sinistra e pacifismo integralista cattolico, allo scopo spesso di far arrossire la «sinistra di classe» per il suo wojtylismo de facto. Io trovo invece il pacifismo del Vaticano inattaccabile, e meno ipocrita dell’antibellicismo della sinistra, perché si tiene al livello della pura prescrizione etica, al livello degli imperativi categorici direbbe Kant. «A chi ti schiaffeggia porgi l’altra guancia» è una raccomandazione razionalmente inconfutabile. Se ne può contestare l’efficacia ai fini degl’interessi dello schiaffeggiato, non se ne può contestare la coerenza etica. Chi scrive non l’adotta come sua divisa, ma ne ammira l’eroismo e lo snobismo. Qualcuno5 ha insinuato che il pacifismo radicale del papa è un corollario della sua politica filoaraba e del suo antiebraismo. Sarà. Ma da com’è stato esposto, questo pacifismo si mantiene al livello degli imperativi categorici, non è quindi oggetto di disquisizione logica.
Del resto il «pacifismo» italiano gioca su un’ambiguità che non è possibile, ad esempio, in America, dove si distingue con cura il pacifism (l’esser contro qualsiasi guerra) e la non-violence da chi è anti-war (vale a dire contro quella ben determinata guerra). Distinzione non accademica ma concreta: un pacifist viene esonerato dal servizio militare, un anti-war può finire in galera. Trovo ben più attaccabili – rispetto ai pacifists – gli anti-war, o pacifisti inautentici, della sinistra laica, e il pacifismo amorale ed «economico» di Eco, che inalberano la pace come imperativo ipotetico. Del resto, è difficile credere che sia vero pacifism quello d’una sinistra che fece proprio il truce slogan guevarista «due, tre… cento Vietnam», e che inneggia alla Resistenza, la quale fu lotta armata, fino a prova contraria. Il pacifismo «ipotetico» della sinistra è poco plausibile proprio perché la sinistra ha avuto di solito l’ingenuità auto-fraintendente di rifarsi a Machiavelli piuttosto che a Kant o a Gesù.
Il pacifismo ha questa specificità: o è assoluto, etico kantiano, antieconomico, eroico, insomma pacifism nel senso anglosassone, oppure è insensato… Io capo di stato che dispongo dell’arma atomica posso anche dirmi in cuor mio: «Non userò mai l’arma atomica, anche se verrò attaccato atomicamente», ma guai a dirlo pubblicamente! In questo caso tanto vale non costruire nemmeno la bomba atomica. Dichiarando che non userò l’atomica, invito l’altro che mi vuole attaccare a usarla contro di me.
È insensato, ad esempio, che la sinistra denunci la partecipazione alla guerra del Golfo, e poi sia a favore della leva militare obbligatoria (alla quale invece io sono contrario): che senso ha addestrare alle armi milioni di cittadini quando si assicura contemporaneamente ogni possibile aggressore che non si useranno mai questi soldati? «È peggio di un crimine, è uno spreco» — per dirla come Eco. Che senso ha accettare la Nato e poi dichiarare che non bisogna mai difendere militarmente nessuno, neanche un alleato della Nato? Come potrà mai esser credibile — anche di fronte al senso comune — una sinistra che avesse una tale «politica della difesa»?
È vero che le armi sono efficaci soprattutto quando non si usano. Perciò trovo tuttora sensato l’adagio latino Si vis pacem, para bellum. È stata questa l’imbecillità di Saddam Hussein: oggi continueremmo a credere che egli disponeva del quarto esercito del mondo se non avesse avuto la malaugurata voglia di usarlo, rivelando il bluff di cui egli è stato, prima di noi tutti, vittima. Ma occorre proclamare d’esser pronti a usare queste armi perché il non usarle possa continuare ad avere un’efficacia deterrente.
Qualcuno potrebbe però far notare che, in prospettiva, la strategia pacifista propriamente detta può essere non solo morale, ma anche efficace. Gandhi in India, Walesa in Polonia: non hanno vinto senza ferire? Al limite, se nessun paese avesse resistito all’hitlerismo, forse quest’ultimo si sarebbe diluito e poi estinto, a ragione del proprio stesso successo — in ogni caso, perché escluderlo?
Il punto è che il pacifism sarebbe efficace solo nel caso che tutte le potenze mondiali decidessero di non resistere all’aggressore. La pace potrebbe esser preservata solo con una resa universale e simultanea di tutti al prepotente. Ma fin quando non si dà quest’improbabile coincidenza, il pacifismo non salva affatto la pace, favorisce guerre più sanguinose isolando i paesi che non s’arrendono al prevaricatore, esponendoli a una guerra molto più terribile e incerta. Evitando di ribattere all’Iraq quando questa ha invaso il Kuwait, il pacifismo di fatto isolava Israele costringendolo a una guerra micidiale contro Saddam Hussein.
In questa prospettiva, la guerra cessa d’esser vista, come la vede Eco, con la G maiuscola, ma diventa un caso limite la cui possibilità è necessaria perché un minimo di ordine pacifico possa esser mantenuto. Il ricorso alla guerra come «polizia internazionale» è analogo all’uso della forza in qualsiasi società per sanzionare comportamenti illeciti. In quale società, per quanto pacioccona, non ci sono forze dell’ordine?
Tutti vorremmo che la polizia non usasse mai le armi in sua dotazione, che i tribunali e le prigioni restassero vuoti. Ma la possibilità della sanzione (uso della costrizione, prigione) è nel mondo degli «uomini umani» come diceva Totò (Uccellacci e uccellini) una condizione dell’efficacia d’ogni legge. Ogni società umana è una comunità morale: la morale è una «macchina» che separa comportamenti leciti da comportamenti illeciti. E questa distinzione formale ha rilevanza materiale solo se la comunità ha la forza di sanzionare eventualmente certi comportamenti come illeciti. In alcune società primitive, per esempio, la sanzione consiste nel suicidio di chi ha commesso l’infrazione: anche il suicidio spontaneo può essere una sanzione sociale. L’Onu, la coalizione delle nazioni, è una comunità morale, per quanto certo ancora debole e incerta: essa è tanto più comunità quanto più ha la forza di sanzionare gli atti illeciti, qualunque essi siano. È contraddittorio perciò – come fanno molti – predicare l’unità di tutte le nazioni nell’ONU e poi negare all’istanza unitaria il potere di sanzionare le illegalità commesse da certi suoi membri. Uso delle armi, prigione, multe, licenziamenti, sospensione dei diritti civili, guerra: sono tutte sanzioni la cui possibilità non può essere esclusa, nella speranza che la sola minaccia di metterle in atto basti a evitare di metterle in atto. Ma talvolta occorre pur metterle in atto affinché sia credibile la minaccia di metterle in atto.
La scelta «impossibile» della guerra mi porta alla memoria un film americano in cui s’illustrò Meryl Streep, Sophie’s Choice di Alan J. Pakula. Sophie è una deportata polacca con due figli, un bambino e una bambina. Un ufficiale nazista l’obbliga a quest’alternativa: «Uno dei tuoi figli verrà ucciso: scegli tu quale. Se non scegli, entrambi verranno uccisi». Messa alle strette, Sophie sacrifica uno dei due. In molte situazioni chi esercita un potere di decisione si trova a compiere scelte «impossibili» come quella di Sophie. La storia assomiglia molto a un aguzzino nazista. «Gli Scud hanno provato che l’esistenza umana è tragica»6, ha scritto Wlodek Goldkorn a proposito degl’israeliani («MicroMega» 2/91, p. 104). Questa guerra è stata fieramente avversata da chi non vuol accettare la stoffa tragica dell’esistenza umana. Vale a dire che spesso non abbiamo affatto la libertà di non scegliere ma siamo costretti alla scelta «impossibile» della guerra. Non come i nostri anti-war, lontani migliaia di chilometri dal teatro del conflitto, saggi e altezzosi menefreghisti. Fermi e Oppenheimer furono favorevoli all’uso della bomba atomica contro il Giappone allo scopo di salvare più vite umane — e si ricordi che Oppenheimer era di sinistra e contro le guerre. Credo che la loro scelta fosse sbagliata, non c’era bisogno di gettare due atomiche su popolose città, comunque essi non si sono sottratti bellamente alla «scelta di Sophie».
Avete notato che il pacifismo nel mondo si andava espandendo man mano che ci si allontanava, geograficamente e visceralmente, dall’epicentro della tragedia, il Kuwait? Tutti coloro che erano in prima linea — kuwaitiani, palestinesi, israeliani, sauditi, persino gl’iracheni — invocavano appassionatamente la guerra, a torto o a ragione, anche se per opposti motivi. La protesta contro la guerra ha dilagato in Germania e in Italia, proprio nei paesi che si son tenuti più alla larga. Finora non ho incontrato nessun ebreo, per quanto di sinistra, che non sia stato interventista. Perché un ebreo, quando si tratta della pelle propria o di chi gli è caro, anche se ammira il mahatma Gandhi, dispone di una sorta d’istinto — fornitogli da una storia millenaria — per cui mette da parte le opere complete di Marx, non si lascia insomma gabbare dai teoremi sofisticati dei Gentili. Il pacifismo è l’opzione di chi, all’opposto della povera Sophie, è lontano e guarda da spettatore: e che quindi spettatore vuol restare, lavandosene le mani.
Quel che è decisivo, per un anti-war terzomondista di sinistra, non è tanto la nobile compassione per i bambini uccisi, per gli eserciti di profughi, per i giovani di leva massacrati da altri giovani di leva — se così fosse, non si spiegherebbero allora i due pesi e le due misure, la comparativa indifferenza per i bambini israeliani che sfoggiavano maschere antigas come fossero maschere di carnevale, per la popolazione inerme di Tel Aviv scudizzata7. La pietà di questi intellettuali non è universalmente categorica, kantiana, ma solo ipotetica, vale a dire condizionata dal tifo terzomondista. Questo tifo non ha solo ragioni morali ma anche estetiche. Foucault, evocato da Eco, aveva almeno il coraggio di scriverlo: «Io non vedo [… J quali criteri permetteranno di decidere contro chi bisogna battersi, salvo forse dei criteri estetici».
Il parteggiare del terzomondista è intriso di estetismo ideologico. Infatti, qual è la condizione perché scatti la compassione sinistrorsa? La condizione è che nella grande giostra del mondo i bambini di cui sopra appaiano vittime dell’Occidente. Non la filantropia indiscriminata, ma una hybris, vale a dire il bisogno passionale di condannare l’America e l’Occidente, di denunciare chi ci governa, da Andreotti a Bush, appare la vera molla di una sinistra «in preda ad astratti furori». Soprattutto è importante non farsi vedere in pubblico come chi è dalla parte del Potere, in pace e in guerra. Essere per il potere, essere per Bush o per Agnelli, è cadere nel Kitsch, secondo il gusto della sinistra. Ed essere terzomondista di sinistra è una sorta di opzione da don Giovanni di Kierkegaard, che contempla esteticamente il mondo con le mani in tasca.
Certo, anche Sophie, come Umberto Eco, sceglie alla fin fine su basi «economiche», o se non altro aritmetiche: meglio perdere un solo figlio, che due. Ma è il contrario dell’economicismo strutturalista di Eco, è l’economia tragica della sopravvivenza: uccidere un figlio per non farne morire due. È l’economia che fa precipitare la decisione, non quella che la rimanda pigramente. No, Sophie deve scegliere — anche se poi perderà entrambi i figli, nella storia di William Styron. Scegliere, non parteggiare! Quando invece certa sinistra, non scegliendo, ciecamente parteggia per uno dei contendenti del Medio Oriente, facendone il rappresentante incarnato dello Spirito trascendente del Terzo mondo oppresso, rinuncia al vantaggio della propria distanza dal teatro del conflitto: partecipa immaginariamente alla Rivoluzione, anche se con il sangue degli altri. L’«Occidente imperialista» è obbligato a decidere per il resto del mondo — perché decide anche quando non decide (se non fosse intervenuto a favore del Kuwait, avrebbe comunque deciso: avrebbe incoraggiato le decine di Saddam sparsi nel cosiddetto Terzo mondo a dar libero sfogo alle loro megalomanie vessatorie). L’Occidente è così odiato non solo perché è più ricco, ma perché decide anche per chi non è occidentale. E a questa tragedia della responsabilità il pacifista anni novanta vuole sfuggire, scaricando la responsabilità e la colpa su Bush o su Major8, su chi non può sottrarsi alla necessità di decidere, anche per gli altri. L’anti-war suppone che l’Occidente debba godersi tutti i vantaggi della propria ricchezza e potenza senza dover pagare per questo — di tanto in tanto — anche qualche prezzo come Desert Storm. Le società democratiche non si son fatte finora guerre tra loro, e questo mezzo secolo di relativa pace di cui abbiamo goduto ha convinto alcuni di noi dell’impossibilità della guerra per noi. L’aggressività contro i leader occidentali che hanno accettato la sfida di Saddam Hussein deriva dall’infrangersi del sogno: protestiamo disperatamente contro la realtà, contro un mondo dove le culture democratiche hanno ancora da combattere, hanno ancora da affrontare la barbarie. Pensavamo che eroismi e sacrifici fossero solo ricordi, che le guerre fossero combattute solo da altri, dai “sottosviluppati”. Quando Iraq e Iran si sono fatti la guerra per dieci anni, la cosa non ci faceva né caldo né freddo, “guerre tra sottosviluppati!” Questa guerra ha spezzato la nostra illusione — da qui il risentimento per chi ci ha privati dell’illusione. È la reazione del figlio viziato: gode dei privilegi garantitigli dal padre, e tuona contro il padre quando questi non lo protegge dalla verità che per godere di questi privilegi occorre però anche lottare, talvolta. Sentirsi lontani da Kuwait City, come già un tempo da Danzica, è il rifugio confortevole di una filiale irresponsabilità.
Mi ha molto turbato l’esperienza di polemizzare, per ore, con amici attorno alla guerra del Golfo. Soprattutto con i miei amici intellettuali (non ebrei): ho sperimentato un isolamento a cui m’ero disabituato da molti anni. Tanti conoscenti, che da tempo credevo ormai del tutto emancipati dai riflessi atavici della sinistra terzomondista, in quest’occasione hanno mostrato che il lupo cambia più facilmente il pelo che non il vizio. Ho rivissuto le stesse sensazioni di quando, nella prima metà degli anni settanta, andavo dicendo in giro che non ero marxista: allora suscitavo la derisione. Come, allora, si poteva essere un intellettuale e non marx-leninista? Oggi, più che derisione, il mio essere per la guerra contro Saddam suscita indignazione. L’essere per una guerra con eserciti regolari (tutto sarebbe stato diverso se si fosse trattato di Eserciti di Liberazione) appare a gran parte degl’intellettuali semplicemente inconcepibile. Non a caso Eco propone di considerare la guerra un tabù. Il guaio è che i tabù sono anche dogmi, che non si discutono. E io invece ho una voglia matta di discutere!
Questo rush degl’intellettuali verso l’antiamericanismo primario, verso un antibellicismo a senso unico, ha in realtà molte ragioni, ma una è certo importante: esser contro una guerra è il modo classico, per un intellettuale, di schierarsi «dalla parte giusta» a buon mercato, a colpo quasi sicuro, cosa utile in quest’epoca di complessità, neoconnessionismi e paradossi sistemici. Condannare la guerra pare all’intellettuale di sinistra il primo e l’ultimo dei propri doveri elementari, così come celebrare la messa è lo zoccolo duro, la pratica più tarda a morire, per il prete che sta perdendo la fede. Ma esser contro la guerra, contro qualsiasi guerra, per un intellettuale che si autodefinisce irresponsabile, è una vera cuccagna: figura così come cuore nobile, si salva l’anima salvando ipso facto il portafoglio dell’«opinione pubblica» e il proprio (dato che la guerra costa danaro, questo è certo). Solo grazie a un lavoro di cesello esegetico dietro il comfort ideologico anti-war terzomondista è possibile snidare l’inconfessabile, nel caso specifico certi reconditi assiomi antisemiti.
Ovviamente, l’accusa di antisemitismo viene respinta dal «pacifista inautentico» con sdegno. Magari citerà i suoi tanti amici di religione ebraica… Ma il suo antisemitismo non consiste nel parlar male degli ebrei. (È vero, molti dicono: «Gl’iracheni sono innocenti, perché subiscono il volere di Saddam e della sua cricca. Ma gl’israeliani sono molto più colpevoli, perché hanno scelto democraticamente di opprimere i palestinesi». Da una parte c’è la colpa di singoli individui, dall’altra la colpa d’un popolo intero, non più deicida ma comunque dedito al male). L’antisemitismo di sinistra consiste nella più completa e olimpica indifferenza per la sorte degli ebrei. Quando si ripete: «Perché Bush difende il Kuwait contro l’Iraq, e non i territori occupati da Israele contro lo Stato ebraico?», l’amalgama a malapena nasconde l’implicito antiebraico: si mette sullo stesso piano un Iraq che annette un vicino inerme con uno Stato di 4 milioni di ebrei circondato da 150 milioni di arabi, che ha occupato territori a seguito di un’aggressione contro di esso allo scopo di distruggerlo…
Certo agisce ancora il razzismo populista che fu comune al nazismo e a certa sinistra: indicare l’ebreo come lo sfruttatore del popolo, come il plutocrate, il commerciante subdolo. Ma anche là dove non rifiorisce questo pregiudizio, prevale nel terzomondismo un’irresponsabilità faziosa: la regola del tifo consiste nel parteggiare sempre per chi, in un conflitto, appare come il più debole. Israele, paese più efficiente (anche se non più ricco) dei paesi arabi e protetto dagli Usa, nella corrida della storia appare come il più forte: quindi è il nemico da abbattere. Certo, se Israele perdesse, se gli ebrei venissero un giorno massacrati da Arafat, Capanna e Ingrao9 si schiererebbero con i giudei: i veri signori si schierano sempre con i perdenti. Il guaio è che sarebbe troppo tardi, per i giudei. La sinistra «eterna» appoggia i più deboli, è vero, ma quando è ormai troppo tardi per loro. La sinistra oggi mi ricorda il protagonista del film di Truffaut La chambre verte: egli riusciva ad amare le persone in pratica solo quand’erano morte. Bisognava esser morti per meritare il suo amore, un po’ come la sinistra ama solo chi è moribondo.
Il fisico Bruno Pontecorvo ha ricordato questa frase di Pajetta10: «È più importante esser dalla parte di quelli che hanno sentimenti nobili che dalla parte di quelli che hanno ragione». Non c’è dubbio che alla base di tanti cuori di sinistra c’è un’etica medievale del nobile cavaliere, una sorta di donchisciottismo travestito da sancho-panzismo. Il guaio è che molto spesso la sinistra esercita la sua nobiltà di cuore sulla pelle degli altri. Da una parte «la nobiltà» della sinistra che tifa per i più deboli, dall’altra direi la responsabilità di chi vuol evitare all’umanità d’indebolirsi.
Max Weber aveva distinto la “politica dei principi” dalla “politica della responsabilità”. Nel duello tra il partito cavalleresco dei Principi e il partito malinconico della Responsabilità, ho voluto lanciare la mia piccola stoccata a favore del partito della Responsabilità.
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