Giole P. Cima: Oltre ad un confronto diretto con Jacques Lacan e Gilles Deleuze, Il pieno e il vuoto mette sul piatto un ampio numero di autori (da Chomsky a Marx, passando per Moravia e Spinoza) e questioni (il neo-spinozismo, il realismo, la topologia, l’ontologia eccetera). A riguardo, non posso non domandarti: in quale contesto/milieu è stato concepito questo libro?
Yuri Di Liberto: È vero, il libro tocca questioni o ambiti apparentemente eterogenei. A tal proposito, posso dire che tendo innatamente a non isolare mai una questione tralasciandone i contorni. Nella stesura del libro mi sono reso conto che molte delle domande implicite che pongo invitano ad esplorarne i margini o le sfumature. In questo senso, allora, ritengo che ciascuna di quelle domande suggerisca dei percorsi che spesso esulano dal “campo” che lo scrittore tende a circoscrivere. Sicuramente ha giocato un ruolo predominante il clima prolifico che ho respirato negli ultimi due anni all’Università della Calabria, specialmente durante gli incontri del Metaseminario lacaniano organizzato da Felice Cimatti e Fabrizio Palombi. Diciamo che molte delle questioni che affronto nel libro erano in uno stato di ibernazione, stato che il contesto accademico ha in qualche modo sciolto. È con il confronto e lo scambio di idee avvenuti durante il dottorato che improvvisamente mi sono ritrovato con gli attrezzi concettuali giusti per mettere nero su bianco tutte quelle questioni. Sono questi incontri felici che hanno reso la scrittura del libro – per me – necessaria.
GPC: Il sottotitolo del libro lascia pensare che tra Lacan e Deleuze vi sia da compiere, parafrasando il titolo di una recente raccolta, una “sintesi disgiuntiva.” Eppure, mi sembra non solo che il primo finisca per prevaricare sul secondo, e che alla fine tu utilizzi Deleuze in funzione di Lacan, ma anche che in alcuni punti la tua discussione tocchi un (non troppo latente) “Lacan contro Deleuze” (mi riferisco in particolare alle tue critiche riguardo l’adozione anglofona del filosofo francese e all’affermazionismo tout court). Nel complesso allora, mi sembra che Lacan sia il principale interlocutore, nonché il referente ultimo della tua scrittura. Che mi dici a riguardo?
YDL: È una questione complessa. Gli “avversari” che emergono dalla lettura del libro sono, in primis, i deleuzismi emersi negli ultimi tempi in ambito ontologico. Secondariamente, poi, si tratta effettivamente di vedere quanto e in qual misura queste derive interpretative non siano effettivamente la verità dello spinozismo. In questo senso allora sì, sottoscrivo pienamente l’idea di un’aderenza a Lacan più che a Deleuze. Ma questa aderenza dev’essere vista in una prospettiva più ampia. Ossia sul come posizionare il soggetto all’interno della congerie materiale delle cose di questo mondo. In questo senso (si veda l’esito del libro stesso), prendo e mantengo le ontologie materialiste (chiamiamole Object-oriented, New Materialism, Realismo speculativo, ecc.) come momenti di un’interrogazione più ampia, ma suggerisco che non bisogna fermarsi lì. In questo senso, la posizione che ho suggerito col concetto di ‘Tessuto’ (o ‘tissurologia’) si avvicina di più a posizioni come quella di Adrian Johnston (‘Materialismo trascendentale’). Il punto, in soldoni, è: che cosa ne rimane del soggetto se tutto è sostanza? O se, ancora, la sostanza è il Tutto? A mio avviso si ricade facilmente in una pletora di posizioni che dal punto di vista strettamente psicanalitico fanno acqua da tutte le parti. Ai neo-spinozismi non rimane altro che parlare di soggettività in termini di epifenomeno, illusione di superficie, ecc. Cosa che – si badi – Lacan sottoscriverebbe senz’altro, ma non senza riserve. È vero che siamo ancora nel bacino filosofico della morte del soggetto, ma molti tendono ad interpretare tale morte con un fiat di questo tipo: il soggetto non esiste. La psicanalisi ci insegna che i ‘sembianti’ (direbbe Lacan) hanno invece un ruolo non indifferente nello spingerci qua e là nelle vicende della nostra vita. Non solo, la posizione pone problemi pure sul mero versante filosofico. Quello che era il monismo della sostanza infinita di Spinoza si è ora ritradotto con un monismo materialista: tutto è materia. Mi sembra che si stia ripetendo l’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere. Allora, vien da chiedersi, da quale posizione un soggetto qualsiasi può ergersi a teorizzare la sua stessa non-esistenza? Chi è che parla quando dice: “io non esisto”? Ma la sfida per me è, appunto, non tanto quella di rinnegare questo momento filosofico, ma nell’utilizzarlo per costruire un impianto ontologico che ammetta la negatività e la mancanza del soggetto come suo momento costitutivo. Se questo significhi porre la questione in una mera opposizione tra Lacan e Deleuze è ancora da decidere, secondo me. Nonostante tutto l’anti-hegelismo apparente di Deleuze, molte pagine di Differenza e ripetizione, per esempio, stuzzicherebbero non pochi dialettici. In tutto ciò, tuttavia, c’è da dire che la lettura di Hegel fatta da Lacan risente pesantemente di una serie di fraintendimenti e fissazioni a riguardo della dinamica servo-padrone; fraintendimenti e fissazioni che però sono tipici delle letture del suo tempo. Rimane inoltre il problema dell’Edipo. Che farne dell’Edipo? Lacan converge verso posizioni più apparentemente deleuziane quando rielabora l’Edipo in termini di Nome-del-Padre, aprendo così una possibilità nuova per la psicanalisi. È esemplare, a questo proposito, notare come Lacan stesso abbia suggerito (Seminario XXIII) che esista un modo per poter fare a meno dell’Edipo, ma – aggiunge – a condizione di sapersene servire. In questo senso, l’Edipo non è eliminato sul piano della sua possibilità strutturale; piuttosto, viene suggerita l’idea che lo si possa superare attraverso il passaggio a quell’entità tutta particolare che è la sublimazione lacaniana.
GPC: La tua analisi si sorregge su di una lettura trasversale dell’opera di Lacan, rispettando quella che Lorenzo Chiesa ha definito la sua “paradossale sistematicità”. Volendo astrarre dalle questioni metodologiche però, mi chiedo se, da un punto di vista puramente soggettivo, vi sia per te un Seminario elettivo, più eloquente degli altri, o che semplicemente ti ha ispirato maggiormente.
YDL: Lacan lo leggi veramente quando sei pronto a leggerlo. Sembra un pleonasmo, ma non lo è. Ricordo che quando anni fa mi approcciai per la prima volta ad un seminario (era il ventesimo), ebbi una chiara reazione corporea di rifiuto. Poco tempo dopo tutto invece mi iniziò a sembrare estremamente vitale, come se avessi ripreso in mano un altro autore. Venendo alla tua domanda, direi che ogni seminario è un incontro unico e per certi versi ha una sua irripetibilità inevitabile. Tuttavia, tra tutti i seminari, per me rimangono elettivi il decimo (‘L’angoscia’), l’undicesimo (‘I quattro concetti…’), il diciassettesimo (‘Il rovescio della psicanalisi’) e il diciannovesimo (‘…ou pire’).
GPC: C’è qualcosa in Deleuze che ci permette di portare Lacan oltre Lacan? Ovvero, ritieni sia possibile integrare alcune sue tesi attraverso dei contributi deleuziani?
YDL: Mi verrebbe da rispondere scherzosamente: ‘No, ma in Guattari sì!’. Scherzi a parte, sì, in realtà c’è moltissimo. Una via che sto cercando di percorrere è quella di accostare l’automaton lacaniano (l’affastellamento circolare dei significanti) con un regime ontologico ispirato a ciò che Deleuze chiamava concatenamento: ma dobbiamo fermarci qui, perché il concatenamento di cui parlano Deleuze e Guattari è qualcosa che investe direttamente il socius (il campo sociale). Per me le due cose sono due modalità descrittive del funzionamento dell’inconscio, ma non concedo con facilità il livello di reificazione al quale l’Anti-Edipo (per esempio) spesso sembra ridursi. Qui credo risieda una confusione tra l’inconscio e l’Immaginario di Lacan. Diciamo però che è possibile trovare, nel modo in cui Lacan ha formulato l’inconscio attraverso l’uso del matema, una possibile convergenza; e che, quindi, sia una possibile lettura deleuziana del concatenamento in termini di funzionamento dell’inconscio. L’inconscio come nastro, potremmo dire; nastro che a differenza del soggetto razionale non conosce contraddizione e che quindi può affastellare e serializzare gli elementi più eterogenei. È una logica particolare, quella dell’inconscio; logica della quale però oggi abbiamo gli strumenti, per fortuna. Per dirla in altri termini, è una logica che sembra allontanarsi dall’idea di ragione che abbiamo nella nostra vita quotidiana. Questo per me non significa ricadere nell’irrazionale, tutt’altro! Ed è questa la lezione della psicanalisi già a partire da Freud: riconoscere l’intelligenza dell’inconscio, le sue formazioni, ecc.
GPC: Portando ad un’estrema sintesi la tesi principale del libro, quali sono gli assunti fondamentali della tua Tissurologia e, alla luce della sua opposizione rispetto alla de-politicizzazione rizomatica, quali credi possano essere le sue implicite conseguenze etico-politiche?
YDL: Quel terzo e ultimo capitolo del libro, sulla Tissurologia, è sicuramente il capitolo più speculativo e filosofico del testo. È un’immagine del pensiero, un modello concettuale (se vogliamo), per ripensare il rapporto tra linguaggio e Reale. Colgo quest’opportunità per sottolineare che si tratta, come alcuni si sono già accorti, di un capitolo programmatico. Si tratta di un invito teorico le cui implicazioni devono ancora essere dispiegate nella loro interezza. Ad ogni modo sì, è un tentativo che sorge in opposizione alla de-politicizzazione del modello rizomatico. Non si tratta di una diretta de-politicizzazione da parte di Deleuze e Guattari, si badi; anzi, direi che per loro il rizoma è direttamente una presa sul politico. Tuttavia, e per una sorta di smorfia della storia rispetto alla storia delle idee, tale modello ha avuto epigoni filosofici-politici-economici che spesso assomigliano alla semplice legittimazione/descrizione dello status quo. Basti vedere ciò che ne fa Latour: i soggetti sembrano diventati dei relè. Flussi passano, scorrono e ci attraversano, e ad ogni nodo una trasformazione, una qualche forma di incommensurabilità agisce modificandoli. Ma anche in questo caso, non nego la verità intrinseca di questo ‘momento’ ontologico: mi premuro però affinché si ponga l’attenzione sul fatto che esiste una dimensione ideologico/fantasmatica del modo in cui i soggetti godono in un dato milieu. Tali modalità libidiche investono per me finanche il modo stesso in cui i soggetti rappresentano/teorizzano il mondo in cui sono immersi. Se teniamo fermo questo punto, allora, è necessaria un’ulteriore torsione, qualcosa che mi permetta di chiedere quale tipo di soddisfazione traggo dal descrivere il mio mondo, ciò che mi circonda, in questo modo. Ma tutto ciò è lavoro del discorso (direbbe Lacan). Uno dei miei sforzi, per adesso, è cercare di giocare in questo limbo tra ontologia e godimento. In questo, in quanto filosofo ritengo di essere ‘chiamato’ ad analizzare il piacere filosofico stesso, il godimento del momento speculativo e le sue impasses. La filosofia può andare avanti così, riconoscendo le sue impasses senza voltarsi altrove.
GPC: Eccetto un riferimento isolato, si potrebbe dire che il grande assente di questa tua rassegna sia Freud. Un lettore disattento (o semplicemente malfidente), potrebbe di conseguenza credere che tu adotti completamente il Freud di Lacan. Quel che mi interessa, a riguardo, è rendere quanto più esplicito possibile questo punto: qual è il tuo rapporto con Freud? Da un punto di vista filosofico, credi che sia possibile sussumere completamente l’opera di Freud nella sua rilettura lacaniana?
YDL: Rispondo subito alla tua seconda domanda con ‘No’. Quello di Lacan è stato un ritorno a Freud, ma come filosofi sappiamo bene che ogni ‘ritorno’ (sia anche esso all’origine) è foriero di novità. E questo avviene non per esplicita volontà dell’autore, ma per una logica interna alla psicanalisi stessa (o in generale in qualsiasi operazione di lettura). Ho voluto focalizzarmi più su Lacan che su Freud perché la psicanalisi lacaniana sembra suggerire quasi spontaneamente – per me – la possibilità di intersezioni inusitate con problemi di natura filosofica. Non che non sia possibile con Freud, ovviamente! Ma Lacan, rielaborando il materiale freudiano, ha fatto sì che ‘rivivessi’ il mio momento con Freud come una ventata di aria fresca. Freud rimane Freud, là dove tutto è cominciato. Ritengo però che alcune rivisitazioni di Freud da parte di Lacan suggeriscano modelli del sintomo che descrivono molto bene le vicissitudini del godimento nel secolo che stiamo vivendo.
GPC: Quale credi sia la principale lezione lacaniana per un filosofo? Inoltre, credo si possa dire che negli ultimi anni la filosofia abbia avuto molto da imparare dalla psicoanalisi (pensiamo, solo di passaggio, all’importanza cruciale di termini e concetti come il soggetto, la pulsione, il desiderio), rovesciando la prospettiva, cosa credi che possa imparare la psicoanalisi dalla filosofia?
YDL: In parte, in realtà, ti ho già parzialmente risposto quando ho parlato, prima, del ‘godimento speculativo’ del filosofo; personalmente, credo che nessuna filosofia presente o futura possa permettersi di bypassare il momento psicanalitico, se essa vuole parlare dell’essere umano. Rovesciando la prospettiva, invece, credo che la questione sia ben più aperta. Mi riferisco a ciò che la psicanalisi può imparare dalla filosofia. In realtà, la psicanalisi ha sempre avuto, sin da Freud, un dialogo con la filosofia; direi anzi che è nata come sua costola, come sua deviazione paradigmatica. Si tratta di una deviazione che ha rivitalizzato cose alle quali la filosofia ha in realtà sempre pensato: la ripetizione, il piacere, il soggetto, la Legge, il giusto, la sessualità, ecc. Pertanto, ritengo che la psicanalisi troverà sempre nella filosofia del materiale prezioso. Mi permetto però di sottolineare la questione della trasmissione del sapere: questo è il punto in cui la psicanalisi può ancora imparare dalla filosofia. Basti pensare al modo in cui Platone, nel Menone, articola la questione della conoscenza e della sua trasmissibilità: due elementi che secondo me non dovrebbero essere disgiunti. Ma di quale sapere parla la psicanalisi? Cosa si trasmette? E in che modo? Questo secondo me è un punto sul quale c’è ancora da lavorare. Ma è una questione che tocca aspetti politico-istituzionali non indifferenti.
GPC: Volendo muovere un appunto al libro, direi che esso non affronta criticamente i limiti di Lacan. Cosa che invece, con Deleuze, avviene in modo molto obiettivo. Cosa mi dici a riguardo? Quali ritieni possano essere le “colonne d’Ercole” del pensiero di Lacan?
YDL: Probabilmente due: (1) aver (in parte) frainteso Hegel e (2) a partire da questo fraintendimento, non aver elaborato molto la questione della vocazione ‘politica’ della psicanalisi. Non che manchino suggerimenti in quella direzione già nel corpus lacaniano, ovviamente. Ma direi che forse è un bene che Lacan – in quanto psicanalista – abbia lasciato diversi vuoti. Direi che sia un bene che laddove poteva tacere l’abbia fatto. Resta a noi, forse, il compito di percorrere quei tracciati che in Lacan sono suggeriti spesso implicitamente (se lo si legge bene).
GPC: È interessante come il tuo confronto con la filosofia contemporanea si concentri spesso su autori profondamente influenzati dai contributi di Slavoj Žižek. Penso ad esempio, oltre a Schuster e Tomšič, ad Adrian Johnston, forse il primo a sistematizzare l’opera del filosofo sloveno. D’altro canto, i tuoi riferimenti a Žižek sono marginali, ed avvengono in circostanze dopo tutto non decisive del libro. Pertanto ti chiedo: cosa ne pensi, nel complesso, del contributo di Žižek e quanto ritieni le sue principali tesi compatibili con i tuoi orizzonti?
YDL: Sto lavorando proprio con Adrian Johnston, in questo momento, per reimmettere Lacan sui binari di una sintesi con la filosofia. La questione di Žižek (e della scuola di Lubiana) è quella del Reale, e questo è un bivio interessantissimo. In soldoni, si tratta di un’alternativa (anche se a mio avviso soltanto apparente) tra etica del desiderio ed etica del reale. Alcuni autori (De Kesel, per esempio) hanno definito la seconda etica come un mero elogio masochistico del Reale inteso come morte totale del soggetto. Io credo che la lettura “eroica” che ne danno Žižek e altri sia, invece, in linea con Lacan stesso. Credo che però, per quanto riguarda la soggettività, il momento del ‘desiderio’ e quello del ‘reale’ siano in un certo senso consequenziali l’uno all’altro. Anche nel desiderio (e nell’elevazione dell’oggetto alla dignità della Cosa con la ‘C’ maiuscola) si tocca una piccola tara di Reale. Antigone, in questo senso, non è solo la figura che ripristina la dignità del Simbolico (a scapito dell’oblio), ma è anche una figura che persegue il suo desiderio a discapito di quello di un altro. Ricordo che Lacan, nel descrivere il gesto di Antigone, dica qualcosa come: “Perché dev’essere così!”. Per il soggetto che resta fedele al suo Reale non è vero che ogni oggetto vale l’altro, deve compiere un sacrificio di molti oggetti per elevarne uno soltanto. In questo, allora, direi che Žižek ci permetta di cogliere la portata di questo secondo passaggio nelle vicissitudini della soggettività. Nel far ciò, sì, credo che ci sia un’inevitabile quota di “tragica eroicità” che coinvolge la stessa nozione di pulsione di morte: “Per che cosa vale la pena vivere?” è l’altra faccia della medaglia di “Per che cosa vale la pena morire?”. Clinicamente, ritengo che questo momento sia possibile soltanto dopo essere passati dal tritacarne del proprio fantasma, altrimenti rimane un vano “desiderio del nulla” che non ha niente di ciò che riguarda un evento, un autentico evento.
GPC: Recentemente, ti stai occupando del rapporto tra Lacan e i Neo-realismi. Potresti spiegare brevemente su cosa verte questo dibattito e fornire, a riguardo, il tuo personale punto di vista?
YDL: È un dibattito che riguarda il rapporto tra il linguaggio e le cose, molto semplicemente. Ma è interessante notare come il gesto inaugurale dello Speculative turn (i neo-realismi) sia stato quello di farla finita con il suo vecchio fratellastro: il Linguistic turn. Nel far ciò, nel volersi affrancare da un’idea di filosofia come mero esercizio di analisi del linguaggio e delle sue pratiche, tale movimento ha incluso anche Lacan tra i principali “linguaggio-centrici” da dimenticare. Trovo che abbiano sbagliato, che quello di Lacan sia un raffinatissimo realismo di tipo materialista. Inoltre, noto sempre di più come molti autori tendano a sottolineare che, apparentemente, in Lacan non ci sia pensiero del corpo e della corporeità. Al contrario, invece, ritengo che tutta la psicanalisi sia un sapere del corpo. Non è che siccome usiamo il linguaggio come via d’accesso all’inconscio allora neghiamo qualsiasi ontologia corporea! Ci sono molti fraintendimenti in questo senso. E la questione del corpo qui non è casuale, perché è proprio il corpo ad essere un ibrido di carne e linguaggio (Leib, corpo vivente, direbbe Husserl). Per me il corpo è la migliore entità papabile per ribattere alle posizioni ultra-realiste: il corpo è una superficie d’iscrizione per i significanti (assieme ai processi di mentalizzazione che inevitabilmente seguono). E anche il linguaggio stesso viene spesso visto dai realisti come una specie di entità eterica: la psicanalisi ci ha insegnato invece che parlare è un’attività motoria a tutti gli effetti, che coinvolge livelli descrittivi dei più disparati (gestualità mentale e corporea, per esempio). Anche in questo caso, la direzione alla quale sto lavorando è quella di un dialogo: cogliere il momento realista e quello lacaniano e far scontrare le loro categorie. Inoltre, il Reale di Lacan non è semplicemente traducibile con l’oggetto del filosofo; e quest’ultimo rischia spesso di non saper riconoscere la dimensione fantasmatica dell’oggetto pur di voler descrivere a tutti i costi un Reale ontologicamente autonomo. Penso che entrambe le direzioni vadano messe in un movimento dialettico (cosa dicono l’una dell’altra o, piuttosto, quale parte di verità può cogliere l’una che l’altra non può).
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