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il condominio della mente, “Tre piani” di Nanni Moretti

13 Giu 22

Di Redazione Psychiatry On Line Italia

Benchè le osservazioni che seguono si riferiranno principalmente al film, non si può fare a meno di proporre qualche riferimento e confronto con il libro da cui è tratto, il celebre romanzo di Eshkol Nevo (2017). Lo scrittore israeliano ha dichiarato in un’intervista di aver apprezzato il film, di averlo sentito “complementare” al romanzo, e più capace di “perdono”. Vedremo nel corso della discussione cosa questo possa significare.

Il regista, Nanni Moretti, per la prima volta alle prese con un soggetto non originale, ha dunque apportato delle modifiche. Quali e perché? Sul secondo quesito possiamo solo fare delle congetture. Rispetto ai tre piani separati nel libro in tre capitoli distinti, nel film la narrazione è unica, conferendo una maggiore verosomiglianza ai tre piani (Io, Es e Super-Io) a cui l’autore fa esplicito riferimento nel romanzo: nella mente non vi è divisione, le tre istanze dell’apparato psichico postulate da Freud a partire dalla seconda topica (Freud, 1922), sono fuse l’una con l’altra, essendo l’Es totalmente inconscio, L’io parzialmente conscio e in parte inconscio, e così anche il Super Io. Oltre a rispondere ad un’idea narrativa cinematografica più moderna, quella di non dividere in capitoli, la scelta registica dell’unica narrazione si rivela quindi sul piano psicoanalitico molto efficace. Meno efficace risulta invece il prolungamento temporale di dieci anni del film rispetto al romanzo, come se il regista avesse voluto saturare, concludere a tutti i costi, una serie di vicende che invece il narratore aveva lasciato relativamente insature ed ambigue, sospese, come avviene per molteplici cose umane.

 



 

 

E’ d’altronde noto che nel passaggio dalla letteratura al cinema si perde e si acquista sempre qualcosa; un esempio su tutti è la scena d’apertura in cui vengono condensati tutti i personaggi e le relazioni tra loro, cosa impossibile nella scrittura. Il cinema utilizza, infatti, tra i suoi meccanismi la condensazione, come il sogno, che permette di collocare più personaggi nella stessa scena anche temporalmente distanti, provocando quel potente effetto magico e onirico tipico della forza del cinema.

Il regista sposta l’ambientazione da Tel Aviv a Roma, senza che questo sacrifichi nulla della storia, a testimonianza dell’universalità delle vicende e dell’inconscio umano. Nel libro, l’espediente narrativo, squisitamente psicoanalitico, è l’autoconfessione: in ciascun piano il personaggio principale si racconta, si confessa, narra la sua vicenda ad un interlocutore, non importa se immaginario o reale, come in una seduta d’analisi. Nel film, il personaggio è fatto ‘parlare’ attraverso i suoi atti, gesti, sentimenti, rinunciando ad una didascalica voce fuori campo. In ciascun piano della palazzina abita una coppia, che solo fuggevolmente incontra e incrocia le altre due. Nella versione italiana del film, Lucio, Monica e Dora sono i personaggi principali, accompagnati dai rispettitvi coniugi e dai figli. Se l’autore ha voluto specificare il dettaglio psicoanalitico così preciso dei tre piani con le tre istanze dell’apparato psichico, dobbiamo supporre che questo abbia per lui un significato

 

Il piano dell’Es

 

Questo piano è abitato da una giovane coppia, il cui personaggio principale è Lucio, padre di Francesca. Dopo la violenta scena iniziale in cui l’adolescente ubriaco, figlio della coppia di giudici, investe ed uccide una donna e Monica, l’altra inquilina incinta, va a partorire, la scena si dirige prevalentemente su Lucio. E’ un padre attento, amorevole, estremamente coinvolto con la sua bambina; è lui il personaggio della sua vicenda, la madre è sullo sfondo. Una frase della bambina lo mette in guardia, “Renato è guasto”; in contemporanea vedere l’insistenza con cui il vecchio chiede i bacini della bambina, e il gioco del cavalluccio, aumentano il disagio del padre. Tale disagio diventa conferma che sia avvenuto un abuso quando li trova nel bosco. A niente vale la prova della Polizia che nega ogni colpevolezza dell’anziano, la stessa tranquillità della bambina che è anzi e resterà sempre assai affezionata a Renato; a nulla vale il principio di realtà. E’ un chiaro merito del romanzo, e del film, essere riuscito a navigare con ambiguità e delicatezza il confine realtà/fantasia, sapendo che la realtà psichica è di lunga più importante di quella ‘reale’ al fine di creare le nostre convinzioni, sempre cariche di proiezioni inconsce e fantasmi. Il vecchio viene discolpato, ma il padre non si dà pace. Perché? Lo ritroviamo lui stesso essere oggetto di seduzione da parte di Charlotte, la provocante nipote di Renato, adolescente inquieta, da sempre invaghita di lui e ansiosa di perdere la verginità con un uomo adulto; nonostante cerchi di opporsi, Lucio finisce per soccombere, e da lì nasceranno tutti i suoi guai.

La collocazione nel piano dell’Es si giustifica quindi con un personaggio vittima delle sue pulsioni, in lotta con un desiderio (incestuale?) inconsciamente spostato sul vecchio, e che poi si ripropone coattivamente con Charlotte, che lo mette alle strette con la sua insistenza.

Sono casi molti frequenti, dove è spesso difficile venire a capo di ‘chi ha sedotto chi’, e sul piano psicoanalitico (salvo, ovviamente, casi gravi e stupri), nemmeno necessario. La stessa psicoanalisi nasce, con le prime isterie, dall’ipotesi, che in seguito Freud smentisce, della seduzione sessuale traumatica, per accorgersi in seguito che si trattava di fantasie. Scrive Anzieu che “…nella seduzione sessuale precoce dipende dall’azione dei fantasmi sia del seduttore che del bambino (….) un processo che noi chiamiamo oggi ‘interfantasmizzazione’ tra i due partner di un’azione” (2000, p.153). Lo stesso autore fa notare come rimanga irrisolvibile la questione dei rispettivi ruoli della realtà materiale e del fantasma individuale, ma ciò che è importante, è che “ciò che è traumatizzante non è l’evento in quanto tale, ma il ricordo degli affetti e delle idee” (ib.). Aggiunge anche altri due fattori che renderebbero quel trauma indelebile per il soggetto: che l’adulto traumatizzante sia stato vissuto con modalità persecutorie (diversamente avrebbe potuto essere solo seduttivo) e il fallimento della libido narcisistica della vittima nell’opporsi, come se questa avesse un rivestimento narcisistico troppo fragile, troppo immaturo.

Il clima respirato nelle prime immagini in quella casa, potrebbe far riferimento a quella vaga perversità così ben studiata da Racamier a cui diede il nome di incestuale, “ciò che nella vita psichica familiare e istituzionale porta l’impronta dell’incesto non fantasmato, anche se non è fisicamente compiuto” (1995, p.11). Molto più diffuso dell’incesto vero e proprio, l’incestuale è sottile, pervasivo, si diffonde nelle famiglie, nei gruppi anche apparentemente più sani, si diffonde subdolamente nelle generazioni attraverso ad esempio, dice Racamier, il vincolo del denaro (eredità, professioni, ecc..).

Il tema deve stare a cuore allo scrittore Nevo, tanto che lo riporta anche nel romanzo successivo, Le vie dell’Eden (2022). Nell’episodio La vita familiare, un anziano medico da poco rimasto vedovo, comincia a provare dei sentimenti per una giovane specializzanda, che sente essere ‘speciale’: la spia sui social, la favorisce, sente di avere delle cose in comune con lei, si sente ricambiato, in un clima di crescente intimità. Non sente desiderio; è un’altra cosa….Apprendiamo intanto che il medico, che ha due figli adulti all’estero, credendo in passato che la moglie non potesse restare incinta, aveva fatto una donazione di sperma che andò poi ad una sconosciuta. Non è difficile immaginare che i due, il medico e la ragazza, si troveranno una sera a casa di lui, in una situazione ambigua, ma non esplicitamente sessuale (come quella di Lucio con Charlotte) e ad una carezza tenera di lui la ragazza andrà su tutte le furie sentendosi tradita da quello che riteneva un mentore e quasi un padre, essendo senza padre. Sarà lui, infatti, il vero padre, come riveleranno le analisi.

Di nuovo, quale il confine tra la normale tenerezza tra un padre e la figlia, e la seduzione?

 

Il piano dell’Io

 

Protagonista assoluta Monica, nella sua totale solitudine. Forse il personaggio più poetico, narrativamente più riuscito del film. Monica è turbata dalla minaccia di diventare folle, come la propria madre ricoverata in reparto psichiatrico per schizofrenia, dopo una depressione post-partum. La follia si lega quindi alla maternità, il fare bambini può rendere depressi e malati: questo minaccia Monica. Perché collocarla nel piano dell’Io? L’Io è sede di distinzione tra interno ed esterno, tra Io e realtà, sono attribuite all’Io funzioni di sintesi e rapporti di dipendenza con le altre istanze dell’apparato psichico (Es e Super-Io) che ne fanno una sorta di importantissima agenzia, contro l’assalto pulsionale da un lato e le eccessive pretese superegoiche dall’altro (Freud, 1922; 1938). Nella psicosi, l’Io perde la sua capacità di discernimento e, a differenza della nevrosi dove realtà e fantasia restano distinte, nella psicosi vengono invece sostituite e confuse.

La solitudine e, soprattutto, la solitudine che la espone a restare tante ore con un bambino, privata del supporto del mondo adulto, fanno progressivamente indebolire il fragile Io di Monica. Quando Dora sale da lei e la aiuta a fare il bagnetto, Monica dice “con lei qui è tutto più reale”, come se a rendere la realtà reale occorresse la presenza tangibile dell’altro. In un passo, Nevo scrive “nessuno lo ammette, ma passare tante ore con i bambini inaridisce” (p. 122). Occorre una madre dotata di un buon narcisimo, per resistere all’immenso narcisismo del bambino, per non essere prosciugata, o una madre che non sia sola o che non sia solo madre. Monica appare totalmente assorbita in una maternità impossibile, idealizzata, che dovrà vedersi riuscita laddove la madre ha fallito.

Il cinema qui offre una splendida metafora: il corvo nero1. Alla finestra della madre in ospedale, quando nascerà il secondo figlio, e nell’immagine finale della sua sparizione, appare il corvo nero, metafora incarnata della follia che incombe dall’avere figli. Dalla propria madre, a lei, forse alla propria figlia: si prospetta una possibile trasmissione transgenerazionale.

Senza riprendere tutta la molta letteratura ben nota su questo tema, basti qui ricordare la possibile sia di un segreto, sia un di un lutto non elaborato che grava su queste donne. Diversi autori hanno usato termini diversi per designare questi oggetti-corvo che si depositano come estranei nell’Io, provenendo da un altro: oggetti che fanno impazzire (Garcia Badaracco, 1986), visitatori dell’Io (de Mijolla, 1986), identificazione estrattive (Bollas, 1989) quando è l’altro che, con le sue irruzioni, deruba, sequestra, territori psichici da un soggetto, deprivandolo.

Se il corvo rappresenta il versante psicotico della fantasia, Monica è però capace anche di una fantasia benefica e consolatoria, di un’allucinazione di desiderio quando richiama a sé l’immagine del cognato, personaggio scartato come lei stessa si sente, e lo fa ‘agire’ quale oggetto di fantasie sia maschili erotiche, sia di figura paterna assente.

 

Il piano del Super Io

 

 

Dora e il marito sono una coppia unita, nel lavoro e negli affetti, persone perbene. Una tipica famiglia borghese contemporanea. Il figlio adolescente ubriaco, come accade a tanti, torna a casa una sera, ma il caso vuole che uccida una persona, una donna incinta. La coppia dei genitori, unita su tutto, qui è spaccata: la madre sarebbe indulgente, lo agerevolebbe al processo tramite le loro conoscenze come il ragazzo (impudicamente) chiede, il padre no, desidera che la giustizia faccia il suo corso, che educhi laddove loro non sono riusciti. E’ facile qui rintracciare il Super Io sia nella professione del giudice, colui che impartisce le colpe e le punizioni, sia nell’intera vicenda dove si tratta di aver a che fare sia con la propria colpa di genitori, sia con un giovane che dovrà, come gli rimprovera il padre, riuscire a provare ‘del rimorso’, poiché solo il rimorso, infatti, può curare da un crimine. Sulla spaccatura della coppia riguardo alla punizione del figlio, oltre che rilievo contemporaneo, abbiamo un raffinato riscontro psicoanalitico; nella formazione del Super Io, che come è noto si forma con la caduta del complesso edipico, Freud nota che, poiché appunto il complesso edipico non procede esattamente alla stessa maniera nei maschietti e nelle bambine, essendo spesso nelle bambine più lungo e difficoltoso per il lento distacco dalla madre, anche la formazione del Super Io ne risulterebbe più fragile e indebolita, con il risultato, come osserviamo nel film, che spesso il Super Io nella donna, e di conseguenza il suo senso di giustizia e rettitudine, non tanto sia meno severo (anzi il masochismo e l’evidenza clinica dimostrano il contrario), ma meno imparziale, più disposto a farsi influenzare da fattori affettivi. Come accade, appunto, qui: di fronte al crimine di un figlio, al bando la giustizia per la madre!

Altro elemento contemporaneo, lamentato dal figlio e da lui percepito come tale, è l’alta pressione di aspettative genitoriali sulla sua riuscita, quel non andavo mai bene che tanti ragazzi lamentano, in seguito ad una pressione vera o fantasticata che sia (intendo con ciò dire che non è detto si tratti sempre di genitori realmente esigenti, il Super Io degli adolescenti è di per sé a volte altrettanto se non più esigente e tiranno, e viene proiettato all’esterno sui genitori). Più che di Super Io è più corretto qui, sul piano psicoanalitico, parlare di Ideale dell’Io, formazione psichica che peraltro Freud non distingueva dal Super Io ed è dunque altamente pulsionale, severa e sadica allo stesso modo, e fatta della stessa materia psichica. Si configura, forse oggi con particolare incisività vista l’importanza attribuita dall’intero contesto sociale al successo e alla riuscita indipendentemente dai meriti, quella che Jasseguet-Smirgel chiamava “malattia d’idealità” (1996): l’asse del soffrire si colloca non solo o non tanto sul versante della colpa, ma su quello più narcisistico della vergogna, o su entrambe. Non riuscire provoca vergogna, oltre che colpa, magari verso le aspettative dei genitori, o dei genitori interni.

Nel giovane, tuttavia, laddove non sembra essersi interiorizzata la Legge del padre reale, forse sentito come poco raggiungibile in un edipo difficoltoso, funziona invece, come spesso si osserva nell’esperienza clinica, la Legge dello Stato, il Super Io esterno (al pari del ritiro patente per ubriachezza). Il ragazzo che ritroviamo cinque anni dopo ha operato una sua maturazione, un senso almeno parziale di rimorso per l’atto commesso, che non sarebbe stato possibile senza la carcerazione.

Subisce un’evoluzione anche il personaggio di Dora, che pur legata al marito e, in seguito, al marito morto, non svilupperà una malinconia, il che avrebbe comportato un ripiegamento masochistico dell’Io al Super Io sadico (Freud, 1917); cambiando casa, comprando abiti nuovi, Dora mantiene il ricordo, ma non si piega.

Il piano del Super Io è quello in cui Dora, giudice in pensione, sembra essere l’unico personaggio della palazzina che “guarda” tutti gli altri; ultimo per formazione nello psichismo, il Super Io “osserva” l’Io e i suoi atti, con severità o protezione, odio o indulgenza.

 

 

 

In ciascun piano o episodio, lo spettatore è portato a identificarsi con un personaggio, di cui inconsciamente ‘prende le parti’. Ci si identifica controtransferalmente con Lucio e il suo dramma interno, il suo oscillare tra l’essere vittima e carnefice, la sua solitudine rispetto ad una certa freddezza della moglie, la sua confusione di soggetto del dubbio, che non sa, che non capisce. Mentre la moglie sembra ancorata a delle certezze, il suo dubitare lo rende più incline all’empatia dello spettatore. Nel libro, è lui che si racconta.

Lo stesso avviene con Monica, ci si identifica con il suo esclusivo punto di vista, con la sua visione del mondo, tanto da non sapere se ha davvero incontrato il cognato o meno, fino a che non arriva anche il marito come ‘test di realtà’.

Più ambigua la situazione di Dora, benchè sia lei il personaggio narrante nel romanzo, il padre-Moretti (forse per la forza scenica proprio di Moretti) non è personaggio sullo sfondo, e la presenza della segreteria telefonica, un oggetto volutamente tecnologicamente superato, dove raccontarsi parlando a lui, rende conto sia della sua importanza, sia del lavoro del lutto.

 

Il tempo, il lutto

 

Scrive Racamier (1995) che il processo di lutto non si può evitare, se non è un soggetto dentro di sé a riuscire ad elaborare un lutto, pur con il tempo e le difficoltà personali che ognuno impegna in questa difficile impresa, inevitabilmente il lutto dovrà farlo qualcun altro per lui. Non si sfugge. Non verrà evitato, saltato, magicamente by-passato. Di solito, saranno i figli i più diretti destinatari del processo che un genitore ha inconsciamente evitato, processo che Freud ha accuratamente descritto in Lutto e malinconia (1917), ma i modi, le forme sintomatiche in cui si presenterà in questi nuovi soggetti potranno essere le più varie. Spesso, la malattia somatica; lutti non elaborati in un genitore, in un nonno, possono per via transgenerazionale inconscia riprodursi silenti, muti come gravi malattie somatiche in pazienti designati di generazioni successive; o come vari turbamenti psichici o, come ha osservato la Faimberg (1993), se il soggetto è in terapia, con non poche difficoltà si può avere l’opportunità di osservare questa sorta di riproduzione nelle pieghe del transfert.

Eshkol Nevo è un raffinato narratore riguardo ai lutti; il lutto, la perdita è al centro di molti suoi romanzi, compreso questo. Possiamo ipotizzare che il regista abbia aggiunto un prologo di 10 anni (come detto, artisticamente non necessaria ma psicologicamente interessante al nostro scopo) per rappresentare le possibilità dei percorsi di lutto nel tempo, quello che lo scrittore ha chiamato ‘perdono’.

L’episodio più misterioso e potenzialmente patologico, si è detto, è quello di Monica, il piano dell’Io.

Ripercorriamo brevemente. Nella prima parte del film, Monica è una giovane madre che partorisce il primo figlio, quasi sempre sola, il marito fuori per lavoro. Monica è completamente isolata, nessuna amicizia, rete sociale, professione; vive per il suo bambino e nell’attesa che il marito torni, in una situazione sempre più claustrofobica che le fa dubitare di essere sana di mente o no, di ragionare o no. Di saper distinguere realtà e fantasia: il suo fragile Io si incrina sempre di più. Quando la vicina del piano di sopra Dora, in uno dei rari momenti in cui i condomini si incontrano, era in casa mentre da giovane neomamma fa il bagnetto al figlio, Monica è sollevata e si sente “più reale”. Apprendiamo che la madre di Monica è malata di schizofrenia e ricoverata in psichiatria, reparto dal quale non uscirà; sembra essersi ammalata dopo il parto. Gravidanza, maternità e follia sono dunque preconsciamente inevitabilmente collegate nella mente di Monica che, tuttavia, se ha scelto di avere bambini pur in situazione che sfida la sua forza in tanta solitudine, deve averci tenuto molto alla maternità. Lo spettatore non può non chiedersi: sarà così? Avrà voluto sfidare il destino, la madre interna e dimostrare a se stessa che lei non si sarebbe ammalata, non sarebbe precipitata nel tunnel, lei ce l’avrebbe fatta? Nel libro Monica era andata precedentemente in terapia, ma il regista elimina questo elemento, e il personaggio che ci restituisce (amplificato dalla fisicità diafana dell’attrice) non sembra avere alcuna consapevolezza di sé, un soggetto smarrito, bambina con i suoi bambini, gettata nella maternità prematuramente e depositaria di ciò che della madre le arriva, non elaborato. La mancanza di una biografia pregressa e il totale isolamento, bene rendono l’idea della solitudine della relazione madre-bambino, quando non supportata dall’ambiente e dal mondo interno della donna, e del progressivo arbitrio della fantasia sulla realtà (nel libro l’analista da cui Monica vorrebbe tornare dopo tanti anni è morta, dunque l’intero episodio si apre con un oggetto che manca, un aiuto che non c’è). L’oggetto simbolico del corvo nero, come detto, diventa metafora di quel non pensato, non elaborato che può esplodere quando la paura di impazzire prende il sopravvento. Forse con la fuga finale, Monica ha salvato se stessa e anche i figli; ma la comparsa del corvo agli occhi della bambina, fa pensare che, per la forza della trasmissione transgenerazionale, la depressione-corvo si ripresenterà (nel libro, Monica nota che la figlia somiglia alla madre, non al marito).

Anche al di là del ripresentarsi nelle generazioni all’interno di una famiglia, i fatti psichici inelaborati tendono a ripresentarsi per coazione a ripetere (oggetti che fanno impazzire di Garcia Badarracco, ad esempio, o visitatori dell’Io di de Mijolla, il concetto non cambia); è come se ciascun personaggio, in questo caso Monica, vivesse un destino simile alla madre cattiva a cui aveva voluto tanto sfuggire.

Diversamente, almeno nel film, la vicenda di Lucio. Lucio paga il prezzo delle sue colpevoli fantasie e della goffa messa in atto con Charlotte. Ci sarà un processo cinque anni dopo, lo vince, ma il matrimonio si sfalda, la sua serenità sembra compromessa. Il rapporto parentale con la figlia appare però protetto, la ragazzina non sa nulla del tormento del padre e cresce serena, fino alla scena finale che ne sancisce l’emancipazione e il prendere il volo.

 

Femminile e maschile

 

Sebbene si osservi che la figura del padre vada evaporando nei nostri tempi, quella di Lucio con la figlia è una relazione prioritaria padre-bambina, dove la madre sembra restare nell’ombra, poco coinvolta e poco empatica. Dal romanzo apprendiamo esserci stata una relazione precoce difficoltosa, una madre esigente e ipercritica rispetto a una bambina pensosa e intelligente che richiede i suoi tempi: è mancato l’incontro, “non c’è gioco”. Per Francesca, il padre resta il compagno privilegiato, più tenero, più comprensivo, spostato poi sul vecchio ‘nonno’ surrogato vicino di casa con il quale avverrà la vicenda, e a cui la bimba era infatti molto affezionata. Non tanto per il vecchio la bambina costituisca un oggetto erotico come teme il padre, ma un sostituto dei nipoti lontani; egli si sente solo, cade in depressione ogni volta che i nipoti partono, e la piccola vicina di casa viene a ricoprire questo ruolo di oggetto mancante. Sono oggetti narcisistici. Molto spesso i bambini sono al servizio delle mancanze degli adulti, sessuali o oggettuali. Lucio, quindi, confonde una mancanza che in effetti in vecchio sente acutamente, quella dei suoi nipotini, con una mancanza erotica, perché lì siamo in un territorio dove è facile che affetto e pulsione si confondano; forse anche dentro di lui.

Come nelle altre due coppie della palazzina, uomini e donne sono distanti: sia progressivamente tra loro, sia sul come educare e crescere i figli. Più che di uomini e donne, potremmo parlare di maschile e femminile (Valdrè, 2013), ossia funzioni piuttosto che generi, e fantasmi piuttosto che ruoli e precise identità. Per via della bisessualità psichica inconscia, presente in tutti gli individui, queste funzioni possono oscillare in parti diverse in ciascuno e modificarsi nel corso della vita. Una fluidità degli assetti identitari caratterizza il mondo contemporaneo; un personaggio maschile come Lucio, infatti, incarna un ruolo prevalentemente ‘materno’, facendosi carico delle preoccupazioni anche eccessive, dei turbamenti, delle ansie, tradizionalmente ascritte alla madre. E’lui a notare per primo che qualcosa non va, è lui a osservare la figlia in dettaglio, è lui a identificarsi con la bambina e temere di essere stata violentata.

Le altre due coppie sembrano rivestire un assetto più tradizionale. Monica è così (patologicamente) identificata con la funzione materna, da aver lasciato il lavoro (dettaglio che il film non sottolinea, ma importante nel libro). Nel tentativo ideale di essere una buona madre, anzi una madre perfetta, cancella il suo essere anche persona, cancella tutto quello che non è madre, fino a rischiare di impazzire. I due finali divergono: nel film, come visto, la sparizione fa pensare un timore della follia e una fuga per proteggersi o comunque una fuga nel nulla della fantasia, nel libro, più realisticamente, decide di riprendere il lavoro. Se Lucio è un padre fin troppo presente, ingombrante con l’ingombro delle sue fantasie, il marito di Monica è un marito/padre assente (così nel film), mentre il libro instilla il dubbio che sia lei ad averlo reso assente dai bambini con le sue pretese di perfezione, che sia lei ad averlo in qualche modo averlo fatto sentire inadeguato e indotto ad andarsene. Talvolta, per sentirsi l’unico capace, un genitore, o un membro della coppia può, attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva, far sentire l’altro inetto, inutile, incapace, inadatto. Spingere sottilmente ad andarsene, o spingere ad agire, ad esempio atti violenti o sconsiderati. Quando un genitore resta solo, o un partner resta solo, dobbiamo sempre anche chiederci quale possa essere stato il suo contributo inconscio per mandare via l’altro.

Un’altra differenza tra maschile e femminile, già accennata, la vediamo nel piano del Super-Io, ossia il diverso modo di trattare il crimine del figlio da parte di Dora e il marito. Lei perdonerebbe e metterebbe a tacere corrompendo i colleghi, il padre no. Abbiamo visto che a questa differenza di comportamenti vi è una spiegazione psicoanalitica, che risale secondo Freud alla diversa formazione del complesso edipico, da cui deriva la formazione del Super Io in entrambi i sessi, ma con tempi diversi, per cui nella bambina questo sarebbe meno impersonale, diciamo meno forte, più soggetto a farsi influenzare da fonti affettive. E’ quello che vediamo in questa situazione: di fronte a un figlio che commette un gravissimo crimine, la legge non è uguale per tutti, il femminile si fa corrompere dall’affetto. Tuttavia, questo femminile in Dora la renderà nel proseguio della storia più capace di riparazione e di perdono.

Le relazioni amorose e coniugali sono difficili nel film, sebbene intense, ma ancor più quelle genitoriali. Essere genitori sembra un compito impossibile. Educare, Freud lo annovera insieme a psicoanalizzare e governare, sono compiti impossibili. In tutti i personaggi femminili, la maternità è vissuta con forte ambivalenza e dolore; anche nel film è reso esplicito solo nel personaggio di Monica, nel romanzo è così per tutte. Monica forse viene ad incarnare, per tutte loro, la paura profonda, il terrore, che la maternità faccia impazzire. D’altro canto non deve sorprendere l’ambivalenza verso il bambino nuovo nato, sia perché ogni rapporto umano è soggetto all’ambivalenza, e tanto è più forte l’amore tanto è più facile il suo ribaltamento in odio (Freud, 1915), sia perché il bambino che nasce sarà sempre diverso dal bambino inconsciamente atteso, dal bambino della fantasia che Veggetti Finzi ( 1990) chiama “il bambino della notte”, sul quale per nove mesi la donna ha fantasticato in segreto e proiettato le sue fantasie; il “bambino del giorno”, quello che viene alla luce, potrà spesso deluderla, e ancor più se l’ambiente (il padre, il terzo) non sostiene, o vi è in atto una psicopatologia.

Nelle parole di Dora, il loro bambino “del giorno” sarebbe stato agli occhi del padre una totale delusione; per reazione, il ragazzo si sarebbe infilato in un’identità negativa, controidentificandosi alla rettitudine del padre, come accade a come adolescenti che guidano ubriachi, fanno atti vandalici, e via dicendo, in una sterile ribellione.

Poiché si tratta di una storia contemporanea, la difficoltà di queste madri, oltre che dalla normale ambivalenza, è amplificata dalla contemporanea idealizzazione della maternità, un fenomeno che sembra oggi paradossale di fronte ai cambiamenti avvenuti con l’emancipazione della donna; o forse proprio a causa di questa. Sembra che più la donna si sviluppa e si rende autonoma da gravidanze obbligate, e più si restringe il numero di figli nella famiglia, più la maternità è oggetto di idealizzazione, ponendo cosi le giovani madre o le donne al primo figlio nella situazione di sentirsi giudicate da standard elevati di perfezione, rispetto ai quali non andranno mai bene.

 

Concludendo, benchè il film sia completo e godibile in sé, è consigliabile vederlo insieme alla lettura del libro. Il romanzo è profondamente psicoanalitico, mentre il film è più narrativo: la forma del racconto è completamente introspettiva e il singolo Io narrante di ogni episodio si racconta ad un interlocutore immaginario inscenando un setting psicoanalitico; sono numerosi, soprattutto nel terzo capitolo, i riferimenti a Freud e all’importanza della scoperta dell’inconscio per svelare le cose umane che sfuggono alla consapevolezza, come i lapsus e gli atti mancati; molti sono i racconti di sogni che inframmezzano il racconto, il ruolo della memoria e della fantasia.

 

Se mi chiedessero cos’è l’amore, direi: la certezza che esiste, in questo mondo bugiardo, una persona completamente onesta con te, e con la quale tu sei completamente onesta, e fra voi è solo verità, anche se non sempre dichiarata

 

(Tre piani, p. 202, corsivo mio)

 

 

Bibliografia

 

Anzieu D. (2002): Psicoanalizzare. Borla, Roma

 

Bollas C. (1989): L’ombra dell’oggetto. Borla, Roma

 

Faimberg H. (2006): Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti.

 

Freud S. (1915): Pulsioni e loro destini. SE, vol. 8, Boringhieri, Torino

 

Freud S. (1922): L’io e l’Es. SE, vol. 9, Boringhieri, Torino

 

Freud S. (1938): La scissione dell’Io nei processi di difesa, SE, vol.11, Boringhieri, Torino

 

Garcia Badaracco J.(1986): Identification and Its Vicessittudes in the Psychoses.The importance of The Concept of the “Maddening Object”. IJP, 67

 

Jasseguet-Smirgel J. (1996): L’Ideale dell’Io. Cortina, Milano

 

Racamier J-C. (1995): Incesto e incestuale. Franco Angeli, Milano

 

De Mijolla A. (1986): Les visiteurs du moi. Paris, Sac Editions

 

Veggetti Finzi S. (1990): Il bambino della notte. Mondadori, Milano

 

Valdrè R. (2013) : La lingua sognata della realtà. Antigone, Torino

1 Nel libro, l’uccello è un barbagianni, un uccello bianco. Ipotizziamo che la scelta registica di un uccello nero enfatizzi la minaccia cupa e luttuosa della malattia mentale e depressiva

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