Così ho trovato scritto in rete
"Come parlare di un dolore imparlabile? Se vivo un’esperienza d’amore, ne posso parlare perché l’esperienza s’incarna nella persona, nella cosa amata, e parlando di questa “materia” lascio intravedere la tensione che l’anima, il mio intendere l’altro come il mondo dentro cui mi trascendo, il mio pretendere una reciproca corrispondenza di questo trascendimento. Questa è la materia dell’esperienza amorosa, sessuata o non sessuata, e vissuta come propria singolare capacità di fare mondo, in cui la propria apertura, la propria gettatezza trasforma il soggetto (come sub-jectus) in pro-getto.
Il dolore è al contrario imparlabile (se non nelle sue eventuali conversioni in sofferenza) perché è esperienza di negazione del proprio esistere come trascendere nell’Altro, perché è compromissione della possibilità di essere autore, generativo, “fecondo”, perché è mortificante costrizione nel già-stato nella impraticabilità di una conoscenza anintenzionale, perché il mondo, privato da questa intesa, diventa la sua ombra, non più materia di ogni possibile progetto, di ogni possibile racconto"
D. Napolitani, Fenomenologia del dolore.”
Ecco la mia risposta.
Richiamare il pensiero di Diego Napolitani che si traduce nella parola è sempre una festa dell’udire, del sentire, ragionare, comprendere. Specie in quest’insensatezza di angosce e di sciocchezze stucchevoli da covid. Dire l’indicibile, parlare l’imparlabile è quello che lui ha cercato d’insegnarci tutta la vita perchè non è mai facile trovare le parole giuste senza “cum-esse” con l’Altro nella nostra “gettatezza” mondana che diviene pericolosamente sola quando è “anintenzionale”. Sia che si tendano le corde dell’arpa per cantare l’amore “fecondo”, “incarnato” o per patire il dolore soggettivo, materico, pesante, sigillato.
Lo ricordo infaticabile regista di un progetto temerario di 7 incontri seminariali di “Psichiatria Comunitaria e Socioterapia”, dal 1971 al 1972. Un gigantesco caravanserraglio, con la Redazione degli Atti al “Centro di Socioterapia di Villa Serena” a Milano, Via Litta Modignani. Ma ricordo anche il più grande (nel senso di cadetto) Fabrizio Napolitani che andò addirittura alla fonte, in Svizzera, a Kreutzlingen, da Binswanger, ad imparare l’uso della “parola” come ha ben intuito Heidegger. «Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo». Così tra Roma e Milano molto itinerante e anche un filino zingara iniziò la Comunità Terapeutica e la Gruppo-Terapia analitica made in Italy.
Tutto ha proceduto da questo bozzolo di pensiero dei due fratelli Napolitani, certamente non sordi nè interconnessi ai poco anteriori “Ragazzi di Via Chiaia” di cui ci racconta sontuosamente “Peppino” Patroni Griffi 4 anni prima delle 4 giornate di Napoli.
Eh si! Un po’ come fare un quadro. Chi pensa, chi scrive, chi traccia segni sulla carta che possono essere letti, cantati, narrati – mi viene in mente la ricorrenza di Gianni Rodari (quello delle filastrocche) – custodisce certamente questa dimora particolarissima. I poeti soprattutto, sovrintendono, vegliano sulla parola significante: precisa, armonica, unica… affinché giunga a destinazione e dica alla umana presenza.
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