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Il DSM-5. Una tigre di carta

2 Dic 14

Di Sergio-Benvenuto
  1. Una macchina per patologizzare

            La pubblicazione nel 2013 del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5° edizione[1]) ha provocato – forse ancor più delle edizioni precedenti – una valanga di polemiche. Persino i due direttori della Task Force che aveva redatto i DSM precedenti, Robert Spitzer e Allen Frances[2], hanno attaccato pubblicamente l’impostazione del nuovo DSM.
 Accenneremo qui a vari tipi di critiche sollevate, spesso tra loro contraddittorie.
Da una parte abbiamo un attacco decisamente anti-psichiatrico contro questo DSM, culminato nella campagna Boycott DSM-5 o Stop DSM-5, che mira a sabotare acquisti e adozioni del Manuale. Una nebulosa di oppositori critica la legittimità stessa di emettere diagnosi psichiatriche, contesta il potere che si arrogherebbe una élite di psichiatri – di fatto quasi esclusivamente americani[3] – di decidere chi sia malato mentale e chi no, quindi chi necessiti di cure psichiatriche e chi no. In particolare, si denuncia il DSM come strumento principale di una crescente psichiatrizzazione della popolazione.
Preciso che, pur trovando pertinenti alcune di queste critiche, non condivido il presupposto anti-diagnostico di molte di esse. Anche se qui analizzerò criticamente il DSM-5, questo non significa che io respinga la necessità o la legittimità di diagnosi psichiatriche. Credo anzi che esse siano indispensabili nell’attività clinica, sia di psichiatri che di psicologi. Il punto è quale diagnosi. Qui cercheremo solo di capire quali presupposti sono alla base dello specifico modo di diagnosticare del DSM-5.
Già alcuni autori (Carlat 2000; Moynihan & Cassels 2005; Whitaker 2010) avevano messo in evidenza il vistoso abbassamento delle soglie di molte diagnosi nei DSM precedenti. Ma è soprattutto col DSM-5 che molte più persone risultano “disordinate”, termine che ha sostituito il più crudo “malate”.  
[Preferisco tradurre con disordine – piuttosto che con disturbo, come si è fatto in Italia[4] – il termine disorder. Non è un caso che il DSM-I, pubblicato nel 1952, abbia sostituito il termine Disorders al termine Diseases dell’autorevole manuale precedente, lo Statistical Manual for the Use of Hospitals for Mental Diseases. In questo il DSM segue una tendenza del discorso medico generale, che al termine disease – malattia o infermità – oggi preferisce “disordine”, un termine che rinvia a ordine e ha una connotazione etico-politica[5].]
Insomma, il DSM creerebbe un’epidemia artificiale di malattie mentali nella popolazione (Angell 2011a, 2011b)). Lo riconosce persino Frances (2013), responsabile del DSM-IV: ammette che quest’ultimo ha favorito la super-medicalizzazione soprattutto di molti bambini attraverso la categoria di disturbo bipolare nell’infanzia e nell’adolescenza. In effetti, grazie al DSM-IV le diagnosi di disturbo bipolare tra bambini e adolescenti sono aumentate di quaranta volte! Mentre gli adulti con disordine bipolare sono solo raddoppiati.
Negli ultimi 50 anni le persone diagnosticate come psicotiche sono quintuplicate nelle società iper-industriali. Le diagnosi di autismo sono aumentate di venti volte. Oggi si è convinti che in molti paesi (Italia compresa) ci siano otto autistici ogni 10.000 bambini sotto i cinque anni. I diagnosticati con deficit di attenzione, ovvero gli iperattivi, sono triplicati nella popolazione.
         Ciò comporta, tra l’altro, un aumento straordinario dei costi per il trattamento di disordini che appaiono sempre più frequenti. Questa dilatazione è impressionante soprattutto negli Stati Uniti. All’inizio del 2000, il costo per la presa in carico dei malati mentali in quel paese ammontava a 148 miliardi di dollari l’anno, ovvero le cure psichiatriche assorbivano il 2,5% del prodotto interno lordo americano[6]. Gli Stati Uniti sono però solo l’avanguardia di una psichiatrizzazione massiccia della popolazione, soprattutto infantile, nei paesi più industrializzati.
Ciò, si fa notare, favorisce gli interessi delle case farmaceutiche: dato che gli psichiatri con sempre maggior frequenza diagnosticheranno disordini mentali, allora sempre più prescriveranno psicofarmaci, dato che, ormai, la cura psichiatrica tende a coincidere con la prescrizione di farmaci[7].
 

  1. Universo patologico in espansione

A questa estensione dei disordinati corrisponde un aumento costante del numero di disordini. Nel 1880 la psichiatria americana distingueva solo sette categorie fondamentali di patologie mentali (follia semplice; follia epilettica; follia paralitica; demenza senile; demenza organica; idiozia; cretinismo). Nel corso del tempo, fino al 1952 – uscita del DSM-I – si passò a 106 disordini. Col DSM-II (1968) arriviamo a 182; col DSM-III (1980) a 265; nel 1994, col DSM-IV abbiamo sfondato la cifra di 350 disordini. Non solo si moltiplicano quindi i “disordinati” nella popolazione, aumentano, anche se a un tasso più ridotto, i disordini stessi.
I DSM sono una bolla che col tempo si gonfia sempre più anche fisicamente. Passiamo dalle 132 pagine del DSM-I alle 494 pagine del DSM-III, alle 947 pagine del DSM-5. E’ questa dilatazione segno del progresso della psichiatria?
No, sostengono gli oppositori: questi aumenti segnano solo la crescente medicalizzazione della popolazione. La quale assume varie forme a seconda dei paesi.
Ora, la missione essenziale dei DSM era ed è di omologare le diagnosi in tutto il mondo, come è accaduto nella medicina non mentale. Ciononostante, risultano ampie disparità diagnostiche tra paesi. Nel caso dell’autismo, per esempio. Indagini recenti ci assicurano che negli Stati Uniti un bambino su 200 è autistico.  Ovvero, negli Stati Uniti ci sarebbero più del sestuplo degli autistici rispetto agli altri paesi occidentali! Non è credibile che la società americana abbia una tale formidabile capacità di produrre autismo nei bambini (ammesso che l’autismo sia un prodotto dell’entourage familiare e sociale). La ragione è che, semplicemente, in USA gli psichiatri hanno la diagnosi di autismo “facile”; anche se la tendenza a diagnosticare sempre più frettolosamente l’autismo si diffonde in tutto il mondo industrializzato. Gli americani hanno avuto sempre molto più facile che in Europa anche la diagnosi di “schizofrenia”. Ricerche famose degli anni ‘60 e ‘70[8] hanno mostrato che, per gli stessi casi, gli psichiatri americani diagnosticavano due volte di più una schizofrenia rispetto ai loro colleghi britannici. Costoro tendevano invece molto di più degli americani a diagnosticare una psicosi maniaco-depressiva. Comunque, i britannici risultavano  globalmente meno “modernizzati” dei colleghi oltre-Atlantico, perché meno inclini di questi a diagnosticare una patologia mentale.
Quanto poi alla depressione, essa colpirebbe un americano su dieci. Anche qui, non credo perché la vita negli US sia particolarmente deprimente, ma semplicemente perché in quel paese la psichiatrizzazione della popolazione è più spinta che altrove.
 

  1. Psichiatria negoziata

            Purtroppo però le critiche più popolari ai DSM appartengono a un tipo che chiamerò anti-scientismo spiritualista. Una decostruzione del DSM-5 non deve farci risparmiare critiche alle critiche più comuni contro di esso.
Queste critiche anti-scientiste spiritualiste fanno riferimento diretto o indiretto al modello del Panopticon di Jeremy Bentham, reso celebre da Michel Foucault (1975). Si trattava di un prototipo di prigione in cui una sola persona al centro di un edificio circolare, senza essere vista, poteva vedere tutte le celle che costituivano la parte interna di questo edificio, controllandole quindi tutte con un colpo d’occhio. Il DSM sarebbe un Panopticon psichiatrico: la cosiddetta salute mentale della popolazione sarebbe oggetto di una crescente sorveglianza medica, espressione della volontà di controllo da parte di una tecnocrazia sanitaria; e in ultima istanza da parte dello Stato stesso. Altri a “Panopticon” preferiscono il termine “orwelliano”.  Insomma, il DSM-5 sarebbe la versione psichiatrica dello spionaggio globale messo in opera dagli Stati Uniti nel mondo, come ha rivelato Edward Snowden.
Anche se non mi unirò a questo tipo di attacchi – tipici di una certa parte della sinistra politica – riconosco che alcuni di essi colgono delle verità, come vedremo.
Il punto è che però molte contestazioni del panoptico psichiatrico confermano essenzialmente la visione che lo stesso DSM-5, così come l’altro manuale ufficiale delle malattie – l’ICD-10-CM[9] -, danno di se stessi.  il DSM (dal III in poi) dice di ispirarsi a una visione oggettivista: la psichiatria oggi sarebbe una disciplina per nulla influenzata da pregiudizi, opinioni e passioni della gente, da ciò che i filosofi chiamano Lebenswelt. Gli psichiatri oggettivisti pensano di compiere un lavoro incontaminato dall’influsso delle opinioni del vulgus. Il punto è che gli anti-scientisti spiritualisti in sostanza credono a questa pretesa, e così portano acqua al mulino di questa immagine che il DSM dà di sé, anche se vi appongono un segno negativo.
In un libro a più voci che stiamo costruendo con colleghi cercheremo di mostrare che è vero l’opposto. Secondo me, la diagnostica psichiatrica – DSM-5 incluso – assorbe invece come una spugna le visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda, pregiudizi correnti, e dà a questo assorbimento una sorta di avallo “scientifico” post factum[10]. Chiamerò Filosofie Popolari Dominanti le visioni del mondo e dell’uomo prevalenti in ogni epoca. Quindi, credere che la psichiatria del DSM imponga dall’alto della Scienza una certa visione del malessere mentale a una popolazione vittima e recalcitrante è un errore.
Si dice che il DSM eserciterebbe tanta attrazione in molte parti del mondo perché psicologi e psichiatri sarebbero sedotti dal suo ideale di scientificità e neutralità. Ma altri sistemi diagnostici che si ispirano a questo ideale non godono della stessa autorità e popolarità. Per esempio, è il caso del Manuale tedesco OPD (Operationalized Psychodynamic Diagnostics, 2001 e 2008) sviluppato essenzialmente da psicoanalisti negli anni ‘90. Ma non è riuscito a scalzare l’egemonia dei DSM.
Credo invece che, molto più semplicemente, la ragione fondamentale della fortuna dei DSM sia il suo essere un prodotto americano. Oggi scienza, tecnologia e cultura americane in genere godono di grande prestigio in molte parti del mondo – in particolare in Italia. Le creazioni statunitensi approfittano di una rendita di posizione; l’America è un paese supposto sapere. Se lo stesso identico DSM fosse stato prodotto, ad esempio, in Russia o in Francia, non avrebbe goduto della stessa autorevolezza. Così come, nel campo della moda e del design, tutto ciò che proviene dall’Italia gode di un favore pregiudiziale.
Scoprendo subito le mie carte, dirò che i DSM, compreso l’ultimo, non hanno nulla a che fare con la scienza. Un particolare basta per illustrare questa conclusione.
Sempre più, quando nella Task Force del DSM c’era un dissenso sulle classificazioni morbose, si procedeva a votazioni tra gli psichiatri consulenti, per cui di fatto il DSM-5 ha recepito concetti e definizioni che hanno preso più voti (Spitzer 2001). Ora, una cosa del genere non accade mai in una scienza matura. Non è che quando c’è una controversia anche appassionata – mettiamo, sulla String Theory in cosmologia – il problema si risolva facendo votare su di essa tutti i cosmologi del mondo riconosciuti dalla comunità! La fisica, la cosmologia, la genetica, …, non sono parlamentariste. Certo i manuali di fisica per studenti illustrano le teorie scientifiche su cui c’è un consenso generale tra i fisici, e quando passano a illustrare temi controversi, l’autore del manuale si assume la responsabilità, magari, di esprimere le sue valutazioni. Ma pensare a un Manuale ufficiale di Fisica o di Biologia dove le questioni teoriche si risolverebbero per votazione susciterebbe una generale ilarità.
I DSM sono il risultato di una negoziazione “politica” tra correnti, scuole, teorie, indirizzi, interessi, ecc. dominanti in America. In Italia diremmo che i DSM sono il Manuale Cencelli della psichiatria. Ed è questa ricerca del consensus classification che ne viene fuori a spiegare in parte l’aumento costante delle categorie nosografiche. Questo aumento è anche effetto di questa ricerca del consenso più largo possibile, al fine di assicurare al DSM l’egemonia nella professione psichiatrica. Siccome bisogna far contenti un po’ tutti, tanto meglio largheggiare in patologie.
 

  1. Utilitarismo e omosessualità

Ora, questi diversi approcci che il DSM-5 – ma di fatto la diagnostica psichiatrica nel suo insieme – tenta di coalizzare non sono puramente psichiatrici. Questi approcci riflettono le Filosofie Popolari Dominanti, anche nel senso che ne registrano l’evoluzione, i mutamenti e i conflitti. Perché il nostro mondo iper-industrializzato non è un blocco “ideologico” monolitico a cui quasi tutti si sottometterebbero, come cercano di far credere alcuni, ma un campo di battaglia tra più Filosofie Popolari tra loro incompatibili e antagoniste. Basti pensare alla violenza di certe contrapposizioni etico-politiche oggi, come quella tra i fautori dell’aborto e quelli che ne sono contrari, tra chi crede nelle virtù taumaturgiche del libero mercato e chi invece crede nell’intervento dello stato, ecc. ecc. Il DSM-5 riflette gli scontri tra le Filosofie Dominanti della nostra epoca, cercando tra loro un compromesso – se non una sintesi – arduo da raggiungere.
Per cui anche noi faremo riferimento a Bentham, ma non come inventore del Panopticon. Piuttosto come a uno dei massimi interpreti del pensiero utilitarista, una filosofia etico-politica dominante soprattutto nei paesi anglo-americani[11]. E’ la filosofia utilitarista a dirigere l’impostazione di fondo del DSM, anche se quest’ultimo non è solo un’applicazione pedissequa dei principi dell’utilitarismo filosofico; il Manuale riflette anche altre concezioni che all’utilitarismo contendono il dominio delle coscienze oggi.
Il presupposto fondamentale dell’utilitarismo fu riassunto da Bentham:
 
La natura ha posto l’umanità sotto il dominio di due padroni sovrani, dolore e piacere. Sono questi a indicare cosa dovremmo fare, così come a determinare quel che faremo[12].
 
Ma come questa impostazione filosofica così generale – che pretende di dire l’essenziale dell’umanità in quanto tale – si riflette nei manuali diagnostici psichiatrici? In che senso diciamo che il DSM è – soprattutto – benthamiano?
Un esempio di svolta “utilitarista” del DSM. A partire dal 1974, con la settima edizione del DSM-II, i manuali diagnostici più importanti non parlano più di omosessualità[13]. Ora, questa esclusione non è l’effetto di una qualche nuova scoperta, neurologica, fisiologica o psicologica che sia. Non c’è stata alcuna vera scoperta. E’ vero che spesso si invoca lo studio di Evelyn Hooker (1957), che amministrò il test di Rorschach sia a omosessuali che a eterosessuali. E ne trasse la conclusione che le psicopatologie erano egualmente distribuite sia tra i gay che tra gli etero. Ma le ragioni per cui l’omosessualità era considerata patologica non consistevano nel credere che un omosessuale avesse più disturbi mentali di un eterosessuale, ma nell’affermare che l’omosessualità è di per sé un disturbo mentale, fosse anche l’unico disturbo di una persona.
L’eliminazione dell’omosessualità è solo l’effetto di un cambiamento etico e politico: una Filosofia Popolare Dominante nei paesi occidentali non considera più l’omosessuale un malato, e tanto meno un peccatore o un criminale. “Nel proprio letto ognuno è libero di fare quel che gli pare”, questo è un adagio sempre più accettato nelle società industrializzate e democratiche. Il cambiamento diagnostico registra di fatto una vittoria dei movimenti emancipazionisti per i diritti civili, e della Filosofia Popolare che li ispira. Il manuale in questo caso non ha fatto altro che adeguarsi a una mutazione generale della mentalità.
Un discorso analogo andrebbe fatto per prestazioni sessuali come il sesso orale e anale (fellatio, cunnilinctus), che fino a pochi decenni fa erano considerate “perverse” anche e soprattutto da psichiatri, psicologi clinici e psicoanalisti. Oggi queste pratiche sono viste come momenti assolutamente normali dei rapporti sessuali, anche tra uomo e donna. Direi anzi che, se qualcuna o qualcuno oggi confidasse ad altri di aver disgusto di queste pratiche, si sentirebbe consigliare, con ogni probabilità, di consultare qualche psicologo o sessuologo.
Ora, l’atteggiamento riguardo all’omosessualità è cambiato grazie all’affermarsi del principio utilitarista secondo cui non può essere considerato delittuoso né patologico un comportamento che miri a produrre piacere in uno o più soggetti, purché sia la ricerca che il raggiungimento del piacere non producano dispiacere in qualche altro soggetto. Da notare: per l’utilitarismo piacere o felicità sono sempre individuali, non si può parlare di piacere o felicità di collettivi o istituzioni (in termini filosofici: l’utilitarismo è individualista, anti-olista). Ergo, se due persone dello stesso sesso trovano piacere in mutue attività sessuali, queste non possono essere sanzionate penalmente, e nemmeno etichettate come disordinati mentali. Perché il paradigma etico utilitarista decreta che è legittima ogni ricerca individuale del piacere (o della felicità, come dicono altri utilitaristi).
Oggi l’ascesa dell’etica utilitarista viene interpretata come lotta per i diritti umani. Si dice che, ad esempio, consumare atti omosessuali o magari anche sposare qualcuno del proprio sesso è un “diritto umano” da assicurare ai LGBT (acronimo per Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender). Ma la tematica sui diritti umani ignora per lo più i criteri per cui è “un diritto”, ad esempio, avere un legame omosessuale pubblicamente riconosciuto, e non è un diritto provare piacere sessuale picchiando a sangue una persona senza il suo consenso. Raramente l’etica utilitarista che costituisce oggi criterio per un “diritto umano” viene esplicitata.
La vicinanza tra le due cancellazioni riguardo all’omosessualità – quella penale e quella medico-diagnostica – può stupire molti, in quanto oggi si pensa che ci sia una netta distinzione tra i due tipi di valutazione, l’etico-religiosa-giuridica e la medico-scientifico-diagnostica. Alcuni faranno notare che già la sessuologia di fine Ottocento aveva psichiatrizzato l’omosessualità, mentre essa restava un peccato – quindi un valore negativo – per molte chiese cristiane, e un delitto punibile in molti paesi[14]. Si pensa oggi che l’approccio “scientifico” sia subentrato al discorso etico-religioso-penale, il quale perderebbe terreno nei “paesi civili”. Potremmo mostrare che in realtà i due discorsi sono molto più intrecciati di quanto non si creda.
In Gran Bretagna – patria dell’utilitarismo – gli atti omosessuali erano atti criminosi fino al 1961[15]. Anche Oscar Wilde e Alan Turing sono state vittime di queste norme penali (Turing ci ha rimesso la vita). Nel 1961 nel Regno Unito viene depenalizzata l’omosessualità, tredici anni dopo la psichiatria anglo-americana de-patologizza l’omosessualità. Le due derubricazioni quasi si accavallano[16]. E la ragione di questa doppia modificazione è dovuta all’impatto crescente dell’etica utilitarista sia nel campo della legislazione criminale sia della diagnostica medica.
Notiamo però che l’atto omosessuale resta sanzionato – sia come delitto dallo Stato, sia come disordine dalla psichiatria – quando avviene tra un adulto e un minorenne, anche se quest’ultimo è pubere. In questo caso, ancora una volta, norma penale e norma diagnostica tendono a coincidere (anche se in verità il DSM-5 cerca di distinguere una pedofilia “normale” da una “disordinata”). In effetti la pedofilia pone serie difficoltà alla filosofia utilitarista, perciò il suo statuto secondo il DSM andrebbe analizzato accuratamente. Perché c’è incertezza nello stabilire che cosa debba essere considerato “utile” (nel senso dell’utilitarismo: piacevole o modo di evitare dispiaceri) per un minorenne pubere. Così come – altro campo spinoso per l’utilitarismo – non è evidente ciò che sia “utile” per un tossicomane che cerchi a ogni costo di rinnovare il piacere datogli da una sostanza. Quando certi codici proibiscono l’uso personale di certe sostanze, ad esempio della cannabis, lo Stato devia dai principi utilitaristi e si pone piuttosto in una posizione paternalista – nega un “diritto umano”, si dice oggi. Lo Stato è paternalista quando reprime pretendendo di sapere che cosa sia “utile”, insomma “bene”, per i cittadini singoli, e legifera di conseguenza (mentre, come abbiamo detto, per l’utilitarismo l’unico giudice della propria utilità è il soggetto stesso). A questa criminalizzazione o semi-criminalizzazione dell’uso di certe sostanze fa eco la sezione DSM dei “Disordini di Dipendenza e Legati all’Uso di Sostanze”.
Il DSM ha l’accortezza – seguendo anche qui una valutazione ormai dominante tra gli specialisti – di mettere sullo stesso piano sostanze illegali in molti paesi (cannabis, fenciclidina e allucinogeni, oppiacei, stimolanti come amfetamine e cocaina) e altre del tutto legali (alcool, inalanti, sedativi ipnotici e ansiolitici, tabacco, caffeina)
Anche per le dipendenze si vede emergere una – non ammessa – omologia tra diagnostica DSM e intervento legale, civile o penale. Ad esempio, il DSM-5 annovera come solo caso di “Dipendenze Non Connesse a Sostanze” la passione per il gioco. Perché solo questa dipendenza non tossica, e non, ad esempio, la sessuo-dipendenza (satiriasi, ninfomania)[17]? Oppure quella che obbliga alcuni a cimentarsi in sport pericolosissimi? E perché no?, non è dipendente lo scrittore che sta male se ogni giorno non riempie almeno un paio di pagine scritte? Se chiamiamo dipendenza il fatto che un soggetto non possa fare a meno di rinnovare, costantemente, uno specifico piacere – o debba soffrire di una severa “crisi d’astinenza” quando deve rinunciarvi – allora la lista delle dipendenze diventerebbe sconfinata. Il DSM considera una dipendenza da cibo, la bulimia, che non situa però nell’ambito delle Dipendenze, ma dei Disordini Alimentari.
Credo che il gioco sia stato prescelto come unica Dipendenza Non Connessa a Sostanze semplicemente perché, tra tutti i piaceri coattivi, è quella che può portare a problemi di ordine legale. Accade difatti che il coniuge o gli eredi potenziali chiedano l’interdizione del giocatore coatto, ovvero che il giocatore non possa avere accesso alle proprie risorse finanziarie; la passione per il gioco può portare alla rovina anche i parenti stretti. Mentre non viene interdetto dal fare sesso un adulto perché si dà a pratiche sessuali intense e rischiose per la propria salute. Insomma, è un criterio pur sempre utilitarista a far includere il gioco tra i “disordini”, dato che incide sull’utilità di altri.
Lo stato è paternalista non solo, comunque, quando persegue certe dipendenze, come quella dalla cocaina o dal gioco d’azzardo. Lo è anche, ad esempio, quando punisce chi ha rapporti sessuali con puberi minorenni, anche se il o la minorenne in questione ha acconsentito al rapporto sessuale. Ovvero, lo stato “sa” che cosa è utile per un adolescente minorenne, anche quando questi non concorda su questa valutazione del proprio utile.
In effetti, varie norme paternalistiche – in contraddizione con l’utilitarismo – sono presenti nelle società moderne. Quasi ogni Stato ha qualche propria specifica legge paternalistica. Basti pensare che in ben otto stati US – Alabama, Georgia, Indiana, Louisiana, Massachusetts, Mississippi, Texas, Virginia – è proibita la commercializzazione dei vibratori elettrici.
Sono paternalisti i paesi che penalizzano l’incesto tra adulti consenzienti. In molti paesi – tra loro del tutto eterogenei – l’incesto non è un reato, mentre lo è in Germania, per esempio[18]. Mentre scrivo (29 settembre 2014) leggo su alcuni giornali che il Consiglio etico tedesco propone al governo di depenalizzare l’incesto tra sorella e fratello (ma rimarrebbe reato tra genitori e figli, anche se questi sono adulti).
In ogni caso, mi pare evidente che la giurisprudenza in Occidente stia andando storicamente nella direzione di depenalizzare ogni forma di incesto tra maggiorenni. Questo, ancora una volta, grazie all’imporsi della filosofia utilitarista, secondo la quale ogni forma di atto sessuale che non arrechi danno ad altri è eticamente ammissibile. Per questo aspetto bisogna riconoscere che il DSM-5, non contemplando l’incesto tra le parafilie, è in anticipo sui tempi della legislazione nella maggior parte dei paesi.
Ma nemmeno il DSM-5 è integralmente utilitarista; vi fa capolino quella che chiamerei psichiatria paternalista. Legata, come vedremo, a una filosofia diversa da quella utilitarista: il funzionalismo biologico.
 

  1. Patologia come disfunzione

            In effetti, in modo sorprendente il DSM-5, quando articola una definizione formale e precisa di che cosa intenda per “disordine mentale”, non fa appello a principi utilitaristi, ma a un’altra filosofia, rivale dell’utilitarismo, che chiamerei funzionalismo aristotelico.
            Si legge nel DSM-5:
 
“Un disordine mentale è una sindrome caratterizzata da disturbi [disturbance] clinicamente significativi nella cognizione, nella regolazione emotive o nel comportamento dell’individuo, disturbi che riflettono una disfunzione [dysfunction] nei processi psicologici, biologici o di sviluppo sottostanti al funzionamento [functioning] mentale. I disordini mentali sono di solito associati con un’afflizione [distress] significativa in attività sociali, occupazionali o in altre importanti attività. Una risposta prevedibile, o approvata culturalmente, a un comune fattore di stress o a una perdita, come la morte di una persona amata, non è un disordine mentale. Un comportamento (ad esempio, politico, religioso o sessuale) che sia socialmente deviante e conflitti che siano prima di tutto tra l’individuo e la società non sono disordini mentali, a meno che la devianza e il conflitto non risultino da una disfunzione nell’individuo, così come è stata descritta più sopra.”[19]
 
Non abbiamo qui lo spazio per analizzare in modo minuzioso questa definizione. Mi limiterò giusto ad alcuni elementi.
Un’analisi approfondita di tutto il DSM-5 mostra presto che il vero marcatore del disordine mentale rispetto a comportamenti e vissuti non disordinati è l’afflizione (distress). Il patologico, insomma, coincide con il fatto che il soggetto stesso o chi gli è accanto patisce un’afflizione e/o un social impairment, una menomazione sociale. Potremmo mostrare che questi marcatori discendono direttamente dai presupposti dell’etica filosofica utilitarista. Anche qui l’afflizione (distress) viene evocata, ma con la clausola “di solito” [usually], come a dire: “Anche se molto spesso il disordine mentale produce afflizione nel soggetto, questa non è la condizione necessaria e sufficiente perché ci sia disorder”. Questo significa che ci può essere disordine senza afflizione, mentre d’altro canto la presenza di afflizione non implica ipso facto disordine mentale. Questo contrasta col fatto che invece in molti disordini per il DSM sono proprio l’afflizione e la menomazione sociale le condizioni necessarie anche se non sufficienti per marcare certi modi di essere come patologici.
Ciò che appare qui necessario e sufficiente di una patologia è qualcosa di disfunzionale: si suppone insomma che ci sia un funzionamento mentale sano, non disordinato, dei “processi psicologici, biologici e di sviluppo”, e che invece ci sia materiale per la psichiatria quando questi processi non funzionano più come dovrebbero. Ma la trappola è proprio nel termine “funzionale” e “disfunzionale”, spie di una visione antropologica che oggi nemmeno gli estensori del DSM-5 possono accettare più.
Possiamo dire che un’auto non funziona più bene – “è rotta” – quando non svolge le funzioni per cui è stata costruita. Ma possiamo dire che un’auto non funziona più proprio perché è una macchina, ovvero è un utensile fatto per svolgere certe funzioni, per servire agli esseri umani. Il concetto di funzionamento è inscindibile da quello di servire-a, ovvero qualcosa funziona bene quando serve a fare la cosa per cui è stata costruita. Possiamo anche dire che un impiegato alle poste, ad esempio, “funziona” perché svolge bene il suo lavoro postale per cui è stato assunto; è una macchina umana, se vogliamo, ma pur macchina è. Ora, se cerchiamo di montare un cavallo e questo, non essendo stato domato, scalcia e ci manda gambe all’aria, possiamo dire che “quel cavallo non funziona bene”? Un’espressione del genere ci sorprenderebbe, perché nessuno pensa che i cavalli esistano per essere cavalcati dagli esseri umani. Se un cavallo non si lascia cavalcare, si comporta da cavallo come si deve; non possiamo dire “quel cavallo è pazzo”.
Ora, dire che un assassino sadico soffre di un disordine mentale perché alcuni suoi processi mentali o biologici non funzionerebbero significa dare per scontato che i nostri processi mentali e biologici sono sani solo quando ci comportiamo con gli altri in modo non sadico. Ma si tratta di un presupposto arbitrario, tutto da dimostrare.  Chi e con quali argomentazioni ha mai dimostrato che se uno è buono “funziona bene” mentre se uno è cattivo, e gode nel far soffrire gli altri, “funziona male”? Affermazioni del genere danno per scontato che gli esseri umani siano stati ‘costruiti’ come macchine in vista di uno scopo, di un dover servire a qualche cosa – un presupposto ammesso da certe visioni religiose o metafisiche, ma non certo da una visione naturalistica e materialista come vorrebbe essere quella del DSM. Per questa, le cose che esistono – quindi anche gli esseri umani – esistono perché esistono, non esistono per svolgere una funzione predeterminata.
Certo la maggior parte di noi non è funzionale a molte cose. Ma la filosofia naturale di oggi esclude che Homo sapiens esista sulla terra per qualche scopo, per svolgere una qualche funzione.
Inoltre, il DSM-5 distingue in modo banale sofferenze “culturalmente giustificate e attese” – come il vivere un lutto severo per la scomparsa di una persona cara o per una sconfitta nella vita – da sofferenze “disordinate”. Ma quale è il criterio di questa distinzione? Fino a che punto la sofferenza per una perdita o una sconfitta è normale e a partire da quale momento diventa patologica? Si dirà: “una cosa è essere depressi per un lutto, altra cosa è essere depressi senza una chiara ragione comprensibile”. Certo ci sono più modi depressivi diversi, ma cosa ci autorizza a dire che il lutto è “ordinato” mentre altre forme di depressione sono “disordinate”? Se si dice che il depresso che si suicida soffre di una disfunzione, si dà dogmaticamente come evidente il fatto che un essere umano “funziona bene” quando non è depresso. Il che implica un assioma anti-naturalistico, come abbiamo visto.
L’idea della malattia come disfunzione presuppone tutta un’antropologia metafisica che dà per implicito il fatto che l’essere umano vada pensato come una macchina volta a uno scopo. E questo funzionamento può essere stato stabilito solo da un dio, o da una Natura deificata. Anche se il DSM-5 non parla di Dio e nemmeno di Natura con la N maiuscola, la sua definizione di disordine presuppone entrambe le istanze come condizioni fondamentali del “disordine mentale”. Si è disordinati nella misura in cui non si funziona più secondo una norma implicita di vita “normale”.
Qui il DSM-5 cerca di distinguere “un comportamento (ad esempio, politico, religioso o sessuale) che sia socialmente deviante” ma non patologico da una parte, da un comportamento socialmente deviante e patologico dall’altra. Ovvero, ad esempio, se sono omosessuale in una società dove l’omosessualità è fortemente riprovata e anche criminalizzata (come in molti paesi islamici), certo mi esporrò a gravi rischi e andrò incontro ad “afflizioni e menomazioni” anche molto serie, ma non sono un caso psichiatrico. Se invece, come il presidente Schreber  sono convinto che sono un uomo che si è trasformato in donna grazie a dei miracoli divini dato che Dio copula con me come donna, questo certo mi mette in conflitto con il sistema cognitivo della mia società, che non crede a questo tipo di trasformazioni miracolose; però in questo caso sono un paziente psichiatrico. Ma appunto, quale criterio mi fa distinguere un caso dall’altro? Che cosa mi ha fatto decidere di inscrivere nel patologico il transessuale delirante e non l’omosessuale infelice? Tanto più che fino a pochi decenni fa il secondo caso era inscritto nel patologico non meno del primo nelle nostre società. La differenza è data come qualcosa che va da sé, ma non va affatto da sé, perché i principii discriminativi che fanno concludere in due modi diversi nei due casi non vengono mai enunciati. Si dice solo dogmaticamente: “L’omosessuale anche se deviante rispetto al suo contesto sociale non soffre di disfunzioni psicologiche, biologiche o di sviluppo, non è disordinato. Il transessuale delirante non solo è deviante rispetto al suo contesto sociale, ma soffre di disfunzioni psicologiche, biologiche o di sviluppo”. E in che cosa consisterebbe invece un corretto funzionamento psicologico, biologico o di sviluppo? Nel non delirare. Ci troviamo evidentemente di fronte a un argomento circolare. I concetti di “disordine” e “disfunzione” rimandano l’uno all’altro, senza che l’uno fornisca all’altro il criterio ultimo.
Ora, la “definizione” di disordine da parte del DSM-5 porta a queste impasse perché qui il DSM assume una filosofia molto antica, il funzionalismo aristotelico.   In particolare, la dottrina aristotelica dell’entelechia, ripresa poi da Leibniz e da Hans Driesch (1905), la quale afferma che ogni organismo tende spontaneamente al proprio compimento, alla propria perfezione, e la salute sarebbe il raggiungimento di questo pieno sviluppo. La malattia è una lesione per cui l’organismo non funziona più come dovrebbe rispetto al proprio fine. L’organismo viene concepito come una macchina nel senso originario di mechané, ovvero come oggetto costruito per svolgere una certa funzione. L’organismo sano è la macchina che realizza adeguatamente i fini per cui è stato “costruito”, da Dio o Natura.
Ma perché qui il DSM adotta questa visione funzionalista che cozza con la visione naturalista di oggi? E cozza in particolare con l’utilitarismo, per il quale, come abbiamo visto, se si può parlare di funzione nella vita umana, essa si riassume in una sola: massimizzare il piacere e minimizzare il dolore.
Rispolvera il funzionalismo per una ragione molto semplice: che la visione funzionalista è l’unica che dia senso alla nozione di malattia o di disordine. E’ l’unica cioè che permetta di dare una parvenza di coerenza all’idea di “disordine mentale”. In questo modo il DSM è costretto a giocare su due tavoli tra loro incompatibili; come se uno giocasse con uno stesso mazzo di carte contemporaneamente il poker e il bridge. Quando si tratta di descrivere specificamente un disordine – potremmo mostrarlo per quasi tutta la diagnostica DSM – questo adotta la visione utilitarista e, sullo sfondo, l’empirismo naturalistico; una visione però che non fornisce alcuna giustificazione alla differenza sano/malato. Quando invece si tratta di descrivere il disordine mentale in generale, e quindi di giustificare una psichiatria medica in generale, deve ricorrere a presupposti funzionalisti in contraddizione con l’utilitarismo naturalista. Nella misura in cui il DSM si situa in continuità con la tradizione medico-psichiatrica, usa concetti aristotelizzanti; nella misura in cui segna una discontinuità perché adotta come criterio l’individualismo utilitarista, riprende di fatto una visione naturalista per cui non esiste una differenza categoriale tra sano e malato.
Sarà il caso di mostrare che tutto il DSM-5, come del resto i precedenti, è incastrato in questa contraddizione tra due filosofie, tra due antropologie, che non riesce a sintetizzare né a conciliare.
 

  1. Critiche sbagliate al DSM

            Molti anti-scientisti spiritualisti legano la critica al DSM soprattutto a un attacco più vasto contro la psichiatria organicista e contro l’uso degli psicofarmaci. Ma cadono qui in una grande confusione. In effetti, il DSM-5 non fa alcun riferimento ai farmaci. Non è quindi legittimo mettere nello stesso fascio il DSM-5 e la psichiatria farmacologica.
E’ vero che c’è di fatto una relazione tra DSM e psicofarmaci, dato che le case farmaceutiche hanno tutto l’interesse a rendere ‘commensurabili’ i loro farmaci alle categorie diagnostiche del DSM. E’ vero che certi effetti farmacologici hanno avuto un influsso importante su certe scelte di classificazione. Ad esempio, gli effetti specifici degli anti-depressivi – che funzionano sia nelle depressioni nevrotiche o reattive, che in quelle psicotiche – hanno portato il DSM a isolare la categoria generica “Disordini depressivi”. Analogamente, Donald Klein (uno degli estensori del DSM) ha fatto isolare gli Attacchi di Panico in quanto crisi che rispondono elettivamente all’imipramina. Ma non si può attaccare il DSM-5 per quello che non dice. In teoria, ma anche in pratica, si potrebbe adottare il DSM-5 pur facendo a meno dei farmaci.
            In effetti, la Task Force originaria del DSM-III non era composta essenzialmente da clinici terapeuti, piuttosto da ricercatori puri. Se le case farmaceutiche hanno poi dato l’assalto alla diligenza del DSM – mettendo a libro paga alcuni loro estensori e creando così conflitti d’interessi – è proprio grazie al successo incontrato dal DSM nell’ambiente psichiatrico (Healy 2002, p. 310). Il rapporto è insomma storicamente inverso a quel che pensano molti critici: è il successo del DSM ad aver attratto le case farmaceutiche, non sono le case farmaceutiche all’origine del successo del DSM.
            Comunque, non mi pare che la maggior parte delle categorie del DSM siano frutto diretto di una sperimentazione farmacologica o comunque scientifica. Per dirne una, non credo che l’elaborazione del concetto “Spettro Autistico” da parte del DSM abbia minimamente a che vedere con la psicofarmacologia, dato che finora nessuno ha proposto un medicamento anti-autistico. Tante categorie del DSM di fatto sono ereditate dalla tradizione kraepeliniana. Si parla di neo-kraepelinismo dei DSM, intendendo con questo la tradizione della psichiatria classica tedesca. Ma appunto, all’epoca di Kraepelin non esistevano psicofarmaci.
Ad esempio, il DSM-5 considera la Schizofrenia, la Catatonia, la Bipolarità e il Disordine di Personalità paranoide, categorie evidentemente riprese dalla nosografia di Kraepelin e Bleuler. Il concetto di schizofrenia fu infatti elaborato da Bleuler nel 1908, rielaborando la “demenza precoce” di Kraepelin. Anche il termine e la descrizione della catatonia furono elaborate da Kraepelin. L’idea di Personalità paranoide sviluppa la nozione kraepeliniana di paranoia, così come il Disturbo Bipolare deriva dalla psicosi maniaco-depressiva di Kraepelin – che a sua volta aveva ripreso la folie circulaire dei francesi – tutte elaborate tra 1883 e 1915. Ebbene, mi si citino esperimenti che avrebbero convinto gli psichiatri americani del fatto che queste categorie di Kraepelin e Bleuler siano quelle più pertinenti! Diciamo piuttosto che le ricerche secondo i protocolli scientifici presuppongono già queste categorie.
E anche quando il DSM innova rispetto alla tradizione, è arduo sostenere che la maggior parte di queste innovazioni siano frutto diretto di esperimenti scientifici. Non mi convince nemmeno l’idea che, volendosi a-teoretico, il DSM sarebbe basato su statistiche biologiche (Kirk & Kutchins 1992). Certamente il DSM-5 fornisce vari dati statistici, ma la questione è sempre la stessa: se vuoi calcolare la percentuale, mettiamo, delle personalità borderline maschi rispetto a quelle femmine (il DSM-5 ci informa che il 75% dei borderline sono donne), devi già aver deciso che cosa distingua una personalità borderline da una che non lo sia. Sarebbe come dire che la diagnosi di cancro al colon si basa sulle percentuali di malati al colon nei vari paesi!
Insomma, attaccare il DSM per attaccare la psichiatria organicista è una manovra fuorviante. Perché Il DSM non è creatura della sperimentazione scientifica; è una costruzione essenzialmente etico-politica, direi addirittura un artefatto filosofico.
 

  1. DSM e ideale scientifico

Più in generale, gli anti-scientisti spiritualisti rigettano l’impostazione che chiamano “scientista” alla base del DSM. Secondo loro, il DSM-5 affermerebbe di ispirarsi alla “neuroscienza cognitiva, brain imaging, epidemiologia e genetica”, e questo sarebbe il suo peccato originale, perché non terrebbe alcun conto della ricerca “qualitativa” in campo psicoanalitico o fenomenologico o intersoggettivista.
In realtà il DSM-5 non dice affatto di basarsi su questo tipo di ricerche. Dice piuttosto
Tuttavia, gli ultimi due decenni dopo la pubblicazione del DSM-IV hanno visto un progresso reale e durevole in certe aree come la neuroscienza cognitiva, il brain imaging, l’epidemiologia e la genetica. La Task Force del DSM-5, supervisionando (overseeing)  la nuova edizione, ha riconosciuto che gli sviluppi della ricerca richiederanno[20] (will require) cambiamenti attenti e iterativi se il DSM deve mantenere il suo ruolo di pietra di paragone della classificazione dei disordini mentali. (DSM-5, 2013, p. 5)
Il DSM-5 dice quindi che esso non ha ancora tenuto conto degli sviluppi delle ricerche di neuroscienza cognitiva, brain imaging, epidemiologia, genetica, per cui prevede che in futuro (will require) essa dovrà tenerne conto e quindi procederà a cambiamenti. In sostanza, il DSM qui riconosce candidamente i propri limiti “scientifici” e dichiara di essere disposto a una auto-revisione.
            E in effetti, molte delle critiche più devastanti al DSM-5 provengono proprio da chi invece ne denuncia la non scientificità. Così il NIMH (2013) – America’s National Institute of Mental Health – fa notare (giustamente) che il DSM-5 non si basa su nessuna misura oggettiva di alcunché. Il suo direttore, Thomas Insel, oppone un tentativo nosografico di Research Domain Criteria (RDoC) che si baserebbe, questo sì, sulla neuro-imagery, su bio-marcatori credibili, sulle alterazioni della funzione cognitiva, sullo studio di circuiti neurologici oggettivabili. Chi crede veramente nell’oggettività scientifica di solito lincia i DSM.
            Così Steeves Demazeux, filosofo della scienza, conclude che il DSM è una “tigre di carta”, dato che
 
La standardizzazione promossa dal DSM non è il frutto di un complotto scientista e anti-umanista, ma una risposta che riflette una crisi al tempo stesso intellettuale e istituzionale. (Demazeux 2013, p. 245)
 
Va analizzata questa crisi intellettuale e istituzionale. Mentre gettare l’anatema sul DSM-5 perché “oggettivista” è un binario morto.
            Ma anche se il DSM-5 affermasse che tutta la propria impostazione derivi dai risultati di ricerche neuroscientifiche, epidemiologiche e genetiche, e del brain imaging (sarebbe stata una pretesa davvero assurda!), il guaio è che tanti oppositori del DSM condividerebbero essenzialmente questa presunzione, cadendo quindi nella trappola. Perché è vero che, in generale, la Task Force del DSM afferma di tener conto di ricerche fatte secondo i protocolli scientifici, e di non considerare i “risultati speculativi”, come essa scrive, per formulare nosografie. Ma si tratta di una pura dichiarazione di principio che resta tale, perché non è mai dimostrato il nesso diretto tra le opzioni nosografiche del DSM-5 da una parte e la massa di ricerche che seguono il “metodo scientifico” dall’altra. La Task Force ha certo l’accortezza di non scrivere che esiste un legame tra le due, ma lascia supporre se non altro nel futuro l’esistenza di questo legame. Ora, i critici del DSM credono in questo legame, ma questo legame non esiste, o esiste in modo molto ridotto[21].
            In realtà le classificazioni DSM si basano essenzialmente – proprio come quelle classiche, di Krafft-Ebing, Kraepelin, Bleuler, ecc. – su quel che le persone fanno e dicono. Anche la psicoanalisi, quando elaborò le proprie classificazioni, partì da ciò che le persone fanno e dicono. Per esempio, il DSM include le categorie di “disordini ossessivo-compulsivi” (sindrome elaborata da Freud [1894][22]), di “schizofrenia” e di “parafilia masochista”. Se col DSM si diagnostica uno come ossessivo, è perché si comporta e parla in modo ossessivo; uno è diagnosticato schizofrenico perché “parla in modo schizofrenico”; e un masochista è tale perché compie atti masochistici con la propria partner sessuale. E’ solo dopo che uno è stato diagnosticato schizofrenico che ci può interessare mettergli degli elettrodi in testa e vedere attraverso l’fMRI cosa accada nel suo cervello “quando dice cose schizofreniche”. Ma non si è mai scoperto uno schizofrenico facendo a qualcuno uno scanner del cervello! E’ solo dopo che due gemelli veri sono stati diagnosticati come schizofrenici che un ricercatore può cercare fattori causali genetici della schizofrenia paragonando il tasso di gemelli veri entrambi schizofrenici con il tasso di gemelli veri in cui uno solo è schizofrenico, ad esempio. Ma tutte queste ricerche “scientiste” – come dicono spregiativamente gli oppositori spiritualisti –  presuppongono già le diagnosi.
Insomma, se pensiamo che Kraepelin e Freud siano l’età della pietra della psichiatria, allora il DSM-5 è ancora nell’età della pietra. Anche se pretende di non esserci. Resta la parente povera della medicina.
 

  1. Il mito dell’a-teoria

Quel che mette fuori gioco il DSM come impresa scientifica è la scelta direi genetica compiuta negli anni ’70 col DSM-III. La contraddizione fondamentale di questo progetto è la sua pretesa di essere a un tempo “scientifico” e “ateorico”. Sin dagli anni ‘80 i compilatori del DSM hanno voluto ignorare tutte le teorie eziopatogenetiche dei disordini mentali. Hanno puntato all’osservazione empirica clinica pura: affidarsi solo ai dati dell’esperienza, così come risultano al clinico “senza pregiudizi”. Questo empirismo ateorico avrebbe dovuto portare la psichiatria a diventare sempre più una specialità medica come le altre, Evidence Based Medecine. Possiamo dire che questo progetto è fallito.
Fallito perché si basa su un fraintendimento profondo di quel che ha reso scientifica parte della medicina. Perché quando si rinuncia programmaticamente a formulare teorie, o a confrontarsi con teorie già formulate, si rinuncia di fatto a ogni ambizione scientifica. Questo lo sa chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa delle epistemologie di oggi, delle più moderne ricostruzioni teoriche del metodo scientifico, e della storia delle scienze. Costei sa che le grandi rivoluzioni scientifiche sono state sempre frutto di nuove ardite teorie, che per lo più erano in contraddizione, almeno agli inizi, con l’esperienza comune.
Basti pensare alla funzione strutturante del paradigma (come oggi suol dirsi) che è alla base della fisica, da Galileo in poi, detta meccanica classica: il principio di inerzia[23]. Un principio evidentemente in contraddizione con l’esperienza quotidiana: non si era mai visto un corpo in moto rettilineo uniforme che non cessasse mai di arrestarsi! E basti pensare alle ardite premesse teoriche della relatività di Einstein e della meccanica quantistica, che hanno reso possibili le grandi scoperte della fisica del Novecento; premesse che cozzavano con l’esperienza ‘di senso comune’ del mondo fisico. E potremmo moltiplicare gli esempi.
Il successo di questa bizzarra pretesa del DSM di costruire un’ossimorica scienza ateorica si spiega con il background culturale in senso lato di molti psichiatri, soprattutto anglo-americani. Questa pretesa è rampolla di una concezione filosofica, spesso tacita, che domina le loro menti: l’empirismo filosofico, tendenza di pensiero prevalente soprattutto in Gran Bretagna dal XVII° secolo in poi. Filosofia di cui l’utilitarismo è la succursale etico-giuridica, per così dire. L’empirismo è l’idea per cui la conoscenza deriverebbe direttamente dall’esperienza, e dalle riflessioni che questa esperienza, scevra da pregiudizi, ispirerebbe. Molti psichiatri si sono formati su questa visione del mondo, anche se da tempo tra gli epistemologi la visione empirista è stata soppiantata da altre concezioni. Ad esempio dal razionalismo critico di Karl Popper, oggi particolarmente influente. Secondo il razionalismo critico, quel che rende scientifica una teoria non è da quale esperienza sia stata ispirata, ma il fatto che essa venga articolata in modo da essere empiricamente falsificabile. Per i popperiani come per molti altri epistemologi il progetto fondamentale dei vari DSM è quindi ab initio scientificamente fallimentare.
            Quindi, la pura osservazione, se non è catalizzata da ipotesi teoriche, non vede nulla di essenziale; d’altro canto il puro pensiero deduttivo, se non è articolato alle osservazioni, è vuoto, cioè non dice nulla della realtà. “L’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota”[24]. L’occhio innocente della psichiatria DSM risulta in effetti in gran parte cieco.
            Che il DSM allontani la psichiatria dalla medicina scientifica è dimostrato dal fatto che, dal DSM-III in poi, il Manuale ha adottato un criterio “politetico” e non “monotetico”. Scrive Migone (2013, p. 570),
nel sistema monotetico uno o più criteri diagnostici devono essere obbligatoriamente presenti per poter fare diagnosi; la polmonite tubercolare, ad esempio, non può esser diagnosticata solo con la febbre, la tosse, un riscontro radiografico, ecc. – che sono criteri diagnostici che possono appartenere anche ad altre malattie – ma necessariamente dal reperto del bacillo di Koch nell’espettorato, senza il quale, secondo un approccio monotetico, non è possibile fare diagnosi di polmonite. 
Nella “democrazia diagnostica” del DSM vige invece un principio politetico: tutti i tratti patologici hanno eguale valore, non c’è alcuna gerarchia tra loro. Quel che conta per emettere una diagnosi è che ci sia un numero minimo di questi tratti (numero arbitrariamente deciso dal DSM per ogni “disordine”). E’ come se per diagnosticare una polmonite si facesse una lista di vari sintomi che si presentano quando si ha una polmonite, e il trovare un certo numero di questi sintomi ci desse il diritto di diagnosticarla. Ma appunto, senza la teoria del bacillo di Koch, corroborata dall’esperienza, non sapremmo esattamente che cosa sia una polmonite.
Si dirà: in psichiatria non disponiamo di biomarcatori o di test clinici così netti come la presenza di un bacillo tipo quello di Koch. Ma il punto è che in medicina la definizione della malattia tende a coincidere con la sua eziologia, mentre i DSM hanno scelto di escludere ogni considerazione di tipo eziologico.
Gli autori del DSM sembrano in effetti avere come modello non la ricerca biologica di oggi quanto piuttosto la classificazione biologica, anzi botanica, di Linneo (Hacking 2013). In effetti ogni disordine è identificato a un Genere; questo è suddiviso in Specie, le quali sono spesso suddivise in Sub-Specie.
In effetti Linneo verso il 1735 operò una grandiosa classificazione delle specie viventi pur senza avere in apparenza una teoria biologica forte, basandosi sulla pura osservazione empirica. Ma appunto, la biologia con Darwin è diventata una scienza matura proprio contestando, nel fondo, le basi del sistema di Linneo; problematizzando cioè il concetto stesso di “specie”. Dato che per Darwin le forme viventi sono in uno stato costante di mutazione, non possiamo parlare di specie fisse, anzi, non possiamo parlare nemmeno di specie, dato che quella che chiamiamo specie è solo un effetto visibile del fatto che la mutazione biologica è molto lenta, e siccome non vediamo il cambiamento sotto i nostri occhi pensiamo che ogni specie resti tale e quale.
Proprio perché il DSM ha per modello la classificazione linneana, ha un approccio non scientifico. Che non avvicina affatto la psichiatria alla medicina legata alla scienza fisiologica, dato che questa non classifica affatto le malattie in modo linneano
 

  1. La grande Dicotomia

D’altro canto, se così spesso gli oppositori del DSM sbagliano il loro bersaglio, è perché al fondo della denuncia dello “scientismo” dei DSM c’è a sua volta una Filosofia Popolare appunto spiritualista.
In effetti, una dicotomia perseguita la psichiatria – e gran parte delle scienze che si occupano degli esseri umani – da qualche secolo: da una parte c’è un approccio materialista, biologista, scientifico, e dall’altra un approccio umanista, intersoggettivista, insomma spiritualista (anche se alcuni che seguono questo secondo approccio si definiscono, per influsso del marxismo, “materialisti”). Insomma, siamo ancora incastrati nella vecchia dicotomia che ci condiziona da secoli: Materia versus Spirito, o Quantità versus Qualità. O anche, variante più modernista: Spiegazione scientifica versus Interpretazione comprensiva. E nel caso della psichiatria: Cervello versus Psiche; o Genotipo versus Storia. Sono varianti di una super-dicotomia fondamentale che la maggior parte dei grandi pensatori degli ultimi secoli hanno per lo più trasgredito o rigettato. Ma una cosa sono i grandi pensatori, altra cosa le Filosofie Popolari Dominanti.
Quindi, per noi non si tratta di criticare il DSM perché sarebbe espressione di una psichiatria oggettivista e scientista in nome di una psichiatria “buona” – fenomenologica, o ermeneutica, o psicoanalitica, insomma “dinamica” come si diceva un tempo. Cercheremo piuttosto di non restare imprigionati in questa dicotomia, la quale poggia su una tradizione metafisica dell’Occidente che sarebbe ora di superare. Anche in psichiatria.



[1] Edito dall’American Psychiatric Association, Washington DC, London. Tr.it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano, 2014.
[2] Spitzer (2011), Frances (2010; 2010-13; 2012b; 2013), Spitzer & Frances (2011).
[3] I soli non statunitensi della Task Force del DSM-5 erano l’olandese Roel Verheul e l’inglese-canadese John Livesley, i quali però si dimisero dal team sui Disordini di Personalità del DSM nell’aprile 2012 (Frances, 2012a).
[4] ‘Disturbo’ traduce piuttosto termini come disturbance o ailment.
[5] Da notare che l’altro manuale di rilevanza internazionale – l’International Classification of Diseases – edito dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), mantiene la dizione diseases.
[6] OMS 2003, p. 3.
[7] Paradossalmente, questa denuncia del ruolo del Big Pharma nel DSM è stata sviluppata proprio da Frances (2013). Eppure il “suo” DSM-IV era stato recepito con entusiasmo proprio dalle case farmaceutiche.
[8] Shepherd et al. 1968; Katz et al. 1969; Kendell et al., 1971 ; Cooper et al. 1972.
[9] International Classification of Diseases-10-Clinical Modifications; editato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità, è giunto alla 10° edizione.
[10] Tesi già articolata da Thomas Schacht (1985).
 
[11] Alcuni hanno cercato di esplicitare i paradigmi filosofici impliciti dei DSM. Ad esempio si connette il progetto DSM a quello generale del positivismo logico (fondato dal Circolo di Vienna agli inizi del ‘900). Si tratta però in genere di riferimenti filosofici ovvi, che gli stessi autori dei DSM potrebbero facilmente riconoscere e anche rivendicare. Noi metteremo in luce piuttosto i presupposti filosofici di cui in genere gli autori dei DSM non sono consapevoli, che essi applicano, per dir così, senza saperlo.
[12] Bentham, 1970, p. 1.
[13] Cfr. Bayer 1981.
 
[14] Oggi dei 193 stati membri ONU, 78 hanno leggi anti-omosessuali. Quelli che hanno le pene più severe sono quasi tutti a prevalenza islamica: cinque (Iran, Mauritania, Arabia Saudita, Sudan, Yemen) prevedono anche la pena capitale, due l’ergastolo (Bangladesh e Uganda, anche se quest’ultima è per l’84% cristiana). Evidentemente il mondo islamico è quello più impermeabile alla filosofia utilitarista e quindi alla tematica dei “diritti umani”.
[15] L’Italia, pur essendo un paese impregnato di mentalità cattolica (o forse proprio perché ne è impregnato), ha depenalizzato gli atti omosessuali sin dal 1889. L’Italia, rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali, è stata sempre più tollerante sia escludendo la pena capitale, sia legalizzando per prima i rapporti omosessuali.
[16] Poco prima del 1974 l’omosessualità era già stata depenalizzata in vari stati americani, tra cui l’Illinois, il Connecticut e il Colorado. Nella Germania dell’Est l’omosessualità è stata legalizzata nel 1968, nella Germania dell’Ovest nel 1969. In Francia l’omosessualità viene depenalizzata solo nel 1982, con la presidenza Mitterrand. Nel 1992 l’omosessualità cessa di essere patologia anche per l’ICD-10 dell’OMS.
[17] Si prevedeva in effetti il Disordine di Ipersessualità, che il DSM-5 ha annullato. Anche questa eliminazione segna un successo della filosofia utilitarista.
[18] In Italia l’incesto è illegale solo se causa “pubblico scandalo” (una condizione che oggi appare del tutto obsoleta).
 
[19] Tutte le citazioni qui riprodotte si riferiscono all’edizione originale inglese. Le traduzioni proposte sono opera di chi scrive.
[20] Corsivo dell’autore.
[21] E’ la conclusione a cui giungono in molti. Ad esempio Horgan (2013).
[22] Oggi all’”ossessivo” si aggiunge “compulsivo”, ma la sindrome è la stessa. Si è molto presa sul serio la pretesa dei DSM, dal II al quinto, di essere Freud-free, di non tenere in alcun conto la psicoanalisi. Eppure non trovo irrilevante il fatto che il DSM abbia adottato il termine freudiano “ossessivo”, e non ad esempio la „psicastenia“ di P. Janet che ha tratti comuni con la Zwangneurose di Freud; e nemmeno la “degenerazione” di Magnan, né la “costituzione emotiva” di Dupré, né la “nevrastenia” di Beard; descrizioni in qualche modo sovrapponibili alla diagnosi di nevrosi ossessiva-compulsiva. Come abbiamo detto, la versione americana della psicoanalisi continua in realtà a influenzare profondamente certe scelte diagnostiche dei DSM.
 
[23] Definizione di Newton: La vis insita, o forza innata della materia, è il potere di resistere attraverso il quale ogni corpo, in qualunque condizione si trovi, si sforza di perseverare nel suo stato corrente, sia esso di quiete o di moto lungo una linea retta.
[24] Goodman 1976, p. 13.
 

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