Prefazione del traduttore
L’infantilismo nella psicanalisi freudiana
Il lavoro scientifico è per noi l’unica via che crediamo possa condurci a conoscere la realtà fuori di noi. Sigmund Freud
La psicanalisi tratta la dimensione infantile dell’essere parlante. I complessi di Edipo e di castrazione sono i capisaldi del trattamento analitico. Freud stesso li chiamava shibboleth, baluardi della sua religione. Quanto da questo infantilismo, diciamo oggettivo, la psicanalisi resta affetta? La stessa dottrina psicanalitica sarebbe un infantilismo? I detrattori della psicanalisi lo pensano. Noi pure, ma con un granellino di sale, preso però dalla saliera di Freud stesso.
In questo testo Freud dà un’acuta spiegazione psicologica di come nasce la concezione antropomorfa della natura. Il bambino sperimenta che per influenzare un adulto e ottenerne, per esempio, quel che desidera, deve mettersi in rapporto con lui. Il bambino, diventato adulto, immagina che per ottenere qualcosa dalla natura, deve mettersi in rapporto con essa come faceva da piccolo con le persone del giro familiare. L’operazione antropomorfizza automaticamente la natura, che viene rappresentata come una persona da cui ottenere qualcosa. Allora i fenomeni della natura sono interpretati come prodotti di “piccoli uomini”, gli “omuncoli”, presenti in porzioni di materia. Sono, generalmente parlando, gli spiriti della natura e la concezione si chiama “spiritismo”. La versione astratta di questo antropomorfismo è la filosofia delle cause naturali. Nella versione aristotelica esistono le cause efficienti, che producono i fenomeni, e le cause finali, che regolano l’ordine del mondo. Ma sempre di visione antropomorfa si tratta. La metapsicologia freudiana delle pulsioni è una variante di tale antropomorfismo, quindi è infantile. Le pulsioni sono il “bambino” rimasto dentro l’uomo. Sono il bambino riottoso da punire con la rimozione. In questo senso la psicanalisi è infantilismo in senso soggettivo.
In “Futuro di un’illusione” Freud racconta un’altra storia infantile, precedente la pulsionale; è la storia dell’impotenza infantile, l’intraducibile Hilflosigkeit, letteralmente “mancanza di aiuto”. Il piccolo dell’uomo sperimenta presto che la realtà esterna è fuori dal suo dominio, quindi ostile. Perciò cerca riparo. Lo trova prima nella madre, che lo nutre, e poi nel padre. Con quest’ultimo il rapporto è più complesso, tecnicamente si dice ambivalente; significa che è un miscuglio di amore e odio. Il padre è odiato, perché rivale presso la madre, ma amato, perché protegge il piccolo dalle avversità della vita. (In tutto il testo Freud ignora la vicenda affettiva della bambina, da femmina ridotta a oggetto sessuale).
L’ambivalenza è la radice della nevrosi infantile coatta, che si configura come coesistenza di moti pulsionali affettivi e ostili rimossi, confluenti nell’amore-odio rivolto al padre, prima, e alla divinità che lo sostituisce, poi. Il lungo ragionamento freudiano è teso a dimostrare la parziale sovrapponibilità dei rapporti ostili e affettuosi con il padre, con Dio e con la società civile. In sintesi, il bambino, rimasto tale anche da adulto, tende a personificare le forze della natura e della società civile, al cui vertice sta Dio padre. La sintesi civile è un’illusione, un derivato di desideri umani, prima in forma di nevrosi coatta, poi di religione.
È nota la definizione freudiana di religione come nevrosi coatta universale. Come tale è eterna: il futuro è dalla sua, difesa com’è nella corazza dell’indimostrabilità, la perenne volontà d’ignoranza dell’uomo all’insegna di certezze dogmatiche, prima del bambino, poi dell’adulto. L’uomo di Dio è nelle sue certezze indimostrabili.
“Ma l’infantilismo non è forse destinato a essere superato?”, si chiede Freud verso la fine del saggio. Freud tratteggia un progetto di “irreligione”, governata, invece che dal desiderio pulsionale, dall’intelletto, la cui voce “è sommessa, ma non smette finché non trova ascolto”. Ma il progetto è vago, forse utopistico. L’illusione di essere protetti da una potenza amica è più forte della morte. Anche l’illusione psicanalitica, che riproduce l’infantile.
Con un granellino di sale, dicevo. Nell’ultimo capitolo del saggio Freud si sbilancia. Per uscire dall’infantilismo, l’unica via è la scienza, la voce dell’intelletto. È una via scabrosa, però, perché deve attraversare il campo minato dei tanti nemici, palesi e mascherati. Si resiste alla scienza perché smantella le certezze illusorie delle tante religioni, quelle con Dio e quelle senza Dio. L’Io non può vivere senza certezze, quindi se le crea, non importa se illusorie, purché siano incontrovertibili. L’Io, diventato Noi, è il baluardo antiscientifico, nemico delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, che destabilizzano le certezze acquisite. Lo diceva Galilei, che Freud non cita mai, ma di cui condivide lo spirito, almeno in questo scritto. Che andrebbe titolato “Il futuro della scienza”, certo meno radioso della religione.
Qui l’illusione sta tutta dalla parte di Freud. La religione è la nevrosi coatta universale, si diceva. D’accordo, ma esiste una terapia collettiva della religione come per la nevrosi individuale? Sarebbe ancora la psicanalisi? Freud lo sostiene, ma non ha argomenti decisivi. È la sua illusione, dovuta alla tipica carenza teorica freudiana. Freud non ha una teoria del collettivo, che riduce a massa di singoli identificati al Führer. L’individuo è ostile alla civiltà che gli impone il peso delle restrizioni pulsionali. Freud non va molto avanti con tale ideologia, che ignora le interazioni individuali. Se da 300.000 anni fa Homo sapiens si è imposto sul pianeta, una ragione ci deve essere. A mio parere è perché ha saputo inventare collaborazioni positive tra individui. Certo, ci sono anche le interazioni negative, le guerre (ma “solo” da 12.000 anni) e lo sfruttamento dei deboli. Ma la civiltà è un bene comune, nato da interazioni positive, che Freud non sa come far rientrare nella propria teoria delle masse, formate da individui, che non interagiscono tra di loro, la quale resta il vero e incrollabile infantilismo freudiano. Il termine Interaktion non ricorre nei testi freudiani. A noi freudiani tocca formulare un freudismo più adulto, meno ignorante. È il nostro Kulturarbeit, il nostro lavoro per la civiltà.
Da dove partiamo?
Direi dall’ultimo capitolo di Futuro di un’illusione, dove Freud propone la via d’uscita dall’infantilismo religioso. Si tratta di dar fiducia al giovane tentativo scientifico, un Davide rispetto al gigantesco e vetusto Golia religioso. Va subito detto, però, che la sparata finale di Freud a favore della scienza non è del tutto convincente. Per almeno due motivi: primo, Freud non precisa quale scienza intende; secondo, non dice in che senso vada intesa una psicanalisi scientifica. Resta fondamentale il carattere autocorrettivo della scienza, che la differenzia dalle immutabili e incorreggibili dottrine religiose. Ma la psicanalisi è autocorrettiva? Corregge i propri dogmi edipici? Qualche dubbio è lecito.
La sostanziale perplessità riguarda l’impostazione aristotelica della scientificità freudiana. Per Freud, come per Aristotele, la scienza è scire per causas; è, cioè, determinare la genesi dei fenomeni dalle loro cause prime, per Freud il parricidio e la castrazione. La genetica freudiana è psicogenesi, in controsenso ai tempi in cui vennero riscoperti i lavori fondamentali sulla genetica di Mendel, che Freud non riconobbe. La metapsicologia freudiana è la scienza delle cause efficienti e finali, che Freud chiamava pulsioni, rispettivamente sessuali e dell’Io. Da Freud, che parte dall’eziologia di Aristotele, non si arriva alla scienza galileiana. Galilei sospende il principio di ragion sufficiente: esiste un moto senza cause, il moto inerziale. Corpi di masse diverse, che cadono allo stesso modo, e il pendolo in moto potenzialmente infinito sono un paio di teoremi contro-intuitivi di Galilei. La pulsione di ripetizione, che Freud crede di aver scoperto, è, invece, un modello antropomorfo del moto pendolare, che Aristotele non trattò nella sua Fisica. Insomma, Freud come uomo di scienza non convince per tante ragioni. Ciò non toglie che abbia avuto un’intuizione scientifica formidabile, che non seppe sviluppare in modo galileiano, ma editò in formato aristotelico del tutto inadatto: l’invenzione dell’inconscio come sapere che non si sa di sapere. Fare una scienza rigorosa dell’inconscio, senza ricorrere ai modelli di conflittualità intrapsichica, ma sviluppando il discorso delle interazioni interindividuali, positive e negative, è il compito che Freud assegna ai suoi analisti, che hanno deciso di uscire dalla pseudoscienza metapsicologica.
C’è un futuro per loro o è solo un’illusione?
1
Avendo vissuto per un bel po’ di tempo in una certa civiltà, spesso sforzandosi di indagare sulle sue origini e sulla via del suo sviluppo; si prova a volte la tentazione di gettare uno sguardo anche nell’altra direzione e di porre la questione di quale lontano destino attenda questa civiltà e quali trasformazioni è stabilito che attraversi. Ma si nota subito che molti fattori svalutano sin dall’inizio tale ricerca, innanzitutto perché esistono solo poche persone in grado di dominare il meccanismo umano in tutte le sue estensioni. Per i più è stato necessario restringere il campo a un solo settore o a pochi; ma, tanto meno si sa del passato e del presente, tanto più insicuro deve riuscire il giudizio sul futuro. Inoltre, poiché proprio in tale giudizio giocano un ruolo difficilmente trascurabile le aspettative soggettive del singolo, che si dimostrano però dipendenti dai fattori puramente personali della propria esperienza, dal suo atteggiamento più o meno pieno di speranze nella vita, tale da attribuirle per temperamento il successo o l’insuccesso, alla fine si verifica il fatto strano che in generale gli uomini vivano il loro presente in modo ingenuo, senza poterne valutare il contenuto; devono prima prenderne le distanze, cioè il presente deve diventare passato, volendo ottenere da esso punti fermi per giudicare il futuro.
Chi dunque cede alla tentazione di esprimersi sul verosimile futuro della nostra civiltà farà bene a ricordare le sopra accennate perplessità, nonché l’incertezza inerente in generale a ogni previsione. Per me ne consegue che, sottrattomi in fretta al compito troppo vasto, mi dedicherò al piccolo settore, cui finora la mia attenzione si è rivolta, dopo averne definito a grandi linee solo la sua posizione.
La civiltà umana – intendo tutto ciò in cui la vita umana si è elevata al di sopra della condizione animale e si è differenziata dalla vita degli animali (ma disdegno distinguere fra civiltà e civilizzazione) – notoriamente presenta all’osservatore due aspetti. Da un lato, comprende tutto il sapere e il potere acquisiti dagli uomini per dominare le forze della natura e strapparle i beni necessari a soddisfare i bisogni umani; dall’altro lato, comprende tutte le istituzioni necessarie a regolare i rapporti degli uomini tra loro, in particolare la distribuzione dei beni raggiungibili. Le due direzioni della civiltà non sono tra loro indipendenti, per almeno tre ragioni; in primo luogo, perché le relazioni reciproche tra uomini sono profondamente influenzate dalla misura della soddisfazione pulsionale, resa possibile dai beni presenti; in secondo luogo, perché lo stesso singolo uomo può entrare in rapporto con un altro come bene, nella misura in cui quest’ultimo utilizza la sua forza lavoro o lo assume come oggetto sessuale; in terzo luogo, infine, perché ogni singolo individuo è virtualmente nemico della civiltà, che pure dovrebbe essere interesse umano generale. È strano che, per quanto poco riescano a vivere isolati, gli uomini avvertano tuttavia come pesantemente opprimente il sacrificio richiesto loro dalla civiltà per rendere la convivenza possibile. La civiltà va quindi difesa dal singolo: i suoi dispositivi, istituzioni e imperativi si pongono al servizio di tale compito; mirano non solo a produrre una certa distribuzione di beni, ma anche a mantenerla, e devono in effetti proteggere contro i moti ostili degli uomini ciò che serve a dominare la natura e a produrre beni. Le creazioni umane sono facili da distruggere; la scienza e la tecnica, che le hanno costruite, si possono applicare anche ad annientarle.
Si ha così l’impressione che la civiltà sia qualcosa di imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che ha capito come impossessarsi del potere e dei mezzi di costrizione. Naturalmente, è ovvio assumere che queste difficoltà non appartengano all’essenza della civiltà in sé, ma siano condizionate dalle imperfezioni delle forme di civiltà finora sviluppate. Di fatto non è difficile mostrare tali difetti. Mentre l’umanità ha fatto costanti progressi nel dominio della natura, e ancora se ne possano attendere di maggiori, un analogo progresso nel regolare gli affari umani non può essere sicuramente accertato ed è verosimile che in ogni tempo, come di nuovo anche oggi, molti uomini si siano chiesti se questa parte delle conquiste della civiltà valesse davvero la pena di essere difesa.
Si dovrebbe pensare che debba essere possibile una nuova regolazione dei rapporti umani che, rinunciando a costringere e a reprimere le pulsioni, annulli le fonti d’insoddisfazione connesse alla civiltà, in modo che, non più travagliati dal dissidio interno, gli uomini possano dedicarsi totalmente ad acquisire beni e a goderne. Sarebbe l’età dell’oro, ma c’è da chiedersi se uno stato simile sia realizzabile. Sembra piuttosto che ogni civiltà debba costruirsi sulla costrizione e sulla rinuncia pulsionale. Non sembra neppure certo che, una volta cessata la costrizione, la maggioranza degli individui umani sia pronta ad assumersi il lavoro necessario ad acquisire nuovi beni vitali. A mio parere va tenuto conto del fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, quindi antisociali e anti-civili, e che in un gran numero di persone sono abbastanza forti da determinarne il comportamento nella società umana.
A tale dato psicologico spetta un’importanza decisiva per giudicare la civiltà umana. Si potrebbe a tutta prima pensare che per la civiltà l’essenziale sia il dominio della natura per produrre i beni vitali e che, con la loro distribuzione finalizzata tra gli uomini, i pericoli che minacciano la civiltà possano essere messi da parte, ma il peso maggiore sembra ora spostarsi dal materiale allo psichico. Sarà decisivo se e in che misura si riesca a ridurre il peso del sacrificio pulsionale imposto agli uomini, a conciliarlo con le pulsioni che necessariamente permangono e così risarcirle. Non si può evitare che una minoranza domini la massa, costringendola a lavorare per la civiltà; infatti, le masse sono pigre e prive di giudizio; non amano le rinunce pulsionali; l’argomento della loro inevitabilità non le convince e gli individui che ne fanno parte si rinforzano reciprocamente nell’esaudire la loro sfrenatezza. Solo l’influenza di individui esemplari, riconosciuti come loro capi, può spingerli a prestare lavoro e alle rinunce da cui la civiltà dipende. Va tutto bene se questi capi sono persone di discernimento superiore rispetto alle necessità della vita, che si sono elevate dominando i propri desideri pulsionali. Ma in questo caso c’è il pericolo che, per non perdere la loro influenza, concedano alla massa più di quanto essa non conceda loro; sembra allora necessario che i capi siano indipendenti dalle masse disponendo di strumenti di potere. Per farla breve, sono due le qualità umane diffuse, cui addebitare il mantenimento delle istituzioni civili solo grazie a una certa quota di costrizione: spontaneamente gli uomini non amano il lavoro e gli argomenti non possono nulla contro le loro passioni.
So cosa si obietta a tali argomentazioni. Si dice che il carattere delle masse umane qui delineato, destinato a dimostrare l’indispensabilità di costringere al lavoro della civiltà, consegue di per sé solo a istituzioni civili difettose, per cui gli uomini esacerbati sono diventati vendicativi e inaccessibili. Le nuove generazioni, amorevoli ed educate a valutare altamente il pensiero, avendo sperimentato sin dai primi anni di vita i benefici della civiltà, avranno anche nei suoi confronti un comportamento diverso, sentendola come il loro patrimonio più proprio, e saranno quindi pronte al lavoro e a sacrificare per essa la soddisfazione pulsionale, mezzi ambedue necessari a mantenerla. Potranno fare a meno della costrizione e differenziarsi poco dai loro capi. Se finora masse umane di tale qualità non sono esistite in nessuna civiltà è perché nessuna ha imbroccato le istituzioni giuste per influire in tale misura sugli uomini e fin dall’infanzia.
Si può in proposito dubitare se sia possibile in genere o sin da ora, nelle condizioni attuali del nostro dominio sulla natura, instaurare tali istituzioni civili; si può sollevare la questione di dove reclutare i numerosi capi di elevato sentire, rigorosi e disinteressati, destinati a educare le future generazioni; può spaventare il mostruoso impiego di costrizione, comunque inevitabile, prima di raggiungere questi scopi. La grandiosità del piano, la sua importanza per il futuro della civiltà umana sono incontestabili. Una base sicura sta nella considerazione psicologica che l’uomo è dotato delle più svariate disposizioni pulsionali, cui le precoci esperienze infantili imprimono la direzione definitiva. Ma proprio per questo i limiti dell’educabilità umana impongono confini ben precisi anche all’efficacia di tale trasformazione della civiltà. Si può dubitare se e in che misura un altro costume civile possa eliminare le due caratteristiche delle masse che tanto peso hanno nel condurre le faccende umane. Non è stato ancora fatto l’esperimento. Verosimilmente, come conseguenza di una disposizione morbosa o di un eccesso di forza pulsionale, una certa percentuale del genere umano rimarrà sempre asociale; ma, se solo si riuscisse a far diventare minoranza l’attuale maggioranza ostile alla civiltà, si sarebbe ottenuto molto, forse tutto ciò che si può ottenere.
Non vorrei dare l’impressione di aver sviato troppo dal cammino prescritto alla mia ricerca. Voglio perciò espressamente assicurare che è lungi da me giudicare il grande esperimento di civiltà attualmente intrapreso nel vasto paese esteso fra Europa e Asia. Non ho né competenze né capacità per decidere sulla sua fattibilità, per dimostrare l’efficacia dei mezzi impiegati o per misurare la profondità dell’inevitabile abisso tra le intenzioni e le realizzazioni. In quanto incompiuto, ciò che là si prepara si sottrae all’esame, cui offre invece materia la nostra civiltà consolidata da tempo.
2
Improvvisamente siamo scivolati dall’economico allo psicologico. All’inizio eravamo tentati di cercare il patrimonio della civiltà nei beni esistenti e nelle istituzioni per ripartirli. Riconoscendo che ogni civiltà poggia sulla costrizione al lavoro e sulla rinuncia pulsionale e che perciò inevitabilmente suscita opposizione nei soggetti a tali pretese, dovrebbe essere chiaro che i beni stessi, i mezzi per acquisirli e le norme per ripartirli non possono essere l’essenziale o il fattore esclusivo della civiltà, essendo, infatti, minacciati dalla ribellione e dalla voglia di distruzione dei componenti della civiltà. Accanto ai beni compaiono ora i mezzi che possono servire a difendere la civiltà, i mezzi di costrizione o di altro genere che dovrebbero riuscire a riconciliare gli uomini con la civiltà e a indennizzarli per i sacrifici. Ma questi ultimi si possono descrivere come il patrimonio psichico della civiltà.
Per amore di uniformità terminologica vogliamo chiamare “interdizione” [Versagung] il fatto di non potere soddisfare una pulsione, “divieto” [Verbot] l’ordinamento che istituisce tale interdizione, e “privazione” [Entbehrung] la condizione prodotta dal divieto. Allora il passo successivo è distinguere tra le privazioni che toccano tutti e quelle che non toccano tutti, ma solo gruppi, classi o singoli individui. Le prime sono le più antiche; con i divieti che le istituirono, la civiltà iniziò a distaccarsi dalla primitiva condizione animale, non sappiamo quante migliaia di anni fa. Con nostra sorpresa abbiamo trovato che queste privazioni sono ancora avvertite come tali e formano tuttora il nocciolo ostile contro la civiltà. I desideri pulsionali, che ne soffrono, rinascono in ogni bambino; esiste una classe di uomini, i nevrotici, che reagiscono già con l’asocialità a tali interdizioni. I desideri pulsionali sono l’incesto, il cannibalismo e la sete di sangue. Suona strano mettere insieme desideri, che tutti gli uomini sembrano concordi a rigettare [Verwerfung], con desideri in relazione ai quali c’è viva contesa nella nostra civiltà se ammetterli o interdirli; ma, l’accostamento è psicologicamente legittimo. Anche il comportamento civile verso questi antichi desideri pulsionali non è per nulla uguale; solo il cannibalismo sembra vietato da tutti e, alla considerazione non analitica, del tutto superato; possiamo ancora avvertire la forza dei desideri incestuosi dietro il divieto; l’omicidio è nella nostra civiltà in certe circostanze ancora esercitato, addirittura comandato. È possibile che incombano su di noi sviluppi di civiltà, in cui ancora altre soddisfazioni di desiderio, oggi del tutto lecite, appariranno tanto inaccettabili quanto ora il cannibalismo.
Già per tali antichissime rinunce pulsionali entra in gioco un fattore psicologico molto importante anche per tutte le ulteriori. Non è vero che sin dai tempi più antichi l’anima umana non abbia compiuto alcuna evoluzione e che, in contrasto con i progressi della scienza e della tecnica, sia ancora oggi quella che era all’inizio della storia. Possiamo qui documentare uno di questi progressi psichici.
È nel senso della nostra evoluzione che la costrizione esterna a poco a poco si interiorizzi, mentre una particolare istanza psichica, il Super-Io dell’uomo, la assume fra i suoi precetti. Ogni bambino ci presenta il processo di simile trasformazione; solo grazie ad essa diventa morale e sociale. Il consolidamento del Super-Io è un patrimonio civile di alto valore psicologico. Le persone in cui si è compiuto diventano, da nemici della civiltà, suoi portatori. Quanto più numerosi sono nell’ambito di una civiltà, tanto più è sicura e tanto prima potrà fare a meno dei mezzi di costrizione esterna. La misura di tale interiorizzazione è ora assai diversa per i singoli divieti pulsionali. Per le citate più antiche pretese della civiltà, a parte l’indesiderata eccezione dei nevrotici, l’interiorizzazione sembra giunta a un alto livello.
Il comportamento cambia, rivolgendosi ad altre pretese pulsionali. Con sorpresa e preoccupazione si osserva che molti uomini obbediscono ai corrispondenti divieti della civiltà solo se pressati dalla costrizione esterna, ossia solo là dove si può far valere e finché è temibile. Ciò riguarda anche le cosiddette pretese morali della civiltà, determinate allo stesso modo per tutti. La maggior parte di ciò che sperimentiamo in fatto di umana disonestà rientra qui. Moltissimi uomini civili, che indietreggiano inorriditi di fronte all’omicidio o all’incesto, non si interdicono di soddisfare la loro avidità, le loro voglie aggressive, le loro bramosie sessuali, e non si astengono dal danneggiare gli altri con la menzogna, l’inganno, la calunnia, se possono restare impuniti; è certo sempre stato così da molte epoche di civiltà.
Nelle limitazioni riferite solo a determinate classi delle società, si trovano situazioni grossolane, mai del resto misconosciute. Ci si aspetta che le classi svantaggiate invidino i privilegi delle elevate e facciano di tutto per sbarazzarsi del proprio “di più” di privazione. Dove ciò non sia possibile, si affermerà all’interno di tale civiltà un’insoddisfazione durevole, tale da portare a pericolose ribellioni. Ma, se una civiltà non ha superato Io stadio in cui soddisfare un certo numero di suoi membri presuppone opprimerne altri, forse la loro maggioranza, ed è il caso di tutte le civiltà contemporanee, è comprensibile che gli oppressi sviluppino un’intensa ostilità contro la civiltà prodotta dal loro lavoro, ma [nella distribuzione] dei cui beni hanno una parte irrilevante. Non possiamo dunque attenderci che gli oppressi interiorizzino i divieti della civiltà; anzi, non sono disposti a riconoscerli; i loro sforzi tendono a distruggere la civiltà stessa e a eliminarne se mai i presupposti. L’ostilità di tali classi verso la civiltà è talmente palese, che di fronte ad essa l’ostilità più latente degli strati sociali favoriti non è stata neppure notata. Non c’è bisogno di dire che la civiltà che lascia insoddisfatto un numero così grande di membri, spingendoli alla ribellione, non ha prospettive né merita di durare a lungo.
Per valutare una civiltà, il livello d’interiorizzazione delle sue prescrizioni (che, detto in termini popolari e non psicologici, coincide con il livello morale dei suoi membri) non è l’unico bene psichico da considerare. Accanto c’è il patrimonio d’ideali e di creazioni artistiche, con le connesse soddisfazioni da entrambi.
Si è fin troppo inclini a includere tra le proprietà psichiche di una civiltà gli ideali, cioè i valori considerati più elevati e le prestazioni perseguite al di sopra tutto. A prima vista sembra che tali ideali determinino le opere realizzate nell’ambito della civiltà; ma in realtà è più probabile che i primi risultati della cooperazione tra doti interne e circostanze esterne, favorevoli a una certa civiltà, abbiano formato gli ideali; a sua volta, poi, l’ideale continuerebbe a fissare i primi risultati. La soddisfazione che l’ideale dà ai membri di una civiltà è quindi di natura narcisistica; poggia sull’orgoglio per la prestazione già andata a buon fine. Perché la soddisfazione sia completa, occorre il confronto con altre civiltà, impegnate in altri opere, che sviluppano altri ideali. In virtù di tali differenze ogni civiltà si arroga il diritto di svalutare le altre. Così gli ideali propri di ogni civiltà divengono occasione di divisione e di inimicizia tra ambiti civili diversi, come è al massimo evidente fra le nazioni.
La soddisfazione narcisistica dell’ideale civile appartiene anche alle forze che contrastano con successo l’ostilità alla civiltà nell’ambito culturale. Possono prender parte a tale soddisfazione non solo le classi privilegiate, che godono i benefici di tale civiltà, ma anche gli oppressi, in quanto l’autorizzazione a disprezzare gli esclusi li risarcisce del danno subito all’interno del proprio stesso ambito. Uno è un misero plebeo, tormentato dai debiti e dal servizio militare, ma in compenso è un Romano; in quanto tale partecipa al compito di dominare altre nazioni e di prescrivere loro le leggi. L’identificazione degli oppressi con la classe che li domina e li sfrutta fa parte però di un contesto più ampio. Possono del resto essere affettivamente legati alla classe dominante, e, nonostante l’ostilità, possono scorgere nei padroni i loro ideali. Se tali relazioni non fossero in fondo soddisfacenti, sarebbe incomprensibile come tante civiltà siano durate così a lungo, nonostante la giustificata ostilità di grandi masse di uomini.
D’altro tipo è la soddisfazione garantita dall’arte ai membri di una certa civiltà, sebbene resti di regola inaccessibile alle masse, impegnate in un lavoro spossante e senza poter usufruire di un’istruzione personale. Come da tempo abbiamo appreso, l’arte offre soddisfazioni sostitutive per le più antiche rinunce imposte dalla civiltà (ancora oggi sono le rinunce più profondamente sentite) e contribuisce perciò come null’altro a riconciliare l’uomo con i sacrifici in nome della civiltà stessa. D’altronde le creazioni dell’arte promuovono i sentimenti d’identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate; giovano però anche alla soddisfazione narcisistica, perché raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà, alludendo ai suoi ideali in modo impressionante.
Non è stata ancora citata la parte forse più importante dell’inventario psichico di una civiltà. Sono, nel senso più lato, le sue rappresentazioni religiose ossia, per usare un termine da giustificare in seguito con altre parole, le sue illusioni.
3
Dove sta il particolare valore delle rappresentazioni religiose?
Abbiamo parlato di ostilità alla civiltà, prodotta dalla pressione che la civiltà esercita e dalle rinunce pulsionali che esige. Pensando di annullare le loro proibizioni, si potrebbe allora scegliere ogni donna che ci piace come oggetto sessuale, si potrebbe senza esitare uccidere il rivale per la donna o chiunque altro ci sbarri la strada, si potrebbe portar via all’altro qualunque suo bene, senza chiedergli permesso; che bello, che catena di soddisfazioni sarebbe allora la vita! Certo, si troverebbe subito l’immediata difficoltà. Ogni altro avrebbe esattamente gli stessi miei desideri e non mi tratterebbe meglio di come io tratterei lui. In fondo, dunque, uno solo potrebbe diventare felice senza limiti, una volta abolite tutte le restrizioni della civiltà: il tiranno, il dittatore, che si fosse appropriato di tutti gli strumenti del potere; ma anch’egli avrebbe ogni ragione per desiderare che gli altri osservassero almeno quest’unico comandamento della civiltà: “Non uccidere”.
Ma come ingrato e soprattutto miope sarebbe mirare ad annullare la civiltà! Ciò che poi resta è lo stato di natura, molto più gravoso da sopportare. È vero, la natura non esige da noi limitazioni pulsionali, ci lascia fare, ma ha un suo modo particolarmente efficace di limitarci: ci ammazza in modo freddo, crudele, che sembra senza riguardi, magari proprio nelle occasioni della nostra soddisfazione. Proprio a causa dei pericoli, con cui la natura ci minaccia, ci siamo messi insieme e abbiamo creato la civiltà, che fra l’altro deve anche rendere possibile convivere. Compito principale della civiltà, la sua vera e propria ragion d’essere è difenderci dalla natura.
È noto che per taluni aspetti ci riesce fin da ora discretamente bene e chiaramente un giorno futuro lo farà molto meglio. Ma nessun uomo si lascia andare all’inganno di credere che la natura sia ormai già soggiogata; pochi osano sperare che sarà mai del tutto soggetta all’uomo. Ecco gli elementi che sembrano irridere ogni costrizione umana; la terra trema, si squarcia e seppellisce tutto ciò che è umano ed è opera dell’uomo; l’acqua, sollevandosi inonda e annega tutto; la tempesta spazza via tutto; ecco le malattie, in cui solo da poco ravvisiamo gli attacchi di altri organismi viventi; ed ecco, infine, l’enigma doloroso della morte, contro cui nessuna erbetta è stata finora trovata né verosimilmente si troverà mai. Con tali violenze la natura ci si erge contro, immensa, crudele, spietata, e torna a metterci davanti agli occhi la nostra debolezza e l’impotenza, cui pensavamo di esserci sottratti con il lavoro della civiltà. Una delle poche impressioni gioiose ed esaltanti che si possono avere dall’umanità è che di fronte a una catastrofe naturale, gli uomini dimenticano le lacerazioni della loro civiltà e tutte le difficoltà e ostilità interne, rammentando il grande compito comune di conservarla contro lo strapotere della natura.
Come per l’insieme dell’umanità, anche per il singolo individuo la vita è dura da sopportare. Una dose di privazione gliela impone la civiltà di cui fa parte; una dose di sofferenza gliela somministrano gli altri uomini o a dispetto di quanto la civiltà sancisce o a causa dell’imperfezione della civiltà stessa. A ciò si aggiunga il danno che l’invitta natura – l’uomo la chiama destino – gli arreca. La conseguenza di questa condizione dovrebbe essere il permanente angoscioso stato di attesa e la pesante offesa del narcisismo naturale. Già sappiamo come l’individuo reagisce alle offese che gli arrecano la civiltà e gli altri uomini, sviluppando un grado adeguato di resistenza agli ordinamenti della civiltà, di ostilità nei suoi confronti. Ma come si difende contro lo strapotere della natura, del destino, che minacciano lui e tutti gli altri?
La civiltà lo esime da tale prestazione; se ne assume l’onere per tutti allo stesso modo; è inoltre notevole che quasi tutte le civiltà facciano in questo caso lo stesso. La civiltà quasi non cessa di assolvere il compito di difendere l’uomo dalla natura; lo prosegue solo con altri mezzi. Il compito è molteplice: l’alto concetto che l’uomo ha di sé, gravemente minacciato, esige consolazione; gli orrori del mondo e della vita vanno estirpati e anche l’umana brama di sapere, di certo spinta dal più forte interesse pratico, pretende una risposta.
Con il primo passo si è già ottenuto moltissimo, umanizzando la natura. Alle forze e ai destini impersonali non ci si può accostare; restano eternamente estranei. Ma se negli elementi infuriano passioni come nella nostra anima, se la morte stessa non è nulla di spontaneo, ma l’atto violento di una volontà maligna, se ovunque nella natura abbiamo attorno a noi esseri come quelli che conosciamo nella nostra società, allora respiriamo; ci sentiamo a casa nell’inquietante; possiamo elaborare psichicamente la nostra insensata angoscia. Forse siamo ancora indifesi, ma non più paralizzati senza aiuto; possiamo almeno reagire; anzi, forse non siamo nemmeno indifesi; possiamo impiegare contro questi violenti superuomini esterni gli stessi mezzi di cui ci serviamo nella nostra società; possiamo tentare di scongiurarli, di placarli, di corromperli e così influenzandoli di privarli di parte del loro potere. Sostituire così la scienza naturale con la psicologia non dà solo un sollievo immediato, indica anche la via verso l’ulteriore superamento della situazione.
Infatti, la situazione non è nuova; ha un modello infantile di cui, in verità, non è altro che la prosecuzione; infatti, già una volta ci siamo trovati altrettanto inermi, da bambini piccoli di fronte ai genitori, che avevamo ragione di temere, soprattutto il padre, pur essendo sicuri della sua protezione contro i pericoli che allora conoscevamo. Fu quindi evidente assimilare le due situazioni. Inoltre, come nella vita onirica, il desiderio vi trovò il proprio tornaconto. Un presagio di morte assale chi dorme; vuole trasportarlo nella tomba, ma il lavoro onirico sa scegliere la condizione per cui perfino tale evento temuto diventa appagamento di desiderio: il sognatore si vede in un’antica tomba etrusca, dove era sceso, felice di poter soddisfare i propri interessi archeologici. In modo analogo l’uomo non trasforma le forze della natura semplicemente in uomini con cui aver relazioni come con i propri simili, cosa non conforme all’impressione schiacciante che ha di queste forze, ma conferisce loro il carattere del padre, ne fa degli dei, conformandosi in ciò non solo a un modello infantile, ma anche, come ho tentato di mostrare, filogenetico.
Con il tempo si fanno le prime osservazioni sulla regolarità dei fenomeni naturali e sulla loro conformità a leggi; così le forze della natura perdono i loro tratti umani. Ma l’impotenza dell’uomo resta e con essa l’ardente desiderio del padre e degli dei. Gli dei mantengono il loro triplice compito: esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del destino, specie come si manifesta nella morte, risarcirci delle sofferenze e delle privazioni imposte all’uomo dalla convivenza civile.
Ma a poco a poco all’interno di queste prestazioni l’accento si sposta. Si nota che i fenomeni naturali si sviluppano da soli per necessità interne; certo, gli dei sono i signori della natura; così l’hanno regolata e ora possono lasciarla a sé stessa. Solo occasionalmente, nei cosiddetti miracoli, intervengono nel corso dei fenomeni naturali, come per rassicurarci che non hanno ceduto nulla della loro originaria sfera di potere. Per quanto riguarda la distribuzione dei destini, resta lo sgradevole sospetto che sia impossibile rimediare all’incertezza e all’abbandono in cui il genere umano versa. È più facile qui che gli dei falliscano; se sono loro a creare il destino, occorre dichiararne insondabili i decreti; il popolo più dotato dell’antichità ebbe l’intuizione crepuscolare che la Moira sovrastasse gli dei e che gli dei stessi avessero i loro destini. E, quanto più la natura diventa autonoma e gli dei se ne ritraggono, tanto più seriamente tutte le aspettative si concentrano sulla terza prestazione loro attribuita e tanto più il loro dominio proprio diventa quello della morale. Agli dei tocca ora di compensare alle mancanze e ai mali della civiltà, di occuparsi delle sofferenze che gli uomini si infliggono l’un l’altro nella vita comune, di vigilare sull’attuazione delle norme civili che gli uomini seguono così male. Alle stesse prescrizioni civili si attribuisce origine divina; sono innalzate al di sopra della società umana, si estendono alla natura e agli eventi del mondo.
Si crea così un tesoro di rappresentazioni, nate dal bisogno di rendere sopportabile l’impotenza umana, costruite con il materiale dei ricordi dell’impotenza propria e dell’infanzia del genere umano. È chiaramente riconoscibile che questo patrimonio protegge l’uomo in due sensi: contro i pericoli della natura e del destino, e contro i danni della stessa società umana. Nel contesto significa: la vita in questo mondo serve a uno scopo più alto, non certo facile da indovinare, ma che certo significa il perfezionamento dell’essere umano. Verosimilmente, l’oggetto di tale elevazione ed esaltazione deve essere la parte spirituale dell’uomo, l’anima, che, in modo lento e riluttante, nel corso dei tempi si è separata dal corpo. Tutto ciò che va da sé in questo mondo esprime gli intenti di un’intelligenza a noi superiore, che, pur attraverso giri e rigiri difficili da seguire, volge da ultimo tutto al bene, cioè in modo per noi piacevole.
Su ciascuno di noi veglia una provvidenza benigna, solo apparentemente severa, che non ci consente di diventare giocattolo delle strapotenti e spietate forze della natura; la morte stessa non è annientamento, il ritorno all’inorganica assenza di vita, ma l’inizio di una nuova forma di esistenza, sulla via di un superiore sviluppo. E, rivolgendosi nell’altra direzione, le stesse leggi morali, che le nostre civiltà hanno istituito, dominano anche il divenire universale, e una suprema istanza di giustizia, dotata di un potere e di una coerenza in modo incomparabile più grandi, le mantiene in vigore. Alla fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione, se non già in questa forma di vita, nelle ulteriori esistenze che iniziano dopo la morte. Così i terrori, le sofferenze e le asperità della vita sono destinati a estinguersi; la vita che inizia dopo la morte, continuando la nostra esistenza terrena, porta a compimento le cose di cui qui abbiamo forse sentito la mancanza, così come la parte invisibile dello spettro si aggiunge a quella visibile. E la saggezza superiore, che dirige questo corso di eventi, l’infinita bontà che esprime, la giustizia che attua, sono le qualità degli esseri divini, che hanno creato noi e tutto il mondo, o piuttosto dell’unico essere divino in cui, nella nostra civiltà, si sono condensati tutti gli dei del passato.
Il popolo che per primo riuscì a concentrare gli attributi divini fu non poco fiero del progresso. Aveva portato alla luce il nucleo paterno, da sempre rimasto nascosto dietro ogni figura divina; in fondo si trattò del ritorno alle origini storiche dell’idea di Dio. Ora, poiché Dio era uno, le relazioni con Lui potevano riacquistare l’intimità e l’intensità del rapporto del bambino con il padre. Avendo fatto tanto per il padre, si pretendeva però anche di essere ricompensati, essere almeno l’unico bambino amato, il popolo eletto. Molto più tardi la pia America pretese di essere God’s own country e, per una delle forme in cui gli uomini onorano la divinità, la cosa è pertinente.
Le rappresentazioni religiose sopra riassunte hanno naturalmente attraversato una lunga evoluzione, fissata in diverse fasi da diverse civiltà. Ho scelto una sola di queste fasi evolutive, corrispondente all’incirca all’ultima forma assunta nella nostra attuale civiltà bianca, cristiana. È facile notare che non tutti i pezzi di questo mosaico si accordano tra loro ugualmente bene; non a tutte le domande urgenti c’è risposta; la contraddizione dell’esperienza quotidiana si può respingere solo a fatica. Ma, così come sono, tali rappresentazioni, religiose nel senso più ampio, sono apprezzate come il valore più alto che la civiltà ha da offrire ai suoi membri, un valore ritenuto più alto di tutte le arti di carpire alla terra i suoi tesori, di provvedere a sostentare il genere umano o di preservarlo dalle malattie e così via. Gli uomini pensano di non poter sopportare la vita senza attribuire il valore per loro rivendicato. Occorre ora chiedersi cosa tali rappresentazioni siano alla luce della psicologia, donde traggano l’alta considerazione in cui sono tenute, e, per fare un timido passo avanti, quale ne sia il valore reale.
4
Una ricerca che proceda indisturbata come un monologo non è del tutto innocua. È troppo facile cedere alla tentazione di tralasciare pensieri che vorrebbero interromperla; in cambio si genera un senso di insicurezza che alla fine si pretende superare troppo decisamente. Allora mi immagino un oppositore, che segua la mia esposizione con diffidenza e a cui cedo di volta in volta la parola.
Gli sento dire: “Lei ha ripetutamente usato le espressioni: la civiltà crea queste rappresentazioni religiose; la civiltà le mette a disposizione dei suoi membri. C’è qualcosa di strano in questo; io stesso non saprei dire perché, ma non è ovvio come dire che la civiltà ha creato gli ordinamenti per ripartire gli utili del lavoro o per i diritti di donne e bambini”.
Tuttavia, ritengo giustificato esprimersi così. Ho cercato di mostrare che le rappresentazioni religiose risultano dallo stesso bisogno di tutte le altre acquisizioni della civiltà, dalla necessità di difendersi dallo schiacciante strapotere della natura. A ciò si aggiunga un secondo motivo: la spinta a correggere le imperfezioni della civiltà, dolorosamente avvertite. È inoltre particolarmente pertinente dire che la civiltà dona tali rappresentazioni al singolo, che se le trova dinanzi belle e fatte, non essendo in grado di trovarle da sé. È l’eredità di molte generazioni, in cui si entra adottandola come la tavola pitagorica, la geometria e altro. Certo, in questo caso c’è una differenza, che però sta altrove e per ora non si può chiarire. Al senso di estraneità da lei citato può contribuire che il patrimonio di rappresentazioni religiose ci si presenti di solito come rivelazione divina. Ciò fa però già parte del sistema religioso e prescinde del tutto dall’evoluzione storica di queste idee a noi nota e dalle loro differenze in epoche e civiltà differenti.
“Un altro punto mi sembra più importante. Lei fa risultare l’umanizzazione della natura dal bisogno degli uomini di por fine alla loro incertezza e impotenza di fronte alle sue temute forze, di mettersi in relazione con esse e, da ultimo, di influire su di esse\. Ma tale motivo sembra superfluo. L’uomo primitivo non ha scelta; non ha altro modo di pensare. Per lui proiettare il proprio essere nel mondo esterno, considerando tutti gli eventi che osserva alla stregua di manifestazioni di esseri in sostanza simili a lui, è naturale; per così dire, è innato. È l’unico suo metodo per comprendere. E non è affatto ovvio; è piuttosto una curiosa coincidenza che, assecondando così la sua disposizione naturale, gli debba riuscire di soddisfare uno dei suoi grandi bisogni”.
Non lo trovo così sorprendente. O lei crede che il pensiero umano non conosca motivi pratici e sia la semplice espressione di una brama di sapere disinteressata? Ma ciò è molto inverosimile. Credo piuttosto che, personificando le forze naturali, l’uomo segua un modello infantile. Dalle persone del suo primo ambiente ha appreso che stabilire un rapporto con loro è il modo d’influire su di loro; perciò, più tardi, tratta tutto ciò che incontra come quelle persone con lo stesso intento. Non mi oppongo alla sua osservazione descrittiva; per l’uomo è realmente naturale personificare tutto ciò che vuole comprendere, per poterlo poi dominare: il dominio psichico prepara quello fisico; ma fornisco motivo e genesi di tale proprietà del pensiero umano.
“E ora ancora un terzo punto. Lei ha già trattato l’origine della religione nel suo libro Totem e tabù. Ma lì sembra messa in modo diverso: tutto sta nel rapporto padre-figlio; Dio è il padre elevato; la nostalgia del padre è la radice del bisogno religioso. In seguito, pare, lei ha scoperto il fattore della debolezza e dell’impotenza umane, cui in genere si attribuisce la funzione più rilevante nel formarsi della religione; ora lei riconduce all’impotenza tutto ciò che prima era complesso paterno. Posso chiederle informazioni sulla trasformazione?”
Volentieri, aspettavo solo quest’invito. Sempre che sia realmente una trasformazione. In Totem e tabù non si doveva chiarire l’origine delle religioni, ma solo del totemismo. Può lei, partendo da uno qualunque dei punti fermi a lei noti, rendere comprensibile che la prima forma in cui la divinità protettrice si manifestò all’uomo fu quella di un animale, che esisteva il divieto di uccidere e mangiare quest’animale e che tuttavia c’era la solenne usanza di ucciderlo e di mangiarlo in comune una volta all’anno? Proprio questo ha luogo nel totemismo. Non serve discutere se si debba chiamare religione il totemismo, che ha connessioni interne con le più tarde religioni in cui compaiono dei: gli animali totemici diventano animali sacri degli dei. E le prime, ma anche le più radicate, restrizioni morali – la proibizione dell’omicidio e dell’incesto – nascono sul terreno del totemismo. Che accetti o no le conclusioni di Totem e tabù, lei converrà, spero, che nel libro un certo numero di fatti sparsi assai strani sia stato unificato in un tutto coerente.
In Totem e tabù si è appena sfiorato perché a lungo andare il dio animale non bastò più e fu sostituito dall’umano; non vi si menzionano altri problemi della formazione della religione. Lei ritiene che simile limitazione sia rinnegare? Il mio lavoro è un buon esempio di rigoroso isolamento della parte che la trattazione psicanalitica può offrire alla soluzione del problema religioso. Se ora cerco di aggiungere il resto, celato meno profondamente, lei non mi può accusare di contraddizione, come prima di unilateralità. È naturalmente mio compito mostrare le connessioni fra ciò che è stato detto prima e ciò che si formula ora, ossia fra la motivazione più profonda e quella manifesta, fra il complesso paterno, l’impotenza e il bisogno di protezione dell’uomo.
I collegamenti non sono difficili da trovare. Sono le relazioni tra l’impotenza del bambino e in seguito dell’adulto, cosicché, com’era da aspettarsi, la motivazione psicanalitica del formarsi della religione diventa il contributo infantile alla sua motivazione manifesta. Trasferiamoci nella vita psichica del bambino piccolo. Lei ricorda la scelta oggettuale del tipo “per appoggio”, di cui parla la psicanalisi? La libido segue la via dei bisogni narcisistici e si fissa agli oggetti che ne assicurano la soddisfazione. Così la madre, che soddisfa la fame, diventa il primo oggetto d’amore e certo anche la prima difesa contro tutti i pericoli indeterminati incombenti nel mondo esterno; possiamo dire che diventa la prima protezione contro l’angoscia.
In tale funzione la madre è presto sostituita dal padre più forte, cui resta connessa per tutta l’infanzia. Ma il rapporto con il padre è affetto da una tipica ambivalenza. Era lui stesso un pericolo, forse per il suo precedente rapporto con la madre. Lo si teme quindi non meno di quanto lo si desideri ardentemente e lo si ammiri. I segni dell’ambivalenza del rapporto paterno sono impressi profondamente in tutte le religioni, come anche Totem e tabù precisa. Ora, quando l’individuo, crescendo, si accorge di essere destinato a restare per sempre bambino, di non poter mai fare a meno di tutelarsi contro potenze superiori sconosciute, presta loro i tratti della figura paterna; si crea degli dei, che teme e cerca di conquistare, cui trasferisce la sua protezione. Il motivo della nostalgia del padre coincide pertanto con il bisogno di protezione contro le conseguenze dell’impotenza umana; la difesa dall’impotenza infantile presta i suoi tratti caratteristici al modo di reagire alla propria impotenza, che l’adulto deve riconoscere proprio nella formazione della religione. Ma non è nostra intenzione studiare ulteriormente l’evoluzione dell’idea di Dio; qui abbiamo a che fare con il tesoro già costituito delle rappresentazioni religiose, così come la civiltà lo trasmette al singolo individuo.
5
Per riprendere il filo della ricerca, qual è dunque il significato psicologico delle rappresentazioni religiose, ossia come possiamo classificarle? È tutt’altro che facile rispondere subito alla domanda. Scartate diverse formulazioni, ci si atterrà a una: sono teoremi, enunciati su fatti e condizioni della realtà esterna (o interna), che comunicano qualcosa che non si è trovato da sé e pretendono che si presti loro fede. Informando su ciò che è più importante e interessante per noi nella vita, sono particolarmente stimate. Chi non ne sa nulla è molto ignorante; chi le ha accolte nel proprio sapere può considerarsi molto ricco.
Esistono naturalmente molti di tali enunciati sulle cose più disparate di questo mondo. Ogni ora di scuola ne è piena. Prendiamo quella di geografia. Sentiamo dire: “Costanza giace sul Bodensee”. Una canzone studentesca aggiunge: “Chi non ci crede, ci vada e veda”. Per caso ci sono stato e posso confermare: la bella città è sulla riva di una vasta distesa d’acqua, che tutti i rivieraschi chiamano Bodensee. Ora sono pienamente convinto dell’esattezza dell’affermazione geografica. Ricordo in proposito un’altra esperienza molto strana. Ero già uomo maturo, quando per la prima volta mi trovai sul colle dell’Acropoli di Atene, fra le rovine dei templi, con lo sguardo rivolto al mare blu. Alla mia felicità si mescolava un sentimento di stupore che sembrava volermi dire: “Dunque è realmente così come abbiamo imparato a scuola!” Quanto superficiale e debole doveva essere stata allora la mia fede nella reale verità di ciò che ascoltavo, se ora potevo esserne così stupito! Ma non voglio insistere troppo sul significato di tale esperienza; è possibile una diversa spiegazione del mio stupore, che allora non mi venne in mente, di natura del tutto soggettiva e connessa alla particolarità del luogo.
Tali teoremi pretendono che si creda al loro contenuto, ma non senza fondare la loro pretesa. Si danno come risultato abbreviato di un lungo processo di pensiero, basato sull’osservazione e certo anche su conclusioni logiche. A chi intenda ripercorrere da sé il processo, invece di assumerne il risultato, si mostra la strada per farlo. Si aggiunge sempre da dove si trae la conoscenza enunciata dal teorema, se non è evidente, come nelle affermazioni geografiche. Per esempio, la terra ha forma sferica. A dimostrazione si portano gli esperimenti di Foucault con il pendolo, il comportamento dell’orizzonte e la possibilità di circumnavigare la terra. Poiché, come tutti gli interessati constatano, non è fattibile mandare tutti gli scolari a circumnavigare la terra, ci si accontenta di lasciare che gli insegnamenti della scuola siano accettati per fede, ma si sa che la via della convinzione personale resta aperta.
Tentiamo di misurare i teoremi religiosi con lo stesso metro. Posta la domanda, su cosa si basi la loro pretesa d’essere creduti, otteniamo tre risposte che stranamente non concordano affatto. In primo luogo, meritano d’essere credute perché già i nostri progenitori ci credevano; in secondo luogo, possediamo prove tramandateci proprio da quel tempo preistorico; in terzo luogo, è vietato mettere in questione queste credenze. L’impresa era un tempo punita nel modo più severo e ancora oggi nella società è malvisto che qualcuno la rinnovi.
Il terzo punto deve destare le nostre più forti perplessità. Un divieto simile può avere una sola motivazione: la società conosce molto bene l’incertezza della pretesa da lei stessa avanzata per le proprie dottrine religiose. Se non fosse così, metterebbe certo volentieri a disposizione il materiale a chi voglia farsi una convinzione personale.
Passiamo quindi alla dimostrazione delle altre due argomentazioni di fondo con una diffidenza difficile da sopire. Dobbiamo credere perché i nostri progenitori hanno creduto. Ma i nostri antenati erano molto più ignoranti di noi; hanno creduto a cose che oggi riteniamo impossibili da accettare. C’è la possibilità che anche le dottrine religiose siano dello stesso genere. Le prove che ci hanno tramandato sono contenute in scritti che di per sé hanno tutti i caratteri dell’inattendibilità. Sono pieni di contraddizioni, rielaborazioni, falsificazioni; dove ci raccontano attestazioni di ordine fattuale, sono inverificabili. Affermare che, per quel che riguarda il loro enunciato o anche solo il loro contenuto, hanno origine dalla rivelazione divina, fa già di per sé parte delle dottrine da esaminare per verificarne la credibilità; nessun enunciato può infatti dimostrare sé stesso.
Giungiamo così allo strano risultato che proprio le comunicazioni del nostro patrimonio civile, che potrebbero per noi rivestire la massima importanza, cui è affidato il compito di chiarirci gli enigmi del mondo e riconciliarci con le sofferenze del vivere, abbiano la più debole delle autenticazioni. Non potremmo deciderci ad ammettere neppure il fatto per noi indifferente, che le balene partoriscono i piccoli invece di deporre uova, se non fosse più che dimostrabile.
Questo stato di cose è di per sé un problema psicologico molto curioso. Non si creda però che le precedenti osservazioni sull’indimostrabilità delle dottrine religiose contengano qualcosa di nuovo. Se ne è avuto sentore in ogni epoca e certo anche da parte di quegli antenati remoti che hanno tramandato tale eredità. Verosimilmente molti di loro hanno nutrito i nostri stessi dubbi, ma su di loro pesava una troppo forte pressione per osare esternarli. Da allora molti uomini si sono tormentati con gli stessi dubbi, che avrebbero voluto reprimere, perché ritenevano doveroso credere; molti brillanti intelletti sono falliti nel conflitto; molti caratteri sono stati danneggiati dai compromessi in cui cercavano una via d’uscita.
Se tutte le prove a sostegno della credibilità dei teoremi religiosi provengono dal passato, è ovvio guardarsi intorno caso mai il presente, meglio valutabile, non possa fornire tali prove. Riuscendo a sottrarre al dubbio anche solo una parte del sistema religioso, l’insieme ne guadagnerebbe straordinariamente in credibilità. Qui interviene l’attività degli spiritisti, convinti della continuità dell’anima individuale; pretendono dimostrarci oltre ogni dubbio quest’unica tesi della dottrina religiosa. Purtroppo non riescono a confutare l’idea che le apparizioni e le manifestazioni dei loro spiriti siano solo prodotti della loro stessa attività psichica. Hanno evocato gli spiriti degli uomini più grandi, dei pensatori più eminenti, ma tutte le manifestazioni e le informazioni da loro ottenute sono così sciocche, così squallidamente insignificanti, che non vi si può trovare null’altro di credibile oltre all’abilità degli spiriti di adattarsi agli uomini che li evocano.
Vanno ora ricordati due tentativi che danno l’impressione dello sforzo spasmodico di sottrarsi al problema. Uno, di natura più violenta, è antico, l’altro è sottile e moderno. Il primo è il Credo quia absurdum dei Padri della Chiesa. Pretende affermare che le dottrine religiose si sottraggono alle esigenze della ragione, la sovrastano. La sua verità va sentita interiormente; non occorre comprenderla. Ma questo Credo è interessante solo come confessione individuale, come enunciato autorevole non è vincolante. Devo essere obbligato a credere ad ogni assurdità? E se no, perché proprio a questa? Non esistono istanze sopra alla ragione. Se la verità delle dottrine religiose dipende da un’esperienza interiore che ne attesti verità, che dire di tutti quelli che non hanno questa rara esperienza? Possiamo esigere da tutti gli uomini che facciano uso del dono, da essi posseduto, della ragione, ma non possiamo fondare un obbligo valido per tutti su un motivo esistente solo per pochissimi. Se, grazie a uno stato di estasi, che lo ha profondamente soggiogato, un individuo ha acquisito la salda convinzione della reale verità delle dottrine religiose, cosa significa per un altro?
Il secondo tentativo è quello della filosofia del “come se”. Spiega che nella nostra attività di pensiero esistono copiosi assunti della cui infondatezza, o addirittura assurdità, siamo pienamente consapevoli. Si chiamiamo finzioni, ma per svariati motivi pratici dobbiamo comportarci “come se” ci credessimo. Ciò vale senz’altro per le dottrine religiose, data l’incomparabile importanza nel mantenere la società umana.1
Quest’argomentazione non è molto lontana dal Credo quia absurdum. Ritengo però che l’esigenza del “come se” sia tale che solo un filosofo possa formularla. Chi nel proprio pensiero non è influenzato dagli artifici della filosofia non potrà mai accettarla; per lui, ammessa l’assurdità o l’anti-razionalità, finisce lì. Non può essere tenuto, proprio per trattare i suoi interessi più importanti, a rinunciare alle certezze già richieste per tutte le sue abituali attività. Mi ricordo di uno dei miei figli che precocemente si distingueva per un particolare vigore del senso di concretezza. Quando ai bambini si raccontava una favola, che ascoltavano pensosi, si faceva avanti e chiedeva: “È una storia vera?” Ottenuta la risposta negativa, si allontanava con sguardo sprezzante. C’è da attendersi che fra non molto gli uomini si comportino in modo analogo con le favole religiose, nonostante la raccomandazione del “come se”.
Ma a tutt’oggi si comportano in modo del tutto differente, e in passato, a dispetto della loro indiscutibile mancanza di convalida, le rappresentazioni religiose hanno esercitato sull’umanità l’influsso più potente. È un problema psicologico nuovo. Occorre chiedersi dove stia la forza interna di queste dottrine e a quale circostanza debbano la loro efficacia, indipendente dal riconoscimento razionale.
6
Penso di aver risposto a sufficienza a entrambe le questioni. La risposta sta nel considerare la genesi psichica delle rappresentazioni religiose; emesse come teoremi, non sono esiti dell’esperienza o risultati finali di un’attività di pensiero, ma sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di tali desideri. Già sappiamo che la spaventosa impressione d’impotenza infantile ha fatto nascere il bisogno di protezione – protezione con l’amore – cui il padre ha rimediato; riconoscere che tale impotenza duri tutta vita ha causato il mantenimento di un padre, ma ora più potente. Grazie al benigno governo della Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita si è calmata; l’istituzione di un ordine morale universale assicura il compimento di quell’esigenza di giustizia che nella civiltà umana è rimasta così spesso inappagata, e il prolungarsi dell’esistenza terrena in una vita futura forma la cornice spaziale e temporale dove tali appagamenti di desiderio devono compiersi. Risposte agli enigmatici interrogativi scaturiti dall’umana brama di sapere, come quelli sull’origine del mondo e la relazione tra il corpo e l’anima, si sviluppano dalle premesse di questo sistema; è un enorme sollievo per la psiche individuale che i conflitti del periodo infantile, derivanti dal complesso paterno (e mai completamente superati), siano ad essa sottratti e portati a una soluzione accettata da tutti.
Dicendo che sono tutte illusioni, devo delimitare il significato della parola. Un’illusione non è lo stesso di errore; non è necessariamente nemmeno un errore. L’opinione di Aristotele che i parassiti si sviluppino dal sudiciume, che trova tuttora credito presso il popolo ignorante, era errata, così come a suo tempo lo era l’opinione di una generazione di medici, che la tabe dorsalis fosse conseguenza della dissolutezza sessuale. Sarebbe improprio chiamare illusioni questi errori. Fu invece un’illusione quella di Colombo di aver scoperto una nuova rotta per le Indie. Il contributo del suo desiderio a questo errore è molto chiaro. Ancora, si può designare come illusione l’affermazione di certi nazionalisti che gli indogermanici sarebbero l’unica razza umana capace di civiltà, o la credenza, distrutta solo dalla psicanalisi, secondo cui il bambino sia un essere senza sessualità. Caratteristica dell’illusione è di derivare dai desideri umani; in questo senso si avvicina alle idee deliranti, note alla psichiatria; tuttavia differisce anche da queste, a prescindere dalla più complicata struttura dell’idea delirante, dove l’elemento essenziale messo in rilievo è la contraddizione rispetto alla realtà; l’illusione, invece, non è necessariamente falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà. Ad esempio, una ragazza di paese può concepire l’illusione che venga un principe per portarla a nozze. È possibile e in alcuni casi si è verificato. Che il Messia verrà e fonderà un’età dell'oro è assai meno verosimile; a seconda dell’atteggiamento personale di chi giudica, tale credenza sarà classificata o come illusione o come qualcosa di analogo al delirio. Non è facile trovare esempi di illusioni che si siano poi realizzate; tuttavia quella degli alchimisti di poter trasformare tutti i metalli in oro potrebbe essere un esempio. Il desiderio di aver moltissimo oro, quanto più oro è possibile, si è assai smorzato a causa del nostro attuale modo di concepire le cause determinanti della ricchezza; tuttavia la chimica non considera più impossibile trasformare i metalli in oro. Diciamo allora che una credenza è illusoria se nella sua motivazione prevale l’appagamento di desiderio e prescindiamo dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione stessa rinuncia alle proprie convalide.
Se, così orientati, ci rivolgiamo di nuovo alle dottrine religiose, possiamo di nuovo dire che in complesso sono illusioni indimostrabili e che nessuno può essere costretto a considerarle vere, a crederci. Alcune sono così inverosimili, talmente antitetiche a tutto ciò che faticosamente abbiamo appreso sulla realtà del mondo che, tenuto conto delle differenze psichiche, si possono paragonare a idee deliranti. Sul valore di realtà della maggior parte di esse è impossibile esprimere giudizi. Così come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili. Non ne sappiamo abbastanza per accostarle con senso critico. Gli enigmi del mondo si svelano solo lentamente alla nostra ricerca e molti sono gli interrogativi cui la scienza non sa ancora rispondere. Ma il lavoro scientifico è per noi l’unica via che possa portarci a conoscere la realtà fuori di noi. È di nuovo solo illusione attendersi qualcosa dall’intuizione e dall’introspezione, che possono darci solo chiarimenti, peraltro difficilmente interpretabili, sulla nostra vita psichica, ma mai informazioni circa gli interrogativi cui la dottrina religiosa risponde con tanta facilità. Sarebbe empio lasciare che la lacuna fosse colmata dall’arbitrio del singolo, e, in base a un parere personale, dichiarare più o meno accettabile questa o quella parte del sistema religioso. Sono domande troppo importanti, troppo sacre, si potrebbe dire.
A questo punto ci si potrebbe obiettare: “Allora, se perfino gli scettici più accaniti ammettono che l’intelletto non può confutare le affermazioni della religione, perché proprio io non dovrei crederci, tanto più che tali affermazioni hanno tanti argomenti dalla loro: la tradizione, il consenso degli uomini e tutto il loro contenuto consolatorio?” Già, perché no? Così come non si può costringere nessuno a credere, non si può costringere nessuno a non credere. Ma non si cada nell’autoinganno di credere che con tali giustificazioni si vada per la via del retto pensare. Se fosse da condannare con “false scuse”? L’ignoranza è ignoranza; non ne deriva il diritto a credere ad alcunché. In altre cose nessun uomo ragionevole si comporterebbe così alla leggera e si accontenterebbe di giustificazioni così povere delle proprie opinioni e delle proprie prese di posizione; solo nelle cose più alte e più sacre se lo permette. In realtà, si tratta solo di sforzi per far credere a noi stessi e ad altri che siamo ancora saldamente legati alla religione, mentre da tempo ce ne siamo staccati. Quando sono in ballo questioni di religione, gli uomini si rendono colpevoli di tutte le possibili insincerità e cattive maniere intellettuali. I filosofi estendono il significato delle parole fin dove non conservano più quasi nulla del loro senso originario; chiamano “Dio” un’astrazione molto vaga che si sono forgiata, per cui possono presentarsi dinanzi al mondo come deisti e credenti, vantandosi perfino di aver forgiato un concetto di Dio più alto e più puro; in verità, al contrario, il loro Dio è un’ombra senza consistenza; non è più la possente personalità della dottrina religiosa. I critici persistono nel definire “profondamente religioso” un uomo che ceda al sentimento della piccolezza e dell’impotenza umane davanti all’universo, benché il sentimento che costituisce l’essenza della religiosità non sia questo, ma solo il passo immediatamente successivo, e cioè la reazione che cerca un rimedio contro tale sentimento. Chi non procede oltre, chi umilmente si rassegna alla parte insignificante di uomo nel vasto mondo, è al contrario irreligioso nel più vero senso della parola.
Non rientra nel piano di questa ricerca prendere posizione sul valore di verità delle dottrine religiose. Ci basta averne riconosciuto la natura psicologica di illusioni. Ma non vogliamo nascondere che questa scoperta influisce potentemente sul nostro atteggiamento verso il problema che a molti deve apparire il più importante di tutti. Se sappiamo all’incirca in quali tempi le dottrine religiose sono state create e da che tipo di uomini, se apprendiamo inoltre per quali motivi ciò accadde, il nostro punto di vista in merito al problema religioso subisce un notevole spostamento. Noi diciamo che sarebbe davvero molto bello che ci fosse un Dio creatore del mondo e una Provvidenza benigna, un ordine morale universale e una vita ultraterrena; tuttavia è almeno molto strano che tutto ciò sia davvero così come non possiamo fare a meno di desiderare che sia. E sarebbe ancora più strano che i nostri poveri, ignoranti e non liberi antenati fossero riusciti a risolvere tutti questi difficili enigmi del mondo.
7
Una volta riconosciute come illusioni le dottrine religiose, s’impone subito un’altra domanda, e cioè se non sia d’analoga natura anche un altro patrimonio della civiltà da noi altamente apprezzato, al quale affidiamo il governo della nostra vita; vale a dire, se i presupposti che regolano le nostre istituzioni statali non siano da chiamare altrettante illusioni e se anche le relazioni tra i sessi nella nostra civiltà non siano turbate da una o da una serie d’illusioni erotiche. Destato in noi il sospetto, non indietreggeremo spaventati nemmeno di fronte al quesito ulteriore se miglior fondamento non abbia la nostra convinzione di poter apprendere qualcosa sulla realtà esterna, impiegando l’osservazione e il pensiero nel lavoro scientifico. Nulla potrà distoglierci dal confermare l’osservazione su noi stessi e dall’impiegare il pensiero nell’autocritica. Da qui si apre una serie di ricerche il cui esito dovrebbe risultare decisivo per edificare una “visione del mondo”. Intuiamo inoltre che uno sforzo del genere non andrebbe comunque sprecato e che i nostri sospetti ne sarebbero almeno in parte giustificati. Ma le capacità dell’autore si rifiutano a un compito così vasto e deve di necessità limitare il proprio lavoro allo studio di una sola di queste illusioni, appunto la religiosa.
A gran voce il nostro avversario ci ordina ora di fermarci. Siamo chiamati a render conto del nostro modo di fare vietato. Ci dice:
“Gli interessi archeologici sono certo lodevoli, ma non si scava sotto le abitazioni dei vivi, in modo da farle crollare e uccidere gli uomini sotto le loro macerie. Le dottrine religiose non sono materia su cui si possa almanaccare come su qualunque altra. La nostra civiltà è costruita su di esse; mantenere la società umana presuppone che la maggioranza degli uomini creda alla verità di tali dottrine. Insegnando loro che non esiste alcun Dio onnipotente e giusto, che non vi è ordine divino nel momdo né vita futura, gli uomini si sentiranno esentati da ogni obbligo di osservare i precetti della civiltà. Libero da inibizioni e paure, ognuno seguirà le proprie pulsioni asociali ed egoistiche, cercherà di esercitare il proprio potere, e ricomincerà il caos che abbiamo bandito in migliaia di anni di lavoro della civiltà. Anche sapendo e potendo dimostrare che la religione non possiede la verità, occorrerebbe tacere e comportarsi come pretende la filosofia del “come se”. Nell’interesse della preservazione di tutti! E, a prescindere dal rischio dell’impresa, sarebbe una crudeltà senza scopo. Sono innumerevoli gli uomini che trovano il loro unico conforto negli insegnamenti della religione e riescono a tollerare la vita solo con il suo aiuto. Li si vuole privare di questo sostegno senza dar loro niente di meglio in cambio? È generalmente ammesso che attualmente la scienza non possa far molto; e anche se fosse assai più progredita, non basterebbe agli uomini. L’uomo ha anche altri imperiosi bisogni, che mai la fredda scienza potrebbe soddisfare, ed è assai singolare, è addirittura il colmo dell’incoerenza, che uno psicologo, che ha sempre ribadito quanto nella vita dell’uomo l’intelligenza stia in secondo piano rispetto alla vita pulsionale, si sforzi ora di defraudare l’uomo d’una preziosa soddisfazione di desiderio e pretenda di risarcirlo con un nutrimento intellettuale”.
Quante accuse in una volta! Sono però pronto a replicare a tutte. Inoltre sosterrò che mantenere in piedi l’attuale atteggiamento verso la religione significa per la civiltà un pericolo maggiore che non abbandonarlo. Ora non so da dove devo iniziare la mia replica.
Forse assicurando che io stesso considero la mia impresa del tutto innocua e non pericolosa. Stavolta non sono io a sopravvalutare l’intelletto. Se gli uomini sono così come i miei avversari li descrivono – e non saprei contraddirli – non c’è pericolo che, sopraffatto dalle mie argomentazioni, il pio credente si lasci strappare la fede. Inoltre non ho detto nulla che altri uomini migliori non abbiano già detto prima di me in modo assai più compiuto, efficace e incisivo. I loro nomi sono ben noti; non li menzionerò, per non dare l’impressione di volermi schierare tra loro. Alle argomentazioni critiche dei miei grandi predecessori mi sono limitato ad aggiungere qualche motivazione psicologica: è l’unica novità della mia esposizione. Non ci si può aspettare che proprio tale aggiunta abbia l’effetto rimasto interdetto a tentativi precedenti. Certo, qualcuno potrebbe ora domandarmi a che scopo scriviamo certe cose, essendo sicuri della loro inefficacia. Ma su questo torneremo in seguito.
L’unico che questa pubblicazione possa danneggiare sono io stesso. Mi sentirò le accuse più malevole di banalità, ottusità, mancanza di idealismo e di comprensione per gli interessi più alti dell’umanità. Ma, da un lato, tali rimproveri non mi sono nuovi e, dall’altro, se già in giovane età un uomo si è posto al di sopra della disapprovazione dei suoi contemporanei, cosa dovrà mai sopportare da vecchio, quando è certo che tra non molto sarà sottratto ad ogni benevolenza o malevolenza? In passato era diverso; con certe esternazioni si era sicuri di abbreviare la propria esistenza terrena e di accelerare per bene l’occasione di sperimentare in proprio la vita dell’aldilà. Ma, ripeto, quei tempi sono passati e oggi un certo scribacchiare è innocuo anche per l’autore. Al massimo può succedere che il suo libro non sia tradotto e diffuso in questo o in quel paese. Naturalmente proprio in un paese che si sente sicuro dell’alto livello della propria civiltà. Ma se si difende in un modo o nell’altro la causa della rinuncia al desiderio e della rassegnazione al destino avverso, si deve essere pronti a sopportare anche questo danno.
Mi si è posta poi la domanda se, pubblicare questo scritto non avrebbe potuto portar male a qualcuno. In verità, non a una persona, ma a una causa: la causa della psicanalisi. È innegabile che la psicanalisi sia una mia creazione e che essa sia stata oggetto di molta diffidenza e malevolenza; se ora mi faccio avanti con affermazioni così sgradevoli, si sarà fin troppo pronti a scivolare dalla mia persona alla psicanalisi. “Adesso si vede – diranno – dove porta la psicanalisi. La maschera è caduta; come abbiamo sempre supposto, porta a negare Dio e l’ideale morale. Per impedirci di scoprirlo, ci hanno fatto credere che la psicanalisi non abbia una visione del mondo e non possa darne una”.
Tutto questo chiasso riuscirebbe davvero sgradevole per molti dei miei collaboratori, alcuni dei quali non condividono il mio atteggiamento verso i problemi religiosi. Ma la psicanalisi ha già superato ben altre tempeste e occorre che passi anche questa. In realtà, la psicanalisi è un metodo di ricerca, uno strumento imparziale, quasi come il calcolo infinitesimale. Se con il suo aiuto un fisico dovesse affermare pubblicamente che dopo un certo periodo la terra sarà distrutta, si esiterebbe ad attribuire al calcolo tali tendenze distruttive e quindi a metterlo al bando. Tutto ciò che ho detto qui contro il valore di verità delle religioni non aveva bisogno della psicanalisi; è stato detto da altri molto prima della sua invenzione. Se, applicando il metodo psicanalitico, si ricava un nuovo argomento contro il contenuto di verità della religione, tanto peggio per lei; ma con lo stesso diritto i difensori della religione potranno servirsi della psicanalisi per valorizzare appieno l’importanza affettiva della dottrina religiosa.
Ora, proseguendo la difesa, la religione ha manifestamente reso alla civiltà umana grandi servizi; ha contribuito molto, anche se non abbastanza, a tenere a bada le pulsioni asociali. Governando la società umana per millenni, ha avuto il tempo di dimostrare di cosa è capace. Se fosse riuscita a rendere felice la maggioranza degli uomini, a consolarli, a riconciliarli con la vita, a farne dei portatori di civiltà, a nessuno verrebbe in mente di aspirare a mutare l’attuale situazione. Cosa vediamo invece? Che un numero spaventosamente grande di uomini è insoddisfatto della civiltà e ne è infelice, che la sente come un giogo da scrollarsi; vediamo che questi uomini o si adoperano con tutte le loro forze per cambiare questa civiltà o, nella loro avversione ad essa, giungono a disinteressarsene completamente e a non volerne sapere di restrizioni imposte alle loro pulsioni. Si obietterà qui che tale stato di cose deriva dal fatto che la religione ha perso parte del suo influsso sulle masse umane proprio a causa della deplorevole conseguenza dei progressi della scienza. Prenderemo atto della concessione e dei suoi motivi; la sfrutteremo in seguito per i nostri scopi; ma in sé l’obiezione non ha forza.
È dubbio che al tempo dell’illimitato dominio delle dottrine religiose gli uomini fossero in complesso più felici di oggi; certo non furono più morali. Hanno sempre saputo rendere estrinseche le prescrizioni religiose, vanificandone così gli intenti. I preti, che dovevano vigilare sull’ubbidienza alla religione, vennero loro incontro. La bontà di Dio doveva calare sul braccio della sua giustizia: si peccava e, fatto un sacrificio o una penitenza, si era liberi di peccare di nuovo. L’interiorità russa è giunta alla conseguenza che, per godere di tutte le beatitudini della grazia divina, il peccato è indispensabile e che dunque è in fondo opera gradita a Dio. È evidente che i preti sono riusciti a perpetuare la sottomissione delle masse alla religione solo a prezzo di grandi concessioni alla natura pulsionale dell’uomo. Restò un punto fermo: Dio solo è forte e buono, l’uomo è debole e peccatore. In ogni tempo l’immoralità ha trovato nella religione sostegno non minore della moralità. Se, riguardo alla felicità degli uomini, alla loro attitudine alla civiltà e alle limitazioni morali, la religione non è riuscita a ottenere risultati migliori, s’impone la questione se non abbiamo sopravvalutato la sua necessità per il genere umano e se agiamo da saggi basando su di essa le nostre pretese di civiltà.
Si rifletta sulla peculiare situazione attuale. Si concede che la religione non abbia più sugli uomini la stessa influenza di prima. (Si tratta qui della civiltà europeo-cristiana). E ciò non perché le sue promesse si siano ridotte, ma perché appaiono meno credibili agli uomini. Concediamo che la ragione di tale trasformazione sia il rinforzo dello spirito scientifico negli strati superiori della società umana (e forse non solo lì). La critica ha intaccato la forza probante dei documenti religiosi; la scienza naturale ha posto in luce gli errori lì contenuti; la ricerca comparata è stata colpita dalla fatale somiglianza tra le rappresentazioni religiose da noi venerate e le produzioni spirituali di popoli e tempi primitivi.
Lo spirito scientifico produce un certo modo di rapportarsi alle cose di questo mondo; di fronte alle cose religiose sosta un attimo, esita, ma da ultimo anche qui varca la soglia. Il processo non ha sosta; quanto maggiore è il numero di uomini cui i tesori del nostro sapere diventano accessibili, tanto più si diffonde il rifiuto della fede religiosa, in un primo tempo solo dei suoi rivestimenti più antiquati e assurdi, poi però anche delle sue premesse fondamentali. Solo gli americani, istituendo il “processo della scimmia” a Dayton, si sono dimostrati coerenti. Per il resto l’inevitabile trapasso si compie tra ambiguità e insincerità.
La civiltà ha poco da temere dagli uomini colti e dai lavoratori della mente. In loro la sostituzione nel comportamento civile dei motivi religiosi con altri mondani avverrebbe da sé senza strepito; sono inoltre in gran parte portatori di civiltà. Le cose vanno diversamente nella grande massa delle persone incolte, degli oppressi, che hanno tutti le ragioni di essere nemici della civiltà. Finché non si accorgono che non si crede più in Dio, va bene. Ma prima o poi dovranno pur accorgersene, anche se questo mio scritto non sarà pubblicato. Costoro sono pronti ad accettare i risultati del pensiero scientifico senza che si sia in loro prodotto il mutamento che il pensiero scientifico induce nell’uomo. Non c’è allora il pericolo che l’avversione di queste masse per la civiltà converga sul punto debole riconosciuto nella loro tiranna? Se non è lecito ammazzare il nostro prossimo solo perché il buon Dio lo ha vietato e ci punirà severamente in questa o nell’altra vita, e se scopriamo peraltro che il buon Dio non esiste e non abbiamo da temere alcun castigo, non c’è dubbio che a questo punto ammazzeremo il nostro prossimo senza esitare e solo una forza terrena potrà trattenerci. Allora delle due l’una: o si tengono rigidamente a freno queste masse pericolose, impedendo con estrema accuratezza che accedano a qualsiasi occasione di risveglio intellettuale, o si opera una radicale revisione del rapporto tra civiltà e religione.
8
Si dovrebbe pensare che non si pongano particolari difficoltà sulla via per realizzare quest’ultima proposta. Si tratta, è vero, di rinunciare a qualcosa, ma si ottiene forse di più e si evita un gran pericolo. Ma ci si spaventa, quasi che si esponesse la civiltà a un pericolo ancora più grande. Quando san Bonifacio abbatté l’albero venerato come sacro dai Sassoni, i presenti si attesero un evento spaventoso conseguente al crimine. Non accadde nulla e i Sassoni accettarono il battesimo.
Se la civiltà ha istituito il comandamento di non uccidere l’odiato prossimo che ci sbarra il cammino o i cui averi desideriamo, ciò è chiaramente avvenuto nell’interesse dell’umana convivenza, altrimenti irrealizzabile. Infatti, l’assassino attirerebbe su di sé la vendetta dei parenti dell’ucciso e la sorda invidia degli altri, che provano l’intima inclinazione altrettanto forte a compiere lo stesso atto di violenza. Dunque, non godrebbe a lungo i frutti della sua vendetta o della sua rapina, ma avrebbe tutte le probabilità di essere ben presto a sua volta ucciso. Anche se, grazie a una forza e a una prudenza straordinarie, riuscisse a proteggersi contro un avversario singolo, dovrebbe soccombere all’unione dei più deboli. Se non si formasse un’alleanza del genere, l’assassinio procederebbe all’infinito e gli uomini finirebbero per sterminarsi a vicenda. Si avrebbe, fra gli individui, lo stesso stato di cose vigente tuttora in Corsica tra famiglie, che altrimenti vige solo tra nazioni. Il pericolo uguale per tutti di una insicura unisce gli uomini in un’unica società, che poi vieta al singolo di uccidere, riservandosi il diritto di uccidere collettivamente chi trasgredisca il divieto. Queste sono la giustizia e la pena.
Ma non comunichiamo il fondamento razionale del divieto di uccidere; affermiamo invece che è stato Dio a emanarlo. Osiamo quindi indovinarne gli intenti e scopriamo che anche lui non vuole che gli uomini si sterminino a vicenda. Così facendo, rivestiamo il divieto emanato dalla civiltà di una solennità tutta particolare, rischiando però di farne dipendere l’osservanza dalla fede in Dio. Se ripercorriamo il cammino in senso contrario e non attribuiamo più a Dio la nostra volontà, ma ci accontentiamo del fondamento sociale, rinunciamo, è vero, a quella trasfigurazione del divieto civile, ma evitiamo anche di metterlo a repentaglio. Otteniamo però anche qualcos’altro. Attraverso una sorta di diffusione o di infezione, il carattere di santità, d’inviolabilità, potremmo dire d’appartenenza all’aldilà, si è esteso da alcuni pochi divieti importanti a tutti gli altri ordinamenti, leggi, regolamentazioni civili. Ma a questi l’aureola spesso non si addice; non solo perché, prendendo decisioni contraddittorie secondo i tempi e i luoghi, si svalorizzano l’un l’altro, ma perché comunque da chiari segni tradiscono ogni sorta di umane debolezze. È facile riconoscervi ciò che può essere solo il prodotto di una miope apprensione, l’espressione di gretti interessi o la conseguenza di premesse inadeguate. La critica che occorre esercitare su questi precetti riduce in misura indesiderata anche il rispetto per le altre più giustificate pretese della civiltà. Dato che il compito di separare ciò che Dio stesso ha imposto da ciò che invece deriva dall’autorità di un parlamento investito di pieni poteri o dall’autorità di un alto magistrato è quanto mai scomodo, sarebbe senz’alcun dubbio vantaggioso lasciare Dio del tutto fuori dai giochi e ammettere l’origine puramente umana di tutti gli ordinamenti e di tutte le norme della civiltà. Con la pretesa sacralità, decadrebbe anche la rigidità e l’immutabilità di imperativi e leggi. Gli uomini potrebbero capire che tali norme non sono state istituite per dominare l’umanità ma piuttosto per servirne gli interessi, e maturerebbero un atteggiamento più benevolo nei loro confronti; invece che ad abolirle mirerebbero solo a perfezionarle. Sarebbe un importante progresso sulla via della riconciliazione con il peso della civiltà.
A questo punto un dubbio interrompe improvvisamente la nostra difesa del fondamento puramente razionale delle prescrizioni civili, derivandole dalla necessità sociale. Abbiamo scelto l’esempio dell’origine del divieto di uccidere. La nostra esposizione corrisponde alla verità storica? Temiamo di no; sembra solo una costruzione razionalistica. Con l’aiuto della psicanalisi abbiamo studiato proprio questo pezzo di storia della civiltà umana e, sulla base di questo sforzo, dobbiamo dire che in realtà le cose andarono diversamente. Anche nell’uomo moderno i motivi puramente razionali possono ben poco contro gli impulsi passionali; quanto più impotenti devono essere stati nell’uomo bestia della preistoria! Forse ancora oggi i suoi discendenti si ammazzerebbero l’un l’altro senza inibizioni se fra quei crimini non ve ne fosse stato uno – l’uccisione del padre primitivo – che evocò una reazione emotiva irresistibile, gravida di conseguenze. Da essa derivò il comandamento: “Non uccidere”, che nel totemismo era limitato al sostituto del padre, ma che fu in seguito esteso ad altri e che ancora oggi si realizza non senza eccezioni.
Ma, con argomentazioni che qui non ho bisogno di ripetere, quel padre primitivo fu l’immagine originaria di Dio, il modello su cui le successive generazioni hanno formato l’immagine di Dio. Pertanto la descrizione religiosa ha ragione; Dio prese realmente parte alla genesi di quel divieto: lo creò il suo influsso, non la visione della necessità sociale. E lo spostamento del volere umano su Dio è pienamente giustificato: gli uomini sapevano di aver eliminato con la violenza il padre e, reagendo all’oltraggio commesso, si proposero di rispettarne da allora in poi il volere. Mentre dunque la dottrina religiosa ci comunica la verità storica, certo deformata e travestita, la nostra esposizione razionale la rinnega.
Osserviamo ora che il tesoro delle rappresentazioni religiose non contiene solo appagamenti di desideri, ma anche importanti reminiscenze storiche. Quale incomparabile potere deve conferire alla religione iI cooperare di passato e futuro! Ma, forse con l’aiuto di un’analogia, si intravvede un altro modo di vedere. Non è bene trasferire i concetti lontano dal terreno in cui sono sorti, ma dobbiamo esplicitarne l concordanza. Sappiamo che l’essere umano non può portare bene a termine il suo sviluppo verso la civiltà senza passare per una più o meno chiara fase di nevrosi. Ciò deriva dal fatto che il bambino non può reprimere con il lavoro razionale della mente le molte esigenze pulsionali inutilizzabili per il futuro, e deve invece bandirle con atti di rimozione, dietro i quali sta di regola un motivo d’angoscia. La maggior parte di queste nevrosi infantili si superano spontaneamente durante la crescita; soprattutto le nevrosi coatte dell’infanzia hanno questo destino. Le restanti vanno, anche in seguito, messe in ordine con il trattamento psicanalitico. In modo del tutto simile si potrebbe supporre che, nel suo sviluppo secolare, l’umanità nel suo complesso sia finita in stati analoghi alle nevrosi, e proprio per le stesse ragioni, poiché nelle epoche della sua ignoranza e debolezza intellettuale l’umanità è riuscita a compiere la rinuncia pulsionale, indispensabile alla convivenza umana, solo grazie a forze puramente affettive. I sedimenti preistorici, dati da processi analoghi alla rimozione, aderirono alla civiltà ancora per molto tempo. La religione sarebbe la nevrosi coatta universale dell’umanità; come quella del bambino, originò dal complesso edipico, dalla relazione con il padre. Stando a tale concezione, va previsto che l’abbandono della religione debba compiersi con la fatale inesorabilità del processo di crescita, mentre ora ci troviamo in pieno proprio in questa fase di sviluppo.
Il nostro comportamento dovrebbe perciò prendere a modello l’educatore comprensivo, che non si oppone alla neoformazione che ha davanti, ma cerca di promuoverla, arginando la violenza del suo far breccia. L’essenza della religione non si riduce comunque a tale analogia. Se da un lato essa comporta restrizioni coatte, come la nevrosi coatta individuale, dall’altro include un sistema d’illusioni di desiderio con rinnegamento della realtà, simili a quelle che, in forma isolata, si trovano solo nell’amenza, uno stato di beata confusione di natura allucinatoria. Sono appunto solo paragoni con cui ci sforziamo di comprendere il fenomeno sociale; la patologia individuale non ci fornisce riscontri del tutto validi.
È stato ripetutamente indicato da me, e in particolare da Theodor Reik, fino a quali dettagli si spinga l’analogia fra religione e nevrosi coatta, e quante delle peculiarità e delle vicissitudini del formarsi della religione divengano così comprensibili. Con ciò si accorda bene il fatto che il pio credente è notevolmente protetto contro il pericolo di certe malattie nevrotiche; accettare la nevrosi universale lo sottrae al compito di formarsene una personale.
Riconoscere il valore storico di certe dottrine religiose accresce il nostro per esse; non invalida però la nostra proposta di smettere di derivarle dalla motivazione dei precetti civili. Al contrario! Con l’aiuto di questi residui storici siamo giunti a concepire i teoremi religiosi alla stregua di relitti nevrotici; ora possiamo dire che è verosimilmente arrivato il momento, come avviene nel trattamento analitico del nevrotico, di sostituire gli esiti della rimozione con i risultati del lavoro razionale della mente. È prevedibile, ma non deplorabile, che la rielaborazione non si fermerà a rinunciare alla trasfigurazione solenne delle norme civili e che una revisione generale delle medesime dovrà approdare al superamento di molte di esse. Il compito che ci siamo dati di riconciliare gli uomini con la civiltà, sarà così ampiamente svolto. Quanto alla rinuncia alla verità storica nella motivazione razionale delle norme civili, non c’è motivo di rimpiangerla. Le verità che le dottrine religiose contengono sono così deformate e sistematicamente mascherate che la massa degli uomini non può riconoscerle come verità. È un caso simile al racconto che è la cicogna a portare i bambini. Anche in tal caso diciamo la verità in veste simbolica; infatti, sappiamo cosa significa il grande uccello. Il bambino però non lo sa; nelle nostre parole coglie solo l’elemento di deformazione; si ritiene ingannato, e sappiamo quanto spesso la sua sfiducia nei confronti degli adulti e la sua insubordinazione derivino proprio da tale impressione. Siamo giunti alla convinzione che sia meglio omettere di comunicare certe velature simboliche della verità, e non negare al bambino la conoscenza delle circostanze reali, adattate al suo livello intellettuale.
9
“Lei si permette contraddizioni tra loro difficilmente conciliabili. Prima afferma che uno scritto come il suo è assolutamente non pericoloso. Nessuno si lascerà defraudare della propria fede religiosa da tali discussioni. Ma, dato che, come risulta dal seguito, è sua intenzione turbare tale fede, le si può chiedere perché di fatto lo pubblica. In un altro punto lei ammette però che può diventare pericoloso, addirittura molto pericoloso, che qualcuno apprenda che non si crede più in Dio. Era stato in precedenza sottomesso, e ora getta via l’obbedienza alle prescrizioni della civiltà. Tutto il suo argomento, che la motivazione religiosa degli imperativi civili costituisca un pericolo per la civiltà, poggia in definitiva sul presupposto che il credente possa essere trasformato in miscredente, che è una vera contraddizione”.
“Altra contraddizione è che da un lato lei ammette che l’uomo non può essere guidato dall’intelligenza, che è dominato dalle sue passioni e dalle sue esigenze pulsionali, mentre dall’altro propone che i fondamenti affettivi della sua obbedienza alla civiltà siano sostituiti da quelli razionali. Chi ci capisce qualcosa è bravo! Mi pare che o una cosa o l’altra”.
“E poi, non ha imparato nulla dalla storia? Il tentativo di sostituire la religione con la ragione è già stato fatto una volta, ufficialmente e in grande stile. Lei rammenta certamente la rivoluzione francese e Robespierre, ma anche la breve durata e l’insuccesso pietoso dell’esperimento, che ora si ripete in Russia; non abbiamo bisogno di chiederci come andrà a finire. Non pensa di dover ammettere che l’uomo non può fare a meno della religione?”
“Lei stesso ha detto che la religione è più di una nevrosi coatta, ma non ha trattato quest’altro aspetto. Le basta applicare l’analogia con la nevrosi. Occorre liberare gli uomini da una nevrosi. Non si cura di ciò che così si perde”.
L’apparente contraddizione è verosimilmente dovuta all’aver trattato troppo in fretta cose complicate. Possiamo recuperare qualcosa. Continuo a sostenere che per un certo aspetto il mio scritto non è affatto pericoloso. Nessun credente si farà confondere nella propria fede per questi o analoghi argomenti. Il credente ha con il contenuto della religione certi legami affettivi. Esistono poi innumerevoli altri che non sono credenti nello stesso senso. Obbediscono alle norme civili perché intimiditi dalle minacce della religione e temono la religione, finché devono considerarla parte della realtà che li limita. Si sbarazzano della religione appena possono non credere più al suo valore di realtà, ma neanche su di loro certi argomentai fanno presa. Cessano di temere la religione appena notano che anche altri non la temono, ed era a questo tipo di uomini che mi riferivo quando sostenevo che ci si sarebbe accorti del declino dell’influenza religiosa, anche se non avessi pubblicato il mio scritto.
Ma credo che lei stesso attribuisca maggior valore all’altra contraddizione che mi rinfaccia. Gli uomini sono così poco accessibili alle basi razionali, essendo per intero dominati dai loro desideri pulsionali; allora, perché mai sottrarre loro una soddisfazione pulsionale e pretendere di sostituirla con ragionamenti? Certo, gli uomini sono così, ma lei si è chiesto se debbano essere così, se la loro natura più intima li necessiti a essere così? Può l’antropologo darci l’indice cranico di un popolo che usa deformare con fasciature le teste dei bambini sin da piccoli? Pensi al deprimente contrasto tra la radiosa intelligenza di un bambino sano e la debolezza intellettuale dell’adulto medio. Sarebbe del tutto impossibile che buona parte di colpa per questa relativa atrofia spetti proprio all’educazione religiosa? Penso che debba passare molto tempo prima che un bambino non influenzato cominci a farsi dei pensieri su Dio e sulle cose al di là di questo mondo. Questi pensieri imboccherebbero forse le stesse vie percorse dai suoi antenati. Ma non si attende tale sviluppo; gli si inculcano le dottrine religiose in un’età in cui non ha né interesse per esse né la capacità di comprenderne la portata. Ritardare lo sviluppo sessuale e anticipare l’influsso della religione: non sono questi i due cardini del programma dell’odierna pedagogia, vero? Quando il pensiero del bambino si desta, le dottrine religiose sono già diventate inattaccabili. Ma crede che, per rinforzare la funzione intellettuale, sia molto vantaggioso che un ambito così importante le sia precluso con la minaccia dei castighi infernali? Se qualcuno giunge al punto da accettare acriticamente tutte le assurdità propinate dalle dottrine religiose, e neppure si accorge che si contraddicono a vicenda, non c’è molto da stupirsi della sua debolezza intellettuale. Ora non abbiamo altro mezzo che l’intelligenza per dominare le nostre pulsioni: come possiamo attenderci, da persone assoggettate al dominio di divieti imposti al pensiero, che raggiungano l’ideale psicologico, ossia il primato dell’intelligenza? Lei sa anche che alle donne è in generale attribuita la cosiddetta “debilità mentale fisiologica”, ossia un’intelligenza inferiore a quella dell’uomo. Il fatto in sé è controverso e la sua interpretazione dubbia; tuttavia un argomento a favore della natura secondaria di tale atrofia intellettuale è che fin da piccole le donne soffrono per la severità della proibizione di volgere il loro pensiero a ciò che maggiormente le interesserebbe, ossia ai problemi della vita sessuale. Finché sui primi anni di vita dell’uomo incidono, oltre l’inibizione a rivolgere il proprio pensiero alle cose sessuali, l’inibizione religiosa e quella da essa apertamente derivante, non possiamo in realtà dire come l’uomo sia veramente.
Ma voglio moderare il mio zelo e ammettere la possibilità che anch’io corra dietro a un’illusione. Forse l’effetto della proibizione di pensare, imposta dalla religione, non è così grave come suppongo; forse il risultato è che la natura umana resta la stessa anche se non si abusa dell’educazione per assoggettarla alla religione. Non lo so e neppure lei può saperlo. Non solo i grandi problemi di questa vita appaiono tuttora insolubili, ma anche molte questioni minori sono difficili da risolvere. Ma lei mi deve concedere che qui siamo in presenza d’una speranza legittima per il futuro, che forse c’è da scoprire un tesoro che può arricchire la civiltà, che cioè valga la pena di tentare l’educazione irreligiosa. Se si dimostrasse insoddisfacente, sono pronto a rinunciare alla riforma e a tornare al mio precedente giudizio, puramente descrittivo: l’uomo è un essere d’intelligenza debole, dominato dai suoi desideri pulsionali.
Su un altro punto concordo con lei senza riserve. Sarebbe un avvio senz’altro insensato pretendere di eliminare la religione con la violenza di colpo. Soprattutto perché sarebbe senza prospettive. Il credente non si lascerebbe strappare la fede né con argomentazioni né con proibizioni. E se anche la cosa riuscisse in qualcuno, sarebbe crudeltà. Chi per decenni ha preso sonniferi, naturalmente non può dormire senza. È chiaro da quanto sta succedendo in America che l’effetto delle consolazioni religiose è paragonabile a quello di un narcotico. Chiaramente per influenza del dominio femminile, lì oggi si vogliono privare gli uomini di tutti i generi di consumo eccitanti e inebrianti e, a titolo di risarcimento, li si sazia di timor di Dio. Neanche di tale esperimento può destare curiosità l’esito.
Quindi la contraddirei, se lei deducesse ulteriormente che l’uomo non può fare a meno del conforto dell’illusione religiosa e senza di essa non sopporterebbe il peso dell’esistenza, la crudele realtà. Sì, non ne può fare a meno l’uomo cui fin dall’infanzia lei abbia instillato il dolce o dolceamaro veleno. Ma l’altro, quello che è stato allevato digiuno? Colui che non soffre di nevrosi forse non ha bisogno di intossicarsi per sedarla. L’uomo si troverà certo in tal caso in una situazione difficile; dovrà confessare a sé stesso la propria totale impotenza, la propria estrema irrilevanza nella meccanica dell’universo; cesserà di sentirsi al centro della creazione, oggetto della tenera sollecitudine di una Provvidenza benigna. Si troverà nella stessa situazione del bambino che ha abbandonato la casa paterna, dove si sentiva protetto e sicuro. Ma l’infantilismo non è forse destinato a essere superato? L’uomo non può restare eternamente bambino; prima o poi deve avventurarsi nella “vita ostile”. Si può chiamarla “educazione alla realtà”. Devo ancora rivelarle che intento esclusivo del mio scritto è richiamare l’attenzione sulla necessità di tale passo?
Verosimilmente lei teme che l’uomo non superi la dura prova? Ebbene, ci lasci continuare a sperare. È già qualcosa sapere che si può far conto sulle proprie forze. Allora si apprende a usarle come si deve. L’uomo non è del tutto privo di mezzi; dai tempi del diluvio universale la sua scienza gli ha insegnato molte cose e il suo potere diventerà ancora maggiore. Quanto alle grandi necessità del destino, contro cui non c’è rimedio, ebbene, imparerà a sopportarle con rassegnazione. A che gli serve il miraggio di una grande proprietà fondiaria sulla luna, dei cui proventi nessuno ha mai visto ancora nulla? Come tutti i bravi piccoli agricoltori di questa terra l’uomo saprà coltivare la sua zolla in modo da nutrirlo. Se distoglierà dall’aldilà le sue speranze e concentrerà sulla vita terrena tutte le forze rese così disponibili, riuscirà verosimilmente a rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più opprimente per nessuno. Allora senza rimpianti potrà dire con uno dei nostri coirreligionari: “Lasciamo il cielo agli angeli e ai passeri”.
10
“Questa poi è grandiosa! Un’umanità che rinuncia a ogni illusione, diventando così capace di organizzarsi in modo sopportabile sulla terra! Non posso però condividere le sue aspettative. Non perché sono quel testardo reazionario che forse lei mi crede, ma per accortezza. Credo che ora ci siamo scambiati i ruoli; lei si presenta come il sognatore che si fa trasportare dalle illusioni, e io rappresento l’esigenza della ragione, del diritto allo scetticismo. Ciò che lei ha esposto mi sembra costruito su errori che, nei suoi termini, posso chiamare illusioni, le quali rivelano abbastanza chiaramente l’influsso dei suoi desideri. Le sue speranze sono basate su questo: le generazioni, che non hanno sperimentato fin dalla prima infanzia l’influsso delle dottrine religiose, raggiungeranno facilmente l’agognato primato dell’intelligenza sulla vita pulsionale. Questa è ben un’illusione; su questo punto decisivo la natura dell’uomo non cambierà. Se non sbaglio – si sa così poco delle altre civiltà – già oggi esistono popoli che non si sviluppano sotto la pressione di un sistema religioso, ma non per questo si avvicinano più di altri al suo ideale. Se lei pretende eliminare la religione dalla nostra civiltà europea, la cosa può avvenire solo con un altro sistema di dottrine, che assumerebbe fin dall’inizio tutti i caratteri psicologici della religione, la stessa santità, rigidità, intolleranza, la stessa proibizione di pensare a propria difesa. Qualcosa del genere è necessaria per giustificare le richieste di un’educazione, a cui non si può rinunciare. La strada dal lattante all’uomo civile è lunga; troppi giovani vi si smarrirebbero e non sarebbero in grado di far fronte a tempo debito ai loro compiti vitali, lasciati senza guida alla loro evoluzione. Le dottrine applicate nella loro educazione imporranno sempre dei limiti al pensiero dei loro anni più maturi, proprio come lei oggi rimprovera alla religione. Non vede che l’ineliminabile difetto congenito della nostra e di ogni altra civiltà, è che al bambino, dominato dalle pulsioni e intellettualmente debole, si impongono decisioni che solo l’intelligenza matura dell’adulto può giustificare? Ma la civiltà non può fare altrimenti, per l’ammassarsi del secolare sviluppo dell’umanità nei pochi anni dell’infanzia; il bambino può dominare il compito assegnatogli solo con una forza di natura affettiva. Allora sono queste le prospettive del suo primato dell'intelletto”.
“Ora non deve stupirsi se sostengo di mantenere il sistema dottrinario religioso a fondamento dell’educazione e dell’umana vita associata. È un problema pratico, non una questione di valore di realtà. Dato che, nell’interesse di conservare la nostra civiltà, non possiamo aspettare, per incidere sul singolo individuo, che diventi maturo per la civiltà (molti non lo diventerebbero mai), e poiché siamo obbligati a imporre al bambino in crescita un qualche sistema di dottrine che funzioni su di lui come una serie di presupposti sottratti alla critica, il sistema religioso mi sembra di gran lunga il più idoneo allo scopo, naturalmente, proprio per quella forza consolatoria e appagatrice di desideri in cui lei pretende d’aver individuato l’“illusione”. Tenuto conto della difficoltà di riconoscere qualcosa della realtà, addirittura dubitando che ciò sia in generale possibile, non va trascurato che anche i bisogni umani fanno parte della realtà, e una parte davvero importante, che ci riguarda molto da vicino”.
“Un altro vantaggio della dottrina religiosa sta per me in una delle sue caratteristiche che la urtano particolarmente. La dottrina religiosa consente la purificazione e la sublimazione concettuale, che cancella quasi ogni traccia di pensiero primitivo e infantile. Ciò che allora resta è un contenuto d’idee che la scienza non contraddice più e nemmeno può confutare. Queste trasformazioni della dottrina religiosa, che lei ha condannato come mezze misure e compromessi, consentono di evitare la frattura tra le masse incolte e il pensatore filosofico, mantenendo tra loro quella comunanza così importante per salvaguardare la civiltà. Non c’è più da temere, allora, che l’uomo del popolo venga a sapere che gli strati superiori della società “non credono più in Dio”. Ebbene, a questo punto ritengo di aver dimostrato che i suoi sforzi si riducono al tentativo di sostituire a un’illusione provòùata e ricca di valore affettivo un’altra non provata e indifferente”.
Lei non mi troverà inaccessibile alla sua critica. So come è difficile evitare le illusioni; forse anche le speranze, in cui mi riconosco, sono di natura illusoria. Ma tengo ferma una differenza. Le mie illusioni – a parte non punire chi non le condivide – non sono incorreggibili come le religiose; non hanno carattere delirante. Se l’esperienza dovesse mostrare – non a me, ma ad altri dopo di me che la pensano come me – che ci siamo sbagliati, rinunceremo alle nostre aspettative. Prenda, dunque, il mio tentativo per quello che è. Uno psicologo, che non si sbaglia su quanto sia difficile raccapezzarsi in questo mondo, si sforza di giudicare l’evoluzione dell’umanità su quel poco di discernimento acquisito studiando i processi psichici del singolo individuo nel suo sviluppo dall’infanzia alla maturità. Gli si impone l’idea che la religione sia paragonabile a una nevrosi infantile ed è abbastanza ottimista da supporre che l’umanità supererà tale fase nevrotica come, crescendo, molti bambini escono dalla loro analoga nevrosi. Queste vedute di psicologia individuale possono essere insufficienti; la loro applicazione al genere umano può non sembrare giustificata, l’ottimismo infondato; le concedo tutte queste incertezze. Ma spesso è impossibile trattenersi dal dire quel che si pensa, e allora ci si scusa dicendo che vale quel che vale.
Su due punti devo ancora soffermarmi. In primo luogo, la debolezza della mia posizione non significa rinforzare la sua. Penso che lei difenda una causa persa. Possiamo ribadire quanto si vuole che l’intelletto umano è senza forze a confronto con la vita pulsionale e avere ragione. Eppure in tale debolezza c'è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è sommessa, ma non smette finché non trova ascolto. Alla fine, dopo numerose ripetute respinte, lo trova. Questo è uno dei pochi punti su cui si può essere ottimisti sul futuro dell’umanità, e di per sé non significa poco. Ad esso si possono riconnettere anche altre speranze. Il primato dell’intelletto sta certo in un futuro molto, molto ma verosimilmente non infinitamente lontano. E prevedibilmente là si pongono gli stessi scopi che lei si attende dal suo Dio – naturalmente in misura umana per quel tanto che la realtà esterna l’Ananche, lo consente: l’amore degli uomini e la limitazione delle sofferenze ci potrebbero dire che la nostra ostilità è solo provvisoria, non inconciliabile. Noi speriamo lo stesso, ma lei è impaziente, pieno di pretese – e perché non dirlo? – egoista come me e i miei. Lei vuole far iniziare la beatitudine subito dopo la morte, pretende da essa l’impossibile e non vuole rinunciare alle pretese dell’individuo singolo. Di questi desideri il nostro Dio Logos2 renderà realizzabile quel tanto che la natura a noi esterna consentirà, ma molto gradualmente, in un futuro imprevedibile e per nuove generazioni di uomini. A noi, che soffriamo duramente nella vita, non promette risarcimenti. Sul cammino verso questa lontana meta le sue dottrine religiose dovranno essere lasciate cadere, non importa se i primi tentativi falliranno e le prime formazioni sostitutive si mostreranno inconsistenti. Lei sa perché: a lungo andare nulla può resistere alla ragione e all’esperienza, e l’opposizione della religione a entrambe è fin troppo evidente. Neanche le idee religiose purificate possono sottrarsi a tale destino, nella misura in cui vogliono salvare ancora qualcosa del contenuto consolatorio della religione. Certo, se si limitano ad affermare l'esistenza di un essere spirituale più alto, le cui caratteristiche sono indefinibili, i cui intenti sono inconoscibili, allora sono al riparo dalle obiezioni della scienza, ma in questo caso sono abbandonate dall’interesse degli uomini.
In secondo luogo, consideri la differenza tra il suo e il mio comportamento con l’illusione. Lei deve difendere con tutte le sue forze l’illusione religiosa; screditandola – e davvero è abbastanza minacciata – il suo mondo crolla; non le resta che disperare di tutto, della civiltà e del futuro dell’umanità. Da tale schiavitù io sono, noi siamo, liberi. Essendo pronti a rinunciare a buona parte dei nostri desideri infantili, possiamo tollerare che alcune nostre aspettative risultino illusorie.
Liberata dalla pressione delle dottrine religiose, l’educazione non cambierà forse molto nell’essenza psicologica dell’uomo; il nostro dio Logos non è forse molto onnipotente; può realizzare solo una piccola parte di quanto promesso dai suoi predecessori. Dovendo ammetterlo, lo accetteremo rassegnati. Non perderemo l’interesse per il mondo e per la vita; abbiamo infatti in un punto un sostegno sicuro che a lei manca. Crediamo che sulla realtà dell’universo si possa apprendere qualcosa con il lavoro scientifico, qualcosa che servirà ad accrescere il nostro potere e a governare la nostra esistenza. Se questa credenza è un’illusione, siamo nella sua stessa condizione; ma, grazie a numerosi e importanti risultati ci ha dimostrato di non essere un’illusione. Ha molti nemici dichiarati e ancora di più mascherati, che non le possono perdonare di aver indebolito le credenze della religione, minacciando di abbatterla. Le si rimprovera quanto poco ci abbia insegnato e l’incomparabile in più lasciato al buio. Ma così si dimentica quanto sia giovane, come furono difficili i suoi inizi e la brevità del tempo trascorso da quando l’intelletto umano si è rinforzato al punto da poter affrontare i compiti della scienza. Non commettiamo tutti l’errore di fondare i nostri giudizi su periodi di tempo troppo brevi? Dovremmo prendere esempio dai geologi.
Si deplora l’incertezza della scienza, che oggi enunci come legge ciò che la prossima generazione riconoscerà come errore e sostituirà con una nuova legge, di altrettanto breve durata. Ma ciò è ingiusto e in parte non vero. I cambiamenti delle opinioni scientifiche sono sviluppo, progresso, non sovvertimento. Una legge, in un primo tempo ritenuta valida senza condizioni, si rivela un caso speciale di una legalità più vasta o limitata da un’altra legge, scoperta solo in seguito; una rozza approssimazione alla verità è sostituita da un’altra, più scrupolosamente adeguata, che a sua volta attende l’ulteriore perfezionamento. In diversi campi non è stata ancora superata una fase di ricerca in cui vengono azzardate ipotesi, che non tardano a dover essere rifiutate per la loro inadeguatezza; in altri campi esiste invece già un nocciolo di conoscenze sicure e quasi immutabili. Si è infine cercato di screditare radicalmente lo sforzo scientifico, argomentando che, in quanto vincolato alle condizioni della nostra specifica organizzazione, non potrà fornire che risultati soggettivi, mentre la natura effettiva delle cose al di fuori di noi rimarrà inaccessibile. Ma così si prescinde da alcuni fattori che ai fini della concezione del lavoro scientifico sono decisivi: la nostra organizzazione, che è poi il nostro apparato psichico, si è sviluppata proprio nello sforzo di esplorare il mondo esterno, e deve quindi aver realizzato nella propria struttura un certo grado di congruenza; essa stessa è parte costitutiva di quel mondo che dobbiamo esplorare e consente benissimo tale ricerca; il compito della scienza è assolutamente circoscritto, se ci limitiamo a farle dire come il mondo deve apparirci in ragione del carattere particolare della nostra organizzazione; i risultati ultimi della scienza, proprio per il modo in cui si acquisiscono, sono condizionati, non solo dalla nostra organizzazione, ma anche da ciò che incide su tale organizzazione; il problema della natura dell’universo senza riguardo al nostro apparato psichico percettivo è, infine, una vuota astrazione, senza interesse pratico.
No, la nostra scienza non è un’illusione. Sarebbe invece illusorio credere di poter ottenere da altrove ciò che essa non può darci.
1 Spero di non far torto al filosofo del “come se”, attribuendogli un’opinione che non è estranea ad altri pensatori. Vedi H. Vaihinger, Die Philosophie des Als Ob (1911, 7° e 8° edizione del 1922, p. 68). [trad. F. Voltaggio, La filosofia del “come se”, Astrolabio, Roma 1967, p. 59]: “Noi riportiamo nell’ambito delle finzioni non solo le operazioni teoretiche genericamente considerate, bensì proprio quei concetti che hanno inventato gli uomini migliori, concetti, insomma, ai quali fa riferimento il cuore della parte più nobile dell’umanità e che non è possibile eliminare. Non è certo nostra intenzione far sì che tutto si riduca a una finzione pratica, ma, d’altra parte, la verità teoretica che ad esse fa riscontro viene a cadere”.
2 La coppia Logos-Ananke [Ragione-Necessità] dell’olandese Multatuli.
0 commenti