- Il rito segna un passaggio
Di recente, in una manifestazione per l’8 marzo, festa delle donne, che si voleva anche una manifestazione di protesta contro il femminicidio e contro la discriminazione a danno delle donne, un intervistatore televisivo disse a una dimostrante “ma non vi pare che questi scioperi e cortei siano solo rituali?” Al che la dimostrante sdegnata rispose che no, che si trattava di atti politici concreti.
Anche in questo breve scambio si può ritrovare il succo del problema teorico del rituale. Il rituale è sempre connesso a un sospetto: che quando certi tipi di atti ripetuti dovrebbero essere efficaci ma si dubita seriamente che lo siano, si tratta appunto “solo di rituali”. Quel corteo femminile si proponeva come azione pragmatica. Ma lo era davvero?
Si profila qui una possibile differenza tra rito e rituale, che non affronterò in questa sede. Nell’attuale uso linguistico italiano, chiamiamo rito più che altro un atto – religioso, ma non solo – che si crede articoli un’azione, mentre il rituale è solo la forma del rito[1]. Da qui la connotazione negativa che spesso, nel nostro linguaggio, assume il termine “rituale”: come pura esteriorità del rito. Quindi, qui cercheremo una teoria non dei riti, ma di ciò che c’è di rituale in ogni rito.
In effetti, chi crede in un rito di solito presume che esso sia un atto efficace. Si pensi alla messa cattolica. Per il credente essa è certo un rituale, ma che ogni volta sfocia in un atto miracoloso: il vino si trasforma nel sangue di Cristo e il pane si trasforma nel Suo corpo. Ma si trasforma davvero? O si tratta appunto solo di un rituale? Il credente dirà che il rito della messa rende possibile l’evento trascendente, il non-credente dirà invece che l’evento è il rito stesso. Ritroviamo qui quel dubbio, o sospetto, che abbiamo evocato a proposito del corteo femminista.
Ma sia nel credente che nel non-credente è presente anche l’opinione inversa. Il credente può sospettare che si tratti di un rituale, perciò ricorre sempre al rito perché l’evento si produca. Mentre il non-credente deve ammettere che il rito stesso della messa è comunque un evento sociale reale, qualcosa che svolge una funzione per la comunità dei credenti.
L’uomo, diceva Wittgenstein[2], è “un animale cerimoniale”. Allora, ogni tentativo di spiegare il rituale come forma di vita cerimoniale non può ignorare questo fatto: che il rituale, come forma di un rito, si connette sempre in modo problematico a un atto – magico, miracoloso, politico, spirituale, o altro – che si presume efficace. Il rituale è un atto che trova il suo senso in un altro atto di cui dovrebbe essere la condizione, la cornice o l’espressione esterna. Ogni rituale è un ante-atto o pre-atto o sin-atto. Esso è qualcosa a metà strada tra l’enunciato e l’atto – o, se si vuole, tra la musica e la magia. Anche se c’è una magia della musica, e la magia stessa può essere attuata con musicalità.
Ora, ci si chiede: perché l’atto efficace (o presunto tale) deve essere preceduto e accompagnato da un rituale preciso? Perché l’atto non può prodursi senza la premessa rituale, la quale sembra quindi permettere l’atto? E in che cosa consiste questo atto che esige il rituale per compiersi?
Credo che l’atto celebrato da ogni rituale sia comunque un passaggio. Può trattarsi di passaggio di tempo, oppure di un cambiamento di stato civile, o di spazio, o di proprietà, ma sempre di passaggio si tratta. Si prendano ad esempio i rituali che in certi paesi accompagnano il conferimento della laurea: la laurea è un passaggio dalla condizione di studente a quella di post-studente, per così dire. E il matrimonio è ritualizzato nella misura in cui è un passaggio dallo stato di celibe/nubile a quello di sposato/a. Il funerale è un rituale che marca il passaggio dalla vita alla morte. La messa segna un passaggio di sostanza dal pane alla carne.
In quanto marcano un passaggio (sempre? quasi sempre? nella maggior parte dei casi? di frequente?), i rituali hanno quindi una natura ermetica. Ermes, per gli antichi greci, era prima di tutto la divinità del passaggio, di tutto ciò che si aliena e quindi muta: del passaggio dalla vita alla morte, dal sonno alla veglia e viceversa, dello scambio commerciale, del movimento, ecc. Ermes è anche la divinità dei trivi e quadrivi, dove si passa da una strada all’altra. Il rito, in quanto segna un passaggio, ha questa qualità ermetica.
Ma, come tutti sappiamo, partecipare alla celebrazione di un rito ha un significato per altri versi opposto al cambiamento: riafferma l’appartenenza del partecipante alla comunità rituale, che attraverso il rito persiste e si riafferma. Chi assiste alla messa, per esempio, assiste anche qui al passaggio drammatico dell’eucarestia, ma così facendo conferma e ribadisce la sua appartenenza alla comunità cattolica. Insomma, il rito riafferma la divinità che per i greci era giusto l’opposto di Ermes: Estia, il focolare. Che divenne poi la Vesta dei latini. La dea-vergine immobile, centro della casa e della città, assicurazione di una permanente stabilità[3].
Il rituale ha quindi essenzialmente una doppia faccia, che i greci avevano espresso nella complementarietà e opposizione, allo stesso tempo, di Ermes ed Estia: una faccia di cambiamento, e una di persistenza integra. E’ una cerimonia che allo stesso tempo segna un cambiamento ermetico, e che tuttavia ribadisce la continuità e permanenza della Comunità che assorbe e integra il cambiamento.
Ma l’idea del passaggio come mutamento implica sempre un dubbio, sia da parte di chi passa sia da parte di chi accoglie il “passante”: sarà lui o lei degno del nuovo status? Il rituale, permettendo il passaggio, evoca come in controluce tutto ciò che si oppone a questo passaggio: prima di tutto l’immaturità del soggetto che cambia stato civile o sociale.
Per esempio, nel rituale matrimoniale di oggi possiamo leggere tutte le difficoltà (un tempo serie) che occorre aver superato perché il matrimonio avvenisse. Ad esempio, è il padre che ancora conduce la sposa in chiesa: segno di un tempo quando il matrimonio era frutto di una negoziazione tra le due famiglie, e quando quindi l’assenso del padre era fondamentale. La sposa si veste ancora con l’abito bianco virginale, protestando quindi coram populo la sua illibatezza. Col viaggio di nozze si concede per un breve periodo ai novelli sposi l’esatto contrario di quello che il matrimonio di fatto è: non una fuga dalla propria società per godere di una sessualità sfrenata e irresponsabile, ma al contrario un impegno sociale accresciuto, la produzione di nuovi cittadini e il loro allevamento. E’ come se la ritualizzazione mettesse in scena proprio ciò che contrasta il matrimonio o vi resiste, al fine di ridurre questo contrasto a gioco, e quindi di esautorarne la carica distruttiva.
Quindi, i riti aiutano a compiere un atto preciso: il passaggio da uno stato sociale all’altro. Questa dinamica ha una faccia traumatica, come l’ha ogni cambiamento. Ma il rito, ripetendosi sempre identico, smorza il trauma, risucchia la dinamica: la mutazione cessa di essere evento radicale, viene ammortizzata. Ritualizzando i cambiamenti importanti, la comunità ritualizzante riafferma la sua continuità, diciamo la sua (sognata) immobilità. Da qui la doppia faccia del rito: da una parte sancisce il cambiamento mettendo in scena simbolicamente ciò che si oppone a esso; dall’altra riassorbe il cambiamento nella continuità degli atavici costumi sociali.
- Supplicare e permettere
Ma il rituale non segna solo un passaggio. Spesso esso aureola anche tre atti specifici: la performance magica, il culto o lode dell’Altro, la preghiera rivolta all’Altro. In verità l’atto magico è esso stesso un mutamento, in quanto esso è supposto modificare qualcosa di reale.
Pregare, supplicare l’altro – essere umano o dio – è una attività transitiva, intersoggettiva fondamentale che si presta particolarmente alla ritualizzazione. Pregare e supplicare non sono semplicemente chiedere qualcosa: sono azioni persuasive, l’altro va convinto a darmi quel che io supplicante chiedo. Per i greci antichi la persuasione, Peitho, era una divinità.
La tragedia più antica che ci sia pervenuta, secondo gli storici, è Le Supplici di Eschilo. In questa tragedia vediamo Danao e le sue cinquanta figlie impegnati a convincere, con abile retorica e argomentazioni etiche e politiche, Pelasgo, re degli Argivi, affinché egli li difenda dalla persecuzione dei cinquanta figli di Egitto. La supplica in questa tragedia appare ritualizzata, come essa era all’epoca. Occorreva farla nelle dovute forme, portando rami di ulivo ravvolti in bende di lana. Inoltre qui i supplicanti scelgono come luogo della preghiera l’altare degli dei agonali (Zeus, Poseidone, Apollo ed Ermes): quel luogo sacro rende le loro richieste più convincenti. Ma, a parte la cornice rituale, occorre comunque persuadere l’altro con argomenti razionali o muovendolo a compassione, con parole efficaci o con l’avvenenza dei corpi, perché conceda il dono o grazia (kháris). La supplica è un atto politico. Ancor oggi.
Ma quando e perché accade che l’atto della preghiera si ritualizza?
Un 19 settembre degli anni ‘70 partecipai nel duomo di Napoli alla cerimonia che si conclude con il miracolo di San Gennaro, ovvero con il liquefarsi del sangue misterioso entro una teca. Rimasi colpito dal fatto che – malgrado il sincero fervore di tanti fedeli – il tutto fosse molto ritualizzato: circolava in chiesa un libretto con le preghiere che tutti dovevano recitare ad alta voce, insieme, nell’ordine prescritto. L’evento miracoloso diventava di fatto la parte finale del rituale stesso.
Probabilmente la preghiera si ritualizza nella misura in cui l’atto drammatico della supplica perde valore. Se prego l’altro con parole codificate, quindi svuotate di forza illocutoria, allora non lo persuado. Perché allora tanto spesso le religioni riducono le preghiere a una semplice esecuzione di enunciati predefiniti?
Evidentemente perché non si ha più tanta fiducia nella potenza persuasiva della preghiera. Per svariate ragioni. Una è che la grazia (il dono) verrà comunque accordata dalla divinità: allora la preghiera diventa come un certificato burocratico, che basta esibire per ottenere la cosa che si vuole. Difatti, il miracolo di San Gennaro si ripete regolarmente ogni anno, il santo patrono non delude mai. Un’altra ragione, inversa della prima, della ritualizzazione è che si dispera (anche se non lo si vuole ammettere) di ottenere la grazia – forse perché sotto sotto si dubita dell’esistenza dell’Altro che dovrebbe concederla.
In certi paesi, come gli Stati Uniti, il conferimento di una laurea o di un equivalente si accompagna a un rituale preciso: l’atto vero è il conferimento del diploma, che potrebbe avvenire anche senza rituale. Perché allora accompagnare l’atto della graduation con un rituale? Quest’ultimo pare svolgere una funzione solo decorativa. Ma la funzione decorativa – dare solennità all’atto – è la faccia estetica di una funzione che chiamerei permissiva: il rituale pare rendere possibile l’atto, dargli forma sensibile e pubblica, insomma dare il permesso che l’atto si compia. Anche il rituale di S. Gennaro in fondo pare dare il permesso che l’atto (il miracolo) si compia.
Questa funzione permissiva del rito può oscillare tra un senso forte e uno debole. E’ forte quando l’atto esige il rituale come conditio sine qua non per compiersi, è debole quando il rituale è solo un optional, dato che l’atto si compirebbe comunque. Siamo inclini però a pensare che il rituale permissivo debole sia solo un indebolimento del rituale permissivo forte. La nostra società secolarizzata – che di fatto esautora i riti, e riduce il rituale a cornice meramente estetica – cerca di togliere al rituale il potere permissivo di cui esso godeva nelle società arcaiche. La modernità sdivinizzata cerca di togliere al rituale la sua forza performativa. Possiamo anzi dire, in generale, che la modernità, proprio perché è sempre più performante, proprio per questo è sempre meno performativa.
L’atto performativo è – come diceva John Austin[4] – fare cose attraverso parole. Se io prometto di venire domani a trovarti, non si tratta di una descrizione di uno stato-di-cose possibile o futuro: dicendo “prometto di…” effettuo un atto, quello appunto di promettere. Se non mantengo la promessa, difatti, posso essere accusato di essere una persona inaffidabile. L’atto linguistico performativo impegna chi lo enuncia, lo espone a conseguenze sociali precise.
Ora, ogni rituale – anche quando scade a pura rievocazione decorativa – pare portare ancora con sé una forza performativa: un rituale è una sequela di segni che fanno qualcosa. In certi casi fanno direttamente qualcosa: ad esempio, nel rito della messa fanno avvenire il miracolo dell’eucarestia. Nel rituale che caratterizza gli sposalizi in Italia, invece, l’atto del matrimonio non si identifica con il rituale che l’accompagna, ma questo rituale permette appunto all’atto (ovvero, il cambiamento di stato civile dei due sposi) di compiersi. E’ come se ogni rituale dicesse “facendo così e così, ti sarà permesso di…”
3. Il rituale sostituisce l’atto
Ma il rituale è un atto permissivo particolare: consiste in una sequela ben definita, regolata – spesso rigidamente – di atti (linguistici e non). Un rituale implica delle regole, una liturgia. Queste regole liturgiche sono come una sintassi: prescrivono la corretta concatenazione degli atti-segni, una pura articolazione sintagmatica, ovvero l’ordine delle sequenze.
Nella misura in cui il rituale è un ante-atto o sin-atto – una serie di atti che permette (o facilita) un atto – non importa che la serie di piccoli atti, verbali o gestuali, che lo costituiscono abbiano un senso: conta la giusta forma della serie. Ma abbiamo visto che questa sequela sintattica – cioè regolata e ripetitiva – ha un senso pratico, attivo: permette (quindi facilita) un atto sociale. Nel caso dei rituali magici, questo atto pretende di incidere anche sulla realtà fisica.
Eppure in molti casi questa funzione permissiva sembra fallire. Il rituale allora pare non permettere l’atto, piuttosto sostituirsi a esso. E’ quel che voleva dire il giornalista alla dimostrante di cui sopra: “un rituale politico si sostituisce all’azione politica anti-terrorista”.
Come vedremo, questa tentazione di sostituire il rito all’atto che esso dovrebbe permettere prende talvolta una piega inconfessabile: il rituale si risolve addirittura nell’inibire l’atto. Proprio il contrario di quel che ogni rituale dovrebbe fare. Nel cosiddetto rituale ossessivo, come vedremo, prevale questa funzione “morbosa” della ritualità: rimandare, o rendere impossibile, proprio l’atto che dovrebbe permettere. Del resto, il rituale è una permissione dell’atto proprio perché d’altro canto qualcosa inibisce o tenta di inibire quell’atto. Il rituale deve superare una forza che si oppone – talvolta segretamente – al compiersi dell’atto. Non ci sarebbe bisogno di permettere qualcosa se questo qualcosa non fosse, per altri versi, interdetto. Ma – qui è la sorpresa – talvolta l’inibizione che il rituale deve superare perché l’atto si compia… è il rituale stesso! E’ in questa allarmante dialettica, forse, che possiamo cogliere una chiave della vita cerimoniale dell’essere umano.
4. Rituali burocratici
Forse la natura della ritualità può essere chiarificata se mettiamo in relazione il rituale con due cose che non lo sono: certi aspetti della nevrosi ossessivo-compulsiva e la burocrazia. Nel primo caso la psichiatria parla appunto di “rituali ossessivi”. Non pensiamo invece mai alle procedure burocratiche necessarie per avere qualcosa come a un rituale, eppure ci sono chiare analogie. Rituali religiosi, procedure burocratiche e atti ossessivi sono tutte cose certo non identiche, ma imparentate. Per dirla con Wittgenstein, tra tutte queste cose c’è una “rassomiglianza di famiglia”[5]. Non c’è insomma una priorità genetica di una forma sulle altre, ma tutte e tre sono in qualche modo connesse, come sono connessi – per tratti comuni e differenze – gli individui uniti tra loro da parentela.
Come il rituale, anche il processo burocratico si basa su un’articolazione corretta di segni – ha una funzione permissiva. Eppure sappiamo che la burocrazia svolge di fatto anche una funzione sottaciuta, inconfessabile: quella sostitutiva.
Mario Schimberni in un’intervista a un giornale raccontava la sua esperienza – sostanzialmente fallimentare – di direttore delle Ferrovie dello Stato negli anni ‘80. Tutto nelle FS – lamentava – era paralizzato da una burocrazia asfissiante. Descrisse le mitiche “pratiche motrici”, le quali, contrariamente al loro nome, non erano né pratiche né motrici: erano piuttosto fonti di non-azione e immobilità. In effetti, le varie sequele di documenti discendevano ognuna da una pratica motrice: un documento-sorgente che metteva in moto non convogli ferroviari, ma piuttosto convogli di scartoffie, che non sfociavano quasi mai in atti pratici. Come in certi rituali, la degenerazione burocratica fa prevalere la funzione sostitutiva su quella permissiva.
Esiste l’apparato burocratico perché lo stato (o le varie istituzioni e autorità che esigono certificati) non si fida dei cittadini. Meno lo stato – o la banca, o l’azienda, ecc. – si fida di te, più ti costringe a fornire prove della tua attendibilità: che sei veramente tu, che non abuserai di questo documento, che non sei un ladro, un truffatore, che non hai mentito, ecc. Non a caso, i paesi dove più prospera la corruzione sono paesi funestati anche da una burocrazia fitta, pignola, farraginosa. Un paese dove dilaga la disonestà è iper-burocratico per due ragioni che si rafforzano a vicenda:
(1) la diffidenza nei confronti del cittadino, data la moltitudine degli imbroglioni, spinge lo stato a moltiplicare le richieste di documenti di garanzia,
(2) questa cappa burocratica permette ai funzionari corrotti di trarne vantaggio (facendosi ungere le ruote) e ai veri imbroglioni di manipolare la macchina burocratica, divenuta cieca, a loro vantaggio.
Per esempio, il comune e gli enti pubblici di Palermo sono piagati da una burocrazia pletorica. Carlo Sylos Labini si chiedeva se questa farragine fosse un modo di difendersi dagli abusi della mafia oppure se non fosse stata proprio la mafia a crearla per sfruttare il labirinto.
Quindi alla radice della macchina burocratica c’è un sentimento di sfiducia nei confronti del cittadino che chiede qualcosa – dono o scambio che sia – all’autorità. Sfiducia, diffidenza, dubbio: ritroveremo questi sentimenti nella fenomenologia ossessiva.
Non a caso in Italia si è parlato dell’auto-certificazione come di una rivoluzione del sistema burocratico. In effetti, accettando l’auto-certificazione, lo stato decide di fidarsi a priori del cittadino e delle sue dichiarazioni. Ci si è resi conto, finalmente, che il denso controllo burocratico costa di più alla nazione delle truffe e imbrogli che l'auto-certificazione facilita. Ora, il fatto che i documenti e le dichiarazioni che lo stato esige dal cittadino si chiamino, nelle varie lingue, certificati la dice lunga sull’esigenza fondamentale di ogni burocrazia. L’autorità che dona – sia esso un finanziamento, un riconoscimento, un diploma, un certificato a sua volta – vuole essere certa di te cittadino: il certificato deve sciogliere il dubbio, l’incertezza. La burocrazia è cartesiana: vuole essere certa del cittadino. In effetti, con Descartes iniziava un modo di fare filosofia che mette al centro l’esigenza della certezza e quindi del dissolvere tutti i legittimi dubbi sulla realtà delle cose: “penso, dunque posso essere certo che sono”. Ma un sistema burocratico da permissivo diventa inibitivo – e quindi si paralizza – proprio perché questa certezza non viene mai raggiunta, perché ci vuole sempre qualcosa in più perché essa possa essere assicurata (ma non verrà mai assicurata).
5. Rituale ossessivo e debito
Ritroviamo la sfiducia come chiave di volta quando dal “rituale” burocratico passiamo a quella burocrazia dell’anima che è la nevrosi ossessiva-compulsiva.
Per Freud gli atti ossessivi sono costituiti da vari atti psichici: “desideri, tentazioni, impulsi, riflessioni, dubbi, comandi e divieti”[6]. Qui ci occuperemo soprattutto dei dubbi.
Freud vede le compulsioni ossessive – che spesso assumono forme ripetitive e standardizzate – come effetto di un dissidio di sentimenti nei confronti di una stessa persona, essenzialmente amore e odio. Il sintomo ossessivo permette di alternare l’espressione di questa ambivalenza: può essere letto come l’oscillare incessante tra ostilità e amore nei confronti degli stessi (s)oggetti.
Freud stesso, in un breve saggio[7], ha proposto un’analisi comparativa dei rituali ossessivi da una parte e delle pratiche rituali religiose dall’altra: bisogna vedere “la nevrosi come una religione individuale e la religione come una nevrosi ossessiva universale”[8]. Del resto, esistono religioni più ossessive di altre. Forse la palma va a quella ebraica, che Vittorio Dan Segre definì una ortopraxia, vale a dire un insieme di atti “corretti” precisamente e minuziosamente definiti.
In ambedue i casi i rituali – individuali nella nevrosi, collettivi e socialmente condivisi nella pratica religiosa – avrebbero la funzione di proteggere il soggetto da impulsi sconvenienti, che il suo Io o la società non possono accettare. La differenza tra “religione individuale” e “nevrosi collettiva” sarebbe nel fatto che mentre il nevrotico si proteggerebbe essenzialmente da impulsi sessuali inammissibili, invece la persona pia si proteggerebbe essenzialmente da impulsi egoistici e anti-sociali. Questa tesi – funzione protettiva del rituale – appare a prima vista ben diversa da quella proposta da me più sopra, che sottolineava la funzione permissiva del rituale. Vedremo poi che i due approcci non sono così esclusivi come appare a prima vista.
Freud ebbe in cura il cosiddetto Uomo dei Topi, un giovane di 29 anni[9]. Costui di fatto si chiamava Ernst Lanzer. La sindrome ossessiva aveva avuto praticamente inizio a seguito della morte del padre, anni prima – la nevrosi appariva insomma come la forma di un lutto non risolto. Detto in breve, Freud spiega la fantasmagoria coattiva di questo caso con l’insolubile ambivalenza nei confronti delle due persone che egli ama di più al mondo: il padre morto, e sua cugina Gisela che ama da molti anni. Questi sono oggetto a un tempo – e in misura quasi equivalente – di amore e ostilità da parte del Ernst. Anche perché – per ragioni che Freud spiega fino a un certo punto – il padre e Gisela appaiono incompatibili. Infatti il padre aveva disapprovato la sua relazione con la cugina, forse per il suo alone incestuoso. Ma questo dato storico, per così dire, non basta certo a spiegare perché il Nostro veda queste due persone come rivali nell’egemonia del suo cuore. In effetti, nessun motivo realistico spiega questa incompatibilità tra le due figure. E’ come se il cuore dell’ossessivo non potesse dividere il proprio amore tra più di una persona, per cui, quando questo avviene, questo cuore diventa teatro di un conflitto permanente tra le due figure candidate al supremo amore (anche quando si tratta, come in questo caso, di un morto e di una viva).
Non solo quindi Ernst è dilaniato da sentimenti contraddittori nei confronti delle stesse persone, ma è dilaniato anche dalla contraddizione di amare entrambe queste persone.
Ernst vede un sasso sulla strada dove egli sa che, ore dopo, passerà la carrozza con la sua bella. Teme che questo sasso possa provocare un incidente e, per proteggerla, lo butta via da parte. Dopo però si pente di questo gesto come puerile e assurdo: torna sui luoghi e rimette il sasso in mezzo alla strada[10]. Questo potrebbe essere l’inizio di un vero e proprio rituale ossessivo. Ora, Freud lo spiega come un modo di dare corso ai due tropismi contraddittori verso Gisela: da una parte proteggerla amorevolmente da incidenti, dall’altra punirla esponendola a incidenti. L’ossessione è come un oscillare tra nero e bianco, senza che mai ci si riposi sul grigio.
Jacques Lacan e i suoi allievi, elaborando ulteriormente sulla nevrosi ossessiva, hanno fatto rilevare che in quel caso il padre e la cugina sono oggetto di questa ambivalenza, e posti in competizione, in rapporto a qualcosa che riguarda la vita passata del padre. Questi da giovane amava una ragazza povera, invece poi aveva sposato una donna con una buona rendita – la madre del Nostro. Anche Gisela è povera e in più, probabilmente, sterile: Ernst è tentato di seguire le orme del padre, di rinunciare alla sua bella, e di accettare un buon partito che nel frattempo gli viene proposto. Nel suo immaginario, il padre è un imbroglione che non paga i debiti agli amici, un donnaiolo e un cacciatore di dote che non riesce a essere fedele al suo desiderio amoroso – e il figlio sembra tentato di seguirne il modello. La morte di questo padre che non ha pagato, per così dire, i suoi debiti (amorosi, finanziari e morali), acutizza il suo dramma: è come se egli avesse ereditato il debito del padre. Da qui la nevrosi.
In generale, la forma di vita ossessiva pare ruotare attorno a un debito che il soggetto sente di dover pagare – di solito un debito non suo, ma di un genitore o di qualche altro ascendente – e che è impossibile saldare. Questo debito a sua volta rimanda a una sorta di sfiducia nei confronti dell’altro – in questo caso, nei confronti del padre. E’ come se l’ossessivo fosse eternamente indebitato dalla sfiducia nei confronti dell’altro.
Ad esempio, Ernst si era fatto mandare un pince-nez per posta e doveva rimborsare l’assegno per la spedizione a chi gli aveva anticipato la somma. Questa somma era stata anticipata dall’impiegata dell’ufficio postale in cui il pince-nez era giunto; costei, pur senza conoscerlo, si era fidata di lui e l’aveva pagata. Ora però, per errore, un capitano gli aveva detto che egli avrebbe dovuto rimborsare la somma a un certo tenente A. Questo errore lo mette terribilmente in crisi, egli non riesce a pagare il suo debito. In effetti, benché lo debba pagare alla signorina della posta, il comando letterale dell’altro (“paga il debito al tenente A.”) va comunque onorato. E’ una via senza uscita. Da una parte egli si sente costretto ad avere fiducia nei confronti del capitano, che gli ingiunge di pagare al tenente A.; dall’altra deve onorare la fiducia della ragazza, che gli ha prestato graziosamente la somma.
Dal celebre esempio freudiano a uno mio, personale. Sin da quando ero bambino, avevo come vicina di casa una donna, un’ossessiva grave. “Tonina la pazza” era ben nota in tutto il quartiere per i suoi rituali ossessivi: ogni volta che doveva superare una soglia – di un negozio, del portone di casa, dell’ascensore, e soprattutto di casa propria – si bloccava in una serie lunghissima di gesticolazioni enigmatiche e borbottii, che assomigliavano a preghiere rimuginate e a giaculatorie private. Questi suoni e gesti si accompagnavano a vari tentativi di superare la soglia, come in un tira-e-molla, finché alla fine, magari con l’aiuto di qualche passante, non riusciva a passare. Tutto questo non avveniva invece quando doveva uscire di casa, però.
Ho parlato spesso con Tonina, e ho constatato la sua enorme ambivalenza nei confronti del padre con cui viveva (era rimasta orfana di madre da piccola) e di cui era figlia unica. Gli rimproverava in particolare di averle impedito di sposarsi. Ma ventilava altri “peccati” del padre: insinuava quasi che egli l’avesse molestata sessualmente. Fantasia o realtà che fossero queste molestie, fatto sta che i suoi interminabili rituali di entrata sembravano esprimere la lotta tra due impulsi eguali e contrari: l’impulso di entrare in casa dal padre, e quello di fuggirne via. Conflitto che si rinfocolava davanti a ogni soglia.
Ritroviamo qui l’ambivalenza che nutre i sintomi ossessivi – comunque l’ambivalenza non è una specialità degli ossessivi – ma troviamo soprattutto la sfiducia nei confronti dell’altro. “Entro o non entro” sembrava connettersi a una sorta di doppia faccia (reale o immaginaria) del padre, stimato professore di matematica in un liceo della città, ma sul quale la figlia insinuava sospetti. Il dissidio che si esprimeva nel sintomo sembrava quindi testimoniare una fondamentale incertezza su quello che il padre poteva essere o fare.
- La lettera certificante
Un elemento fondamentale delle ossessioni le rende molto affini ai rituali: ciò che conta non è il senso, ma la lettera. Il fatto che Ernst non debba quel danaro al tenente A. è molto meno importante dell’enunciato letterale dell’altro che gli ingiunge di pagargli la somma. E’ come se il senso delle parole e dei segni in generale si eclissasse, per lasciare tutto il potere alla letteralità.
Ricordo un ossessivo in analisi. Costui era da molti anni fidanzato con una donna – senza mai decidersi a sposarla, da ossessivo come si deve – la quale molti anni addietro, pur essendo una ragazza di buona famiglia, aveva avuto un bambino da un rapporto occasionale. A questo suo figlio, fino all’età di 16 anni, fu fatto credere che sua nonna fosse la madre, e che la vera madre fosse sua sorella. Inoltre, la ragazza-madre si era fatta scrivere un certificato da un medico compiacente in cui si garantiva la sua verginità. Il Nostro conosceva tutti i dettagli di questa storia, eppure lui stesso si servì più di una volta di questo stupefacente certificato di verginità, come se lui ci credesse davvero. Lo mostrò a sua madre, ad esempio, perplessa per quella relazione. Non si trattava tanto di ingannare gli altri – a cui peraltro la verginità della sua fidanzata non importava granché – quanto soprattutto di ingannare se stesso. Vale a dire, come ogni ossessivo, di credere e allo stesso tempo di non credere nella verità. Tra la lettera e la verità c’è spesso una contraddizione, e l’ossessivo – pur sapendo che la lettera contraddice la verità – oscilla tra i due corni di questa contraddizione. Tra la lettera e la verità l’ossessivo resta incerto: resta in dubbio se deve credere alla verità fattuale o “credere” alle parole (comandi, divieti, profezie, promesse). E’ quel che chiamerei il clivaggio dell’Io ossessivo, il quale sembra sempre ripetere – come il superstizioso – “non è vero ma ci credo”.
Ma perché nell’ossessivo la lettera predomina sul senso, o ha lo stesso peso del senso, anche quando vi si contrappone? Probabilmente perché il soggetto nell’infanzia ha vissuto una discrasia catastrofica tra le parole e i fatti. In breve, almeno uno dei genitori gli ha mentito – c’è stato uno iato drammatico tra parole e verità. Ma come un bambino può dubitare della parola dei genitori, dato che questa parola, per un bambino, è il criterio stesso della verità? Il bambino crede a tutto quello che gli dicono i genitori non perché pensi che costoro gli dicano sempre la verità, ma piuttosto, per lui la verità è quello che gli dicono i genitori. La menzogna degli adulti può portare un soggetto immaturo a una vera e propria crisi epistemologica: la priorità che noi tutti attribuiamo alla verità sulla falsità, al senso sulla letteralità, è precocemente scardinata. Tra i segni e le cose, c’è di mezzo il mare ossessivo.
Non a caso l’uomo del certificato di verginità si identificava profondamente al giovane figlio della sua fidanzata ragazza-madre; come se anche lui fosse stato vittima di una menzogna sul suo posto nella catena della vita. Per esempio, fu molto impressionato dalla reazione del giovane quando gli si rivelò la verità sulla madre: “è una faccenda mia quello in cui devo credere o no!”, disse. Come se il ragazzo rivendicasse una sua autonomia nel credere o meno ai fatti, indipendentemente dalla verità oggettiva stessa. Tutti noi ci sentiamo obbligati a credere alla verità[11], perché in fondo assumiamo il credere nella verità dimostrata tale come uno dei nostri fondamentali doveri morali (eppure quante volte disatteso!). Ma non l’ossessivo: egli è sempre in dubbio se deve sentirsi obbligato a credere alla lettera oppure alla verità. Per lui, gnoseologia e ontologia non si implicano necessariamente: si può credere in qualcosa pur sapendo che non è vero – e d’altro canto si può non credere in qualcosa pur sapendo che è vero.
Si sa quanto ogni personalità ossessiva ami i conti, i numeri, il calcolo, e propenda agli studi matematici. Questo perché, come suol dirsi, “la matematica non è un’opinione” – insomma, solo la matematica dà certezza. Come il burocrate, anche l’ossessivo spasima per la certezza. Ma si tratta di una certezza derisoria: mi posso sempre sbagliare nel calcolare (il computer non si sbaglia, ma posso sbagliarmi a dargli i dati esatti). E’ come il dubbio iperbolico ipotizzato da Cartesio nelle Meditationes: il demone maligno può ingannarmi sempre, anche quando risolvo un’equazione semplice o conto gli angoli di un quadrato. Anche il calcolo numerico, ultimo baluardo della certezza, può venire espugnato dal dubbio, che diventa così abissale. E l’ossessivo dubita appunto sempre dei suoi conti, i conti non tornano – perciò non smette mai di ricalcolarli. La nevrosi ossessivo-compulsiva è un’iperbole vissuta dell’incertezza.
Perciò la coazione a contare è uno dei sintomi più caratteristici degli ossessivi. Ad esempio, Ernst Lanzer si sentiva obbligato a contare tra ogni fulmine e il tuono. Come rileva Freud, ciò si spiega proprio con l’impulso a “certificare” ciò che è incerto, vale a dire la successione del tuono dal fulmine. Perché se è vero che di solito il tuono segue il fulmine, è pur vero che non sempre si ode il tuono, e poi non si può dire quanto tempo dopo il tuono seguirà il fulmine. Si apre uno spazio pericoloso di incertezza, una faglia nel sapere, che la coazione computativa allo stesso tempo esprime e tappa.
7. Coazione a non capire
Scrive Freud di Lanzer:
Dopo la partenza [dell’amata] cadde in preda a una coazione a capire che lo rese insopportabile a tutti i suoi familiari. Si sforzava di capire esattamente ogni sillaba di ciò che gli veniva detto, come se altrimenti gli sfuggisse chissà quale tesoro. Sicché domandava continuamente : “cos’hai detto ?” e, quando le cose gli venivano ripetute, asseriva che la prima volta le parole gli erano state pronunciate in modo diverso e restava insoddisfatto[12].
Freud collega questa coazione a un diverbio con Gisela. Ernst aveva interpretato certe parole della fidanzata come se costei volesse sconfessarlo, ma poi lei lo aveva convinto che lui aveva frainteso le sue parole: la sua intenzione non era affatto di sconfessare quello che lui diceva. Da qui una paura di fraintendere continuamente le parole non solo della sua amata, ma di tutti.
Ora, ci sono due cose che si possono intendere bene o fraintendere: le parole letterali o il senso. Il Nostro aveva frainteso il senso delle parole della sua donna, non le parole stesse. Ma qui la coazione pare aggrapparsi alla lettera delle parole, sfuggendo ai rischi e alle incertezze del senso. E’ come se il fissarsi sulla lettera – tratto decisivo in ogni nevrosi ossessiva – servisse a certificare ciò che per definizione è sottoposto alle alee dell’interpretazione: l’intenzione significante dell’altro. L’ossessivo si abbarbica alla lettera per sfuggire al dubbio sul senso inteso dall’altro. Perché Ernst continua a dubitare delle parole della sua amata: lui crede di credere a quello che lei gli ha detto, cioè che lui ha frainteso il senso delle sue parole – ma ci crede poi davvero? In un angolo di sé, Ernst continua a sentirsi sconfessato dall’amata. In lui c’è ancora lotta tra un sé che ha fiducia e un sé che non ha fiducia nelle parole dell’altro. Deve fidarsi della propria lettura secondo cui quelle parole facevano diffidare di lui, oppure deve fidarsi della lettura dell’amata secondo cui quelle parole miravano a renderlo più affidabile? Fidarsi di me o dell’altro, della lettera o del senso, dell’interpretazione della lettera o dell’interpretazione del senso?
Questa coazione a capire – o meglio, a non capire – mi ricorda il puntiglio di molti burocrati i quali non sono mai soddisfatti della documentazione da te portata: ci manca sempre qualche cosa, o l’ordine di articolazione dei documenti non è quello giusto. In effetti, se il burocrate accetta la tua documentazione, avrai la “grazia” che richiedi; se la certificazione è insufficiente, la grazia è rimandata. Il burocrate ossessivo o sadico non si fida di te (comunque non ti ama, quindi non vuole aiutarti), perciò alza la posta della certificazione. Come Ernst con i suoi “cos’hai detto?” esprime la sua diffidenza nei confronti di quel che dice l’altro, così il burocrate esprime la sua diffidenza nei tuoi confronti. Pensa che in fondo tu non meriti la grazia, e quindi non accetta la tua certificazione, dato che comunque non può mai certificare definitivamente.
Ma questa prevalenza della lettera sul senso accade anche nel rituale religioso. Paul Claudel consigliava al miscredente: “prega nelle dovute forme, e alla fine crederai”. Il rapporto tra fede e preghiera appare qui invertito: il rituale della preghiera edifica la fede, non viceversa. In altre parole, la lettera pare certificare la verità. Il rituale è quindi una certificazione – non epistemologica, ma psicologica.
Infatti, come l’ossessivo, anche l’homo ritualis non si fida della propria fede. Non si fida del fatto che l’Altro – divinità o potere mondano – conceda la grazia, il dono. L’evento che il rituale permette e introduce può non prodursi – da qui l’incertezza. Il rituale quindi esprime e a un tempo supera l’incertezza, il dubbio: se non è certo che la divinità mi gratifichi, io gratifico certamente la divinità con il mio rito. Prima di sentirmi debitore nei confronti della divinità che mi ha fatto grazia, vincolo la divinità rendendola in qualche modo mia debitrice: il rituale è allora come una rete nella quale credo che, in un certo senso, l’Altro si impigli.
- I dubbi della moglie delusa
Freud ci parla di una signora che viveva separata dal marito, pur restandogli fedele[13].
Anche l’ossessione che le prese, di annotare il numero di ogni biglietto di banca prima di spenderlo, doveva essere interpretata storicamente. Al tempo in cui aveva ancora il proposito di abbandonare il marito qualora avesse trovato un altro uomo più degno di fiducia, si era lasciata corteggiare, in una stazione termale, da un signore, sulla serietà delle cui intenzioni era però rimasta in dubbio [corsivo di Benvenuto]. Un giorno, avendo bisogno di moneta, lo pregò di cambiarle un biglietto da cinque corone. Egli cambiò il denaro e ripose il biglietto dicendo galantemente che non se ne sarebbe mai separato, perché era passato per le mani di lei. Ritrovandosi più tardi insieme, essa era stata spesso sul punto di chiedergli di mostrarle il biglietto da cinque corone, come per convincersi [corsivo di Benvenuto] in tal modo che poteva prestar fede alle sue dichiarazioni. Se n’era però trattenuta per la buona ragione che i biglietti di ugual valore non sono tra loro distinguibili. Il dubbio restò dunque irrisolto [corsivo di Benvenuto] e le lasciò così l’ossessione di annotare quei numeri dei biglietti di banca, mediante i quali ciascuno può essere distinto individualmente da tutti gli altri dello stesso valore.
Mi colpisce quanto questo esempio di coazione si adatti male alla tesi che, in questo saggio, Freud sostiene a proposito della nevrosi ossessiva: che le coazioni compulsive sono misure con cui il soggetto si protegge contro tentazioni di natura sessuale. Ma quale tentazione inammissibile si esprimerebbe nel rituale di annotare il numero di ogni banconota? La Nostra ammette il suo desiderio di trovare un uomo alternativo al marito, dato che lei sembra aver dato spago al corteggiatore senza farsi troppi scrupoli. Certo il contesto di questa coazione – come delle altre di cui Freud ci parla a proposito di questa casta signora – è impregnato di odori amorosi, ma non si vede quale impulso colpevole si manifesterebbe in questo caso.
Eppure Freud suggerisce lui stesso la chiave – senza esplicitarla – quando scrive che si tratta qui di un dubbio: “quel tipo galante ha davvero conservato la mia banconota o no?” Fino a che punto avere fiducia nei confronti del maschio spasimante? Anche in questo caso, il sintomo pare voler assicurare una certezza – che si tratti davvero del biglietto di cinque corone a lei appartenuto. Applichiamo allora qui la teoria freudiana dello spostamento, per cui nelle ossessioni azioni affettivamente molto significative vengono spostate su azioni e oggetti anodini, sciocchi, secondari. Possiamo allora dire che l’impulso a identificare ogni banconota è effetto di uno spostamento di una domanda più essenziale: “per questo corteggiatore, sono io una donna intercambiabile, oppure significo qualcosa per lui in quanto sono solo me stessa?” Si tratta di una domanda che spesso le donne corteggiate si pongono. Questo dubbio si radicalizza nel soggetto ossessivo, e dilaga in situazioni lontane da quella del dubbio originario.
Freud sottolinea la sfiducia in se stesso dell’ossessivo – vale a dire, sfiducia nella propria capacità di resistere a impulsi eticamente sconvenienti. Ma quel che appare non meno essenziale nell’ossessione (sia di tipo nevrotico che religioso) è la sfiducia nei confronti dell’altro; nell’esempio specifico, nella capacità del desiderio maschile di distinguerla davvero da ogni altra donna. Ora, le banconote sono oggetti di scambio, non ha senso conservarle. Anche la nostra genitalità è qualcosa che scambiamo con l’altro, cioè è un mezzo di interazione con l’altro; il nostro sesso è un po’ la nostra moneta fisiologica. Ciò che non si scambia invece mai è la nostra individualità, ciò per cui ognuno di noi si distingue da qualsiasi altro: è questa che entra in gioco quando si parla d’amore, al di là dello scambio sessuale. L’amore non è scambio, ma devozione all’unicità dell’altro.
Questa signora che non riesce a evadere da un matrimonio infelice pare particolarmente interessata alle questioni di distinguibilità e individualità. Ad esempio, ci dice Freud, lei poteva sedersi solo su un’unica sedia, da cui poteva alzarsi solo con difficoltà. Per lei questa sedia significava il marito. La frase da lei stessa elaborata fu “E’ così difficile separarsi da qualcosa [marito, sedia] su cui ci si è seduti una volta.” Ciò che la Nostra pare rifiutare è insomma il punto di vista comune secondo cui una sedia vale un’altra, e una banconota ne vale un’altra di eguale numerario. Ma il punto di vista comune afferma anche che un marito vale l’altro? E che una donna ne vale un’altra altrettanto bella e giovane? Freud ha citato la frase di Bernard Shaw: essere innamorati significa esagerare indebitamente la differenza tra una donna e qualsiasi altra[14]. Freud non ci dice molto di questa paziente, ma possiamo congetturare che il dubbio che la arrovellava riguardasse proprio l’autenticità dell’amore (del proprio amore come di quello dell’altro): in che senso il vero amore è amore per qualcuno in quanto costui o costei non è affatto intercambiabile?
Freud ci riporta altri due sintomi ossessivi di questa donna. Durante i pasti era solita lasciare nel piatto il meglio dei cibi, mangiava solo le parti marginali di ogni piatto. Questo bizzarro comportamento risaliva al giorno in cui aveva rifiutato al marito i rapporti sessuali. Per Freud allora il sintomo significava “devo lasciare da parte il meglio [del piatto, del matrimonio]”.
Un’altra sua bizzarra coazione appare anch’essa connessa al rapporto sessuale. Ogni tanto la Nostra correva in una certa stanza e metteva a posto in un certo modo una tovaglia su un tavolo di questa stanza, chiamava col campanello la cameriera in modo che costei si accostasse a quella tavola e poi la rimandava via con una scusa qualsiasi. Nota poi che per lei era importante che quella tovaglia avesse una macchia, e che la cameriera potesse vederla. Osserva Freud:
Tutta la scena si rivelò essere la riproduzione di un’esperienza della sua vita matrimoniale […] Suo marito la prima notte di matrimonio aveva avuto una disavventura che non è infrequente. Era stato impotente ed “era venuto varie volte durante la notte di corsa dalla propria stanza” nella sua, per ripetere il tentativo. Al mattino egli disse che si vergognava di fronte alla cameriera che avrebbe rifatto i letti; prese quindi una boccetta di inchiostro rosso e ne versò il contenuto sul lenzuolo, ma in modo tanto maldestro che la macchia rossa si formò in un posto assai improprio per ciò che egli si proponeva. La paziente recitava dunque, con la sua azione ossessiva, la scena della sua prima notte di matrimonio[15].
Ritroviamo in questo ultimo sintomo il tema, così essenziale nelle ossessioni, della menzogna, dell’inganno e della sfiducia: c’è una donna che va mistificata. La vittima designata di questa mistificazione è la cameriera, ma c’è da chiedersi se, a monte, la donna mistificata non sia la paziente stessa. Da qui la sua sfiducia nell’uomo che le si propone come suo partner sessuale. Abbiamo già incontrato questa sfiducia nel sintomo delle banconote: emergeva anche attraverso questa ossessione la sua incertezza sul proprio essere un oggetto d’amore desiderabile per l’uomo.
In questi due ultimi casi ci troviamo di fronte a una situazione alquanto simile: ambedue i sintomi si riferiscono a un mancato atto sessuale. In un caso è lei a rinunciarvi, in un altro è il marito a esserne incapace. Il rituale ossessivo, a differenza del rituale religioso, non permette né facilita l’atto – compreso l’atto sessuale – ma, appunto, si sostituisce a esso. E’ come se il mancato godimento – il rapporto sessuale – si trasferisse tutto nel sintomo ossessivo, che obbliga il soggetto. La Nostra sembra diffidare dell’uomo nel rapporto sessuale – come se non gli credesse – e mettesse in scena questa diffidenza attraverso i segni sintomatici. Se dobbiamo credere alla ricostruzione di Freud, è come se tutte le coazioni della signora evocassero l’atto d’amore ma allo stesso tempo si sostituissero a esso. Come Tonina che esitava per ore davanti alla porta di casa, anche la paziente di Freud pare indugiare di fronte al rapporto sessuale – anche se ne aveva usufruito – imbastendo metaforicamente il dubbio irrisolvibile “devo fidarmi o no dell’uomo che dice che mi ama?”
9. Diffidare del dio
Dopo il lungo periplo per la hybris burocratica e quella ossessiva, torniamo al rituale propriamente detto.
Prendiamo il rito della messa cattolica. Esprime anch’esso un’ambivalenza, come pensava Freud? Ad esempio, dobbiamo sospettare che il miracolo della transustanziazione sia qualcosa che il fedele a un tempo desidera e teme? Ma perché questa ambivalenza? Forse perché si tratta di un atto “cannibalico”? Ma non tutti i riti religiosi portano a qualcosa di cannibalico. Lo sciogliersi del sangue di S. Gennaro connota invece un ritorno alla vita, il sangue è di nuovo pronto a circolare dopo la pietrificazione della morte. L’ambivalenza affettiva è solo una parte, nemmeno abituale, delle ragioni che possiamo supporre alla fonte del rituale. Eppure Freud, evocando l’ambivalenza – vale a dire un’oscillazione tra due fini contraddittori – coglie qualcosa di pregnante sia della nevrosi ossessiva che del rituale: il fatto che esprimano ambedue un’incertezza, e quindi un dissenso interno. La congettura più convincente è allora questa: il rituale esprime sempre un’oscillazione tra fiducia e sfiducia. E’ la forma estetica, sintattica che assume il dubbio, il non sapere se fidarsi o meno.
Ma di che cosa si fida e di che cosa non si fida il cattolico che va a messa? Probabilmente non si fida di quel che la religione gli dice: che davvero quel vino e quel pane si transustanziano. Non è solo la fede a spiegare la fenomenologia religiosa (rituali compresi), lo è anche l’incredulità. Questo dubbio investe in genere la divinità stessa: “ma bisogna proprio fidarsi di Lui? Davvero dobbiamo aspettarci da Lui il dono gratuito, la Sua benevolenza e protezione, insomma la Grazia?” Il dono grazioso nei nostri confronti da parte della divinità può essere negato.
Di solito, si convince la divinità a farci una grazia attraverso la preghiera. Oppure offrendogli qualcosa in cambio, come in un baratto – nella religione pagana, attraverso i sacrifici. Da notare peraltro che nei sacrifici greco-romani, ad esempio, il sacrificante si sacrificava ben poco: agli dei andavano certo i fumi della carne cotta degli animali sacrificati, ma la carne se la mangiava il sacrificante. Gli storici si chiedono oggi se gli Antichi mangiassero carne per sacrificare agli dei, o se sacrificavano agli dei giusto per offrirsi una mangiata di carne.
Nella religione cristiana invece, persino in quella cattolica, questo baratto con la divinità è visto con sospetto: il Dio cristiano dona gratuitamente, in cambio di nulla, per infinita misericordia. La Grazia non è un compenso per i nostri meriti, ma segue una “logica” della divinità per noi imperscrutabile. Eppure la pratica delle preghiere smentisce in fondo la teologia ufficiale: evidentemente la divinità vuol farsi pregare. Ma perché allora la preghiera si ritualizza, diventa – ad esempio nel rosario – una consecuzione puramente formale, sintagmatica, di atti supplicanti? Come accade che così spesso l’atto – patetico, drammatico, incerto, aperto – della preghiera si asciughi nel puro rito, vale a dire nella ripetizione chiusa di formule che hanno perso la loro carica semantica e performativa? Perché la preghiera è aperta – occorre vedere se e quando l’Altro la accetterà esaudendola – mentre il rituale di solito è chiuso. La forma stessa del rosario esprime questa chiusura.
Il rituale tende a essere chiuso proprio perché la pratica ottativa, da atto di preghiera o di proposta di scambio che era, diventa un atto dove la risposta è inclusa. Questo avviene sia quando la risposta è sempre positiva, sia quando essa è sempre negativa. Il fatto che il miracolo di S. Gennaro si produca sempre toglie all’evento la sua carica drammatica: l’evento stesso è di fatto incorporato al rituale preparatorio. La cerimonia di S. Gennaro è rituale perché ha sempre troppo successo. Ma proprio questo successo insospettisce il fedele: a che pro pregare, se l’Altro esaudisce sempre la preghiera?
L’inverso avviene probabilmente con la messa. In un certo senso, il miracolo non si produce mai, per lo meno in termini sensibili. Potremmo dire, maliziosamente, che la messa è il rituale cattolico fondamentale proprio perché è come se l’evento miracoloso fosse sempre rimandato. La ritualizzazione allora esprime il dubbio che la grazia sia stata davvero concessa – il dubbio se considerare un dono come ricevuto o meno. Ma il rituale è a un tempo espressione del dubbio e suo superamento, atto di sfiducia e rassicurazione contro la sfiducia.
Certo molte preghiere standardizzate, come il Paternostro o l’Ave Maria, sono anche Elogio della divinità. Lodano la divinità come introduzione alla supplica vera e propria, anche se questa talvolta manca. La preghiera quindi non è solo richiesta di grazia, è in fondo grazia essa stessa, ovvero dono della lode alla divinità. In apparenza la preghiera chiede un dono alla divinità, ma di fatto è un dono fatto alla divinità – un dono quindi che tacitamente La obbliga.
Si prenda il rosario delle beghine. Costoro recitavano rosari non solo quando dovevano chiedere una grazia, ma anche come rituale fine a se stesso, per il piacevole dovere o per il doveroso piacere di recitare il rosario. Quale desiderio, piacere o bisogno poteva spingere quelle bigotte a passare il tempo a snocciolare rosari? Secondo me, era proprio il piacere di far dono del proprio tempo alla divinità.
Ogni rito, probabilmente, esprime il dramma della fede: è un marchingegno per continuare a credere. Ogni rituale, in fondo, celebra un trionfo sulla sfiducia. Ma questo trionfo non è mai definitivo: ragion per cui il rituale deve ripetersi, sempre. Come Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga, analogamente il rito non riuscirà mai a superare la nostra atavica e radicale diffidenza nel dio.
10. Credere nell’onnipotenza dei segni
Credere nell’efficacia del rituale è una superstizione? Fino a che punto, e in che senso, il rituale è superstizioso?
Vediamo cosa accade nell’ossessivo. Spesso questi appare superstizioso, ovvero egli pare credere nella cosiddetta onnipotenza dei pensieri – che Freud chiamava piuttosto onnipotenza dei desideri. Io la chiamerei credenza nell’onnipotenza dei segni. In verità, come abbiamo detto, una parte dell’ossessivo crede nella superstizione, un’altra è scettica come ogni uomo moderno e colto deve esserlo. Ma mi chiedo se in ogni forma di superstizione – anche in quella in apparenza più credula – non ci sia una qualche divisione del soggetto: credulità e incredulità commiste[16]. In effetti, la superstizione di solito considera certi eventi dei segni che ci dicono qualcosa sul nostro futuro: se avremo buona o cattiva sorte. La lettura degli eventi come se fossero segni del destino risponde a un’esigenza fondamentale degli esseri umani: ridurre l’incertezza sul futuro. Diciamo, in termini mitici, che ognuno di noi è incerto se fidarsi o meno della dea Fortuna.
Come ottenere allora un segno del fatto che la Fortuna bendata ci sia amica oppure no? In qualche modo, la superstizione pallia la nostra sfiducia nei confronti di Fortuna. Se credo che ci sia un rapporto tra il fatto che un gatto nero attraversi la mia strada e il fatto che nella stessa giornata io perda una somma cospicua, credo che questa perdita fosse in qualche modo annunciata dalla traversata del gatto. La dea Fortuna sarà anche cieca, l’importante è che io ci veda e che sappia quindi leggere i segni della sua benevolenza o meno. La superstizione cerca di darmi un insight sugli umori della Fortuna nei miei confronti.
Possiamo considerare le persone particolarmente coraggiose – ad esempio, i soldati che partono giulivi per la guerra – come dei superstiziosi riusciti. E così persone che praticano lavori o sport pericolosissimi. Sotto sotto, pensano di essere nelle grazie della Fortuna. Razionalmente possono anche sapere che non è vero, ma in un angolo di sé pensano di essere invulnerabili. Il coraggio è una superstizione socio-sintonica, approvata anche dai razionalisti.
Il futuro – che tendiamo a personificare – può farci dono del successo e della felicità, oppure no. Ma non sappiamo come persuadere questa persona-futuro a dispensarci questo dono.
Come la superstizione, anche il rituale mira a persuadere l’Altro (divinità, fortuna o futuro che sia) a concederci i suoi favori. Ma in che modo il rituale persuade l’Altro a esserci favorevole? E’ che col rituale in fondo paghiamo un debito. Un modo di convincere l’Altro a darci la grazia è di dar noi graziosamente qualcosa all’Altro. Il rituale è quindi, sempre, anche un dono “interessato”, perché obbliga l’Altro. Come nel mondo pagano lo era il sacrificio (che includeva del resto un rituale). Le persone che recitano il rosario in qualche modo fanno dono di questo rosario alla divinità – così, senza ammetterlo, La indebitano.
11. Il capitalista superstizioso
Certamente il saggio più importante di tutta la storia della sociologia è L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Ancora oggi, si scrivono libri e saggi pro o contro le tesi di Weber, peraltro oggi ravvivate dalle nuove guerre di religione di questi anni. Ora, quel che impressiona tanto della tesi di Weber – pur spesso grossolanamente fraintesa – è che egli osi spiegare qualcosa di così complesso come il capitalismo su una base squisitamente psicologica. Ovvero, secondo Weber il capitalismo, almeno ai suoi inizi, si avvarrebbe di un marchingegno mentale chiaramente superstizioso. In effetti, le confessioni protestanti non dicono assolutamente mai che l’arricchimento in questa vita sarebbe un segno della salvezza del fedele post mortem – eppure l’uomo e la donna calvinisti, secondo Weber, si comportano proprio come se così fosse detto. Essi dedicano la vita ad accumulare danaro proprio come se questo successo fosse, se non una garanzia, comunque una prova della loro salvezza escatologica.
Alla base ci sarebbe l’angoscia poco sopportabile connessa all’idea di predestinazione, teorizzata dal protestantesimo: “sarò salvo non perché io mi comporti bene o male in vita – la salvezza non può essere ‘comprata’ con buone azioni – ma perché Dio ha deciso così, per Sue insondabili ragioni”. Dio è come la Fortuna: un’istanza imperscrutabile. Ma proprio perché né Dio né la Fortuna sono legati a una logica contabile basata sui meriti e sulle ricompense, diventa essenziale – per il superstizioso come per il calvinista – cercare di leggere lo stesso il mio destino attraverso indizi obliqui, non causalmente connessi a questo destino. L’incontro casuale con un uomo gobbo a Napoli annuncia una buona fortuna, la prosperità negli affari annuncia a me calvinista la mia probabile salvezza eterna – anche se né la gobba di un maschio né la gestione oculata del business sono connessi causalmente a ciò che promettono.
La superstizione e lo spirito calvinista usano insomma a tutto spiano quel che Freud aveva chiamato spostamento, vale a dire la deviazione delle poste davvero importanti su eventi od oggetti secondari, di per sé irrilevanti. La mia ricchezza economica non annuncia ufficialmente la Grazia di cui usufruirò, ma ne è come il segnale sghembo. E non importa che questa prosperità non sia un dono gratuito della sorte ma qualcosa che mi sono procacciato grazie a un’oculata gestione di ciò che ho: “aiutati che Dio ti aiuta”, ovvero, leggo la benevolenza divina nei miei confronti attraverso un profitto economico che io stesso ho assicurato. E’ una costante di molta mentalità religiosa: attribuisco alla divinità una grazia che io stesso mi sono procacciata – il che peraltro mi aiuta a concedermi delle grazie (è più facile aiutarti se pensi che anche un dio ti aiuta – quindi la fede è un buon affare).
Ma si può anche intuire perché la tesi così ardita di Weber appaia scandalosa a tutti i sociologi e storiografi che vogliono espellere le dimensioni inconsce e irrazionali dalla storia: ripugna pensare che una cosa seria come il capitalismo sia effetto di una strategia mentale squisitamente superstiziosa.
12. La stasi ossessiva
Abbiamo visto come il rituale ossessivo – al pari di una burocrazia degenerata – fallisca la funzione del rituale come permissione di un passaggio. Di fatto, l’ossessivo non passa mai. Lo abbiamo visto con Tonina la pazza: i suoi rituali marcavano il passaggio di ogni soglia, ma il punto è che la poverina non passava mai. E’ rimasta sempre zitella: non è mai diventata “una vera donna”. Immaginiamo che qualcuno avesse voluto sposare Tonina: immagino che lei si sarebbe impuntata sulla soglia della chiesa, e non sarebbe mai andata né avanti né indietro. Lanzer, il paziente di Freud, rinviava continuamente il momento di laurearsi e di sposarsi. Il rituale ossessivo è un rituale privato che non permette il passaggio – l’evoluzione – ma che di fatto blocca il soggetto nello stato precedente. Il rituale ossessivo mira al cambiamento di stato, ma non lo compie mai.
In molti paesi lo sposo deve prendere in braccio la sua nuova sposa per farle passare la soglia della loro nuova casa. Cosa può “significare” un rituale del genere? Gli antropologi hanno sfoderato varie ipotesi – compresa quella superstiziosa, secondo cui se la sposa cadesse nell’entrare, questo sarebbe davvero un brutto segno. Un’ipotesi più convincente è che il prendere in braccio la moglie per farla entrare nella casa coniugale mimetizza, in modo stilizzato, un ratto, uno stupro. Si suppone che la donna resista a entrare nel suo nuovo focolare, si ritragga dal rapporto sessuale, e che l’uomo debba conquistarla allo stesso tempo con forza e con dolcezza, prendendola in braccio come una bambina. Anche in questo caso, il rituale mette in scena una resistenza al matrimonio come cambiamento di stato, sociale e sessuale.
Il rituale ossessivo quindi prende dei rituali sociali solo la faccia di non-passaggio, di immobilità, di non-storia[17]. Il rituale sociale è un modo per superare la sfiducia e la ritrosia nei confronti di ogni cambiamento, mentre il rituale ossessivo è un modo per non superarle: l’ossessivo vagheggia il cambiamento, il passaggio, ma non li realizza.
Se Ernst sprofonda nella nevrosi dopo la morte del padre, è proprio perché questo cambiamento di stato civile, per così dire, del padre (da vivo a morto) implica anche un passaggio del Nostro: ora, divenuto orfano, potrà sposarsi senza opposizioni. Ma è questo doppio passaggio di stato civile che lo paralizza – ovvero, la nevrosi neutralizza il cambiamento. In questo modo, l’ossessivo pare invertire il passaggio dalla vita alla morte: egli è come un morto che non passa mai alla vita. La famosa rigidità del carattere ossessivo – spesso paragonata al rigor mortis – esprime in fondo questo mancato passaggio alla flessibilità e al movimento della vita.
[1] Sulla differenza tra rito e rituale, cfr. Bice Benvenuto, Concerning the Rites of Psychoanalysis, or The Villa of the Mysteries (Cambridge, UK: Polity Press, 1994).
[2] L. Wittgenstein, Bemerkungen über Frazers “The Golden Bough”, “Synthese”, D. Reidel Publ. Co., Dordrecht 1967; tr.it. Note al “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, Milano 1975.
[3] Cfr. Jean-Pierre Vernant, "Hestia‑Hermes. Sull'espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci" in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147‑200, Torino, Einaudi 1978, p. 149. Sulla pregnanza delle figure dialettiche di Estia ed Ermes nella tradizione filosofica, cfr. il mio “Hestia-Hermes. La Filosofia tra focolare ed angelo”, 2002, http://mondodomani.org/dialegesthai/sb01.htm.
[4] How to Do Things with Words, edited by J.O. Urmson; Cambridge, Mass.: Harvard University Press; Oxford: Clarendon Press, 1962.
[5] [5] Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Schriften, Frankfurt a.M. 1960, par. 66, p. 324.
[6] S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi), 1909, Opere 1909-1912, vol. 6, p. 55.
[7] “Azioni ossessive e pratiche religiose” in Opere 1905-1908, vol. 5, pp. 341-9. GW, 7, pp. 129-138.
[8] S. Freud, Opere 1905-1908, cit., p. 349. GW, cit., p. 138.
[9] S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’Uomo dei Topi), Opere 1909-1912, vol. 6, pp. 7-124. GW, 7, pp. 381-463.
[10] Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva, cit., p. 32. GW, p. 412.
[11] Ci crediamo obbligati, ma di fatto non sempre lo siamo. Alcuni lo sono ben poco. La grande nebulosa chiamata “superstizione” si basa proprio sul fatto che non ci sentiamo poi così obbligati nei confronti della verità. C’è una parte di noi – e non è affatto una parte inconscia! – che crede in ciò che sa essere non vero. Ma potremmo trovare anche molti esempi ben più complessi e inquietanti della pseudo-credenza superstiziosa. Ad esempio, fino a che punto crediamo davvero nella verità di certe idee politiche, religiose o pseudo-scientifiche per le quali saremmo pronti magari anche a morire?
[12] Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva, cit., p. 32. GW, p. 412.
[13] In “Azioni ossessive e pratiche religiose”, cit., p. 345. GW, 7, p. 134.
[14] Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921, Opere 1917-1923, vol. 9, p. 327. GW, 13, p. 158.
[15] Freud, “Azioni ossessive e pratiche religiose”, cit., pp. 344-5. GW, 7, p. 133.
[16] Cfr. Octave Mannoni, Clefs pour l’imaginaire ou l’Autre Scène, Ed. du Seuil, Paris 1969.
[17] Sulla sintomatologia ossessiva come “tentativo di fermare la freccia del tempo”, cfr. Elvio Fachinelli, La freccia ferma, L’Erba Voglio, Milano 1979.
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