Ostinatamente in presenza, questo è stato il leitmotiv del XX Corso Residenziale organizzato dalla Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica. In barba a quelli che possono essere gli innumerevoli vantaggi economici che offre un corso online; non solo economici ma anche in termini di sacrificio sia dei relatori che degli uditori. Un sacrificio però de-oggettivato, nel senso del donarsi soggettivamente non per un fine cosale ma per tenersi uniti, ubbidendo non ad una legge ma alla stessa chiamata che fu di Arnaldo Ballerini evocata attraverso il “raunai le fronde sparte”.
È ancora nelle intenzioni di un senso comune ormai in continua ricodificazione quello di unire? Non è meglio dividere in tanti rivoli, dove prevalgano, anche in campo professionale, tante iperspecializzazioni di singoli segmenti dell’infinito sapere e saper fare?
Ora la domanda emerge spontanea: come la presenza unisce? Non vorrei rispondere attraverso l’equivocabile riferire di un’opinione, né tantomeno attraverso l’uso, spesso tuzioristico, dei dati tanto cari al metodo scientifico, ma riportando una esperienza, una di quelle vissute. La mia, che senz’altro non sarà uguale a quella di altri, ma che inevitabilmente è stata invasa e pervasa dalle atmosfere, che ha risuonato alle situazioni, al contesto; certo influenzata, anche se sempre pronto a mettere tra parentesi, dal mio essere innanzitutto un essere umano con tante particolarità, talvolta intese come difetti ed altre in altro modo, e perlopiù dall’essere interessato all’evento in quanto psicologo e psicoterapeuta.
Sono ormai anni che seguo la Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica, molto di meno di tanti che ho conosciuto. Mi sono offerto di realizzare il sito e di tenerlo aggiornato. Contribuisco alla diffusione dei contenuti e degli eventi attraverso i social. Questo mi rende certamente di parte, ed è per questo lo annuncio in premessa a quanto sto per descrivere. Anche se sono socio non faccio parte del direttivo costituito ad oggi esclusivamente da psichiatri, quindi non do il mio contributo alla scelta dei contenuti né tantomeno alla definizione degli eventi. Sento forte il senso di appartenenza a questa realtà, dal giorno in cui dalla mia zattera che seguiva a vista l’orizzonte fenomenologico, mi è arrivata una cima, dalla Amerigo Vespucci della Psicopatologia Fenomenologica Italiana, da un certo Gilberto. Da allora molto più comoda è risultata la navigazione, che nel confronto mi ha reso più agile nel cogliere i venti e nel dispiegare le vele. Continuerò a definirmi, oltre che un eterno debuttante, in formazione permanente presso la Società. La Società mi ha sempre dato l’idea di una Scuola, ma non una di quelle dove si prendono titoli, dove si diventa la fonte di rendita dei professori dietro l’ormai indispensabile, per entrare nel mondo del lavoro, accumulo di master e specializzazioni. Una Scuola come quella che aveva in mente Sergio Piro, di cui non ho mai fatto parte se non nel solco della Scuola di formazione fondata dai suoi allievi, risultatami utile nei fini pratici per avere il titolo di psicoterapeuta, e dove ho raccolto, sui fianchi, le fondamenta fenomenologiche e quella spinta de-istituzionalizzante.
Una Scuola siffatta non promette nulla, non facilità l’accesso al mondo del lavoro, non risponde ad una legge, ma prova a tenere unite le diverse istanze, provando a rispondere alla chiamata che la Fenomenologia porta in grembo, cioè, “alle cose stesse”. Non so quanto riuscirà ad esistere e resistere alla fascinazione della contemporaneità, che spinge sempre più forte verso la mercificazione e settorializzazione del sapere. Per il momento c’è ed ha voluto che il corso residenziale si tenesse in presenza, nonostante le limitazioni e dopo che quasi ci stessero abituando al fatto che l’unica formazione possibile era quella a distanza.
Quasi mi ero disabituato a prendere il treno, non nascondo che tutti i mesi del confinamento non ho varcato i confini regionali, quindi per me ha significato tanto. Già immaginavo che se qualche relazione mi avesse annoiato non potevo chiudere la telecamera e dedicarmi ad altro; grande vantaggio di seguire i corsi a distanza, tanto poi le notizie ed informazioni potevo sempre andarmele a leggere nello sconfinato mondo del web o attraverso articoli e testi dedicati. Ma eccomi nel treno, prima Firenze, poi Figline. C’era il sole, caldo, zaino in spalla e via fino a Villa Casagrande, passando per l’unica vera piazza del piccolo comune del Valdarno. Nulla era cambiato dal Novembre 2019, come cristallizzato attendendo il ritorno dei viandanti. Si il mondo tutto sembra essersi preso una lunga pausa, ma nel frattempo un altro mondo iniziava a costituirsi, o meglio trovava terreno fertile per edificarsi ancor di più, quello virtuale, quello che costituisce e rafforza la fama ed il prestigio meteoritico, che così come divampa altrettanto rapidamente appassisce; insomma, così come accade ai nuovi divi da “Grande Fratello”. Un tempo che contraendosi su sé stesso, annulla fino a far scomparire l’essere, che diviene sempre più scintilla luccicante che però non infiamma.
Stava per iniziare il corso, ho posato lo zaino con il libro che mi aveva tenuto compagnia durante il viaggio, “Storia di un fiore” di Claudia Casanova. Mi hanno dato da pensare le radici della saxifraga, capaci di spezzare le rocce, entrando a loro interno e frantumandole, hanno un non so che di simile a quello che immagino sia la Fenomenologia; in grado di penetrare la durezza del modo di vedere le cose che oggi imperversa. Noi come api nei prati fioriti, con l’augurio di non essere quelle che ronzano attorno all’erbario catturati solo dal ricordo del polline di quei fiori essiccati.
Sui contenuti dell’evento e sullo spessore dei relatori nulla da dire, rimando per questo alla brochure di presentazione. Ovviamente le stesse relazioni le avremmo potuto seguire anche online, senza doverci muovere, senza dover impegnare il nostro apparato cinestetico. Avrei potuto scambiare qualche battuta con Danilo anche attraverso WhatsApp, invece che fuori al bar Greco in piazza, ma non avrei rivissuto la sua pacatezza mentre mangiava il gelato ed io che fremevo nell’andare in albergo per poter posare la roba.
Ho fatto qualche foto alle autorità intervenute ed al tavolo dei relatori. Seduti e distanziati tra la sala plenaria e quella di proiezione. Troppe richieste di partecipazione hanno costretto a questa soluzione. Tradizione vuole che ad ogni relazione si dia spazio anche agli interventi degli uditori. Ovviamente il tempo appare sempre poco e talvolta qualcuno non riesce ad interviene, mentre invece qualcuno viene invitato a fare domande. Ti accorgi tra quelli che intervengono ci sono anche persone che non sono medici, né infermieri, né psicologi, ma anche loro iscritti, e quella domanda talvolta, oltre che essere interessante come quella degli specialisti, mostra l’interesse comune; ma soprattutto noti che la Scuola è aperta a tutti, così come è la Fenomenologia che non può essere di appannaggio di questo o di quell’altro, ma proprio propedeutica all’apertura.
Non ha prezzo poter scambiare qualche riflessione con Massimiliano, tra una relazione e l’altra, anche sulla distribuzione dei fondi destinati alla Santità tra Nord e Sud nel dopo pandemia; anche perché non ho il suo numero e quindi non posso sentirlo telefonicamente. Poi mi ritorna in mente la storia raccontatami da Corrado, sulla nascita della Facoltà di Psicologia in Italia, mentre facevamo colazione, che purtroppo non ho trovata scritta da nessuna parte, di qualche anno fa. Come non dimenticherò mai l’incontro con Lorenzo, qualche mese prima della sua dipartita, a Lierna, mentre mi mostrava la bellezza delle cose semplici ben curate. Sono questi momenti “tra”, che rendono gli incontri in presenza altro e portano oltre.
Il momento della cena è sempre stato quello che mi ha dato la spinta per riprenotare i successivi incontri. Questa volta era da parecchio che non ci vedevamo di persona molti di noi, un momento goliardico che però salda ancor di più il nostro sentirci un gruppo, come per altro dimostrano le foto di Paolo, spesso riproposte nel nostro gruppo WhatsApp, ormai diventate una sorta di annuario. A tavola con noi anche Irene che tanto ci ha fatto preoccupare durante l’inizio della pandemia, visto che si trovava proprio dove tutto ha avuto inizio in Italia. I nuovi giunti non sono mancati, anche se non si è mai riusciti a fare un tavolo con proprio tutti i partecipanti al corso. Negli anni passati, una volta all’anno, eravamo tutti ospiti di Casa Ballerini. Una cena che si conclude sempre con l’incontro al bar insieme a Gilberto e Giampaolo, un altro momento semiserio. Rivedere Nicola, Matteo, Alessia e gli altri, toccarli, perché non siamo riusciti a non abbracciarci, me li ha fatti sentire vicini. La mia serata figlinese si conclude sempre con l’incontro con Massimo, con il quale resto sempre a parlare del fare clinico fino a tardi; un incontro sempre inedito tra l’impeccabile savoia e il grezzo brigante.
Un'altra giornata di corso ci aspettava, quest’anno fino al tardi pomeriggio, altri momenti “tra” pregnanti. Una giornata in cui ho preferito restare nella sala proiezione, per fare spazio a qualcuno che aveva prenotato solo un incontro. In quella sala l’attenzione era un attimo meno intensa, forse il non essere sotto lo sguardo dei relatori gioca un ruolo, proprio come quando si segue da casa. Le persone si alzavano più spesso, anche io.
Il ritorno con Roberto fino a Roma, per caso ci siamo trovati prenotati sullo stesso treno, mi ha permesso un po' di potermi lasciare andare a qualche confidenza, che mai avrei fatto a distanza. Ho anche letto un altro libro, “E tu splendi” di Giuseppe Catozzella, una storia meridionale, di quelle terre raccontate da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”; ripercorrendo il senso del “Ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece!” tratto dalle “Lettere luterane” di Pier Paolo Pasolini.
Che dire, questa scarna descrizione dei momenti non rende totalmente l’idea del come la presenza unisca, nemmeno se sia ancora intenzione comune quella di unire, né se sia meglio dividere. Posso solo dire che mentre provo a descrivere quei momenti non riesco a trovare le parole, le sensazioni sono ancora presenti e non vogliono essere contenute. Proprio in questo momento immagino che ciò che permette di dare forma a qualcosa come il formare non è solo l’argilla, né la mano, né il tornio ma il loro darsi reciprocamente; la presenza è come la mano, senza la quale un prodotto artigianale diventa industriale. Solo tenendo uniti gli elementi continueremo a realizzare manufatti artigianali, che ci permetteranno di poter trattare con riguardo le singolarità delle soggettività che ci ritroveremo a curare.
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