Il titolo del convegno ha preso spunto dal termine "liquidità", utilizzato dal sociologo Zygmunt Bauman ("Modernità liquida", Laterza 2002; "Amore liquido", Laterza 2004), per accostarlo a quella fascia sociale che chiamiamo "adolescenza". Ci sembra quindi che gli adolescenti contemporanei siano i soggetti che, con maggior evidenza, segnalino le contraddizioni caratteristiche della società contemporanea per come è descritta dal sociologo. La condizione adolescenziale, per le sue caratteristiche intrinseche di vitalità e di precarietà, segnala con intensità particolarmente evidente l’impatto che le trasformazioni socio-culturali producono sui soggetti, e l’adolescenza diviene in questo scenario la "popolazione target" per poter indagare gli sviluppi sociali futuri nella sua totalità, quindi una sorta di indicatore di "disagio della modernità".
Bauman prende lo spunto dal Freud de "Il disagio della civiltà", per sostenere che la civiltà è il frutto di un compromesso tra spinte diverse, tra il tentativo di raggiungere una individuale soddisfazione, e le esigenze poste dalla società – che hanno l’effetto di offrire al singolo una maggiore sicurezza a scapito però di una minore libertà, o meglio di una limitazione del soddisfacimento soggettivo -:non c’è guadagno senza perdita.
Si potrebbe dire quindi che l’adolescente contemporaneo ha guadagnato in libertà ed ha perso in sicurezza. O meglio, secondo la terminologia freudiana, che vi è stato un ribaltamento: prima era il "principio di realtà" a porre restrizioni al "principio di piacere", ora è il "principio di realtà" a doversi difendere da un giudice che è il "principio di piacere". Bauman ci descrive l’esperienza odierna come caratterizzata da una libertà potenzialmente infinita del soggetto accoppiata all’insicurezza infinita del soggetto stesso. La sofferenza più dolorosa dei tempi "liquidi-moderni", ci dice, è la paura dell’inadeguatezza: l’impotenza ad adoperare la propria libertà.
Questa angoscia mi sembra che definisca bene il vissuto degli adolescenti d’oggi.
Le riflessioni che seguono nascono da una doppia sorgente di stimoli, che sono la pratica clinica, il lavoro analitico con il soggetto in terapia, e il lavoro di ricerca sociale, meglio dire psico-sociologico. Le due sorgenti, secondo l’insegnamento di Sandro Gindro, si fecondano vicendevolmente e aprono spiragli di comprensione o di pensabilità altrimenti irrealizzabili. Si noterà quindi, lungo l’esposizione delle riflessioni, un continuo rimando e rinvio tra il registro clinico-psicoanalitico e quello psico-sociologico. D’altro canto, la psicoanalisi, nel suo essere teoria sociale e strumento di interpretazione del soggetto, ci offre l’opportunità di questo doppio sguardo, e, nel mio specifico armamentario concettuale la categoria dell’Inconscio Sociale – che collega il soggetto allo scenario sociale e culturale entro il quale egli è accolto – mi permette di osservare con libertà uno dei "luoghi" più tradizionali della psicoanalisi freudiana, l’Edipo, con lo spazio mentale per poter ipotizzare le eventuali modificazioni che possono esservi intervenute.
Mi verrebbe perciò da dire che, se qualcosa è cambiato nel "recinto" edipico, ciò non farà crollare l’edificio teorico della psicoanalisi. Come ci ricorda Fausto Petrella, molto è cambiato a proposito della collocazione dell’inconscio: esso non è più considerato zeitlos, un dispositivo psicobiologico fuori dal tempo, invariante, caratterizzato dall’inerzia assoluta ("I disagi della psicoanalisi nella postmodernità", spiweb.it).
Prendo quindi le mosse da un passo dell’articolo di Petrella: "in molti casi nell’adolescente post-moderno l’Edipo abortisce, più che risorgere, essere superato e tramontare"; e più avanti, a proposito di Evanescenza dell’Edipo: "Ciò non significa che l’Edipo sia scomparso, ma semplicemente che è stato evitato, o che non si è neppure potuto abbozzare alle soglie dell’adolescenza, in un contesto relazionale sfavorevole, da una relazione materna insufficiente o per la carenza di quelle pressioni pedagogiche e ambientali verso la separazione e l’integrazione personale, che non sono oggi assunte da nessuna figura, né familiare né extra-familiare. Le domande, alle quali sembra impossibile fornire una risposta univoca, si affollano, ma non è irrilevante né porsele, né dare ad esse delle risposte specifiche e che mi sembrano varino da caso a caso, su uno sfondo comune difficile da configurare entro i limiti dell’osservatorio analitico".
La domanda che mi pongo è: cosa è cambiato nell’Edipo degli adolescenti contemporanei? Cosa è cambiato nelle imago di mamma e papà? Non penso di potervi dare una risposta, ma di poter identificare una linea di riflessione che ci sembra utile, raccogliendo lo stimolo di Petrella quando scrive: "…relazione materna insufficiente e carenza di pressioni pedagogiche intra- ed extra-familiari" come possibile strada da percorrere.
Parto da una suggestione visiva che si riferisce al titolo del convegno: l’adolescenza liquida. La liquidità, in quanto tale, non ha forma se non contenuta. La sua forma è data dal contenitore. Ebbene, si può dire che l’adolescente contemporaneo è non contenuto.Meglio ancora: un liquido, nel distribuirsi lungo le superfici che incontra per gravità, prima o poi si fermerà, incontrerà una qualche forma di contenitore. Quindi, si potrebbe dire, ciò che caratterizza i liquidi è la ricerca del contenitore. Forse questa definizione si attaglia anche all’adolescente: colui che è alla ricerca di un accoglimento.
Facciamo qui riferimento al concetto di holding, di accoglienza/contenimento tanto caro alla psicoanalisi delle prime relazioni (Winnicott). Holding, tradizionalmente, è il compito materno per eccellenza nelle prime fasi evolutive dello sviluppo. L’accoglienza, il contenimento, sono appunto le caratteristiche della funzione materna. E’ nel primo rapporto con il corpo materno che si entra in contatto con l’altro, che si esperiscono i piaceri e le frustrazioni della relazione con il fuori, e che quindi si acquisiscono e si stabiliscono le regole dell’interazione sociale.
I segnali che ci vengono dall’adolescenza, sia riferiti ad un’accettabile "normalità" di condotte sia quelli francamente devianti o psicopatologici, ci mostrano una perdita di autorità/autorevolezza generalizzata riguardo al "contenitore" famiglia, che non ci sembra possa essere riferita solo alla perdita di ruolo del padre, o che non si limiti a questo.
L’eclissi del padre è dato ormai acquisito, non solo nei pensieri e nei racconti dei ragazzi e delle ragazze che chiedono aiuto allo psicoterapeuta, ma nella società, nella cultura. Perfino nella giurisprudenza: la categoria patria potestas si è modificata radicalmente.
A proposito dei miti di fondazione, sembrerebbe che lo scenario freudiano descritto in "Totem e tabù" si sia realizzato di nuovo, all’apice della "modernità solida" e ci introduca alla "postmodernità liquida". In effetti, alcuni comportamenti dissociali agiti dagli adolescenti ci fanno pensare appunto all’orda primitiva così come è descritta da Freud.
Non solo quindi "fuga" dei soggetti-padre dalla funzione paterna, ma delegittimazione dell’essere padre. Disvalore persino, in quanto inevitabilmente contaminato dal sospetto di sopraffazione e autoritarismo. Eppure la sua fuga dal ruolo è sentita come colpevole, spregevole, segnale di dichiarata incapacità. Non si esce dal paradosso: essere padre è il "mestiere impossibile" per eccellenza nella nostra cultura contemporanea.
Ci troviamo quindi di fronte ad una crisi del mandato culturale che definisce il significato e orienta i compiti di padre.
Nel libro La paura di essere padre (a cura di Pisciottano Manara, Magi 2007), di recentissima pubblicazione, si scrive che colui che sta diventando padre "sperimenta una propria storia regressiva, diversa e parallela a quella della madre. Una storia ‘stranamente’meno nota, meno studiata, meno dibattuta, quasi segreta. E’ vero che tutta quella scienza che va sotto il nome di psicoanalisi classica è praticamente fondata sul Padre, ma è vero che la paternità è stata poco studiata dall’interno". Quindi si riconosce il ritardo della cultura che si è nascosta di fronte al compito paterno, e si tenta di porvi rimedio: si apre il tema della "nuova paternità".
Questa apertura di riflessioni sulla figura paterna è segnalata, in questi ultimi anni, da una letteratura "nascente" appunto su questo tema (Cfr. Istituto degli Innocenti di Firenze, Rassegna Bibliografica, anno 7 n° 3-4, 2006, in particolare il box 4 sulla nuova paternità e nuova maternità).
E’ pensabile che, nella riformulazione reciproca dei ruoli paterno e materno, che non ha da essere uno scambio di ruoli ovviamente, sia più facile per il padre contemporaneo — poiché ha avuto il tempo per "digerire" la sua crisi e delegittimazione — poter avvicinare criticamente nuove forme di paternità, sperimentarle. Come ci insegna la psicoanalisi, l’esperienza di destrutturazione è pre-requisito di una successiva ri-costruzione su basi nuove.
In "La paura di essere padre" si scrive: "L’esperienza della generatività e della natalità non è più marginale per il maschio, che anzi è presente e guarda a questa vicenda con attenzione, curiosità e aspettativa. Tuttavia non possiamo non intuire che si tratta di un’esperienza diversa da quella materna, anche se questo diverso non si è reso ancora manifesto e non è stato teorizzato" … (la deriva è: o sono come mio padre o sono come mia moglie) (p.73).
Non è certo mia intenzione fare qui un discorso nostalgico o di restaurazione. Anzi, siamo di fronte ad un’opportunità straordinaria, pur scontando in questo momento di transizione più gli effetti di danno e disorientamento che quelli positivi. Ci sono spazi di libertà a disposizione, a patto che si sia — ci dice Bauman — adeguati alla sua gestione. Il padre ha davanti a sé una straordinaria opportunità e bisogna aiutarlo a trovare la sua strada.
Più difficile per la madre mettere in crisi il proprio ruolo, riflettere su possibili "posizioni materne" alternative, in quanto, rispetto alla figura paterna, ella non ha attraversato un periodo di de-strutturazione riconosciuto dalla cultura.
Dietro l’eclissi del padre – non sappiamo dire se positiva, necessaria o inevitabile ma comunque innegabile – si manifesta la presenza e la centralità della figura materna, unica presenza residua.
Siamo di fronte ad una crisi della funzione materna, resa macroscopica dalla sua solitudine come unica rappresentante dell’istituzione familiare. E, nello specifico del nostro convegno, di una madre che si trova di fronte al figlio nel momento dell’adolescenza.
Forse sarebbe più corretto dire che la famiglia contemporanea – dal vertice di osservazione che adotto – è binaria, non triangolare: una madre e un figlio. Nei racconti clinici degli adolescenti il tema della madre è presentissimo. Il padre non c’è e la sua assenza è pacifica, ovvia. Anche sofferta, ovviamente, ma accettata, ineluttabile. Molto spesso il padre non c’è fisicamente, è altrove, separato/divorziato, altre volte è solo presente fisicamente, ma ha rinunciato alla funzione genitoriale.
Il conflitto a proposito del "dover essere" è centrato sulle regole poste dalla madre. E’ la funzione materna ad essere messa in crisi dall’adolescente "liquido". Il padre è già eclissato. Sulla scena rimangono la madre e il figlio, spesso tutt’e due spaesati e in preda ad una percezione di assurdità. Nelle sue manifestazioni meno felici il dialogo messo in scena tra loro assomiglia alla rappresentazione di un testo del teatro beckettiano.
Stiamo quindi affermando la necessità di una riflessione, di una messa in critica della funzione materna contemporanea, in quanto porta in sé connotazioni nuove che ci sembra siano state poco esplorate.
Nella storia della psicoanalisi possiamo identificare l’inizio della "messa in analisi" della funzione materna non da subito ma molto presto, con Melanie Klein, nel momento in cui si riconosce alla donna la dignità di "attrice" dello scenario edipico e non più soltanto oggetto passivo del desiderio e del conflitto, della contesa tra maschi. Lungo il filone kleiniano sarà Winnicott, con la definizione di "madre sufficientemente buona", a porre l’attenzione sulla profondità e drammaticità della funzione materna. Ancora, Bion, con il concetto di réverie, riconosce alla madre la funzione di organizzatore e luogo accogliente del pensiero del bambino nelle sue fasi aurorali, la identifica quindi come soggetto-attrice del "miracolo" della salute mentale del figlio, esposta quindi a responsabilità profondissime.
Ora è il momento di riflettere sul ruolo materno di fronte al figlio adolescente, ovvero di fronte al compito dell’identità sociale, e di genere maschile/femminile.
Proviamo ad esplorare alcuni aspetti del fenomeno e a trarne degli stimoli di riflessione.
La "norma" materna, abbiamo detto, è quella della comunicazione corporea-arcaica-irrazionale-profonda-non verbale-inconscia. Ha a che fare con l’alfabeto dell’affettività, dell’amore, dell’essere per l’altro, dell’incontro, dello scambio.
Spostiamo ora l’attenzione sul piano sociologico, su ciò che talvolta è definito l’"analfabetismo" emotivo-affettivo degli adolescenti contemporanei, l’esiguità del carattere direttamente esperienziale della loro vita relazionale, spesso quasi ridotta soltanto al virtuale, alla molteplicità e superficialità di comunicazione mediata dallo strumento tecnologico che "connette" mantenendo la distanza, e che produce profonde esperienze di solitudine e di povertà affettiva, di solito non riconosciute come tali. Le competenze di interazione che gli strumenti tecnologici offrono, se non ben integrate con le altre, si manifestano come inefficaci nel momento dell’incontro, dello scambio vis a vis. Alle competenze nel campo della comunicazione tecnologica, si associa una incompetenza rispetto alla dimensione emotiva. Assistiamo ad una sorta di apparente agnosia emotivo-affettiva in cui il disordine nei codici per riconoscere la "presenza dell’altro" e gestire le emozioni/affetti espone a rischi che alcuni autori definiscono di deumanizzazione dell’universo relazionale.
Questa realtà ci fa riflettere sul disordine di cognizione della presenza di quella legge non scritta e non detta che è il primo codice appreso dalla madre. Disordine prodotto da una mancata integrazione all’interno dell’universo di valori riconosciuti dalla cultura.
Si è pensato che, nel momento in cui l’autorità paterna è stata definitivamente messa in critica e in crisi, lo scenario normativo della famiglia fosse caratterizzato dall’assenza di autorità/autorevolezza. E che questa fosse la causa della c.d. agnosia emotivo-affettivanei figli. Non ci si è accorti che proprio l’assenza del padre metteva in luce la presenza normativa della madre e le problematiche connesse.
Se prima dicevo che la caratteristica dell’adolescente "liquido" è appunto quella di non essere contenuto, ora posso dire che non è l’assenza di un contenitore (normazione materna) a determinare la liquidità, ma il disorientamento da parte dell’adolescente di fronte ad una norma percepita visceralmente, nell’inconscio, di cui non è consapevole, che non è pienamente riconosciuta dalla cultura corrente, non è legittimata.
Viene alla mente il concetto di anomia nell’accezione di Durkheim: non nel senso di uno stato oggettivo di assenza di norme, bensì la percezione, da parte del soggetto, di una sua non-integrazione con le norme, che risultano inadeguate, contraddittorie, non legittimate. L’individuo si sente così in balìa dei suoi desideri illimitati e frustrati, privo di riferimenti normativi chiari, abbandonato a rapporti sociali moralmente insignificanti. Ci dice Durkheim che l’origine di questo fenomeno è nella rapidità di un cambiamento sociale, come fenomeno transitorio e sintomatico.
Per Durkheim il concetto contrario di anomia è quello di solidarietà: eccoci quindi ai termini iniziali di solidità-solidarietà vs liquidità. Eccoci tornati a Bauman e a "Il disagio della civiltà" in questa edizione post-moderna.
Torniamo ora alla psicoanalisi, ma nella sua riflessione attuale.
Pellizzari sottolinea che "Il prolungarsi dell’adolescenza ben al di là del fenomeno fisiologico coincide con l’affermarsi della nuova patologia che caratterizza gli stessi pazienti adulti: il c.d. Disturbo narcisistico della personalità. … Il dilatarsi dell’adolescenza non è tanto l’espressione contingente di un disagio sociale, ma il segno di un cambiamento irreversibile dovuto al tramonto dei grandi contenitori culturali e identitari che avevano caratterizzato la storia passata come genitori autoritari". Ci ricorda anche che esiste un’"adolescenza del pensiero", una modificazione delle strutture del pensiero, oltre all’"adolescenza del corpo" che cambia. E’ in adolescenza che si mentalizzano gli accadimenti infantili, che la storia passata riceve un’organizzazione cognitiva, una sua legittimazione narrativa ed entra nell’identità del soggetto.
La letteratura socio-antropologica ci segnala che una delle caratteristiche strutturali dell’adolescenza contemporanea è l’impossibilità a rappresentar se stessi proiettati in un futuro. Ci parla di "presentificazione" del tempo (A. Cavalli), "esilio del tempo" attraverso la dilatazione del presente (S. Ardrizzo). Questo dato strutturale, fondante per la percezione del Sé, della propria identità/soggettività, forse può ricevere una possibile comprensione/spiegazione facendo riferimento a qualcosa che riguarda la progressione potersi pensare se si è stati pensati. L’ipotesi, di nuovo, guarda ai genitori come "organizzatori" di pensiero e di identità.
Sandro Gindro, facendo riferimento alla réverie bioniana, ci parlava del "bambino poco pensato" da parte dei genitori come esperienza difettuale che introduce a forme psicopatologiche in età evolutiva. Lungo questa linea si può ipotizzare che gli adolescenti vengano da un difetto di pensiero genitoriale: sono stati poco pensati nell’avant coup ed hanno difficoltà a pensarsi nell’après coup.
Questa ipotesi è supportata dall’evidenza che ci viene dalla fenomenologia dei disturbi psicopatologici degli adolescenti: non è presente il conflitto tra i desideri e le proibizioni, ma vi è un attacco al legame affettivo. Ci troviamo di fronte a patologie del corpo, del legame, dell’attaccamento nel senso di Bowlby, come i disturbi da attacco di panico, l’anoressia/bulimia, le forme di depressione più o meno mascherate, i disturbi di personalità. I sintomi mettono in scena una sorta di disorganizzazione delle emozioni/affetti, l’incapacità/impotenza a darvi senso, una ribellione di fronte a questa impotenza.
Se l’adolescenza è il momento in cui si dà parola e pensiero, cognizione razionale all’avventura infantile, allora è questo il momento in cui ci si confronta con l’imago materna, così presente con l’holding nell’infanzia, così ugualmente presente ora, nel periodo adolescenziale, come cardine normativo familiare.
C’è bisogno di una riflessione sulla funzione normativa della madre, a proposito di quel linguaggio/norma appreso più nella relazione con il corpo della madre, nell’infanzia, e che trova nuova attualità in adolescenza, in questo momento di riorganizzazione di un presente/passato/futuro che si possa distendere lungo una narrazione. C’è bisogno di riflettere sulla madre normativa di fronte al figlio adolescente.
Ad esempio, Pellizzari — prendendo le mosse dalla formulazione di Lacan del linguaggio come "legge del padre" – ci parla di "lingua materna come orizzonte di senso, funzione del significare che permette la trasformazione dell’eccitazione del bambino in vissuto affettivo, a sua volta trasformabile in rappresentazione verbale" (Fantasma e adolescenza, spiweb.it). E’ su questo e sul disordine riguardo alla funzione materna che la psicoanalisi deve riflettere.
Pietropolli Charmet, con il libro Non è colpa delle madri, dedicato agli adolescenti, ha ragione a centrare l’attenzione sulla madre, sa che sono loro le presenze nel pensiero adolescenziale. Comprende che l’autorità/autorevolezza fornitale o impostole dagli eventi socioculturali la caricano di responsabilità e di sentimenti di inadeguatezza e colpa. Sa che c’è bisogno di prendersi cura di lei. Ma, come ben sanno gli psicoanalisti, non è attraverso la rassicurazione, la negazione delle fantasie di responsabilità e colpa, che si attiva il pensiero, la pensabilità di un nuovo modo di svolgere il proprio ruolo.
Se è consentita un’incursione ardita nell’universo della mitologia classica – visto che si sta parlando di paura, colpa e relazioni di sangue – mi verrebbe di accostare all’Edipo Re di Sofocle – attorno al quale gli psicoanalisti danzano e riflettono da sempre – un altro mito, quello rappresentato sempre da Sofocle nell’Antigone. Lì si mette in scena il conflitto tra un uomo e una donna, e l’oggetto della contesa è il "corpo" di un familiare, Polinice, anche se in questo caso si tratta di una triangolazione parentale ma non genitoriale. Il conflitto è tra la legge del "maschio" e l’altra legge, quella di "natura", affermata da Antigone, la sorella di Polinice. Antigone parla appunto di "leggi non scritte e indistruttibili. Non soltanto da oggi né da ieri, ma da sempre esse vivono, da sempre: nessuno sa da quando sono apparse".
Come è nella profondità di tutta la tradizione tragica greca, il conflitto messo in scena non è sanabile, fa parte della dialettica conflittuale dell’esistenza umana. Non vi è soluzione se non la possibilità di dare cognizione alla contrapposizione, di "mentalizzarlo" direbbero gli psicoanalisti.
Creonte, lo zio-cognato, in qualche modo il padre-padrone, afferma la spietata legge dello Stato. Antigone, la sorella, la legge del sangue, della Natura (nomos vs physis, polis vs ghenos).
Stato e Natura non sono concetti invarianti, possono e devono essere messi continuamente sotto critica e riformulati, così come ci insegna la tradizione antica classica. Sono due concetti che appartengono alla Cultura, così come "padre" e "madre" vi appartengono.
E quindi, provo ad ipotizzare quali sono i compiti che la cultura e la "cura" dovrebbero darsi.
Rassicurare i padri sul loro possibile (necessario) ruolo educativo e formativo, a patto che si accetti una sua riconfigurazione e non lo scimmiottamento della "mammità" o la riedizione del padre-padrone. Accompagnare le madri verso una riflessione e riconfigurazione riguardo alla loro azione normativa e superegoica, affinché non entri in conflitto o contrapposizione con il suo "mandato affettivo" che le è tradizionalmente consegnato. Questi due compiti comportano un lavoro di riflessione e anche di destrutturazione del "già saputo" da parte degli addetti ai lavori, primi fra gli altri gli psicoanalisti. Agli adolescenti bisogna offrire uno spazio di pensiero dove collocare la figura della madre normativa, oltre a quella di un padre "ritrovabile" (Nota 1).
In finale una osservazione rassicuratoria per chi fa il mestiere dello psicoterapeuta. Gli adolescenti segnalano nella stanza di psicoterapia — quando le cose vanno bene – un’invariante che dà solidità al ruolo del terapeuta: la loro ricerca di affettività è tale e quale a quella dei loro padri e madri. Ci possiamo quindi rassicurare sull’esistenza di "psichemi", forse universali, che nella molteplicità e variabilità delle forme culturali, offrono spazio di lavoro nella ricerca del benessere degli individui e delle strutture sociali.
Nota 1
Si potrebbe ipotizzare, come linea di ricerca, una sorta di applicazione alla famiglia con adolescente di ciò che hanno fatto all’Università di Losanna con Il triangolo primario (E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery, Cortina 2000) sull’osservazione delle interazioni madre-padre-bambino nei primi mesi di vita. In qualche modo la Baby Observation, con la messa fuori campo del padre, ha inaugurato la legittimazione dell’assenza paterna.
Commento di prova
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