"Nel 1998 era agli inizi del mio corso di specializzazione e tentavo di orientarmi tra correnti di pensiero e autori, nella speranza di trovare la giusta strada.
Impattando nella foto di una pubblicità, che potete vedere da voi, mi sono ricordato di questa piccola riflessione che scrivevo in privato, nel tentativo di fissare le idee e non perdere lo spunto critico.
Lo propongo, con tutti i suoi limiti, a giovani psichiatri in formazione come stimolo a mantenere, da subito, un atteggiamento attento, critico e di ricerca, non incline a fascinazioni.
Da allora ho sempre considerato la psicopatologia come un sapere e un vocabolario concettuale fondamentali, ma sempre ancillare a modelli più complessi, in particolare quello psicodinamico, per affrontare l'incontro e l'approccio psicoterapico con tutti i pazienti, da integrare con quanto le neuroscienze possono oggi raccontarci sull'essere umano"
Binswanger, nell’introdurre l’antropoanalisi della stramberia, dice che”si tratta di considerare gli strambi non più come persone inaccessibili, intrattabili, più o meno inutili socialmente1, asociali, eccessive, eccentriche, autistiche [quelle che chiameremmo schizofreniche, ndr], anzi bisognerà rinunciare a esprimere in parole le impressioni che essi suscitano in noi”(pag.55). Si tratta di capire il loro modo di essere: questo è il compito della antropoanalisi. Binswanger aggiunge che quanto si dice sulla stramberia con questo approccio non è “una mera traduzione da una lingua ad un’altra” (pag.56) ma piuttosto “di una traduzione di un certo ordine di opinioni (doxa) in un sapere (episteme) sicuro del suo oggetto e del suo metodo”. L’antropoanalisi quindi si pone come strumento oggettivo di studio dell’individuo capace di risolvere le inesattezze sensoriali, impressionistiche delle discipline psicodinamiche o psicologiche più in generale, per loro natura soggettive e opinabili. Queste discipline, in cui la clinica si adagia sul linguaggio comune, hanno la caratteristica di definire stramba quella “persona che, per quanto riguarda la percezione delle cose, i piani, il pensiero, l’attività, il comportamento, ecc., procede in modo diverso – appunto strambo, distorto, contorto, eccessivo – dal «nostro»”. Queste teorie non chiariscono il rapporto tra “io e mondo”.
Date queste premesse, presenta il caso clinico: un padre mette una bara sotto l’albero di Natale, come regalo per la figlia malata di cancro.
L’impressione che suscita in noi, immersi nell’”esperienza naturale”2, dice B, è un pugno in faccia: siamo scandalizzati.
Questa impressione non deve però guidarci nell’analisi di questo gesto (l’impressione annullerebbe ogni possibilità di analisi oggettiva): ci si chiede a questo punto se l’impressione non ci è già stata necessaria per soffermare la nostra attenzione a questo specifica modalità di festeggiare il natale rispetto agli altri possibili (perché B sceglie questo gesto gesto e non quello in cui, per esempio, un padre regala un giocattolo alla figlioletta? Non forse per questa impressione di pugno in faccia? Perché sente così?).
Si procede a questo punto con l’antropoanalisi che, se mette da parte l’impressione, nasce necessariamente dalla sottolineatura che l’impressione ha posto sotto questo particolare evento, altrimenti non distinguibile dagli altri eventi possibili. L’antropoanalisi procede dove l’impressione ha fatto luce, sostenendo la necessità di non dare valore all’impressione. E’ così che un’esperienza soggettiva viene trasformata in oggettiva, cioè condivisibile, spiegabile come una comune esperienza di laboratorio.
Bisogna allora far finta di non saper che quel regalo è quanto di più inopportuno e brutale ci possa essere e procedere da un nuovo punto di vista: quello del padre il cui particolare essere-nel-mondo permette una coerenza tra una bara e il regalo di Natale.
Come di distinguere la stramberia da altri comportamenti anomali e fastidiosi e che strambi non sono? “Alla base della stramberia deve stare, conformemente all’impressione (corsivo mio) che suscita in noi, una chiara e univoca possibilità esistenziale”. Ecco ancora che l’impressione getta una luce, fugace, che, dopo averci indicato quel gesto tra milioni di altri possibili, ci fa sentire la sua unicità (come possibilità di distinguere da altro: vedi oltre). Ma va subito rimessa da parte per evitare che inquini il nostro procedere scientifico e oggettivo.
“Questo problema non è quindi di natura psicologica o psicopatologica, bensì di natura fenomenologica-antropoanalitica. Noi non cerchiamo né i motivi (l’etiopatogenesi, ndr) che potrebbero aver indotto il padre ad agire in quel determinato modo, nè cerchiamo di definire il suo rapporto con la figlia o il suo rapporto con la morte (correlare questo con l’angoscia di K), e nemmeno il tipo della sua costituzione”: il rapporto cioè il dato relazionale non può essere indagato, anche se è questo che ci ha impressionato. L’essenza della stramberia, come particolare modo di essere nel mondo, si coglie studiando la coesistenza (l’essere-nel-mondo e l’essere-con-gli altri) particolare che è sottesa nel gesto strambo. Il dono natalizio rimanda all’”appagatività, al complesso di rimandi”. Il far piacere alla figlia diviene per lo strambo fare qualcosa di cui ella ha bisogno. L’essenza della stramberia in questo caso si esplica così: “il tema dono natalizio viene spinto fino al punto da diventare incompatibile con le sue ovvie conseguenze, con la volontà di procurare piacere mediante un dono, viene spinto cioè al di là della coesistenza, fino al punto di trascurarla completamente” (pag.61). Se il regalo natalizio è l’elemento comune tra padre e figlia (di condivisione) la sua presunta consequenzialità (se la figlia malata può ancora aver bisogno di qualcosa, la bara è l’unico regalo utile) diviene illogica perché questo passo “verso l’apertura della comunicazione e della coesistenza, viene vanificato dalla scelta stessa del dono, viene rovesciato nel suo contrario”. La figlia non può condividere questo modo di essere del padre.
Se un regalo di Natale dovrebbe rimandare ad una totalità di appagatività, per cui il regalo veicola affetto, calore, interesse etc., la scelta stramba limita tutto questo all’appagatività dell’utile (l’unica cosa di cui ha bisogno). Il tema del regalo è distorto, cioè è storto al punto tale che il gesto è irrecuperabile e la “stramberia si rivela una conseguenza penosa del perseguimento di un tema”.
L’antropoanalisi non può dire di più: “è vero tuttavia che siamo lontanissimi dal cogliere nella sua purezza l’essenza del fatto esistenziale della stramberia attraverso una ideazione adeguata o intuizione , e anzi non dobbiamo nemmeno aspettarci di poter conseguire questo scopo. Infatti la ricerca antropoanalitica deve accontentarsi di rilevare l’essenza di un modo d’essere fattuale o di un determinato processo esistenziale fattuale sullo sfondo dell’Esserci o dell’essere-nel-mondo, di rilevarlo fenomenologicamente e di descriverlo nella peculiarità delle sue caratteristiche fondamentali. Il limite di questa comprensione e di questa descrizione è stabilito dal tatto fenomenologico e dall’esperienza antropoanalitica” (pag 89).
Riassumendo quanto finora detto possiamo dire che il fare (non-fare) antropoanalitico nell’analisi di questo caso procede così:
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l’impressione ci fa cogliere la diversità di uno strambo dalle altre modalità d’essere; ci permette di distinguerlo e ci spinge ad una ricerca sul suo modo di essere (dettata dalla curiosità e dal “pugno in faccia”);
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l’impressione ci guida nel dire che la stramberia (che a questo punto e ancora e soltanto la particolare impressione che un oggetto suscita in noi, che ci stimola la curiosità di capire ed è quindi l’unica cosa che ce la rende distinta dall’altro, dal non-strambo) è qualcosa di unitario, di non confondibile con altre modalità anomale, magari ugualmente fastidiose e “raccapriccianti” (per esempio lo stesso gesto, il regalo di una bara, compiuto dal sadico per ferire un’altra persona: non è il gesto [comportamento] in sé a darci l’impressione di stramberia ma l’impressione del gesto insieme alla intuizione delle motivazioni, conscie ed inconscie, che lo animano [voler fare, paradossalmente, qualcosa di utile]);
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a questo punto, identificato l’oggetto dell’analisi (che, ribadisco, esiste solo nella misura in cui l’impressione ce lo fa cogliere e ce lo isola dal resto, dandogli unità ed esistenza “nosografica”) l’impressione va accantonata per lasciare spazio all’analisi oggettiva dell’essere-nel-mondo e dell’essere-con-gli-altri. La stramberia è sviscerata in tutta la sua dinamica di incoerenza tra le premesse e le conseguenze e sembra prendere forma;
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fatto questo, si rilevano i limiti di questo procedere che deve necessariamente privarsi dell’intuito che potrebbe dire di più; l’antropoanalisi deve accontentarsi per essere oggettiva, condivisibile (una volta accettatone il modo di procedere). Esiste un limite oltre il quale l’antropoanalisi non può spingersi: questo limite lo determinano “l’esperienza antropoanalitica e il tatto fenomenologico” (pag. 89). Ma cosa sarà mai questo tatto fenomenologico? Un istinto castrato dalla necessità di essere razionale?
Abbiamo visto l’importanza delle impressioni e la necessità di allontanarsene; l’antropoanalisi “deve accontentarsi” e rinunciare all’intuito. Questo limite dell’antropoanalisi paradossalmente supera i limiti dell’intuito e dell’impressione (che però B. ha detto, in precedenza, possono andare oltre, portando però il discorso sul piano dell’esperienza soggettiva):” tuttavia, a differenza di ciò che avviene nel linguaggio comune come anche nel linguaggio clinico che ad esso si rifà, non ci siamo fermati alle impressioni che noi raccogliamo nel nostro commercio con uno strambo in quanto mezzo umano utilizzabile, né alle qualità che “noi” constatiamo nei soggetti strambi in quanto cose o meglio in quanto soggetti reificati attraverso il nostro “distacco” teorico. Abbiamo cercato piuttosto di lasciare che fossero gli stessi soggetti strambi ad esprimersi ed insieme di comprenderli nella loro esistenza e nel loro mondo” (pag 91). Questo per arrivare a dire che lo strambo esprime comunque una sua modalità relazionale che è consequenziale al suo essere nel mondo.
E’ cosi che “la comprensione antropoanalitica è già andata molto oltre la mera impressione suscitata dalle persone strambe molto oltre la nostra “reazione”, oltre il nostro giudizio e la nostra condanna[…].” (pag 91). Sarà forse questa la paura di B, che una intuizione clinica è automaticamente un giudizio e una condanna perché mette in campo i propri pregiudizi (valori) senza la possibilità di potersene distaccare (difendere)?3Sarà per questo che più avanti dice che gli esempi di stramberia “hanno rilevato sì una certa eccezionalità, un volere e un agire diversi dai nostri, diversi dal volere e dall’agire “naturale”, ma ci hanno anche mostrato come l’Esserci strambo non sottolinei, nel suo volere e nel suo agire la diversità rispetto agli altri, quanto piuttosto la propria peculiarità [!4]”
Andiamo avanti: ”Ma con questo [vedi quanto appena riportato] il cerchio della nostra ricerca non è ancora chiuso”; non potendo accontentarci di descrivere l’essere del mondo dello strambo “dobbiamo ancora chiederci di che genere, dal punto di vista della pubblica comunanza del noi, l’articolarsi della stramberia nel contesto delle significanze. Questa domanda implica che al posto del “noi” nel senso di “persone” che hanno a che fare con degli strambi, che li giudicano e li condannano [si ribadisce la paura, ndr] interviene il noi dell’esperienza naturale, in quanto “luogo”a tutti comune dell’apertura verso l’essente nel suo complesso.”(pag. 92).
Ecco che l’esperienza naturale che (vedi sopra) ci aveva procurato il pugno in faccia dal quale originava l’impressione di stramberia e della quale abbiamo dovuto liberarci per non “giudicare e condannare” torna prepotentemente alla ribalta e ci permette di andare oltre, di dire che il mondo dello strambo è un “ mondo senza grazia e perciò, un mondo senza “leggerezza”, un mondo “sforzato”, un mondo in cui i rapporti sono difficili, in modo in cui nulla va “liscio”, in cui tutto storto e di traverso […]; l’esistenza stramba non si lascia coinvolgere decisamente dalla situazione, in altri termini: non si dischiude alla situazione (pagg. 92-93)”
Non sembrano essere delle gran conclusioni; volendo anche metter da parte l’incoerenza di questo procedere, l’antropoanalisi, quando va oltre la descrizione dell’essere nel mondo, non ci dice nulla di più di quanto si poteva dire sulla base di una comune esperienza (anche non arricchita da conoscenze psichiatriche); l’impressione che ci fa lo strambo che si genera dalla distanza tra il suo ed il nostro modo di essere (evidentemente più vicino alla sanità di quello dello strambo) ci dice tutto. Lo stesso B sembra accorgersene anche se non lo dice apertamente: “Per non limitarci alla filosofia, per lasciare che si esprima anche “il sano (sottolineatura mia) intelletto comune”, citiamo un brano di Th. Fontane, che qui come altrove colpisce perfettamente nel segno5:” T. Ha di nuovo combinato un sacco di cose, stranezze, testardaggini che egli chiama diritto, princìpi, coerenza. Ma come sono basse queste cose! Com’è invece alta la semplice libertà6che oggi fa una cosa, domani un’altra, che fa sempre semplicemente il giusto.”
(Data di scrittura del file: venerdì 4 dicembre 1998 21.27.00)
1Non capisco perchè associ il concetto di inutilità sociale, che non è un giudizio psichiatrico ma un giudizio di valore, a quelli più clinici di inaccessibilità, intrattabilità ecc.
2 Chi siamo noi che possiamo definirci immersi nell”esperienza naturale”? Cosa è esperienza naturale e a cosa si contrappone?
3 Mi colpiva, nel secondo esempio di caso di stramberia, l’incipit della presentazione del caso ” Una Domenica, nel corsodella visita serale…”. Perché sottolineare che era Domenica, per rimarcare lo spirito di dedizione, malgrado la distanza di un approccio così raziocinante?
4Non so se è un problema di traduzione della parola “sottolineare” ma mi sembra bizzarro che uno strambo sottolinei (come atto volitivo) la sua peculiarità, quasi a voler motivare al suo diritto di essere al mondo (non sono diverso, sono peculiare!) che nessuno mette in discussione. In realtà questa lettura volitiva nasce dalla necessità di B. di allontanarsi (scivolando però sul suo terreno di confronto, quello volitivo appunto) dalla torizzazione psicopatologica di Gruhle (pag103) che considera la stramberia schizofrenica un “diverso volere”, “una voluta eccezionalità”, “una voluta anomia”: quasi una colpa, insomma
5 E a questo punto è banale dire perché!
6La libertà è semplice per chi è sano; è difficile per chi è al laccio di qualsivoglia nevrosi; è impossibile per chi è psicotico. La concezione della patologia psichica come patologia della libertà e comune (pur con le dovute distinzioni) alle teorizzazioni psicodinamiche. In fondo ogni malattia è una perdita di libertà, anche quelle “somatiche”, come ci dice il senso comune e come detto da tutti, non soltanto da Fontane.
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