Percorso: Home 9 Psicoterapie 9 IV Giornate ascolane psichiatriche , 8 - 10 maggio 2003 - "L'arcipelago delle emozioni" 9 Emozione e comprensione nel decadimento cognitivo lieve

Emozione e comprensione nel decadimento cognitivo lieve

10 Ott 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

Maurizio De Vanna, Davide Carlino, Maria Luisa Onor, Cecilia Negro, Eugenio Aguglia.
U.C.O. di Clinica Psichiatrica Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche Università degli Studi di Trieste.

 

Introduzione

Il moderno concetto di "medicina predittiva" e la conseguente difficoltà nel processo decisionale richiamano un criterio di complessità – e quindi un approccio globale al paziente – che assume una forte connotazione clinica ed etica, dovendo il medico assumersi importanti responsabilità in condizioni di "incertezza".

In questo senso, il diritto all’autodeterminazione e le scarse conoscenze sulla fenomenologia dell’esperienza soggettiva del paziente demente impongono un’attenta disamina delle sue risorse cognitive, emotive e comportamentali.

Infatti, mantenendo i parametri neurobiologici e neuroanatomici una certa variabilità rispetto all’eterogeneità del quadro clinico, risulta importante rivisitare tematiche quali l’insight (troppo spesso valutato solo dal punto di vista del caregiver), la personologia del paziente demente e la comunicazione della diagnosi, soprattutto in qualità di parametri predittivi di un’intervento farmacologico e riabilitativo sempre più mirato alle specifiche esigenze del paziente.

Il decadimento cognitivo lieve è a questo proposito paradigmatico, per le difficoltà sul versante nosografico (inerenti la soglia di normalità cognitiva e quindi la scelta degli outcome per un’efficace prevenzione secondaria), nel rilievo epidemiologico e nel decorso longitudinale.

Revisione critica delle funzioni cognitive e del comportamento emozionale

Le funzioni cognitive superiori sono soltanto uno strumento, per quanto raffinato, di cui l'organismo si serve per vivere nel migliore dei modi nel proprio ambiente. Tutti gli organismi hanno dei bisogni primari che guidano il comportamento (nutrirsi, ripararsi dalla variabilità delle condizioni atmosferiche, riprodursi). Questi bisogni si trovano al confine fra le funzioni più propriamente vegetative e quelle più propriamente cognitive. Sono in qualche modo il ponte fra questi due tipi di attività così diversi del sistema nervoso.

Per alcuni Autori, l’emozione è semplicemente uno "stato eccitato dovuto a cambiamenti fisiologici in risposta a qualche evento" [Fish, 1974], mentre per altri è caratterizzata dalla percezione cosciente [Hinsie, Campbell, 1970].

Secondo la teoria evoluzionistica le emozioni svolgono una prima funzione, di natura motivazionale, che permette di attivare rapidamente quei comportamenti adatti a fronteggiare le diverse circostanze. La seconda consiste nell’autoinformazione e nella valutazione dell’adattamento alle diverse situazioni.

La terza funzione, quella comunicativa, fu studiata sistematicamente per la prima volta da Charles Darwin nel 1872 nel suo volume "The Expression of The Emotions in Man and Animals". Darwin notò come nell’uomo e negli animali le emozioni sono in stretta associazione con fenomeni fisiologici e comportamentali che possono essere riconosciuti da altri individui della stessa specie.

La stratificazione delle diverse sfere dell’attività nervosa superiore o dell’attività psichica, secondo il modello gerarchico jacksoniano di derivazione neuropsicologica, distingue tre diversi livelli funzionali corrispondenti ad altrettanti stadi evolutivi: noopsiche, timopsiche, sofropsiche. La noopsiche, la più antica filogeneticamente, comprende le funzioni percettive e le attività razionali del pensiero. La timopsiche, collocata ad un livello intermedio, abbraccia la vasta gamma dei sentimenti e delle emozioni ed il tono dell’umore. La sofropsiche, situata ad un livello evolutivo inferiore, attiene alla sfera degli istinti fondamentali e delle pulsioni primarie, entrambi diretti da finalità adattive essenziali. Questo ordinamento gerarchico riflette tre livelli di attività psichica espressi da distinti sistemi funzionali, derivabili da altrettante strutture anatomiche corrispondenti a diversi stadi della evoluzione filogenetica. La distinzione schematica fra le diverse sfere non tiene però conto delle strette relazioni funzionali che rendono in realtà inseparabili l’esperienza intellettiva dall’esperienza affettiva e quindi dalla sfera pulsionale.

Secondo Henry (1986) le reazioni emozionali comincerebbero con la valutazione degli stimoli esterni a livello della corteccia fronto-temporale. A seguito di questa prima analisi verrebbero attivate aree anatomiche diverse: per la rabbia il nucleo centrale dell’amigdala, per la paura il nucleo basale dell’amigdala, per la tristezza l’ippocampo o il setto. Da questi nuclei avrebbero origine circuiti anatomici diversi, che rappresenterebbero il substrato che sottende le reazioni comportamentali adeguate all’esperienza soggettiva. In particolare, locus coeruleus e midollo surrenale costituirebbero l’asse che si attiva per gli stati di allarme e i comportamenti di attacco/fuga, mentre nuclei del rafe, ippocampo, ipofisi, corteccia surrenale sarebbero coinvolti nelle reazioni di attaccamento sociale e ansia di separazione.

A questo punto è anche chiaro il motivo per cui un’informazione emotivamente rilevante viene immediatamente consolidata ed immagazzinata dall'ippocampo: perché se l'informazione ha connotati emotivi ciò significa che essa è molto importante per i bisogni primari dell'organismo. Il fatto che l'ippocampo sia implicato sia nel sistema emotivo che in quello della memoria serve a garantire che non vengano dimenticate informazioni necessarie per la sopravvivenza.

Le aree che svolgono l'elaborazione delle emozioni (circuito limbico) lavorano a stretto contatto con la corteccia frontale, che svolge la funzione di controllare, modulare o eventualmente reprimere i comportamenti impulsivi causati dalle emozioni, ma al contempo attivano una serie di funzioni cognitive complesse (pianificazione) finalizzate ad attuare il comportamento più efficace possibile nel rispondere ai bisogni indicati dalle emozioni. Quando c'è un danno al circuito limbico, oppure alla corteccia frontale, il comportamento della persona è gravemente alterato: è inadeguato dal punto di vista sociale, è disordinato e afinalistico, e sostanzialmente inefficiente. Una persona con simili deficit è assolutamente incapace di vivere autonomamente, anche se le funzioni superiori sono tutte perfettamente funzionanti di per sé, perché non è più in grado di percepire e controllare i bisogni di base, né di organizzare di conseguenza il proprio comportamento. Nella demenza frontotemporale vi è proprio un deficit di questo tipo.

La prima "fase" è definita reattiva psichiatrica e riguarda i primi mesi in cui compaiono i sintomi cognitivi. La seconda è la fase neuropsicologica. La terza e la quarta sono gli stadi finali in cui la compromissione si estende alle funzioni fisiologiche, e vengono denominate rispettivamente fasi neurologica ed internistica.

Nella fase reattiva o psichiatrica il paziente ha i primi disturbi di memoria, e la consapevolezza di questi disturbi determina reazioni di tipo ansioso o depressivo. "Ogni volta che mi accorgo che sto perdendo il contatto, l’intelligenza qualsiasi cosa, mi faccio prendere dal panico.[…]. Non voglio dire, come fanno tanti, "non c’è più niente da fare, sono spacciato". Be’ talvolta si pensa così. Ci si sente molto limitati. Nessuno ti ha imposto queste limitazioni, ma esse sono rappresentate dalla possibilità o meno di andartene in giro senza perderti, sempre che tu sia in grado di fare qualcosa".

In questa fase la persona si impegna nel compensare i suoi disturbi, nonché nel nasconderli, e spesso è molto difficile riuscire ad individuare il problema in una semplice interazione.

Inoltre, fin dalle fasi più precoci, le sindromi demenziali possono manifestarsi con alterazioni del carattere, generalmente nel senso di una accentuazione (talora anche caricaturale) dei tratti caratteristici della personalità, ma talora anche con comparsa di caratteristiche opposte a quelle preesistenti, come se venisse a ridursi progressivamente l’azione inibitrice e modulatrice della razionalità e della acculturazione. Così il soggetto prudente diviene diffidente, il generoso prodigo fino allo sperpero scriteriato, il parsimonioso avaro, la vivace reattività si trasforma in irritabilità ed anche aggressività: ma può succedere anche che il soggetto, in precedenza rispettoso delle regole sociali e morali, presenti comportamenti asociali e amorali. In linea di massima, si può dire che la personalità del demente risulta, per così dire, "semplificata", impoverita e, generalmente, più "disinibita". Talora le modificazioni del carattere possono assumere un rilievo più marcato fino a configurare una sindrome organica di personalità: il paziente può presentare instabilità affettiva, ingiustificati o sproporzionati scoppi d’ira, comportamenti socialmente sconvenienti (specie sessuali) senza un’adeguata valutazione delle conseguenze, oppure può apparire apatico, indifferente, senza alcun interesse per le attività e gli svaghi abituali, o, infine, può sviluppare una religiosità fanatica, o una estrema sospettosità fino all’ideazione paranoide " Tantissime volte non riesco a visualizzare le cose, non riesco a ragionarci sopra. Diventa frustrante e io non sono il tipo che sa prendere queste cose alla leggera. Mi arrabbio. Quando inciampo su qualcosa mi arrabbio.

Tra le caratteristiche di fondo dei malati di Alzheimer vorrei proprio segnalare la paranoia. Il senso di frustrazione, di aver perso qualcosa […].

Ci mancano molte cose e a volte ho l’impressione che si complotti contro di me, soprattutto per il fatto che non li sento proprio, che non mi dicono continuamente buone parole, che non faccio sempre quello che vorrei fare. Penso che la paranoia […] sia un tratto fondamentale del viver con l’Alzheimer". Non è eccezionale che il paziente, soprattutto nelle fasi iniziali, tenda ad aumentare l’uso di alcolici fino ad un vero e proprio abuso, con ripetuti episodi di intossicazione alcolica acuta. Kurt Goldstein ha coniato il termine di "reazione catastrofica" per definire la ridotta capacità di astrazione e di generalizzazione caratterizzata da agitazione secondaria alla consapevolezza dei propri deficit intellettivi in condizioni di stress (successivamente nel testo si discuterà di una sindrome disinibitiva come una delle dimensioni dell’insight). Per molti Autori, ciò può essere imputabile alla difficoltà a concentrare l’attenzione su di un argomento e alla distraibilità da parte di stimoli anche modesti, per cui il paziente non riesce a mantenersi concentrato per tutto il tempo necessario, si stanca facilmente e non riesce a portare a termine l’attività iniziata; talvolta, invece, l’attenzione è focalizzata esclusivamente su di un pensiero, un’idea. Nelle fasi iniziali il paziente si può rendere conto di questo, lamenta difficoltà di concentrazione e non riesce a compiere semplici attività quotidiane.

Pare inotre, che l'emisfero destro sia più specializzato del sinistro nella percezione, nel riconoscimento e nella espressione delle emozioni.

Il problema della valutazione psicodiagnostica

Insight ("veder dentro" alle cose, ad una situazione) è un termine di uso corrente che è diventato termine tecnico, largamente usato nella letteratura psicoanalitica, e tuttavia in modo tutt’altro che univoco. Questa "trasformazione conoscitiva" [Sacerdoti, Spacal, 1985], che può anche avvenire spontaneamente, nella terapia analitica è promossa dall’attività interpretativa, come le diverse dottrine psicanalitiche dfiniscono con più precisione: dal "rendere cosciente ciò che è inconscio", prima formulazione freudiana, al "dove era l’Es ci sarà l’Io", della teoria strutturale, alla capacità di coniugare la realtà interna con quella esterna, della Klein, all’interpretazione dell’Io e del Sé, ecc. Tuttavia, Sacerdoti e Spacal sottolineano la necessità di articolare l’insight con altre formulazioni della psicoanalisi. In particolare va esaminata la sua relazione con l’elaborazione, termine introdotto nel 1914 da Freud, di fronte alla constatazione che la conoscenza di contenuti mentali e delle relative difese e resistenze non portava prontamente alla guarigione; Freud introdusse allora una dimensione temporale, che poi via via precisò in relazione con vari concetti e infine con la coazione a ripetere [Meotti, 1986]; successivamente, il concetto di elaborazione (working through) fu poi successivamente ripreso sia dagli psicologi dell’Io che dai kleiniani. È tuttavia con Etchegoyen [1990] che la distinzione tra insight ed elaborazione assume un significato di grande importanza alla luce delle più recenti acquisizioni clinico-nosografiche del decadimento cognitivo: mentre l’insight è una forma di conoscenza nuova, distinta, improvvisa, in qualche modo folgorante, l’elaborazione è un lavoro che nel tempo permette di acquisire convinzione intellettuale ed emotività della nuova conoscenza e di tradurla pienamente in parole; in altri termini, l’insight è sincrono e l’elaborazione diacronica; naturalmente insight ed elaborazione sono in un rapporto circolare, per cui l’elaborazione di insight consente nuove, improvvise trasformazioni conoscitive.

Queste considerazioni hanno trovato un seguito non solo nel setting individuale, ma anche in quello di gruppo, alla luce della teoria gestaltica. Nei gruppi gestaltici si promuovono attivamente o vengono scelti taluni giochi o esercizi adatti a rendere consapevoli alcune aree "mancanti" o "negate" del Sé. Questa consapevolezza può colpire in modo talvolta fulmineo (insight, awareness) promuovendo una ristrutturazione nell’esperienza che non ha nulla o ha ben poco da condividere con la concettualizzazione o spiegazioni genetiche o la interpretazione psicoanalitica.

Più recentemente, l’insight di malattia è stato definito da McGlynn e Schacter (1989) come consapevolezza o riconoscimento di deficit cognitivi, da DeBettignies (1990) come la capacità di giudicare la presenza e la severità della malattia e da David (1990) come una complessa somma di tre concetti: la capacità di etichettare certi eventi mentali come patologici (nosognosia), il riconoscimento da parte del paziente della propria malattia mentale e il grado di compliance al trattamento. Più recentemente Mullen (1996) ha definito l’insight come la percezione che i pazienti hanno dei loro disordini mentali, indipendentemente dalla possibilità di esprimerli al mondo esterno. Recentemente è stato sottolineato come l’insight sia una funzione complessa e non unitaria: la non consapevolezza dei deficit cognitivi e la non consapevolezza dei problemi comportamentali potrebbero costituire fenomeni indipendenti nella malattia di Alzheimer, il primo legato alla severità del deficit cognitivo ed il secondo probabilmente associato ad una sindrome disinibitiva.

Risulta quindi che l’insight è un sintomo primario. (Lewis, 1934).

Tale concetto è stato ripreso da David che considera l’insight come una variabile di processo, un continuum e non come variabile tutto o nulla e comprende tre fattori:

1. consapevolezza di malattia

2. corretta ridefinizione dei sintomi

3. compliance al trattamento.

I primi due fattori sono legati all’analisi Jaspersiana, anche se per David, per quanto riguarda in particolare il secondo, viene implicato un processo mentale attivo, mentre Jaspers considerava questi fattori come stadi di uno stesso processo.

Il terzo fattore è derivato dall’analisi di altri studi (Lin, 1979; Heinrichs, 1985; McEvoy, 1989) anche se partivano da altri presupposti e definizioni di insight ed è risultato altrettanto utile dal punto di vista clinico.

L’insight scarso risulta essere correlato a:

  1. compiti di performance relativi al lobo frontale (Lysaker, 1996)
  2. possibili danni all’emisfero destro (David, 1990) [una "anosognosia" causata da lesioni dell’emisfero destro. (Babinski, 1914)]
  3. i soggetti mancini risultano avere un migliore insight (Young, 1993)

Analizzando i dati di 69 pazienti affetti da malattia di Alzheimer (n=37) e demenza vascolare (n=32) secondo i criteri del DSM IV (17) reclutati al Centro Alzheimer dell’IRCCS San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia risulta che l’associazione tra l’insight e la cognitività o la severità della malattia non viene rappresentata da un modello lineare, ma che ne segue uno trilineare. Tale modello riflette più chiaramente la perdita di insight e ci può aiutare a valutare quando il declino dell’insight è iniziato e finito. Si può osservare che nella fase intermedia della demenza l’insight è preservato, mentre si assiste a una progressiva perdita, per giungere poi a un effetto plateau di insight severo nelle ultime fasi. Questi dati suggeriscono la presenza di un punteggio cut-off per il MMSE che può essere usato in associazione con la scala dell’insight, per differenziare un pieno insight da uno moderato e uno completamente assente.

Una possibile conclusione di questo percorso teorico-concettuale può allora trovarsi nella formulazione di Kernberg, il quale suddivide la patologia psichica (nevrosi, quadri borderline e psicosi) servendosi dei seguenti parametri:

– integrazione dell’identità;

– operazioni difensive;

– test di realtà.

Gli aspetti inerenti il test di realtà coincidono sostanzialmente con la capacità di autoconsapevolezza e di conoscenza di Sé, quello che psicoanaliticamente viene detto insight. Come spiega Rycroft esiste sia un insight intellettivo (quando i pazienti riescono ad ammettere di essere ammalati e riconoscono che i loro insuccessi nell’adattamento sono, in parte, dovuti a sentimenti irrazionali o ai propri disturbi. Tuttavia, la maggiore limitazione all’insight intellettivo è che i soggetti sono incapaci di applicare tale conoscenza per modificare le future esperienze) sia un insight emozionale (quando la consapevolezza dei pazienti dei propri movimenti e sentimenti profondi conduce a una modificazione della loro personalità o dei loro modelli di comportamento). Un individuo può avere un insight intellettivo ma non quello emozionale ("… vale a dire essere sano, e tuttavia completamente all’oscuro rispetto a sé").

Le scale comunemente utilizzate per la valutazione dell’insight sono la GRAD (Guidelines for the Rating of Awareness Deficits – Linee guida per la valutazione della consapevolezza dei deficit cognitivi) e la CIR (Clinical Insight Rating Scale – Scala clinica per la valutazione dell’insight). Entrambe sono formulate come intervista semi-strutturata e devono essere precedute da un colloquio con il caregiver del paziente, durante il quale sono indagate le motivazioni della visita dal medico, la durata di malattia, le modalità di insorgenza e di progressione dei deficit cognitivi, l’impatto di questi sullo stato funzionale e la condizione clinica attuale. La versione italiana di queste scale è stata recentemente validata.

La scala GRAD, specificatamente creata per la valutazione dei deficit della memoria, consta di 4 domande, seguite da un colloquio aperto con il paziente. Il punteggio varia da 1 a 4. Per la somministrazione corretta della scala il medico esaminatore chiede al paziente: "Per cortesia, mi parli dei problemi per i quali lei è qui". Quando il paziente ha altri disturbi non direttamente correlati alla demenza: "Ha altri disturbi?". Se non si lamenta spontaneamente dei suoi deficit cognitivi: "Come va la sua memoria? Pensa di avere una cattiva memoria?". Quando il paziente nega i deficit di memoria o di altre funzioni cognitive: "Non ha alcun problema di memoria? Va tutto bene?". Dopo queste domande i disturbi sono discussi più estensivamente in un’intervista aperta, dalla quale il medico trae indicazioni sul grado e la natura dei sintomi cognitivi e al paziente è chiesto di fare degli esempi. Il punteggio è calcolato direttamente dopo l’intervista. Il punteggio 4 si riferisce a un "insight adeguato": il paziente ha consapevolezza dei suoi deficit cognitivi; si lamenta spontaneamente della memoria o di altre disfunzioni cognitive; fa esempi; la storia del paziente è congrua con quanto riferito dal caregiver. Il punteggio 3 si riferisce a un "insight lievemente compromesso": il paziente ha qualche consapevolezza dei suoi deficit cognitivi, ma li riferisce con alcune imprecisioni; si lamenta spontaneamente della sua memoria; la storia mostra alcune discrepanze con quella riferita dal caregiver. Il punteggio 2 equivale a un "insight moderatamente compromesso": il paziente ha solo una vaga e passiva consapevolezza dei deficit cognitivi; non si lamenta della memoria, persino dopo domanda esplicita; la storia mostra una chiara discrepanza con quanto riferito dal caregiver. Quando il paziente nega qualunque disturbo, il punteggio equivalente è 1, "insight assente".

La Scala clinica per la valutazione dell’insight (CIR), che valuta un ampio spettro dell’insight, si sviluppa in 4 argomenti che il medico deve trattare: a) la ragione della visita dal medico: questo item indaga la consapevolezza della situazione clinica; b) i deficit cognitivi: valuta la consapevolezza del paziente riguardo a un problema di memoria o di altre attività mentali; c) i deficit funzionali: valuta la consapevolezza del paziente riguardo a problemi nelle attività funzionali della vita quotidiana come l’occupazione, l’amministrazione del denaro, gli appuntamenti, le attività strumentali; d) la percezione della progressione della malattia: valuta la consapevolezza di un declino delle attività funzionali di base rispetto al periodo antecedente all’insorgenza della malattia. Il punteggio complessivo varia da 0 a 8; ogni item può avere un punteggio da 0 a 2. Il punteggio 0 equivale alla piena consapevolezza; 1 equivale a una parziale o minima consapevolezza dei deficit; 2 alla negazione totale o mancanza di insight.

Le due scale mostrano un’associazione differente con i test neuropsicologici. La GRAD è maggiormente associata a disfunzioni del lobo frontale, mentre la CIR a quelle frontali e parietali sinistre, suggerendo la presenza di un differente dominio per l’insight della memoria rispetto a quello relativo ad altri aspetti della malattia, come la compromissione funzionale o la sua progressione. Ciò avvalora l’ipotesi precedentemente presentata di Starkstein.

Sono stati analizzati i dati di 21 pazienti, provenienti dall’UVA della Clinica Psichiatrica di Trieste, di cui 10 con diagnosi di Mild Cognitive Impairment e 11 con diagnosi di Demenza di Alzheimer, secondo i criteri NINCDS-ADRDA e del DSM IV. Il gruppo dei pazienti con diagnosi di MCI è costituito da 6 femmine e da 4 maschi, mentre il gruppo dei pazienti con diagnosi di AD lieve è costituito da 8 femmine e da 3 maschi.

Gli anni di scolarità del primo gruppo è di 8,4 anni (ds 2,7), del secondo gruppo di 8,4 anni (ds 4,3).

L’età media dei soggetti del primo gruppo è di 77,1 anni (ds 7,3), mentre quella del secondo gruppo è di 74,2 (ds 6,6).

Il protocollo di ricerca prevede la somministrazione dei seguenti test:

MMSE

IADL/ADL;

NPI

Scala per la Valutazione dell’Insight (CIR);

Test dell’Insight che che indaga le il livello di consapevolezza nelle seguenti aree:

Cognitiva

Comportamentale

Affettiva

Autonomia

Generale.

Il protocollo prevede la somministrazione del Test dell’Insight al caregiver in versione opportunamente modificata.

rilevazione delle differenze tra l’insight nei due gruppi in base alla progressione della malattia;

correlazione tra l’autopercezione dei sintomi da parte del paziente e la presenza reale dei sintomi nelle tre aree: cognitiva, autonomia e comportamentale;

correlazione tra l’autopercezione dei sintomi del paziente e la percezione dei sintomi da parte del caregiver.

I due gruppi risultano avere un livello di deterioramento cognitivo significativamente diverso, ma un livello di autonomia nella vita quotidiana sostanzialmente comparabili.

La presenza di disturbi comportamentali, misurata con la Neuropsychiatric Inventory, è comparabile fra i due gruppi. La depressione e l’apatia risultano i disturbi comportamentali maggiormente presente nei due gruppi.

Il livello di insight misurato alla SAI risulta comparabile nei due gruppi, raggiungendo comunque dei valori moderati.

Vi è invece una differenza statisticamente significativa per quanto riguarda i valori misurati alla CIR. Il livello di insight risulta essere più basso nel gruppo dei pazienti con AD lieve (vedi fig.1).

Il livello di insight misurato con il test da noi ideato risulta essere comparabile tra i due gruppi per tutte le aree (cognitiva, affettiva, funzionale e generale) sia per quanto riguarda i pazienti, sia i caregivers.

I risultati ottenuti dimostrano che con il progredire della demenza il livello di insight si riduce nella sua globalità.

Considerando però la consapevolezza che i pazienti hanno dei loro deficit essi risultano coscienti delle loro difficoltà solo parzialmente

In particolare i pazienti risultano essere coscienti dei deficit legati alla perdita della memoria, ma non delle altre funzioni cognitive.

Vi è minore consapevolezza di malattia per quanto riguarda l’area funzionale, in quanto utilizzano il caregivers quale fonte di supporto e dei disturbi comportamentali.

La comunicazione della diagnosi

In questi ultimi anni sono cresciuti significativamente l'interesse e il dibattito sul problema della comunicazione della diagnosi di demenza.

Le opzioni terapeutiche nella demenza sono paragonabili a quelle esistenti nel cancro trent'anni fa, con delle speranze che iniziano a delinearsi ma senza ancora la prospettiva realistica di trattamenti risolutivi, tanto che le ragioni per non svelare la diagnosi di demenza sono simili a quelle fornite dai medici nel 1961 per non svelare la diagnosi di cancro (Maguire et al, 1996). Inoltre, nella demenza la malattia altera intrinsecamente i processi cognitivi, la capacità di giudizio e l'insight, colpendo la persona nella sua essenza più profonda.

Due principi etici fondamentali quali il rispetto dell'autonomia e la non maleficienza, che si riferiscono l'uno alla capacità di autogovernarsi e di prendere le proprie decisioni, e l'altro all'obbligo di non infliggere danno intenzionalmente, non sono necessariamente incompatibili, ma in questo caso possono condurre a decisioni differenti sull'informazione che deve essere fornita (Pinner, 2000). Per quanto riguarda le scuole di pensiero sull'etica medica, i deontologisti sostengono che menzogna e inganno sono sbagliate in sé e che i clinici, come ogni altra persona, hanno il dovere morale di dire la verità. Pazienti capaci hanno il diritto di conoscere la diagnosi a prescindere da quali possano essere le conseguenze. I consequenzialisti, d'altro canto, sostengono che la decisione sul dire o non dire dipende dalla specificità della situazione clinica, e che il medico dovrebbe decidere quale azione può risultare meno dannosa e produrre i migliori risultati per il paziente (Marzanski, 2000).

Due questioni sembrano rimanere aperte. In primo luogo, l'informazione è legata più o meno strettamente alle procedure terapeutiche, e non viene esplicitato quale linea d'azione si debba seguire nel caso trattamenti appropriati non siano disponibili. In secondo luogo, si presuppone un interlocutore competente ed in grado di comprendere. Anche nel consenso informato elementi essenziali sono l'adeguatezza del messaggio e la capacità da parte del paziente di comprendere il reale significato della diagnosi e il conseguente programma terapeutico (Torta et al, 1997). Paradossalmente, il principio del rispetto dell'autonomia si scontra proprio con la perdita di capacità cognitive e di autonomia da parte del paziente (Drickamer & Lachs, 1992). Una via da seguire può essere quella di abbandonare un approccio etico teorico e deduttivo per seguire una metodologia di tipo induttivo. Un percorso del genere si è verificato tramite degli incontri periodici che hanno coinvolto familiari, pazienti affetti da morbo di Alzheimer di grado lieve e un gruppo interprofessionale di individui che lavoravano in questo campo, ed ha avuto come esito la formulazione delle Fairhill Guidelines sull'etica della cura delle persone affette da malattia di Alzheimer (Post & Whitehouse, 1995). In queste linee guida si afferma la necessità di dire la verità sulla diagnosi, presupponendo tuttavia la presenza di un supporto familiare integro e di una sufficiente capacità di comprensione.

Una ricerca molto recente indica che solo il 40 % dei geriatri comunica regolarmente la diagnosi ai pazienti, ed il 20 % non vede benefici nel comunicarlo (Pinner, 2000). Meno del 20 % degli psicogeriatri informa i pazienti affetti da demenza di grado moderato o grave, e con una percentuale un po' più alta di quelli lievi viene discussa la diagnosi. Al contrario, il 98 % di quelli che hanno risposto al questionario informa quasi sempre i familiari sulla diagnosi e sulla prognosi. Curiosamente, i geriatri tendono ad informare maggiormente i pazienti ed in misura minore i familiari (Rice et al, 1997). Meno di metà degli psichiatri che hanno completato un questionario postale afferma che rientra nella loro pratica comune informare sulla diagnosi gli ammalati di Alzheimer, e un buon numero ha evitato selettivamente tale domanda (Clafferty et al, 1998). I medici di famiglia, nonostante non abbiamo problemi nel rivelare una diagnosi di cancro terminale ai propri pazienti, sono riluttanti nel comunicare una diagnosi di demenza, e solo il 39 % di essi lo fa sempre o spesso. Il fattore più importante è risultato l'incertezza della diagnosi (Vassilas & Donaldson, 1998).

83 familiari su 100 non si dichiarano inclini a comunicare la diagnosi di morbo di Alzheimer ai pazienti, principalmente per non sconvolgerli o deprimerli. Tuttavia, 71 di essi vorrebbero essere informati nel caso si ammalassero di tale malattia, in quanto considerano loro diritto conoscere la diagnosi (Maguire et al, 1996). Su di un campione più ridotto metà dei familiari risulta favorevole, in particolar modo per non nasconder nulla ai propri cari, perché cerchino di tener la mente allenata, per permettere di badare ai loro affari o perché lo avrebbero scoperto da soli comunque (Barnes, 1997). In generale medici, parenti e coloro che prestano assistenza appaiono riluttanti a svelare informazioni diagnostiche a un paziente affetto da demenza. Alla base di questa riluttanza vi è probabilmente un desiderio di protezione, anche se non vi sono evidenze di danni a lungo termine conseguenti a tale conoscenza (Pinner, 2000).

La comunicazione della diagnosi deve trasformarsi in intervento terapeutico, in primo luogo indirizzando il soggetto e i familiari ai servizi di supporto disponibili e più adeguati. In un contesto specialistico, le reazioni e le preoccupazioni del paziente possono divenire punti di partenza per interventi di tipo cognitivo finalizzati a migliorare l'autostima, rafforzare il benessere e mantenere il soggetto agganciato alla propria comunità (Husband, 2000). Interventi educazionali mirati ad un esercizio intellettuale continuativo possono rallentare la progressione della malattia (Barnes, 1997).

Il ruolo della psicoterapia e gli interventi psicosociali

La psicoterapia tradizionale su persone affette da demenza è stata solitamente considerata difficile, se non impossibile, a causa della mancanza di consapevolezza. L’uso di affermazioni generali o domande d’apertura del colloquio, il parlare "alla pari", la condivisione dell’espressione auto-agevolata dei sentimenti, ed il riconoscere argomenti che siano importanti per l’individuo, sono stati raccomandati per mantenere la comunicazione con persone affette da demenza.

Data la complessità del lavoro, le psicoterapie individuali non hanno seguito i tradizionali percorsi: terapia di supporto, orientata all’insight, cognitvo-comportamentale. La psicoterapia orientata all’insight, ad esempio, non è stata usata comunemente, perché le persone con demenza possono avere difficoltà di memoria, di consapevolezza, di riflessione e di verbalizzazione. Inoltre i ricordi tristi possono riemergere e portare la persona ad essere scostante, depressa, perfino ostile. Lo studio della consapevolezza di malattia (insight) nella demenza è stato relativamente trascurato. La relazione tra il livello di insight e la gravità della demenza è stata studiata in un vasto campione di pazienti con Alzheimer, per lo più con demenza d lieve a moderata, che sono stati registrati nel Consortium to Establish a Registry for Alzheimer Desease (CERAD). Questo studio conferma la convinzione generalmente accettata, e cioè che i malati di Alzheimer sperimentano una progressiva perdita dell’insight non appena la gravità della demenza aumenta.

Un altro studio di follow-up ha dimostrato come i pazienti con Alzheimer soffrano, in modo significativo, di una maggiore incosapevolezza del deficit cognitivo rispetto ai pazienti con demenza vascolare. Entrambi i gruppi, comunque, mostravano significativamente maggiore inconsapevolezza del deficit cognitivo rispetto ad un gruppo di controllo geriatrico e di uno geropsichiatrico. Questi risultati supportano la premessa che, indipendentemente dalla gravità della demenza, l’inconsapevolezza del deficit cognitivo è specifica della malattia.

Negli ultimi anni, si sono verificati interessanti sviluppi nell’applicazione della psicoterapia dinamica, del counselling e della terapia cognito-comportamentale sugli anziani affetti da demenza. Questi sviluppi riflettono una più precoce identificazione e diagnosi delle condizioni demenziali, che si traduce in un numero crescente di individui con una chiara consapevolezza di ciò che sta loro accadendo. Fino ad ora, tuttavia, non sono disponibili studi dettagliati su questi approcci con i pazienti.

L’approccio narrativo alla psicoterapia in persone con demenza fornisce un buon esempio di psicoterapia significativa. La persona demente deve sforzarsi molto per dare senso alle cose; tra le sue esperienze può esserci un opprimente senso di perdita, incertezza e minaccia, vissuto nel contesto di difficoltà cognitive e di un mondo sociale modificato. Qualche volta, le storie che le persone con demenza raccontano, riguardano situazioni del passato in cui esse ricordano di essere state importanti, come l’essere stato un insegnante, un infermiere, una madre; questa identità ricordata con affetto è spesso in doloroso contrasto con la loro presente identità di persone dipendenti e spesso svalutate " Quando prendo un grosso granchio tendo a mettermi sulla difensiva, perché mi vergogno di non sapere quel che avrei dovuto sapere. E perché non sono in grado di pensare alle cose e di vederle come le vedevo diversi anni fa, quand’ero una persona normale. Ma a questo punto tutti sanno che non sono una persona normale – ne sono ben consapevole".

Il racconto delle storie, quindi, permette al narratore di presentarsi in una varietà di differenti "identità", esperienze e significati emotivi. Questo processo non è facile, e non sempre è possibile " Ci sono cose che vorrei saper fare, ma d’altra parte ci sono ancora cose che posso fare e che mi prefiggo di non mollare finchè posso.

[…] Mi basta ascoltar la musica per sentire che sto proprio facendo qualcosa che amo. Non posso più eseguirla, ma posso certamente utilizzarla come intendo io – cioè per sentirmi splendidamente. Ho imparato piuttosto bene come regolarmi nella vita – fin dove posso arrivare e cosa posso sperare di fare e so accontentarmi. Ora sono uno spettatore nella vita, non prendo parte. Sono uno spettatore e un filosofo".

Correlata a questo approccio narrativo, come pure alla terapia della validazione, è la terapia delle decisioni, basata su metodi che fanno uso del counselling. C’è meno enfasi sul passato doloroso più sull’identificazione dei sentimenti attuali, usando tecniche di conselling, quali l’ascolto empatico, la cordialità, l’accettazione, ecc. Una volta identificati i sentimenti, lo stadio successivo è quello di riconoscerli, verbalmente o non, e di modificare l’ambiente circostante ed il pattern di assistenza per rispondere ai bisogni insoddisfatti.

In base all’esperienza ed alle critiche mosse ad approcci specifici, Holden e Woods si sono mostrati a favore dello sviluppo di un approccio integrato, capace di soddisfare la diversità la diversità dei bisogni degli individui, la risposte e le preferenze mostrate dalle persone con demenza. La prima e fondamentale caratteristica di un approccio integrato è data dal fatto che dovrebbe essere basata su un’esplicita serie di valori riguardanti la persona anziana con demenza. La seconda caratteristica è data da un’attenta olistica valutazione della persona; la terza caratteristica consiste nel mettere a punto un programma assistenziale individualizzato, con traguardi chiari, realistici e riesaminati regolarmente.

Nonostante le difficoltà nel progettare protocolli di ricerca metodologicamente validi favore di un intervento psicosociale integrato, un certo ottimismo emerge nell’ambito della depressione associata a demenza. Un recente studio randomizzato-controllato effettuato sui trattamenti comportamentali, che prevedono l’utilizzo a scopo terapeutico di eventi piacevoli e di tecniche di problem-solving, in 72 pazienti residenti nella comunità accoppiati con un caregiver, ha evidenziato un significativo miglioramento dei sintomi depressivi sia nel paziente che nel caregiver: il 60% dei pazienti è migliorato, rispetto appena al 20% dei controlli. Un aspetto molto importante, è che i miglioramenti sono rimasti stabili per 6 mesi. Al contrario, tre diversi interventi di gruppo effettuati in strutture residenziali, si sono rivelati inefficaci nel ridurre i sintomi depressivi in uno studio controllato.

Sono stati condotti diversi studi randomizzati-controllati incentrati sugli interventi psicosociali per la depressione nelle strutture residenziali; tutti prendevano in considerazione le terapie di gruppo, comprese la terapia cognitiva, quella rievocativa, il problem-solving, il rinforzo sociale, le immagini visive focalizzate, l’istruzione/discussione e le attività sociali programmate. Gli studi hanno evidenziato molte carenze metodologiche che includono il mancato utilizzo dei criteri diagnostici per la depressione, le ridotte dimensioni dei campioni, la mancata valutazione della salute fisica, le valutazioni non condotte in cieco ed, infine, l’inadeguato resoconto dei risultati. Ciò ha limitato l’interpretazione dei risultati.

Quattro studi hanno riportato una significativa riduzione dei sintomi depressivi alla fine del programma con i gruppi che utilizzavano rispettivamente, la terapia cognitiva, quella rievocativa, il problem-solving e le attività sociali programmate. Comunque, è opportuno sottolineare che la terapia cognitiva ed il rinforzo sociale sono stati considerati inefficaci in altri studi. L’unico studio che utilizzava criteri diagnostici ha riportato una pecentuale di risposta del 45%, ottenuto con le attività sociali programmate, anche se un secondo studio ha riportato che il 25% dei pazienti migliorava nei punteggi di cut-off clinico alla BDI con l’utilizzo del problem-solving. Negli studi con follow-up più lungo, gli effetti del trattamento non venivano mantenuti 2-3 mesi dopo il completamento dei gruppi.

Conclusioni

I due versanti da cui sono stati tradizionalmente esplorati i disturbi neuropsichiatrici sono stati studiati indagando la ragione da un lato, i sentimenti dall’altro. George Engel è stato il più noto sostenitore del modello biopsicosociale (basato sulla teoria generale dei sistemi), evidenziando l’importanza di un sistema integrato di approccio al comportamento e alla malattia dell’essere umano. Nel Mild Cognitve Impairment, questa indagine implica necessariamente delle riflessioni a proposito dell’identità, dell’autoconsapevolezza e quindi della libertà individuale, che, nello specifico, è causa di grande sofferenza.

Francis Crick nel suo libro "La scienza e l’Anima" è riuscito ad individuare alcuni riferimenti teorici. Crick assume che parte del nostro cervello è progettato per l’elaborazione di progetti per le azioni future, senza essere necessariamente essere coinvolto nella loro esecuzione. Inoltre presuppone che si possa essere coscienti di tali progetto e quindi che essi possano essere richiamati immediatamente alla memoria. Tuttavia l’uomo non è cosciente delle "computazioni" compiute da questa parte del cervello, ma solo delle "decisioni" che essa prende, e cioè dei suoi progetti. Naturalmente, queste computazioni dipenderanno in primo luogo dalla struttura di quella parte del cervello (struttura la cui determinazione è in parte epigenetica, in parte da ascriversi alla passata esperienza individuale) e in secondo luogo dagli input che essa riceve in quel momento da altri parti del cervello. Infine, la decisione di agire secondo un progetto piuttosto che un altro fosse anch’essa soggetta alle stesse limitazioni. In altre parole, anche se si può essere consapevoli di un particolare progetto, si avrà un ricordo immediato del risultato della decisione, e non delle computazioni che hanno avuto luogo per arrivare a quella decisione. Quindi una macchina di questo tipo apparirà a se stessa dotata di libero arbitrio, purchè possa personificare il proprio comportamento, ovvero purchè abbia un’immagine di "se stessa". La causa effettiva della decisione potrebbe essere chiara, oppure deterministica ma caotica, il che comporterebbe la possibilità che piccole perturbazioni inducano importanti differenze nel risultato finale. Questo conferirebbe all’arbitrio il suo carattere di "libero", in quanto renderebbe essenzialmente imprevedibile l’esito finale della decisione. Naturalmente, le attività coscienti potrebbero anch’esse influenzare il meccanismo della decisione.

Una macchina di questo tipo potrebbe cercare di spiegare a se stessa il perché di una certa decisione (usando l’introspezione). A volte potrebbe raggiungere la decisione corretta, altre volte non ci riuscirà, o, più probabilmente, entrerà in una sorta di confabulazione, in quanto non avrà conoscenza alcuna delle "motivazioni" della scelta.

Da un punto di vista operativo, il rapporto medico-paziente è una componente critica del modello biopsicosociale. Tutti i medici e gli psichiatri in particolare, devono non solo avere una conoscenza delle condizioni di salute del soggetto, ma devono anche sapere in quale modo la sua psicologia individuale ed il suo network socio-culturaleinfluenzano la malattia, le risposte emozionali alla condizione patologica e il rapporto con il medico.

Infine, sul versante della ricerca, è importante sottolineare l’importanza di potenziare gli studi in campo sulla neuropsicologia dell’insight. L’insight non è una semplice entità categoriale, ma piuttosto una realtà dimensionale e sostanzialmente autonoma. Un paziente infatti può avere un buon insight in una dimensione (ad esempio, la coscienza di malattia) ma non in un’altra ( ad esempio, la necessità di un trattamento) ed uno scarso insight può persistere nonostante il miglioramento del quadro clinico nel suo insieme. Tuttavia, permangono notevoli difficoltà sul versante neuropsicologico, anche se è doveroso considerare come un approccio sistematico in questo senso è relativamente recente. È importante che, almeno da un punto di vista teorico, l’attenzione degli operatori del settore si è già focalizzata sugli aspetti longitudinali della valutazione dell’insight e sulle corrispondenti reazioni del paziente all’esperienza di essere ammalato.

Le ricerche future dovranno essere indirizzate alla definizione di criteri operativi standardizzati per la valutazione diagnostica e prognostica.

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