Quando fu presentato a Cannes, La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri fu sommerso spietatamente di fischi. A tutta prima, i motivi di tale attacco potrebbero sembrare ovvi e giustificati: quello di Ferreri è un film che, anziché perseguire un intento estetico-narrativo, punta deliberatamente a suscitare indignazione e sdegno. Per capire con cosa si ha a che fare basterebbe leggere la trama: quattro amici decidono di ritirarsi in una villa decadente per abbandonarsi senza freni alle passioni della gola e della lussuria. L’atmosfera orgiastica del sesso sfrenato viene intasata dalle libidinose abbuffate a base di cibarie sofisticate; un’abbondanza trabocchevole pervade l’intero film sino all’occlusione. L’orgia di corpi e vettovaglie però, anziché spingersi sino al compiacimento che già Petronio illustrava nel Satyricon – solitamente, quelle orge culminavano in un altrettanto godereccio sonno riparatore -, viene portata oltre ogni limite parossistico e si risolve in un vero e proprio suicidio erotico-gastronomico: i quattro, sfiniti nei genitali e occlusi nello stomaco, finiranno per morire uno ad uno, indistintamente, chi tra le donne chi tra le pietanze.
Eppure, già a quei tempi, Alberto Moravia non esitò a definire Ferreri, ancora una volta, “il nostro regista più autenticamente ed esclusivamente moralista.[i]”
Come è possibile risolvere questa dissonanza tra il plebiscito degli spettatori e la valutazione controcorrente – ma attendibile – di Moravia? O meglio, come convertire tale orgia bulimica in un tragico esempio di moralismo? Ripartiamo dall’articolo di Moravia e dalla distinzione che egli traccia tra la morale e la buona educazione. Se la prima si prefigge di proibire certe cose sia nel pubblico che nel privato, la seconda limiterebbe l’interdizione ai soli ambienti pubblici, decretando in sostanza che, nel privato, tutto è permesso. In questo caso, come nota Moravia, la pellicola di Ferreri si sgancia dalla più sofisticata critica del sistema occidentale di Bunuel (si pensi a Il fascino discreto della borghesia, oppure ai commensali, anch’essi borghesi, impossibilitati ad abbandonare la villa in L’angelo sterminatore) per andare al di là di qualsiasi apparenza e finzione che l’uomo voglia istituire attorno alla propria condizione esistenziale: quella di Ferreri è una denuncia e un’invettiva che prende l’uomo per gli intestini, per l’organico, che sorprende l’inceppamento cieco e forsennato della pulsione di morte al di là di ogni possibile freno inibitore. Il velo dell’educazione è squarciato e l’uomo è moralmente messo a nudo dinnanzi all’occhio inquisitore della macchina da presa.
Ma l’errore che compie Moravia nella sua analisi sta proprio nel fatto che, scovato il razionale che separa il cinema di Ferreri da quello di Bunuel, non riesce a condurre tale scissione sino al fondo delle sue possibilità: concependo La grande bouffe come una “sacra rappresentazione in cui è descritta la fine che aspetta i ghiottoni e i lussuriosi” ancorata ad “una lontana, archetipica origine cristiana anzi biblica[ii]”, lo scrittore romano rimane ancora con un piede nell’intellettualismo bunueliano e, così facendo, non esce dal circolo rappresentativo del formalismo borghese. Egli ricerca l’allegoria anche dove essa non è, tanto da rimanere basito dalla degradazione del sessuale che Ferreri non si esime dal compiere, abbassando la copulazione ad un bisogno tra gli altri. Ciò che Moravia non si riesce a spiegare è come il sesso possa essere destituito dal piedistallo di godimento per eccellenza, da pietra di paragone di tutti i piaceri possibili, ed essere declassato alla goffaggine bulimica del peccato di gola. Così facendo, rimane invischiato in quello stesso scenario che Ferreri si prefigge di smontare: non vi è più ideale simbolico, né passato, né storia; rimane solo una mortifera immediatezza, un’esponenziale pluralizzazione dei godimenti che trascina con sé ogni argine ideologico, ogni interdizione possibile. Ferreri non ritrae personaggi ma orifizi, sospensioni della soggettività ed esasperazione di natiche, pubi, seni, arrosti e minestre.
“Tutto e subito” è la logica sottesa a tale apocalisse scatologico che, se da una parte rimuove il tempo anacronizzando il godimento e rimuovendo i punti morti del differimento della soddisfazione, dall’altra disperde la consistenza dell’identità personale, deumanizza il soggetto ad una sommatoria di zone erogene, brulicanti bordi di libidine. Lacanianamente parlando, si potrebbe dire che l’ininterrotto imperversare dell’oggetto suturi la mancanza una volta per tutte, colmando la sua Spaltung inaugurale. Ma l’effetto collaterale di una simile risoluzione è che, soffocato il desiderio, è il soggetto stesso a venir meno, a scomparire. La sessualità allora, ridotta ad un solletico erogeno tra gli altri, non può che perdere il primato della propria trascendenza rispetto ad ogni godimento possibile.
Agamben, in tal senso, direbbe che Ferreri è un regista contemporaneo: “appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire ed afferrare il suo tempo.[iii]”
In termini freudiani, potremmo dire che Moravia e Ferreri si situino su due sponde diverse del disagio della civiltà. Lo scrittore romano, in rappresentanza di una ampia schiera intellettuale erudita sul modello nevrotico-repressivo, sarebbe colui che, perfettamente incastrato nel proprio tempo, è giunto al tramonto della cosiddetta civiltà nevrotica. Ferreri, diversamente, in virtù della sfasatura anacronistica che non lo fa coincidere adeguatamente con il proprio Zeitgeist, sarebbe riuscito a prevedere l’instaurazione di quello che potremmo definire il modello di civiltà perverso-edonistico, frutto dello stesso edonismo liberale che Pasolini non esitò a definire “genocidio antropologico”. Per esprimere tutto il peso di questa differenza dobbiamo tornare al Disagio della Civiltà.
Ciò che Freud cerca di dirci con questo arguto saggio del 1929 è che, in sostanza, l’uomo non è fatto per essere felice. Vi è una disarmonia strutturale tra le esigenze pulsionali del soggetto e quelle della civiltà. Già a partire da La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno (1908), il messaggio di Freud è chiaro: il grado di diffusione dei disturbi nevrotici è direttamente proporzionale a quello di restrizione sessuale. In poche parole, l’impulso perverso[iv], represso dall’interdizione civile, ritorna sotto forma di sintomo nevrotico. Ne consegue allora che più una civiltà è votata al progresso, più il suo tasso di repressione è massivo e, di conseguenza, più essa è nevrotica.
L’uomo civile ha barattato parte della propria felicità (soppesata sotto forma di piacere pulsionale) per un po’ di sicurezza e lo stigma di tale baratto, il marchio dell’ingresso nella civiltà è il Super-io. Insomma, per Freud è il senso di colpa a tenere coesa una civiltà. Ma diversamente dal saggio del 1908, in cui i conflitti nevrotici sono un effetto del giogo repressivo della società, nel Disagio della civiltà è la pulsione a fare problema, a serbare un addendum mortifero, non presente nello scritto precedente.
La stessa civiltà è mossa da una spinta erotica interna che omologa e reprime gli individui, ma al tempo stesso essa mitiga l’uomo dai turbamenti della vita affettiva, sublimando in fratellanza l’imperversare aggressivo della pulsione di morte. Insomma, se Eros sarebbe pulsione di aggregazione e sodalizio, apertura centrifuga verso l’altro – e, di conseguenza, compromesso -, Thanatos è chiusura autistica e centripeta nel proprio cieco godimento, disaggregazione e dissipazione. In questa seconda visione l’altro non costituisce più un simile, ma l’ostacolo al compimento di un godimento narcisistico e aggressivo.
Al contrario, otteniamo il modello di civiltà perversa rovesciando quello nevrotico. Se il primo è strutturato sulla necessità di rinunciare a parte del proprio godimento per sfuggire all’ansia sociale, quest’ultimo intima che sia invece necessario consumare indistintamente ogni surplus per sottrarsi alla devianza. Si nota subito come questo modello si fondi su di un presupposto paradossale: in esso il godimento, ciò che vi è di più intimo e personale, non solo si aliena dall’individuo, ma persiste contro di esso. La nuova ideologia edonista crea l’illusione che occasioni di godimento non necessarie (merci e libertinaggio sessuale) diventino irrinunciabili, e pertanto debbano essere consumate a tutti i costi.
La tolleranza concessa dal consumismo, lungi dal predicare un’emancipazione marcusiana, è la maschera di un modello essenzialmente repressivo che, fingendo di sorreggersi sulla menzognera realizzazione di diritti civili per tutti (godimento libero e sfrenato) finisce per condannare gli individui ad un’atarassica fissazione al medesimo, veicolata dall’accumulo forsennato e dall’escissione della differenza[v].
Sebbene molti intellettuali e filosofi si siano già impegnati in efficaci quanto inquietanti pronostici (abbiamo già citato Pasolini e Ferreri, ma il discorso sarebbe estendibile a molti altri, tra cui, come vedremo poi, Fachinelli in primis), Charles Melman è stato il primo a conferire dignità concettuale a questo discorso in termini sistematici. Il suo L’homme sans gravité (2002), una lunga conversazione con Jean-Pierre Lebrun, può essere considerato il manifesto del nuovo modo di godere oggi.
Recentemente, a riguardo, è apparsa la traduzione italiana di una corposa appendice alle tesi dell’uomo senza gravità, il cui titolo compendia eloquentemente ciò di cui stiamo parlando: La nuova economia psichica (Mimesis, 2018, 186 pp.).
Più che di un’estensione o di un corollario, esso costituisce piuttosto un anello che circonda la celebre conversazione che lo psicoanalista ha tenuto con il collega Jean-Pierre Lebrun, coprendo periodi tanto successivi quanto precedenti alla stesura de L’homme sans gravité. Il testo infatti si divide in cinque parti essenziali, accortamente disposte dai curatori in modo da seguire in senso logico il farsi del pensiero di Melman, dall’erudita conferenza di Curitiba (Le nuove forme cliniche, aprile 2002) sino ai più tardi interventi (ultimo è quella di Recife sul matriarcato, dell’agosto 2008), passando per la pausa anacronsitica de Il soggetto del matriarcato (prezioso intervento di Bruxelles che, datato 1999, costituisce l’embrione della nuova economia psichica).
Se la proposta di Melman ha dell’inedito – per lo meno in termini di formalizzazione rigorosa -, altrettanto non può dirsi per l’interrogativo che essa ingenera: può la psicoanalisi rispondere alla trasformazione culturale moderna? Ritengo che la risposta a tale interrogativo risieda proprio nel motivo per cui sia stato Melman, e non altri suoi predecessori, a riuscire nell’impresa di clinicizzare tale condizione antropologica.
Da sempre, la psicoanalisi ha risentito di una profonda scissione interna: da un lato, essa è una disciplina che non tratta il sociale, che non punta al collettivo, ma al singolo, un complesso paradigma della soggettività; dall’altro però essa è spesso riuscita a decifrare con amaro successo molti fenomeni collettivi, a svelarne i subdoli meccanismi, e questo meglio di altre discipline. L’insostenibile tensione che si viene a creare tra questi due poli, che si opti per l’uno o per l’altro, oppure che si raggiunga un’improbabile sintesi tra i due, non può che trovare risoluzione in una praxis e, che si condivida o no la sua tesi, il lavoro di Melman ne è certo un esempio riuscito – sebbene, per alcuni punti, discutibile.
Filosoficamente, il soggetto psichico proposto da Melman appare come una negativa del décadent nicciano, che “si porta alle labbra quel che spinge ancora più rapidamente nell’abisso[vi]”. Infatti, se il filosofo tedesco condannava il décadent ad una eccitazione senza godimento, che “non cerca di godere ma di essere eccitato[vii]”, l’uomo melmaniano è sì pervaso dal godimento, ma anche drenato di ogni eccitazione: come nel caso del film di Ferreri, egli non percepisce più alcun impulso eccitatorio, ma si abbuffa di un godimento continuo ed illimitato che non conosce cesure, perché la cesura equivale solo all’assopimento della morte. Il freno a questo godimento mortifero non è più pertanto rappresentato da una barriera simbolica (onere che, nella “vecchia” economia psichica, spettava al solco invalicabile della castrazione), quanto piuttosto organica: un limite reale che strozza il soggetto un instante prima che l’abisso della psicosi lo inghiotta per sempre.
A riguardo infatti, Melman lascia intendere che la perversione non sia tanto la patologia rappresentativa della nostra civiltà, quanto la sua condizione di normalità: l’eccesso, in assenza del limite, è stato reintegrato nella normalità o, per meglio dire, l’eccesso oggi è la normalità. Se nell’economia precedente chi non era nevrotico – ovvero chi non rientrava nel procusteo taglio dell’interdizione simbolica – era un perverso, oggi chi non è perverso è psicotico[viii].
Ma, dato che abbiamo parlato di vera e propria formalizzazione, quali sono i cardini di questa nuova economia psichica? O, per riprendere i termini del Disagio della civiltà, da cosa esattamente la società attuale trae la propria spinta integrativa?
Due sono i pilastri della dissertazione di Melman: l’impossibilità strutturale del padre di garantire il desiderio del soggetto (offrirsi come fondamento di questo desiderio) e la neutralizzazione dell’oggetto a, non più foriero di angoscia, ma oggetto-protesi, tappo qualunque della mancanza ad avere (diversamente da altre letture di Melman, non ritengo il ritorno al matriarcato un punto-cardine della sua teoria semplicemente perché esso costituisce, semmai, un effetto distale e obbligato della crisi del patriarcato, un punto – certo importante ma – comunque deducibile dal primo).
Melman denuncia il passaggio “da una civiltà fondata sul rifiuto del desiderio, e dunque sulla nevrosi, ad un’altra che ne raccomanda la libera espressione e favorisce la perversione[ix]”. Questo slittamento è innescato dall’eclissi della figura del padre, conseguenza della crisi dei grandi Ideali del Novecento. Il padre è difatti colui che nell’economia edipica, sbarrando l’accesso alla Cosa materna, interdice ma, contemporaneamente, promuove la sessualità.
Il ruolo simbolico del padre – comprensivo dei suoi sardonici malintesi kafkiani – è quello di promulgare la Legge del desiderio, incidendo il soggetto attraverso il taglio della castrazione. Nella risoluzione non patologica dell’Edipo infatti, l’inaugurazione della soggettività avviene proprio attraverso la presa in carico della propria castrazione come limite e, parimenti, possibilità di un godimento non dissipativo – limite che è anzitutto limite del linguaggio di fronte al reale.
Ora, come anche Melman fa notare, il venir meno della funzione strutturante del padre edipico da un lato relativizza la dimensione della Legge, consentendo la dispersione di pratiche di godimento particolari e plurali al di là della castrazione, ma dall’altro implica che la Legge ritorni spietatamente a reclamare un godimento assoluto, senza limiti e senza mancanze, dispersivo ma anche mortifero.
Di conseguenza, il sesso non può che perdere il primato rappresentativo che sino ad allora ne aveva fatto il gold standard dei godimenti. Esso è come – e qui sta tutto il genio lungimirante, ma anche dissacrante di Ferreri – “retrocesso a titolo di bisogno, come la fame o la sete.[x]” Le merci, facendo eco all’ultimo Pasolini, hanno immanentizzato il sesso, facendone un godimento tra gli altri, una soluzione tra le tante, una merce. Ceduto al capriccio di un godimento viziato e che non tollera differite, lo stesso oggetto a patisce di un clamoroso ridimensionamento. Se infatti una delle sue peculiarità consisteva nell’essere lo schermo virtuale del desiderio (si pensi alla formula del fantasma), l’indicizzazione di un qualcosa sempre già perduto – la cui riemersione reale era in grado di produrre l’effetto unheimlich – la forsennata mercificazione promulgata dall’iperedonismo consumista non ne ha semplicemente fatto un oggetto neutrale tra i tanti, ma l’ha ipostatizzato, cosificato in un’aberrante concretezza: là dove vi era l’irraggiungibile rappresentazione del godimento perduto, perpetuamente rincorso in uno scorrimento metonimico senza fine, oggi troviamo la dura consistenza dell’oggetto reale, la merce quale materializzazione dell’eccesso.
Ciò che prima “ci sembrava essere di troppo, da rifiutare, è ora normale[xi]”. La categoria dell’eccesso viene reintegrata come categoria normale del vivere quotidiano e ordinario, poiché nella società dei consumi “si tratta di vivere la relazione agli oggetti includendo l’eccesso a titolo di normalità[xii][xiii].”
È solo date queste premesse che, a mio avviso, si può prendere in considerazione la regressione al matriarcato – per lo meno per il modo in cui la articola Melman. L’obsolescenza del patriarcato, insieme con la pluralizzazione frantumata dei godimenti tutti-uguali, avrebbe prodotto, secondo lo psicoanalista francese, non tanto una prevaricazione del matriarcato sul suo predecessore, quanto piuttosto una retrocessione generale e inevitabile dell’uno sull’altro.
Su questo Melman è estremamente chiaro: “la nuova economia psichica è il risultato non della sparizione del patriarcato ma della fine di un’economia psichica centrata sul padre. Sparendo, non lascia spazio a un’economia centrata sulla madre, diversamente a quanto si potrebbe pensare, ma a un’economia che, potendosi appoggiare solo a una madre non numerabile, si ritrova senza centro… senza gravità.[xiv]”
Ovvero, smantellata storicamente la struttura ternaria del Padre, non resta che la diade senza spigoli del matriarcato, la lacaniana madre “innumerabile” a cui nulla si domanda, perché tutto è già dato. Come definire allora, in termini pulsionali, l’architettura del matriarcato?
In primo luogo, là dove era la castrazione – la mancanza, la separazione – subentra la donazione, il surplus asfissiante dell’oggetto che sottomette l’economia desiderante alla tirannia dell’immediato (il termine è di Lebrun). Infatti, se l’interdizione simbolica dell’incesto scavava un’assenza nel rumore bianco della diade, oggi la Legge della castrazione viene cassata dalle prescrizioni d’urgenza del “tutto e subito”: “il matriarcato non è assolutamente in grado di dare accesso alla negatività. Il che rende il carattere di un’intenzione materna sempre capriccioso e sbarazzato da ogni preoccupazione di coerenza.[xv]”
Se allora, da un lato, la nuova economia implica lo slittamento dal teatro del godimento fallico all’ubiquità immediata del godimento d’oggetto (“il godimento fallico ci condanna a gioire solo del sembiante del fallo, mentre il godimento dell’oggetto ci permette di cogliere l’oggetto, reale stesso”), dall’altro, tale picchiata sull’oggetto reale fa sì che il pene non vada più riferito alla sua fosforescenza simbolica, immateriale, al significante della mancanza, quanto piuttosto all’oggetto concreto reale. Laddove infatti l’oggetto simbolico, alimentando la mancanza, produce quello scuotimento che porta il soggetto “a caccia di guai”, l’oggetto concreto è invece ottundimento, immobilizzazione, cattura paralitica nelle ganasce del reale[xvi].
La società matriarcale reprime l’uomo, ma non attraverso proibizioni ed interdizioni. Essa gli mette davanti un falso schermo di tolleranza che fa del libertinaggio edonistico un obbligo, una costrizione che tramuta il fittizio proposito di libertà in sfruttamento – sempre ricorrendo alle parole di Pasolini: una dittatura della conformità. Ognuno deve avere diritto a soddisfare pienamente e acefalicamente il proprio godimento. Il “tutto è possibile, tutto è fattibile[xvii]” nasconde il doppio fondo della libertà, la verità ultima del matriarcato: “il nuovo capo che ci comanda è l’oggetto.[xviii]”
La preclusione dell’assenza ad opera dell’immediatezza allaccia il tramonto del patriarcato con il linguaggio[xix]: può la fine dell’uno trascinare irrimediabilmente con sé anche la fine dell’altro?
Asserendo che “il messaggio che ora ci viene dall’opinione pubblica [così come l’oggetto] è senza mistero, è un messaggio diretto”, Melman assume che anche il linguaggio, in una simile tirannia dell’immediato (il termine è di Lebrun) si trovi ad essere smussato e ipersemplificato a profitto di sistemi di comunicazione più semplici e diretti. Ancora una volta, la parvenza viene sloggiata a favore della presenza inopportuna dell’oggetto reale.
Già Pasolini constatò come il “progresso” incidesse la lingua, caratterizzandone l’opposizione tra il canale espressivo e quello comunicativo[xx]. Se da una parte infatti l’espressione ne è la faccia umbratile ed equivoca, quella sacrificata all’impossibilità dell’uomo di veicolare la domanda d’amore entro le strettoie del linguaggio senza sacrificare parte della significazione, la comunicazione ne è il rovescio pragmatico che si sorregge sulla puntuale relazione biunivoca tra segno e referente, un codice asettico e robotico (che non a caso è favorito dagli ambienti scientifici e finanziari) che omologa la pluralità polifonica dei discorsi alla monotonia del medesimo. Ma ovviamente, come già riferiva Pasolini nelle Nuove questioni linguistiche (siamo solo nel 1964), tale opposizione è tutt’altro che alla pari: l’esito comunicativo è destinato a prevalere su quello espressivo, così facendo “il fine della lingua rientrerà nel ciclo produzione-consumo”, omogeneizzandosi “intorno a un centro culturale irradiatore insieme di potere e di lingua[xxi]”. L’espressività linguistica, in questo senso, verrà “radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione[xxii]”.
Oggi sappiamo che questo braccio di ferro ha rispettato le desolanti profezie di Pasolini e il principio omologatore e unificatore dello strumento comunicativo ha ossificato la vitalità linguistica piegandola alle declinazioni non fraintendibili del consumismo forsennato.
Ora, a dire di Melman, questo slittamento dall’espressione alla comunicazione, eloquentemente esposto già ne L’homme sans gravité[xxiii] coincide con la degenerazione del significante in segno. Mentre il primo infatti non può che rinviare ad un altro significante, preservando lo slittamento incessante della significazione, il secondo arpiona la parola alla cosa in modo univoco.
Trovo questa considerazione ineccepibile, ma sono meno d’accordo con Melman quando afferma che un simile fenomeno imponga il primato dell’immagine. A riguardo, concordo con Benvenuto: sebbene l’immagine nasconda dietro di sé una chiarezza accecante, un rimando alla significazione perfettamente articolato, esplicito e insistente, ad una prima impressione essa non è che una maschera, un ultimo baluardo del fraintendimento che, in qualche modo, preserva ancora un resto espressivo, una possibilità di fuga dal rimando claustrofobico del segno.
Diversamente, è la scrittura a svuotarsi completamente nel suo stesso atto di emissione, a far coincidere disperatamente enunciato ed enunciazione, in modo tale da inchiodare l’interlocutore ad un’“iperleggibilità attonita” che “non concede gli alibi e i brividi dell’ambiguità figurativa[xxiv]”.
La negazione del limite, abbiamo detto poc’anzi, comporta l’eliminazione di ogni arresto possibile. Nulla più impedisce al godimento senza freni di dilagare dappertutto e malgrado tutto. Tanto che questa violenta universalizzazione afferma il proprio primato a scapito di tutte le realtà particolari e non immediatamente assimilabili che tentano di resistervi – non ultime quelle culturali. Quello del linguaggio espressivo non è che l’ultimo esempio di radicale appiattimento dell’alterità sulla grigia facciata della medesimezza.
La nuova economia psichica ingurgita la differenza – rimuovendone appunto quel non so che di perturbante che la rende tale, a – e la fa ritornare sotto forma di alterità digerita, ammansita. Quella che ai nostri occhi può sembrare differenza non è che l’ingannevole vestito dell’omologazione: il discorso universalista, sconfessando la differenza, assorbe le singole e particolari sottoculture, ricifrandone il significato sotto forma di moda. Oggi, gli antropologi ci fanno notare come le differenze stiano venendo progressivamente mercificate. Cerimonie e feste tipiche di certe etnie primitive[xxv] un tempo celebrate per se stesse, sono ormai imbastite non malgrado l’intromissione delle folle turistiche, ma proprio in virtù della loro presenza. L’alterità, in un regime che non concede pause pulsionali, viene domata e tollerata – dunque disintegrata – attraverso processi di continua reiterazione, accumulazione e idealizzazione. Come nota Sergio Benvenuto, “l’esperienza della differenza viene cancellata o nella ricomposizione dell’identico tutto sociale che assorbe ogni cosa, o nella sparizione di identità di sottogruppo ferreamente corazzate per assicurare la loro identificazione[xxvi]”. La falsa alterità che le “macchine dell’identità e della differenza”[xxvii] porgono al nostro cospetto è un’alterità paradossale che, anziché aprire al soggetto la via del desiderio e dell’etica, lo chiude nella sconfessione, produce un Altricidio che rende il mondo tutto uguale, adatto alla perseverazione perversa del godimento unico e corrosivo.
Alessandra Campo, rileggendo il Robinson della Logica del senso di Deleuze, ha messo l’accento proprio su questa natura solipsistica della differenza che, anziché essere una condotta del soggetto perverso, costituisce piuttosto la sua struttura: “una robinsonata è una perversione (…) e l’isola deserta, deserta di Altri, è il mondo del perverso, un mondo senza Altro, quindi un mondo ‘senza possibile’.[xxviii]” Ricorrendo ad una compartimentazione stagna, il perverso riesce a denegare, a suo vantaggio, l’alterità irriducibile e indigeribile, l’osso in gola dell’alterità, e a farne una camuffata compiacenza del medesimo[xxix].
Insomma, un’economia sorretta sulla logica robinsoniana dell’esclusione farà sì che “l’Altro – che è anzitutto evento, sorpresa radicale, imprevisto assoluto – diverrà sempre più raro da incontrare.[xxx]” Con glaciale eloquenza, conclude Melman: “è curioso che nessuno, credo, abbia ancora fatto notare che l’uguaglianza, che ci sembra una parola d’ordine eminentemente umanista e progressista, l’uguaglianza è un desiderio di morte.[xxxi]” L’economia dell’uguale, l’etica della medesimezza – così la chiama, in altra sede, Giovanni Stanghellini[xxxii] – piuttosto che aggregare il prossimo, lo esclude o, peggio, ci spinge ad ucciderlo (di qui il neologismo melmaniano frérocité, che condensa frère e férocité), a toglierlo di mezzo, perché la sua presenza attenta il nostro bisogno sviscerato e micidiale di godere di tutto, subito.
Tirando le somme, ritengo che il lavoro di Melman presenti un importante vantaggio: portando sulle proprie spalle il carico di una onerosa letteratura (lacaniana e non), riesce a formalizzare un discorso integro, coerente e continuativo, in grado di fornire un valido riscontro di come la nuova economia psichica partecipi pervasivamente dell’era post-ideologica. Merito di Melman è stato quello di mantenere la propria analisi sul versante della clinicizzazione, piuttosto che debordare nell’invettiva patologizzante. Mi spiego meglio: asserendo che la nuova economia psichica si fondi su di una “perversione normale”, Melman non trasforma la sua teoria in una gigantesca critica alle nefandezze del capitalismo, o in una condanna delle angherie consumistiche. Preso atto del fatto che tale economia designi non un velo ideologico, una patina fenomenica che preclude la visione di una verità superiore, ma una effettiva realtà, egli si impegna a fornire anche il risvolto patologico di tale condizione, la possibilità di una deriva che non va letta come “l’ulteriore” complicazione clinica di un soggetto già accidentato, ma la possibile degenerazione di equilibrio assodato e perfettamente integrato nello status quo.
Insomma, la struttura perversa costituirebbe oggi una costituzione omeostatica che si appiglia alle proprie economie di godimento per non precipitare nell’abisso della psicosi.
Se, in una simile situazione, l’oggetto a – per quanto ipostatizzato e reale – venisse meno, venisse “messo in tasca” dice Lacan, il soggetto accuserebbe un breakdown psicotico. La sua realtà, caduti i grandi ideali, è ora appesa al fragile appiglio del feticcio, una sorta di eternizzazione dell’oggetto transizionale di Winnicott.
Questa equilibrazione della perversione fa dell’analisi di Melman la sua forza ma, a cospetto dei suoi detrattori, anche il suo fianco scoperto.
Quest’ultima considerazione lascia urgere un’ultima questione. Per esporla ricorrerò ad un libello di Céline, precisamente alla sua tesi di laurea, Il dottor Semmelweis (1924).
Ingàc Semmelweiss si può dire sia stato, certamente, un altro personaggio inattuale, un contemporaneo che ricevette “in pieno viso il fascio di tenebre che proviene dal suo tempo.[xxxiii]” Pare che nella lontana metà del XIX secolo, questo medico viennese riuscì a scoprire le cause della temibile febbre puerperale (infezione che uccideva una partoriente su quattro, da lui ricondotta a cause batteriche, scatenate dalle mani infette dei dottori) ma, tragicamente, l’ostile invidia dei suoi colleghi e l’impossibilità di corroborare la scoperta con mezzi scientifici, fece sì che la gloria della scoperta degli antisettici andasse, solo anni dopo, a Pasteur. L’esempio di Semmelweiss ci dimostra come anche la più illuminante delle verità debba sottostare a delle specifiche tempistiche[xxxiv].
Si può dire che la personalità che, psicoanaliticamente parlando, è stata più di altre accecata dal fascio di luce dell’inattuale sia Elvio Fachinelli. A riguardo, colpisce vedere come, già in alcuni suoi scritti del ’68, i temi che oggi tingono l’attualità della nuova economia psichica siano trattati con inquietante lungimiranza. Prendiamo ad esempio questo passo da Il desiderio dissidente: “L’esperienza psicoanalitica nel suo complesso è concorde in una segnalazione: la diminuzione di importanza relativa, nei soggetti in analisi, delle situazioni di conflitto col padre così come è stato classicamente descritto da Freud. Questo non significa che il problema dell’autorità e del potere sia passato in secondo piano, nell’individuo; esso si pone anzi in modi più perentori e angosciosi, proprio perché tende a farsi più astratto e meno determinato. La figura paterna sbiadisce, perde forza e autonomia; emergono elementi d’impotenza, di dipendenza incondizionata e totale che l’analisi freudiana aveva appena intravisto. È ciò che s’intende quando, in termini molto riduttivi, si dice che alla relazione triangolare (padre, madre, bambino) tende sempre più spesso a sostituirsi la relazione bipolare madre-bambino.[xxxv]”
Quel che colpisce di queste righe non si riduce ad un semplice insight occorso nel setting analitico. Diversamente, proseguendo nella lettura del saggio, è la presenza di numerosi elementi che già preannunciano una possibilità concreta di sistematizzazione di un discorso psichico a sorprendere il lettore di oggi.
“Ciò che sta dietro, per questi giovani (…), è un’immagine o un fantasma di società che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale. Cioè abbina un’offerta di sicurezza immediata a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio (corsivo mio). La liberazione dal bisogno sembra anzi avere come sua condizione la rinuncia al desiderio.”
Arpionato ad una reiterazione senza soste né differite, anche l’economia proposta da Fachinelli concerne uno psichismo mirante a preservare non il desiderio (che presupporrebbe un’assenza costitutiva), ma lo “stato di desiderio”. La piatta reiterazione senza tempo (perché il tempo viene dettato proprio dal ciclo di presenze e assenze, fort e da) prodotta dalla degradazione del desiderio viene alimentata dalla stessa “situazione angosciante che è quella del rapporto con la madre[xxxvi]”, in modo che “quella stessa società [che] tende a fare sempre più uso di metafore biologiche, cibernetico-biologiche, tende a presentarsi come un complesso di sistemi la cui regolazione è prevista in anticipo. Si pone l’accento sul funzionamento e sull’equilibrio, anziché sul mutamento.[xxxvii]” Per Fachinelli insomma, il consumo vorace e simultaneo che l’apparato industriale instilla nell’individuo ripeterebbe gli stessi meccanismi della relazione piccolo-infantile con la madre, con la differenza che mentre quest’ultima è una tappa obbligata dello sviluppo (ed è quindi intenzionata verso il futuro), la prima è invece un’immobilizzazione che frantuma ogni tempo e, opponendo alla soddisfazione del bisogno un perenne “non basta”, imprigiona l’individuo in un conservazionismo assoluto.
Malgrado gli evidenti punti di raccordo tra l’analisi di Fachinelli e quella di Melman, c’è un resto perturbante che impedisce alle due tesi di sovrapporsi completamente: mentre lo psicoanalista francese, scrivendo nel 2002, può saziarsi del privilegio della constatazione, può limitarsi a dire “è così che le cose sono”, le parole di Fachinelli, quasi quarant’anni prima, condensano in sette brevi pagine tutta la desolazione del genocidio antropologico che è a venire. Due sono gli sbocchi possibili:
Eppure, già a quei tempi, Alberto Moravia non esitò a definire Ferreri, ancora una volta, “il nostro regista più autenticamente ed esclusivamente moralista.[i]”
Come è possibile risolvere questa dissonanza tra il plebiscito degli spettatori e la valutazione controcorrente – ma attendibile – di Moravia? O meglio, come convertire tale orgia bulimica in un tragico esempio di moralismo? Ripartiamo dall’articolo di Moravia e dalla distinzione che egli traccia tra la morale e la buona educazione. Se la prima si prefigge di proibire certe cose sia nel pubblico che nel privato, la seconda limiterebbe l’interdizione ai soli ambienti pubblici, decretando in sostanza che, nel privato, tutto è permesso. In questo caso, come nota Moravia, la pellicola di Ferreri si sgancia dalla più sofisticata critica del sistema occidentale di Bunuel (si pensi a Il fascino discreto della borghesia, oppure ai commensali, anch’essi borghesi, impossibilitati ad abbandonare la villa in L’angelo sterminatore) per andare al di là di qualsiasi apparenza e finzione che l’uomo voglia istituire attorno alla propria condizione esistenziale: quella di Ferreri è una denuncia e un’invettiva che prende l’uomo per gli intestini, per l’organico, che sorprende l’inceppamento cieco e forsennato della pulsione di morte al di là di ogni possibile freno inibitore. Il velo dell’educazione è squarciato e l’uomo è moralmente messo a nudo dinnanzi all’occhio inquisitore della macchina da presa.
Ma l’errore che compie Moravia nella sua analisi sta proprio nel fatto che, scovato il razionale che separa il cinema di Ferreri da quello di Bunuel, non riesce a condurre tale scissione sino al fondo delle sue possibilità: concependo La grande bouffe come una “sacra rappresentazione in cui è descritta la fine che aspetta i ghiottoni e i lussuriosi” ancorata ad “una lontana, archetipica origine cristiana anzi biblica[ii]”, lo scrittore romano rimane ancora con un piede nell’intellettualismo bunueliano e, così facendo, non esce dal circolo rappresentativo del formalismo borghese. Egli ricerca l’allegoria anche dove essa non è, tanto da rimanere basito dalla degradazione del sessuale che Ferreri non si esime dal compiere, abbassando la copulazione ad un bisogno tra gli altri. Ciò che Moravia non si riesce a spiegare è come il sesso possa essere destituito dal piedistallo di godimento per eccellenza, da pietra di paragone di tutti i piaceri possibili, ed essere declassato alla goffaggine bulimica del peccato di gola. Così facendo, rimane invischiato in quello stesso scenario che Ferreri si prefigge di smontare: non vi è più ideale simbolico, né passato, né storia; rimane solo una mortifera immediatezza, un’esponenziale pluralizzazione dei godimenti che trascina con sé ogni argine ideologico, ogni interdizione possibile. Ferreri non ritrae personaggi ma orifizi, sospensioni della soggettività ed esasperazione di natiche, pubi, seni, arrosti e minestre.
“Tutto e subito” è la logica sottesa a tale apocalisse scatologico che, se da una parte rimuove il tempo anacronizzando il godimento e rimuovendo i punti morti del differimento della soddisfazione, dall’altra disperde la consistenza dell’identità personale, deumanizza il soggetto ad una sommatoria di zone erogene, brulicanti bordi di libidine. Lacanianamente parlando, si potrebbe dire che l’ininterrotto imperversare dell’oggetto suturi la mancanza una volta per tutte, colmando la sua Spaltung inaugurale. Ma l’effetto collaterale di una simile risoluzione è che, soffocato il desiderio, è il soggetto stesso a venir meno, a scomparire. La sessualità allora, ridotta ad un solletico erogeno tra gli altri, non può che perdere il primato della propria trascendenza rispetto ad ogni godimento possibile.
Agamben, in tal senso, direbbe che Ferreri è un regista contemporaneo: “appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire ed afferrare il suo tempo.[iii]”
In termini freudiani, potremmo dire che Moravia e Ferreri si situino su due sponde diverse del disagio della civiltà. Lo scrittore romano, in rappresentanza di una ampia schiera intellettuale erudita sul modello nevrotico-repressivo, sarebbe colui che, perfettamente incastrato nel proprio tempo, è giunto al tramonto della cosiddetta civiltà nevrotica. Ferreri, diversamente, in virtù della sfasatura anacronistica che non lo fa coincidere adeguatamente con il proprio Zeitgeist, sarebbe riuscito a prevedere l’instaurazione di quello che potremmo definire il modello di civiltà perverso-edonistico, frutto dello stesso edonismo liberale che Pasolini non esitò a definire “genocidio antropologico”. Per esprimere tutto il peso di questa differenza dobbiamo tornare al Disagio della Civiltà.
Ciò che Freud cerca di dirci con questo arguto saggio del 1929 è che, in sostanza, l’uomo non è fatto per essere felice. Vi è una disarmonia strutturale tra le esigenze pulsionali del soggetto e quelle della civiltà. Già a partire da La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno (1908), il messaggio di Freud è chiaro: il grado di diffusione dei disturbi nevrotici è direttamente proporzionale a quello di restrizione sessuale. In poche parole, l’impulso perverso[iv], represso dall’interdizione civile, ritorna sotto forma di sintomo nevrotico. Ne consegue allora che più una civiltà è votata al progresso, più il suo tasso di repressione è massivo e, di conseguenza, più essa è nevrotica.
L’uomo civile ha barattato parte della propria felicità (soppesata sotto forma di piacere pulsionale) per un po’ di sicurezza e lo stigma di tale baratto, il marchio dell’ingresso nella civiltà è il Super-io. Insomma, per Freud è il senso di colpa a tenere coesa una civiltà. Ma diversamente dal saggio del 1908, in cui i conflitti nevrotici sono un effetto del giogo repressivo della società, nel Disagio della civiltà è la pulsione a fare problema, a serbare un addendum mortifero, non presente nello scritto precedente.
La stessa civiltà è mossa da una spinta erotica interna che omologa e reprime gli individui, ma al tempo stesso essa mitiga l’uomo dai turbamenti della vita affettiva, sublimando in fratellanza l’imperversare aggressivo della pulsione di morte. Insomma, se Eros sarebbe pulsione di aggregazione e sodalizio, apertura centrifuga verso l’altro – e, di conseguenza, compromesso -, Thanatos è chiusura autistica e centripeta nel proprio cieco godimento, disaggregazione e dissipazione. In questa seconda visione l’altro non costituisce più un simile, ma l’ostacolo al compimento di un godimento narcisistico e aggressivo.
Al contrario, otteniamo il modello di civiltà perversa rovesciando quello nevrotico. Se il primo è strutturato sulla necessità di rinunciare a parte del proprio godimento per sfuggire all’ansia sociale, quest’ultimo intima che sia invece necessario consumare indistintamente ogni surplus per sottrarsi alla devianza. Si nota subito come questo modello si fondi su di un presupposto paradossale: in esso il godimento, ciò che vi è di più intimo e personale, non solo si aliena dall’individuo, ma persiste contro di esso. La nuova ideologia edonista crea l’illusione che occasioni di godimento non necessarie (merci e libertinaggio sessuale) diventino irrinunciabili, e pertanto debbano essere consumate a tutti i costi.
La tolleranza concessa dal consumismo, lungi dal predicare un’emancipazione marcusiana, è la maschera di un modello essenzialmente repressivo che, fingendo di sorreggersi sulla menzognera realizzazione di diritti civili per tutti (godimento libero e sfrenato) finisce per condannare gli individui ad un’atarassica fissazione al medesimo, veicolata dall’accumulo forsennato e dall’escissione della differenza[v].
Sebbene molti intellettuali e filosofi si siano già impegnati in efficaci quanto inquietanti pronostici (abbiamo già citato Pasolini e Ferreri, ma il discorso sarebbe estendibile a molti altri, tra cui, come vedremo poi, Fachinelli in primis), Charles Melman è stato il primo a conferire dignità concettuale a questo discorso in termini sistematici. Il suo L’homme sans gravité (2002), una lunga conversazione con Jean-Pierre Lebrun, può essere considerato il manifesto del nuovo modo di godere oggi.
Recentemente, a riguardo, è apparsa la traduzione italiana di una corposa appendice alle tesi dell’uomo senza gravità, il cui titolo compendia eloquentemente ciò di cui stiamo parlando: La nuova economia psichica (Mimesis, 2018, 186 pp.).
Più che di un’estensione o di un corollario, esso costituisce piuttosto un anello che circonda la celebre conversazione che lo psicoanalista ha tenuto con il collega Jean-Pierre Lebrun, coprendo periodi tanto successivi quanto precedenti alla stesura de L’homme sans gravité. Il testo infatti si divide in cinque parti essenziali, accortamente disposte dai curatori in modo da seguire in senso logico il farsi del pensiero di Melman, dall’erudita conferenza di Curitiba (Le nuove forme cliniche, aprile 2002) sino ai più tardi interventi (ultimo è quella di Recife sul matriarcato, dell’agosto 2008), passando per la pausa anacronsitica de Il soggetto del matriarcato (prezioso intervento di Bruxelles che, datato 1999, costituisce l’embrione della nuova economia psichica).
Se la proposta di Melman ha dell’inedito – per lo meno in termini di formalizzazione rigorosa -, altrettanto non può dirsi per l’interrogativo che essa ingenera: può la psicoanalisi rispondere alla trasformazione culturale moderna? Ritengo che la risposta a tale interrogativo risieda proprio nel motivo per cui sia stato Melman, e non altri suoi predecessori, a riuscire nell’impresa di clinicizzare tale condizione antropologica.
Da sempre, la psicoanalisi ha risentito di una profonda scissione interna: da un lato, essa è una disciplina che non tratta il sociale, che non punta al collettivo, ma al singolo, un complesso paradigma della soggettività; dall’altro però essa è spesso riuscita a decifrare con amaro successo molti fenomeni collettivi, a svelarne i subdoli meccanismi, e questo meglio di altre discipline. L’insostenibile tensione che si viene a creare tra questi due poli, che si opti per l’uno o per l’altro, oppure che si raggiunga un’improbabile sintesi tra i due, non può che trovare risoluzione in una praxis e, che si condivida o no la sua tesi, il lavoro di Melman ne è certo un esempio riuscito – sebbene, per alcuni punti, discutibile.
Filosoficamente, il soggetto psichico proposto da Melman appare come una negativa del décadent nicciano, che “si porta alle labbra quel che spinge ancora più rapidamente nell’abisso[vi]”. Infatti, se il filosofo tedesco condannava il décadent ad una eccitazione senza godimento, che “non cerca di godere ma di essere eccitato[vii]”, l’uomo melmaniano è sì pervaso dal godimento, ma anche drenato di ogni eccitazione: come nel caso del film di Ferreri, egli non percepisce più alcun impulso eccitatorio, ma si abbuffa di un godimento continuo ed illimitato che non conosce cesure, perché la cesura equivale solo all’assopimento della morte. Il freno a questo godimento mortifero non è più pertanto rappresentato da una barriera simbolica (onere che, nella “vecchia” economia psichica, spettava al solco invalicabile della castrazione), quanto piuttosto organica: un limite reale che strozza il soggetto un instante prima che l’abisso della psicosi lo inghiotta per sempre.
A riguardo infatti, Melman lascia intendere che la perversione non sia tanto la patologia rappresentativa della nostra civiltà, quanto la sua condizione di normalità: l’eccesso, in assenza del limite, è stato reintegrato nella normalità o, per meglio dire, l’eccesso oggi è la normalità. Se nell’economia precedente chi non era nevrotico – ovvero chi non rientrava nel procusteo taglio dell’interdizione simbolica – era un perverso, oggi chi non è perverso è psicotico[viii].
Ma, dato che abbiamo parlato di vera e propria formalizzazione, quali sono i cardini di questa nuova economia psichica? O, per riprendere i termini del Disagio della civiltà, da cosa esattamente la società attuale trae la propria spinta integrativa?
Due sono i pilastri della dissertazione di Melman: l’impossibilità strutturale del padre di garantire il desiderio del soggetto (offrirsi come fondamento di questo desiderio) e la neutralizzazione dell’oggetto a, non più foriero di angoscia, ma oggetto-protesi, tappo qualunque della mancanza ad avere (diversamente da altre letture di Melman, non ritengo il ritorno al matriarcato un punto-cardine della sua teoria semplicemente perché esso costituisce, semmai, un effetto distale e obbligato della crisi del patriarcato, un punto – certo importante ma – comunque deducibile dal primo).
Melman denuncia il passaggio “da una civiltà fondata sul rifiuto del desiderio, e dunque sulla nevrosi, ad un’altra che ne raccomanda la libera espressione e favorisce la perversione[ix]”. Questo slittamento è innescato dall’eclissi della figura del padre, conseguenza della crisi dei grandi Ideali del Novecento. Il padre è difatti colui che nell’economia edipica, sbarrando l’accesso alla Cosa materna, interdice ma, contemporaneamente, promuove la sessualità.
Il ruolo simbolico del padre – comprensivo dei suoi sardonici malintesi kafkiani – è quello di promulgare la Legge del desiderio, incidendo il soggetto attraverso il taglio della castrazione. Nella risoluzione non patologica dell’Edipo infatti, l’inaugurazione della soggettività avviene proprio attraverso la presa in carico della propria castrazione come limite e, parimenti, possibilità di un godimento non dissipativo – limite che è anzitutto limite del linguaggio di fronte al reale.
Ora, come anche Melman fa notare, il venir meno della funzione strutturante del padre edipico da un lato relativizza la dimensione della Legge, consentendo la dispersione di pratiche di godimento particolari e plurali al di là della castrazione, ma dall’altro implica che la Legge ritorni spietatamente a reclamare un godimento assoluto, senza limiti e senza mancanze, dispersivo ma anche mortifero.
Di conseguenza, il sesso non può che perdere il primato rappresentativo che sino ad allora ne aveva fatto il gold standard dei godimenti. Esso è come – e qui sta tutto il genio lungimirante, ma anche dissacrante di Ferreri – “retrocesso a titolo di bisogno, come la fame o la sete.[x]” Le merci, facendo eco all’ultimo Pasolini, hanno immanentizzato il sesso, facendone un godimento tra gli altri, una soluzione tra le tante, una merce. Ceduto al capriccio di un godimento viziato e che non tollera differite, lo stesso oggetto a patisce di un clamoroso ridimensionamento. Se infatti una delle sue peculiarità consisteva nell’essere lo schermo virtuale del desiderio (si pensi alla formula del fantasma), l’indicizzazione di un qualcosa sempre già perduto – la cui riemersione reale era in grado di produrre l’effetto unheimlich – la forsennata mercificazione promulgata dall’iperedonismo consumista non ne ha semplicemente fatto un oggetto neutrale tra i tanti, ma l’ha ipostatizzato, cosificato in un’aberrante concretezza: là dove vi era l’irraggiungibile rappresentazione del godimento perduto, perpetuamente rincorso in uno scorrimento metonimico senza fine, oggi troviamo la dura consistenza dell’oggetto reale, la merce quale materializzazione dell’eccesso.
Ciò che prima “ci sembrava essere di troppo, da rifiutare, è ora normale[xi]”. La categoria dell’eccesso viene reintegrata come categoria normale del vivere quotidiano e ordinario, poiché nella società dei consumi “si tratta di vivere la relazione agli oggetti includendo l’eccesso a titolo di normalità[xii][xiii].”
È solo date queste premesse che, a mio avviso, si può prendere in considerazione la regressione al matriarcato – per lo meno per il modo in cui la articola Melman. L’obsolescenza del patriarcato, insieme con la pluralizzazione frantumata dei godimenti tutti-uguali, avrebbe prodotto, secondo lo psicoanalista francese, non tanto una prevaricazione del matriarcato sul suo predecessore, quanto piuttosto una retrocessione generale e inevitabile dell’uno sull’altro.
Su questo Melman è estremamente chiaro: “la nuova economia psichica è il risultato non della sparizione del patriarcato ma della fine di un’economia psichica centrata sul padre. Sparendo, non lascia spazio a un’economia centrata sulla madre, diversamente a quanto si potrebbe pensare, ma a un’economia che, potendosi appoggiare solo a una madre non numerabile, si ritrova senza centro… senza gravità.[xiv]”
Ovvero, smantellata storicamente la struttura ternaria del Padre, non resta che la diade senza spigoli del matriarcato, la lacaniana madre “innumerabile” a cui nulla si domanda, perché tutto è già dato. Come definire allora, in termini pulsionali, l’architettura del matriarcato?
In primo luogo, là dove era la castrazione – la mancanza, la separazione – subentra la donazione, il surplus asfissiante dell’oggetto che sottomette l’economia desiderante alla tirannia dell’immediato (il termine è di Lebrun). Infatti, se l’interdizione simbolica dell’incesto scavava un’assenza nel rumore bianco della diade, oggi la Legge della castrazione viene cassata dalle prescrizioni d’urgenza del “tutto e subito”: “il matriarcato non è assolutamente in grado di dare accesso alla negatività. Il che rende il carattere di un’intenzione materna sempre capriccioso e sbarazzato da ogni preoccupazione di coerenza.[xv]”
Se allora, da un lato, la nuova economia implica lo slittamento dal teatro del godimento fallico all’ubiquità immediata del godimento d’oggetto (“il godimento fallico ci condanna a gioire solo del sembiante del fallo, mentre il godimento dell’oggetto ci permette di cogliere l’oggetto, reale stesso”), dall’altro, tale picchiata sull’oggetto reale fa sì che il pene non vada più riferito alla sua fosforescenza simbolica, immateriale, al significante della mancanza, quanto piuttosto all’oggetto concreto reale. Laddove infatti l’oggetto simbolico, alimentando la mancanza, produce quello scuotimento che porta il soggetto “a caccia di guai”, l’oggetto concreto è invece ottundimento, immobilizzazione, cattura paralitica nelle ganasce del reale[xvi].
La società matriarcale reprime l’uomo, ma non attraverso proibizioni ed interdizioni. Essa gli mette davanti un falso schermo di tolleranza che fa del libertinaggio edonistico un obbligo, una costrizione che tramuta il fittizio proposito di libertà in sfruttamento – sempre ricorrendo alle parole di Pasolini: una dittatura della conformità. Ognuno deve avere diritto a soddisfare pienamente e acefalicamente il proprio godimento. Il “tutto è possibile, tutto è fattibile[xvii]” nasconde il doppio fondo della libertà, la verità ultima del matriarcato: “il nuovo capo che ci comanda è l’oggetto.[xviii]”
La preclusione dell’assenza ad opera dell’immediatezza allaccia il tramonto del patriarcato con il linguaggio[xix]: può la fine dell’uno trascinare irrimediabilmente con sé anche la fine dell’altro?
Asserendo che “il messaggio che ora ci viene dall’opinione pubblica [così come l’oggetto] è senza mistero, è un messaggio diretto”, Melman assume che anche il linguaggio, in una simile tirannia dell’immediato (il termine è di Lebrun) si trovi ad essere smussato e ipersemplificato a profitto di sistemi di comunicazione più semplici e diretti. Ancora una volta, la parvenza viene sloggiata a favore della presenza inopportuna dell’oggetto reale.
Già Pasolini constatò come il “progresso” incidesse la lingua, caratterizzandone l’opposizione tra il canale espressivo e quello comunicativo[xx]. Se da una parte infatti l’espressione ne è la faccia umbratile ed equivoca, quella sacrificata all’impossibilità dell’uomo di veicolare la domanda d’amore entro le strettoie del linguaggio senza sacrificare parte della significazione, la comunicazione ne è il rovescio pragmatico che si sorregge sulla puntuale relazione biunivoca tra segno e referente, un codice asettico e robotico (che non a caso è favorito dagli ambienti scientifici e finanziari) che omologa la pluralità polifonica dei discorsi alla monotonia del medesimo. Ma ovviamente, come già riferiva Pasolini nelle Nuove questioni linguistiche (siamo solo nel 1964), tale opposizione è tutt’altro che alla pari: l’esito comunicativo è destinato a prevalere su quello espressivo, così facendo “il fine della lingua rientrerà nel ciclo produzione-consumo”, omogeneizzandosi “intorno a un centro culturale irradiatore insieme di potere e di lingua[xxi]”. L’espressività linguistica, in questo senso, verrà “radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione[xxii]”.
Oggi sappiamo che questo braccio di ferro ha rispettato le desolanti profezie di Pasolini e il principio omologatore e unificatore dello strumento comunicativo ha ossificato la vitalità linguistica piegandola alle declinazioni non fraintendibili del consumismo forsennato.
Ora, a dire di Melman, questo slittamento dall’espressione alla comunicazione, eloquentemente esposto già ne L’homme sans gravité[xxiii] coincide con la degenerazione del significante in segno. Mentre il primo infatti non può che rinviare ad un altro significante, preservando lo slittamento incessante della significazione, il secondo arpiona la parola alla cosa in modo univoco.
Trovo questa considerazione ineccepibile, ma sono meno d’accordo con Melman quando afferma che un simile fenomeno imponga il primato dell’immagine. A riguardo, concordo con Benvenuto: sebbene l’immagine nasconda dietro di sé una chiarezza accecante, un rimando alla significazione perfettamente articolato, esplicito e insistente, ad una prima impressione essa non è che una maschera, un ultimo baluardo del fraintendimento che, in qualche modo, preserva ancora un resto espressivo, una possibilità di fuga dal rimando claustrofobico del segno.
Diversamente, è la scrittura a svuotarsi completamente nel suo stesso atto di emissione, a far coincidere disperatamente enunciato ed enunciazione, in modo tale da inchiodare l’interlocutore ad un’“iperleggibilità attonita” che “non concede gli alibi e i brividi dell’ambiguità figurativa[xxiv]”.
La negazione del limite, abbiamo detto poc’anzi, comporta l’eliminazione di ogni arresto possibile. Nulla più impedisce al godimento senza freni di dilagare dappertutto e malgrado tutto. Tanto che questa violenta universalizzazione afferma il proprio primato a scapito di tutte le realtà particolari e non immediatamente assimilabili che tentano di resistervi – non ultime quelle culturali. Quello del linguaggio espressivo non è che l’ultimo esempio di radicale appiattimento dell’alterità sulla grigia facciata della medesimezza.
La nuova economia psichica ingurgita la differenza – rimuovendone appunto quel non so che di perturbante che la rende tale, a – e la fa ritornare sotto forma di alterità digerita, ammansita. Quella che ai nostri occhi può sembrare differenza non è che l’ingannevole vestito dell’omologazione: il discorso universalista, sconfessando la differenza, assorbe le singole e particolari sottoculture, ricifrandone il significato sotto forma di moda. Oggi, gli antropologi ci fanno notare come le differenze stiano venendo progressivamente mercificate. Cerimonie e feste tipiche di certe etnie primitive[xxv] un tempo celebrate per se stesse, sono ormai imbastite non malgrado l’intromissione delle folle turistiche, ma proprio in virtù della loro presenza. L’alterità, in un regime che non concede pause pulsionali, viene domata e tollerata – dunque disintegrata – attraverso processi di continua reiterazione, accumulazione e idealizzazione. Come nota Sergio Benvenuto, “l’esperienza della differenza viene cancellata o nella ricomposizione dell’identico tutto sociale che assorbe ogni cosa, o nella sparizione di identità di sottogruppo ferreamente corazzate per assicurare la loro identificazione[xxvi]”. La falsa alterità che le “macchine dell’identità e della differenza”[xxvii] porgono al nostro cospetto è un’alterità paradossale che, anziché aprire al soggetto la via del desiderio e dell’etica, lo chiude nella sconfessione, produce un Altricidio che rende il mondo tutto uguale, adatto alla perseverazione perversa del godimento unico e corrosivo.
Alessandra Campo, rileggendo il Robinson della Logica del senso di Deleuze, ha messo l’accento proprio su questa natura solipsistica della differenza che, anziché essere una condotta del soggetto perverso, costituisce piuttosto la sua struttura: “una robinsonata è una perversione (…) e l’isola deserta, deserta di Altri, è il mondo del perverso, un mondo senza Altro, quindi un mondo ‘senza possibile’.[xxviii]” Ricorrendo ad una compartimentazione stagna, il perverso riesce a denegare, a suo vantaggio, l’alterità irriducibile e indigeribile, l’osso in gola dell’alterità, e a farne una camuffata compiacenza del medesimo[xxix].
Insomma, un’economia sorretta sulla logica robinsoniana dell’esclusione farà sì che “l’Altro – che è anzitutto evento, sorpresa radicale, imprevisto assoluto – diverrà sempre più raro da incontrare.[xxx]” Con glaciale eloquenza, conclude Melman: “è curioso che nessuno, credo, abbia ancora fatto notare che l’uguaglianza, che ci sembra una parola d’ordine eminentemente umanista e progressista, l’uguaglianza è un desiderio di morte.[xxxi]” L’economia dell’uguale, l’etica della medesimezza – così la chiama, in altra sede, Giovanni Stanghellini[xxxii] – piuttosto che aggregare il prossimo, lo esclude o, peggio, ci spinge ad ucciderlo (di qui il neologismo melmaniano frérocité, che condensa frère e férocité), a toglierlo di mezzo, perché la sua presenza attenta il nostro bisogno sviscerato e micidiale di godere di tutto, subito.
Tirando le somme, ritengo che il lavoro di Melman presenti un importante vantaggio: portando sulle proprie spalle il carico di una onerosa letteratura (lacaniana e non), riesce a formalizzare un discorso integro, coerente e continuativo, in grado di fornire un valido riscontro di come la nuova economia psichica partecipi pervasivamente dell’era post-ideologica. Merito di Melman è stato quello di mantenere la propria analisi sul versante della clinicizzazione, piuttosto che debordare nell’invettiva patologizzante. Mi spiego meglio: asserendo che la nuova economia psichica si fondi su di una “perversione normale”, Melman non trasforma la sua teoria in una gigantesca critica alle nefandezze del capitalismo, o in una condanna delle angherie consumistiche. Preso atto del fatto che tale economia designi non un velo ideologico, una patina fenomenica che preclude la visione di una verità superiore, ma una effettiva realtà, egli si impegna a fornire anche il risvolto patologico di tale condizione, la possibilità di una deriva che non va letta come “l’ulteriore” complicazione clinica di un soggetto già accidentato, ma la possibile degenerazione di equilibrio assodato e perfettamente integrato nello status quo.
Insomma, la struttura perversa costituirebbe oggi una costituzione omeostatica che si appiglia alle proprie economie di godimento per non precipitare nell’abisso della psicosi.
Se, in una simile situazione, l’oggetto a – per quanto ipostatizzato e reale – venisse meno, venisse “messo in tasca” dice Lacan, il soggetto accuserebbe un breakdown psicotico. La sua realtà, caduti i grandi ideali, è ora appesa al fragile appiglio del feticcio, una sorta di eternizzazione dell’oggetto transizionale di Winnicott.
Questa equilibrazione della perversione fa dell’analisi di Melman la sua forza ma, a cospetto dei suoi detrattori, anche il suo fianco scoperto.
Quest’ultima considerazione lascia urgere un’ultima questione. Per esporla ricorrerò ad un libello di Céline, precisamente alla sua tesi di laurea, Il dottor Semmelweis (1924).
Ingàc Semmelweiss si può dire sia stato, certamente, un altro personaggio inattuale, un contemporaneo che ricevette “in pieno viso il fascio di tenebre che proviene dal suo tempo.[xxxiii]” Pare che nella lontana metà del XIX secolo, questo medico viennese riuscì a scoprire le cause della temibile febbre puerperale (infezione che uccideva una partoriente su quattro, da lui ricondotta a cause batteriche, scatenate dalle mani infette dei dottori) ma, tragicamente, l’ostile invidia dei suoi colleghi e l’impossibilità di corroborare la scoperta con mezzi scientifici, fece sì che la gloria della scoperta degli antisettici andasse, solo anni dopo, a Pasteur. L’esempio di Semmelweiss ci dimostra come anche la più illuminante delle verità debba sottostare a delle specifiche tempistiche[xxxiv].
Si può dire che la personalità che, psicoanaliticamente parlando, è stata più di altre accecata dal fascio di luce dell’inattuale sia Elvio Fachinelli. A riguardo, colpisce vedere come, già in alcuni suoi scritti del ’68, i temi che oggi tingono l’attualità della nuova economia psichica siano trattati con inquietante lungimiranza. Prendiamo ad esempio questo passo da Il desiderio dissidente: “L’esperienza psicoanalitica nel suo complesso è concorde in una segnalazione: la diminuzione di importanza relativa, nei soggetti in analisi, delle situazioni di conflitto col padre così come è stato classicamente descritto da Freud. Questo non significa che il problema dell’autorità e del potere sia passato in secondo piano, nell’individuo; esso si pone anzi in modi più perentori e angosciosi, proprio perché tende a farsi più astratto e meno determinato. La figura paterna sbiadisce, perde forza e autonomia; emergono elementi d’impotenza, di dipendenza incondizionata e totale che l’analisi freudiana aveva appena intravisto. È ciò che s’intende quando, in termini molto riduttivi, si dice che alla relazione triangolare (padre, madre, bambino) tende sempre più spesso a sostituirsi la relazione bipolare madre-bambino.[xxxv]”
Quel che colpisce di queste righe non si riduce ad un semplice insight occorso nel setting analitico. Diversamente, proseguendo nella lettura del saggio, è la presenza di numerosi elementi che già preannunciano una possibilità concreta di sistematizzazione di un discorso psichico a sorprendere il lettore di oggi.
“Ciò che sta dietro, per questi giovani (…), è un’immagine o un fantasma di società che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale. Cioè abbina un’offerta di sicurezza immediata a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio (corsivo mio). La liberazione dal bisogno sembra anzi avere come sua condizione la rinuncia al desiderio.”
Arpionato ad una reiterazione senza soste né differite, anche l’economia proposta da Fachinelli concerne uno psichismo mirante a preservare non il desiderio (che presupporrebbe un’assenza costitutiva), ma lo “stato di desiderio”. La piatta reiterazione senza tempo (perché il tempo viene dettato proprio dal ciclo di presenze e assenze, fort e da) prodotta dalla degradazione del desiderio viene alimentata dalla stessa “situazione angosciante che è quella del rapporto con la madre[xxxvi]”, in modo che “quella stessa società [che] tende a fare sempre più uso di metafore biologiche, cibernetico-biologiche, tende a presentarsi come un complesso di sistemi la cui regolazione è prevista in anticipo. Si pone l’accento sul funzionamento e sull’equilibrio, anziché sul mutamento.[xxxvii]” Per Fachinelli insomma, il consumo vorace e simultaneo che l’apparato industriale instilla nell’individuo ripeterebbe gli stessi meccanismi della relazione piccolo-infantile con la madre, con la differenza che mentre quest’ultima è una tappa obbligata dello sviluppo (ed è quindi intenzionata verso il futuro), la prima è invece un’immobilizzazione che frantuma ogni tempo e, opponendo alla soddisfazione del bisogno un perenne “non basta”, imprigiona l’individuo in un conservazionismo assoluto.
Malgrado gli evidenti punti di raccordo tra l’analisi di Fachinelli e quella di Melman, c’è un resto perturbante che impedisce alle due tesi di sovrapporsi completamente: mentre lo psicoanalista francese, scrivendo nel 2002, può saziarsi del privilegio della constatazione, può limitarsi a dire “è così che le cose sono”, le parole di Fachinelli, quasi quarant’anni prima, condensano in sette brevi pagine tutta la desolazione del genocidio antropologico che è a venire. Due sono gli sbocchi possibili:
- O Fachinelli è stato uno psicoanalista dell’“attuale”, un pessimista talmente arpionato al suo tempo da aver preso un abbaglio simile a quello che ha colpito Moravia: semplicemente, Fachinelli non si sarebbe reso conto che la propria denuncia rivelava, in primis, la sua incapacità di adattarsi all’avvento di un nuovo corso, al tramonto della civiltà edipica (e quindi Melman sarebbe un acuto osservatore, che è stato in grado di descrivere intelligentemente le vicissitudini di un nuovo modo di pensare e di godere, oggi).
- Oppure è stato fin troppo inattuale: la sua previsione si è rivelata figlia di un acre realismo che ha trovato crescente conferma anni dopo, quando la nottola è ormai volata attraverso la sera, lasciandoci oggi con l’amara sufficienza della constatazione (e dunque è Melman a non aver avuto l’accortezza di esaltare il portato ideologico e reazionario della nuova economia psichica, facendone un ingenuo mutamento frutto del naturale susseguirsi delle epoche storiche: così come si è passati dall’età moderna a quella contemporanea, il tempo nevrotico-edipico è ora tramontato a favore dell’economia psichica perversa[xxxviii]. Ma il problema di una simile visione consiste nel dover assumere, quasi teleologicamente, che ciò che permette ad ogni epoca di superare la precedente sia una concezione generale di progresso, tesi che cozza, in primis, contro le premesse freudiane del Disagio della civiltà).
Lascio aperto il dubbio.
Bigliografia
Agamben G., Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Milano, 2008
Benvenuto S.
Bigliografia
Agamben G., Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Milano, 2008
Benvenuto S.
- Capire l’America, Costa & Nolan, Genova, 1995
- Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del relativismo nell’epoca della globalizzazione, Dedalo, Bari, 2000
Campo A., (a cura di), L’Uno perverso, Textus, L’Aquila, 2018
Chiesa L., The virtual point of freedom. Essays on politics, aesthetics, and religion, Northwestern University Press, 2016
Fachinelli E., (a cura di Borso, A.), Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), DeriveApprodi, Roma, 2016
Melman C.
Chiesa L., The virtual point of freedom. Essays on politics, aesthetics, and religion, Northwestern University Press, 2016
Fachinelli E., (a cura di Borso, A.), Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), DeriveApprodi, Roma, 2016
Melman C.
- La nuova economia psichica, Mimesis, Milano, 2018
- L’homme sans gravité, Denoel, 2002
Moravia A., Al Cinema, Bompiani, Milano, 1975
Nietzsche F., Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello, Adelphi, Milano, 1983
Pasolini P.P., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2000
Stanghellini G., L’amore che cura. La medicina, la vita e il sapere dell’ombra, Feltrinelli, Milano, 2018
Stanghellini G., Rossi Monti M., Psicologia del patologico. Una prospettiva fenomenologico-dinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2009
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Stanghellini G., Rossi Monti M., Psicologia del patologico. Una prospettiva fenomenologico-dinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2009
[i] A. Moravia (1975), p.298
[ii] Ibid., p.299
[iii] G. Agamben (2008), p.9
[iv] Il modo in cui Freud ricorre qui all’etichetta di perversione non è strutturale. Esso si attiene a qualsiasi deviazione dalla sessualità “genitale matura”, ovvero a quelle pratiche sessuali che divergono dal convenzionale rapporto riproduttivo.
[v] Se il Super-io repressivo e conservatore imponeva al soggetto di reprimere la propria libidine e di sublimare tali impulsi in amore fraterno, oblatività genitale e pulsione aggregativa, il Super-io perverso è la faccia feroce dell’attuale società iperedonistica che non coltiva l’eccesso quale inammissibile trasgressione, quanto invece come imperativo categorico di godimento. Ma allora, se il godere è divenuto un obbligo a cui il soggetto non può in alcun modo sottrarsi (Zizek dice che il vecchio divieto di godere si è trasformato nel divieto di non godere), il soddisfacimento non condurrà più al piacere, ma al semplice ottemperamento di una norma perentoria. Ebbene, la tassativa imposizione a godere degenera in un’impossibilità a godere tout court.
[vi] Cfr. F. Nietzsche (1983)
[vii] Ibid.
[viii] Se Moravia tentava di ricondurre la catastrofe libica de La grande bouffe ad una simbolizzazione sovradeterminata che riallacciasse, in un tempo archetipico e quasi-teologico, la peccaminosità del godimento senza freni alla moraleggiante ideologia borghese, Ferreri irrompe al di là di qualsiasi contingenza classista per dipingere “una società della desimbolizzazione, della deistituzionalizzazione, nella quale il soggetto non fa riferimento ad un Ideale, ad un universo che sfugge, ma fa riferimento a degli oggetti di godimento in successione (bulimici, ansiogeni, eccetera).” C. Melman (2018), p.95
[ix] C. Melman (2002), p.17 (traduzioni mie)
[x] Ibid. p.24
[xi] C. Melman (2018), p.64
[xii] Ibid., p.45
[xiii] Allo stesso titolo, I figli degli uomini (2006) di Cuaròn costituisce un esempio tragicamente calzante di come la produzione abbia soggiogato la generazione.
[xiv] Ibid., p.11
[xv] Ibid., p.157
[xvi] “Il matriarcato in cui dovremmo collocare la funzione del soggetto è quel dominio, quel mondo che ci offre il comfort, la soavità, la speranza, il tepore, la routine, la benevolenza, la positività, cioè quel regime in cui il significante non rinvia ad altro se non a un oggetto ideale che si trova sostantificato e dunque offerto alla presa, alla cattura (…) offerto al consumo” (Ibid., p.166)
[xvii] Ibid., p.53
[xviii] Ibid., p.48
[xix] Già Freud, prima di Lacan, aveva colto lo statuto linguistico della non-coincidenza tra padre reale e padre simbolica, arrivando a definire la paternità tout court una congettura. Un messaggio particolarmente attinente a tale obsolescenza ci viene fornito da Caché (2005) di Haneke.
[xx] Studio ripreso magistralmente da Lorenzo Chiesa in Pasolini and the ugliness of bodies, saggio contenuto in The virtual point of freedom (2016), pp.17-29.
[xxi] P.P. Pasolini (2000), p.22
[xxii] Ibid., p.23
[xxiii] Cfr. C. Melman (2002), p.71
[xxiv] S. Benvenuto (1995), p.8
[xxv] Ma potremmo allargare il campo anche alla contaminazione tra celebrazioni occidentali: si prenda l’esempio paradigmatico di Halloween, o la totale strumentalizzazione della ricorrenza di San Valentino.
[xxvi] S. Benvenuto (2000), p.34
[xxvii] Cfr. G. Stanghellini (2018), pp.14-22
[xxviii] A. Campo (2018), p.23
[xxix] Ho sviluppato questo punto in un mio testo per ora inedito, Aporie dell’alterità.
[xxx] S. Benvenuto (2000), p.48
[xxxi] C. Melman (2018), p.71
[xxxii] Cfr. G. Stanghellini, M. Rossi Monti (2009), pp.270-274
[xxxiii] G. Agamben (2008), p.15
[xxxiv] A volte anzi, proprio in virtù della loro scomodità, come fa notare Zizek, alcune verità vengono rivelate strategicamente, allo scopo di celarne delle altre ancor più ingombranti. Nella fattispecie, il filosofo di Lubiana faceva qui riferimento all’ammissione del governo USA post-11 settembre delle inumane torture inflitte a chiunque fosse sospettato di terrorismo. Il suo commento, singolare rispetto ai cori di generale indignazione, fu: perché ci state dicendo questa verità? Ovvero, quale altra verità state coprendo, rivelandoci questa?
[xxxv] E. Fachinelli (2016), p.30
[xxxvi] Ibid., p.32
[xxxvii] Ibid.
[xxxviii] Si potrebbe obiettare che fu proprio Lacan a vedere nella psicoanalisi un sintomo del nostro tempo: essa, preannuncia Lacan, farà il suo corso, è destinata a scadere, certo, ma non in virtù del progresso o per mezzo di una sintesi superiore. Se la psicoanalisi è il sintomo che caratterizza gli ultimi due secoli della storia dell’uomo essa lo è proprio in virtù del suo stretto gioco di attrazione-repulsione ideologica.
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