Il 10 Ottobre si è celebrata la salute mentale. Celebrazione melanconica di un’epoca di risveglio delle coscienze – espresso con la riforma Basaglia – spinta verso l’oblio. L’amministrazione pubblica si è gradualmente disinteressata alla sofferenza psichica, cercando soluzioni centrate sulla sua interpretazione come disturbo organico e supposte poco costose e efficienti. Queste soluzioni, che hanno immiserito la cura, si sono dimostrate inefficienti e anche molto costose, perché dove regna l’incuria regna anche la speculazione. Il governo in carica ha affossato rapidamente quello che negli anni precedenti si era fatto per rimettere in gioco la dignità della cura e delle persone. Da una parte è tornato all’ideologia securitaria, che della sofferenza psichica nulla capisce e nulla vuole sapere, e dall’altra sta cedendo alla privatizzazione della salute mentale che mina il benessere psichico collettivo. Sotto la pressione dell’ossessione per la sicurezza (che prende di mira i “malati mentali”) e delle case farmaceutiche la riforma della salute mentale, che aveva fatto del nostro paese un esempio, rischia la disattivazione.
La terapia farmacologica è uno strumento utile, tante volte irrinunciabile, per contenere l’angoscia e la depressione. Non elimina la sofferenza e a lungo andare, se diventa puramente sedativa, può cronicizzarla. La sua somministrazione non può in alcun caso essere regolata secondo parametri solamente quantitativi (che calcolano il rapporto tra quantità di dose e quantità di riduzione del dolore). Deve tenere conto del fattore soggettivo (che può influenzare positivamente o negativamente il trattamento) ed essere gestita in un modo personale che implica una relazione. Il prof. Antonio D’Errico, psichiatra e psicoanalista di valore, scomparso prematuramente, diceva trent’anni fa che psichiatra e paziente “partecipano a una comune mensa farmacologica”, che il farmaco è interiormente assunto da entrambi.
L’uso impersonale dei farmaci (non di rado validato con dati inattendibili) è diventato il perno di una concezione biologica del dolore psichico -e a partire da ciò del senso dell’esistenza dell’essere umano-che ha riabilitato l’elettroshock (espandendone il campo attraverso l’elettrostimolazione transcranica) e la contenzione fisica, assoggettando di nuovo la psichiatria alle pratiche del controllo sociale aggiornate tecnologicamente.
Il giorno in cui scopriremo la causa somatica della sofferenza psichica (cosa diversa dagli effetti psichici delle malattie organiche) e il rimedio per eliminarla, sarà tardi per comprendere che siamo diventati macchine biologiche (se non saremo auto-estinti prima). L’abbandono della psicoterapia, del lavoro di reinserimento culturale, lavorativo e politico delle persone sofferenti nella loro comunità e del sostegno delle realtà sociali e familiari fragili, ha disumanizzato la cura e depresso emotivamente i servizi pubblici, demotivando gli operatori e creando una crisi di vocazione preoccupante.
Sulla crisi della salute mentale pubblica, che destabilizza l’intero sistema della cura psichica, prospera la digitalizzazione di massa della cura con terapie online gestite da imprese (campo in cui stanno per entrare grandi compagnie assicurative) con ulteriore spersonalizzazione degli operatori e degli utenti e delle relazioni sociali in generale. Ciò che non si vuole vedere non esiste: questa mentalità che rende muta e più destrutturante la sofferenza, espandendola silenziosamente e senza filtri di elaborazione nella società, ha creato forme di disagio grave ma informe che si diffondono tra tutti, soprattutto ma non solo tra i giovani, e si manifestano direttamente come atti di violenza sfrenata e insensata. Le idee folli sulla sofferenza creano follia collettiva. La salute mentale è una questione troppo importante per la Polis perché resti fuori dalla lotta politica.
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