La questione di cui tratta nel modo più ampio, dettagliato, documentato e consapevole questo libro è nata negli anni ’90, sull’onda lunga della pubblicazione del DSM-III e della rivoluzione empirista in psichiatria. Per tenere il passo con gli studi psicofarmacologici, anche gli psicoterapeuti hanno iniziato a sviluppare ricerche di vario tipo per dimostrare l’efficacia della psicoterapia e delle varie psicoterapie a confronto. Di questi studi, e delle sfaccettate e ultracomplesse problematiche epistemologiche che lo studiare la psiche e gli effetti della psicoterapia pone, il libro scritto e curato da Migone è una delle migliori testimonianza di cui io sia a conoscenza; in parte ripopone o riassume ricerche già pubblicate sulla rivista da lui diretta, Psicoterapia e scienze Umane, in parte include testi inediti, come il bellissimo Capitolo I che riassume tutto lo stato dell’arte e le problematiche implicate fino ad oggi.
Il libro è consigliabile non tanto allo psicoterapeuta principiante, che potrebbe esserne disorientato o addirittura spaventato o dissuaso dalla sua vocazione, quanto allo psicoterapeuta esperto che già nella sua pratica ha dovuto confrontarsi ripetutamente e costruttivamente con le questioni relative alla validità delle proprie pratiche e alla consistenza o inconsistenza dei propri risultati, cercando di capire cosa rende utile ed efficace il proprio lavoro.
Il fulcro, l’idea chiave intorno a cui gira tutta l’impostazione dell’intero volume da parte di Migone è la possibilità o meno di rendere compatibili ricerca clinica (interna al processo di cura) ed extraclinica sperimentale (esterna al processo di cura limitatamente all’impostazione psicodinamica): il mondo dei clinici e quello dei ricercatori sembrano non parlarsi, perché i primi si muovono nel mondo reale della relazione terapeutica, i secondi nel mondo ideale dei dati cosiddetti oggettivi o anche solo empirici. Fenomenologicamente si potrebbe dire che a questi ultimi interessa l’esperienza scientifica (Erfährung), ai primi l’esperienza vissuta (l’Erlebnis). L’interesse di Migone è quello di poter colmare questo gap, che lui chiama il great divide e, così facendo giustificare a pieno la pratica della psicoterapia e delle sue diverse modalità con modalità e metodologie analoghe a quelle utilizzate dagli psichiatri clinici e dagli psicofarmacologi. Per la psicoterapia Il ponte che consente di unire le due sponde della ricerca, il “Junktim” (il “legame inscindibile”) evocato già da Freud (p. 169), è per Migone costituito dai “fenomeni tipici, replicabili che si hanno in psicoterapia, soprattutto con certe tipologie più o meno omogenee di pazienti: in un capitolo del libro Fornaro (p. 179) parla, ancora più consapevolmente, di “regolarità idealtipiche”, intese come schemi comportamentali ricorrenti, “connessioni di senso” che, rispetto alle leggi scientifiche, hanno solo un valore euristico, non asseverativo.
A proposito dell’ossessione di validazione che guarda i fenomeni della terapia con un terzo occhio esterno alla relazione, e che si situa sullo stesso piano dell’ossessione per le linee guida, le procedure, la manualizzazione, verrebbe in prima istanza da ricitare la citazione attribuita a Freud riportata nel libro a p. 23 : “Questi critici che limitano i loro studi a delle investigazioni metodologiche mi ricordano quelli che passano il loro tempo a pulire le gli occhiali piuttosto che a portarli per guardare”. Insomma il rischio della riflessione sulla efficacia, anche se di altissima qualità, è quello, alla fine, di essere sostanzialmente inutile. Ma anche un’affermazione di questo tipo deve essere fonte di riflessione: cos’è che rende in effetti così difficile il giudizio di efficacia, non solo delle psicoterapie, ma di qualsiasi altro intervento terapeutico nel campo psichico?
Quello che sostanzialmente manca in questa messe di studi che viene meticolosamente ricordata e sottoposta a precisi e condivisibili vagli epistemologici, è il paziente portatore di psicopatologia. Migone in realtà sembra esserne consapevole quando in una frase dice che la ricerca considera un terzo dei pazienti mentre i clinici vedono il restante due terzi, quelli più difficili (p. 37) e quando, in un altro capitolo, (p.135) ribadisce che “i pazienti che vediamo nella nostra pratica clinica assomigliano molto di più ai pazienti che vengono esclusi dalle ricerche”.
Mentre la massa delle ricerche sull’efficacia riguarda assunti e metodi dei vari indirizzi di psicoterapia quasi nessuno si occupa del vero protagonista della cura, il paziente che porta il materiale che per sua natura, poco o tanto, è originale e sostanzialmente irriducibile non solo, spesso, alle diagnosi categoriali univoche, ai vari criteri diagnostici, se non un po’ a tutte le categorie della psicopatologia , della metapsicologia, della filosofia della psicologia, e per questo motivo viene subito considerato “difficile” se non “grave”. Anche questo è pregiudiziale perché il concetto di gravità nella nostra disciplina è forse impropriamente proporzionale alla irriducibilità ovvero alla incomprensibilità dei suoi sintomi e dei suoi comportamenti. Questo concetto di gravità non regge al follow up che dimostra ad esempio miglioramenti talora molto maggiore nei pazienti dopo una psicosi acuta rispetto a quei pazienti che magari hanno una reazione comprensibilissima ad un trauma.
Dire paziente portatore di psicopatologia introduce qualcosa che spesso sfugge alla ricerca sia clinica che extraclinica, cioè “cioè che non è tipico”, ciò di cui non si può fare una casistica, se non di pochi casi (nel corso della vita di un clinico) che sembrano somigliarsi, così come nel corso della vita possiamo trovare al massimo uno o due persone che sono nostri possibili sosia. Noi psichiatri di regola ci confrontiamo, anche in psicoterapia, con qualcosa che sfugge alle leggi della psicoterapia, per usare un’espressione di Migone: leggi della cui esistenza, da un punto di vista strettamente fenomenologico, si potrebbe perfino dubitare. Al massimo possiamo sostenere la nostra pratica con analogie da caso a caso, feconde sul piano euristico, come si esprime Fornaro. Tutto questo è già molto evidente nell’insicurezza dei giudizi prognostici nelle varie tipologie cliniche.
L’irriducibilità e l’originalità della psicopatologia è comunque affrontata nel volume sia nel contributo di Kächele sul valore degli studi sui casi singoli, che in quello, dottissimo di Mauro Fornaro centrato sul fatto veramente fondamentale che la clinica è (quasi sempre) un’occasione straordinaria per la ricerca, ed infatti è sempre stata, tradizionalmente, sia in psicoterapia che in psicopatologia, la fonte delle interpretazioni e dei modelli esplicativi. I risultati di una psicoterapia inoltre non sono valutabili nell’immediato, a meno di non restare sul momentaneo giudizio di miglioramento o peggioramento ad un tempo t. : possono non essere concordanti già quando sono giudicati dal terapeuta o dal paziente stesso ed essere diversi quando si basano sul vissuto in prima persona oppure sono osservati dall’esterno in modo distaccato e oggettivo (questo vale anche quando guardiamo retrospettivamente la nostra stessa vita, con quel distacco temporale che in un certo senso equivale a quello spaziale dell’osservatore neutrale).
All’originalità e all’irriducibilità dei materiali del paziente clinicamente rilevante, si aggiungono altri fattori, quali la lunga durata dei trattamenti, l’andamento dinamico del disturbo, che spesso procede secondo ritmicità biologiche o comunque non riducibili alla psicologia (elementi già considerati da Eysenck, come puntualmente ci ricorda Migone a p. 34), l’interferenza degli eventi vitali negativi ma anche di quelli positivi col decorso del disturbo, lo stato fisico del paziente, i danni che il disturbo stesso nel tempo comporta se non altro per le sue conseguenze psicosociali ma non solo, la combinazione con altri tipi di trattamenti (farmacologici in particolare), e non da ultimo la tossicità jatrogena di alcuni interventi farmacologici ma anche psicoterapici; tutti questi fattori sembrano minare alla base la ricerca nel campo della efficacia dei trattamenti nei disturbi psichici veri e propri.
E’ fortemente improbabile che si possano selezionare campioni “puri” e attendibili per la ricerca sull’efficacia delle psicoterapie in genere, di quelle psicodinamiche in particolare. Non è inoltre corretto paragonare l’efficacia di una psicoterapia con quella di altri trattamenti, ad esempio psicofarmacologici: si tratta di trattamenti che operano su piani e dimensioni della sofferenza completamente diversi: per fare un esempio banale un trattamento psicofarmacologico agisce immediatamente su dimensioni quali l’ansia o l’insonnia, indipendentemente dalla loro origine e dai possibili fattori psicologi o psicopatologici implicati. Paragonare psicoterapie e terapie psicofarmacologiche è un po’ mettere insieme capra e cavoli, come si diceva una volta, oppure contrappore terapie chirurgiche e terapie mediche. L’altro punto è che nel mondo reale, nella stragrande maggioranza le psicoterapie (almeno quelle cui si sottopongono pazienti con problematiche cliniche vere e proprie) si integrano con le terapie psicofarmacologiche, sia quando il terapeuta medico le somministra entrambe, si quanto psicoterapeuta e psichiatra agiscono indipendentemente l’uno dall’altro. Ed anche le terapie psicofarmacologiche degli psichiatri biologici puri non possono essere scisse completamente dalla relazione con chi le somministra, i fattori consci e inconsci che questa relazione inevitabilmente evoca.
Quanto sopra può essere sintetizzato banalmente nel semplice quanto ottimo argomento contro gli studi di efficacia, che purtroppo (o per fortuna) noi curiamo dei pazienti e non dei disturbi oggettivabili e codificabili in modo valido e univoco.
Ma non solo i pazienti, neanche i terapeuti sono omogenei: siamo sicuri che terapeuti formati secondo un certo orientamento pratichino in effetti allo stesso modo quell’orientamento, ed inoltre, non introducano in quella impostazione elementi derivanti da altre impostazioni? Sempre per fare esempi banali, siamo sicuri che una interpretazione psicoanalitica non nasconda, nel momento stesso del suo proporsi nella situazione asimmetrica della terapia, elementi suggestivi? Del resto Freud, con un’intuizione veramente fenomenologica una volta ha dichiarato che la psicoanalisi è “analisi della suggestione” (p.34) E cos’è la third wave cognitivista se non la plateale introduzione di elementi psicodinamici e interpersonalisti nella cornice cognitivista? Mi pare che oggi le differenze di scuola tra i vari psicoterapeuti siano molto minori rispetto a quelle del passato.
In questo senso devo dire che la cultura dei servizi, soprattutto quella che viene acquisita da una lunga permanenza in un servizio, che consente di vedere il decorso a medio-lungo termine di moltissimi casi clinici, apporta numerosi dati relativi alla efficacia o efficacia parziale o non efficacia del tutto dei vari tipi di trattamenti, presi singolarmente o integrati tra di loro. Un approccio che potremmo davvero chiamare neokraepeliniano[1] applicato ai servizi territoriali apporta consapevolezze veramente molto importanti sul decorso dei disturbi psicopatologicamente più rilevanti e sulla effettiva efficacia di tutti tipi di terapia. Del resto la cultura della recovery si basa su dei giudizi di validazione degli interventi che possono includere anche le psicoterapie.
Tornando all’ambito della “psicoterapia”, la ossessione definitoria non risparmia neppure questo termine. Da un punto di vista strettamente fenomenologico bisognerebbe perfino dismettere il termine di psicoterapia che in se stesso è problematico (come già diceva Tatossian)[2]. Che cos’è in ultima analisi una psicoterapia se non un rapporto?
Per parlare di efficacia di una psicoterapia bisognerebbe forse focalizzare quello che ad avviso di molte ricerche citate nelle conclusioni di Lingiardi e Del Corno, e che anch’io sostengo[3], è il fattore fondamentale di ogni intervento terapeutico e psicoterapeutico in particolare: la relazione col paziente, definita non tanto come un rapporto interpersonale ma intersoggettivo[4]. Se si capisse cosa accade effettivamente entro questo rapporto intersoggettivo, che aldilà di essere empatico e sotto certi aspetti fusionale ed anche avere delle sue qualità ben difficilmente misurabili, rimane pur sempre un rapporto tecnico quasi del tutto svincolato dal mondo reale e asimmetrico, si saprebbe forse definire con maggior attendibilità quello che è e come funziona una psicoterapia, a cosa serve e quanto possa essere efficace.
Il libro è consigliabile non tanto allo psicoterapeuta principiante, che potrebbe esserne disorientato o addirittura spaventato o dissuaso dalla sua vocazione, quanto allo psicoterapeuta esperto che già nella sua pratica ha dovuto confrontarsi ripetutamente e costruttivamente con le questioni relative alla validità delle proprie pratiche e alla consistenza o inconsistenza dei propri risultati, cercando di capire cosa rende utile ed efficace il proprio lavoro.
Il fulcro, l’idea chiave intorno a cui gira tutta l’impostazione dell’intero volume da parte di Migone è la possibilità o meno di rendere compatibili ricerca clinica (interna al processo di cura) ed extraclinica sperimentale (esterna al processo di cura limitatamente all’impostazione psicodinamica): il mondo dei clinici e quello dei ricercatori sembrano non parlarsi, perché i primi si muovono nel mondo reale della relazione terapeutica, i secondi nel mondo ideale dei dati cosiddetti oggettivi o anche solo empirici. Fenomenologicamente si potrebbe dire che a questi ultimi interessa l’esperienza scientifica (Erfährung), ai primi l’esperienza vissuta (l’Erlebnis). L’interesse di Migone è quello di poter colmare questo gap, che lui chiama il great divide e, così facendo giustificare a pieno la pratica della psicoterapia e delle sue diverse modalità con modalità e metodologie analoghe a quelle utilizzate dagli psichiatri clinici e dagli psicofarmacologi. Per la psicoterapia Il ponte che consente di unire le due sponde della ricerca, il “Junktim” (il “legame inscindibile”) evocato già da Freud (p. 169), è per Migone costituito dai “fenomeni tipici, replicabili che si hanno in psicoterapia, soprattutto con certe tipologie più o meno omogenee di pazienti: in un capitolo del libro Fornaro (p. 179) parla, ancora più consapevolmente, di “regolarità idealtipiche”, intese come schemi comportamentali ricorrenti, “connessioni di senso” che, rispetto alle leggi scientifiche, hanno solo un valore euristico, non asseverativo.
A proposito dell’ossessione di validazione che guarda i fenomeni della terapia con un terzo occhio esterno alla relazione, e che si situa sullo stesso piano dell’ossessione per le linee guida, le procedure, la manualizzazione, verrebbe in prima istanza da ricitare la citazione attribuita a Freud riportata nel libro a p. 23 : “Questi critici che limitano i loro studi a delle investigazioni metodologiche mi ricordano quelli che passano il loro tempo a pulire le gli occhiali piuttosto che a portarli per guardare”. Insomma il rischio della riflessione sulla efficacia, anche se di altissima qualità, è quello, alla fine, di essere sostanzialmente inutile. Ma anche un’affermazione di questo tipo deve essere fonte di riflessione: cos’è che rende in effetti così difficile il giudizio di efficacia, non solo delle psicoterapie, ma di qualsiasi altro intervento terapeutico nel campo psichico?
Quello che sostanzialmente manca in questa messe di studi che viene meticolosamente ricordata e sottoposta a precisi e condivisibili vagli epistemologici, è il paziente portatore di psicopatologia. Migone in realtà sembra esserne consapevole quando in una frase dice che la ricerca considera un terzo dei pazienti mentre i clinici vedono il restante due terzi, quelli più difficili (p. 37) e quando, in un altro capitolo, (p.135) ribadisce che “i pazienti che vediamo nella nostra pratica clinica assomigliano molto di più ai pazienti che vengono esclusi dalle ricerche”.
Mentre la massa delle ricerche sull’efficacia riguarda assunti e metodi dei vari indirizzi di psicoterapia quasi nessuno si occupa del vero protagonista della cura, il paziente che porta il materiale che per sua natura, poco o tanto, è originale e sostanzialmente irriducibile non solo, spesso, alle diagnosi categoriali univoche, ai vari criteri diagnostici, se non un po’ a tutte le categorie della psicopatologia , della metapsicologia, della filosofia della psicologia, e per questo motivo viene subito considerato “difficile” se non “grave”. Anche questo è pregiudiziale perché il concetto di gravità nella nostra disciplina è forse impropriamente proporzionale alla irriducibilità ovvero alla incomprensibilità dei suoi sintomi e dei suoi comportamenti. Questo concetto di gravità non regge al follow up che dimostra ad esempio miglioramenti talora molto maggiore nei pazienti dopo una psicosi acuta rispetto a quei pazienti che magari hanno una reazione comprensibilissima ad un trauma.
Dire paziente portatore di psicopatologia introduce qualcosa che spesso sfugge alla ricerca sia clinica che extraclinica, cioè “cioè che non è tipico”, ciò di cui non si può fare una casistica, se non di pochi casi (nel corso della vita di un clinico) che sembrano somigliarsi, così come nel corso della vita possiamo trovare al massimo uno o due persone che sono nostri possibili sosia. Noi psichiatri di regola ci confrontiamo, anche in psicoterapia, con qualcosa che sfugge alle leggi della psicoterapia, per usare un’espressione di Migone: leggi della cui esistenza, da un punto di vista strettamente fenomenologico, si potrebbe perfino dubitare. Al massimo possiamo sostenere la nostra pratica con analogie da caso a caso, feconde sul piano euristico, come si esprime Fornaro. Tutto questo è già molto evidente nell’insicurezza dei giudizi prognostici nelle varie tipologie cliniche.
L’irriducibilità e l’originalità della psicopatologia è comunque affrontata nel volume sia nel contributo di Kächele sul valore degli studi sui casi singoli, che in quello, dottissimo di Mauro Fornaro centrato sul fatto veramente fondamentale che la clinica è (quasi sempre) un’occasione straordinaria per la ricerca, ed infatti è sempre stata, tradizionalmente, sia in psicoterapia che in psicopatologia, la fonte delle interpretazioni e dei modelli esplicativi. I risultati di una psicoterapia inoltre non sono valutabili nell’immediato, a meno di non restare sul momentaneo giudizio di miglioramento o peggioramento ad un tempo t. : possono non essere concordanti già quando sono giudicati dal terapeuta o dal paziente stesso ed essere diversi quando si basano sul vissuto in prima persona oppure sono osservati dall’esterno in modo distaccato e oggettivo (questo vale anche quando guardiamo retrospettivamente la nostra stessa vita, con quel distacco temporale che in un certo senso equivale a quello spaziale dell’osservatore neutrale).
All’originalità e all’irriducibilità dei materiali del paziente clinicamente rilevante, si aggiungono altri fattori, quali la lunga durata dei trattamenti, l’andamento dinamico del disturbo, che spesso procede secondo ritmicità biologiche o comunque non riducibili alla psicologia (elementi già considerati da Eysenck, come puntualmente ci ricorda Migone a p. 34), l’interferenza degli eventi vitali negativi ma anche di quelli positivi col decorso del disturbo, lo stato fisico del paziente, i danni che il disturbo stesso nel tempo comporta se non altro per le sue conseguenze psicosociali ma non solo, la combinazione con altri tipi di trattamenti (farmacologici in particolare), e non da ultimo la tossicità jatrogena di alcuni interventi farmacologici ma anche psicoterapici; tutti questi fattori sembrano minare alla base la ricerca nel campo della efficacia dei trattamenti nei disturbi psichici veri e propri.
E’ fortemente improbabile che si possano selezionare campioni “puri” e attendibili per la ricerca sull’efficacia delle psicoterapie in genere, di quelle psicodinamiche in particolare. Non è inoltre corretto paragonare l’efficacia di una psicoterapia con quella di altri trattamenti, ad esempio psicofarmacologici: si tratta di trattamenti che operano su piani e dimensioni della sofferenza completamente diversi: per fare un esempio banale un trattamento psicofarmacologico agisce immediatamente su dimensioni quali l’ansia o l’insonnia, indipendentemente dalla loro origine e dai possibili fattori psicologi o psicopatologici implicati. Paragonare psicoterapie e terapie psicofarmacologiche è un po’ mettere insieme capra e cavoli, come si diceva una volta, oppure contrappore terapie chirurgiche e terapie mediche. L’altro punto è che nel mondo reale, nella stragrande maggioranza le psicoterapie (almeno quelle cui si sottopongono pazienti con problematiche cliniche vere e proprie) si integrano con le terapie psicofarmacologiche, sia quando il terapeuta medico le somministra entrambe, si quanto psicoterapeuta e psichiatra agiscono indipendentemente l’uno dall’altro. Ed anche le terapie psicofarmacologiche degli psichiatri biologici puri non possono essere scisse completamente dalla relazione con chi le somministra, i fattori consci e inconsci che questa relazione inevitabilmente evoca.
Quanto sopra può essere sintetizzato banalmente nel semplice quanto ottimo argomento contro gli studi di efficacia, che purtroppo (o per fortuna) noi curiamo dei pazienti e non dei disturbi oggettivabili e codificabili in modo valido e univoco.
Ma non solo i pazienti, neanche i terapeuti sono omogenei: siamo sicuri che terapeuti formati secondo un certo orientamento pratichino in effetti allo stesso modo quell’orientamento, ed inoltre, non introducano in quella impostazione elementi derivanti da altre impostazioni? Sempre per fare esempi banali, siamo sicuri che una interpretazione psicoanalitica non nasconda, nel momento stesso del suo proporsi nella situazione asimmetrica della terapia, elementi suggestivi? Del resto Freud, con un’intuizione veramente fenomenologica una volta ha dichiarato che la psicoanalisi è “analisi della suggestione” (p.34) E cos’è la third wave cognitivista se non la plateale introduzione di elementi psicodinamici e interpersonalisti nella cornice cognitivista? Mi pare che oggi le differenze di scuola tra i vari psicoterapeuti siano molto minori rispetto a quelle del passato.
In questo senso devo dire che la cultura dei servizi, soprattutto quella che viene acquisita da una lunga permanenza in un servizio, che consente di vedere il decorso a medio-lungo termine di moltissimi casi clinici, apporta numerosi dati relativi alla efficacia o efficacia parziale o non efficacia del tutto dei vari tipi di trattamenti, presi singolarmente o integrati tra di loro. Un approccio che potremmo davvero chiamare neokraepeliniano[1] applicato ai servizi territoriali apporta consapevolezze veramente molto importanti sul decorso dei disturbi psicopatologicamente più rilevanti e sulla effettiva efficacia di tutti tipi di terapia. Del resto la cultura della recovery si basa su dei giudizi di validazione degli interventi che possono includere anche le psicoterapie.
Tornando all’ambito della “psicoterapia”, la ossessione definitoria non risparmia neppure questo termine. Da un punto di vista strettamente fenomenologico bisognerebbe perfino dismettere il termine di psicoterapia che in se stesso è problematico (come già diceva Tatossian)[2]. Che cos’è in ultima analisi una psicoterapia se non un rapporto?
Per parlare di efficacia di una psicoterapia bisognerebbe forse focalizzare quello che ad avviso di molte ricerche citate nelle conclusioni di Lingiardi e Del Corno, e che anch’io sostengo[3], è il fattore fondamentale di ogni intervento terapeutico e psicoterapeutico in particolare: la relazione col paziente, definita non tanto come un rapporto interpersonale ma intersoggettivo[4]. Se si capisse cosa accade effettivamente entro questo rapporto intersoggettivo, che aldilà di essere empatico e sotto certi aspetti fusionale ed anche avere delle sue qualità ben difficilmente misurabili, rimane pur sempre un rapporto tecnico quasi del tutto svincolato dal mondo reale e asimmetrico, si saprebbe forse definire con maggior attendibilità quello che è e come funziona una psicoterapia, a cosa serve e quanto possa essere efficace.
[1][1][1] Maggini C., Dalle Luche R., Genealogia della schizofrenia. Ebefrenia, Dementia Praecox, Schizofrenia. Mimesis, 2018.
[2] Dalle Luche R., Principi di psicoterapia clinica e fenomenologica. Mimesis, 2021.p.35-7
[3] Ibidem, p.50-2.
[4] Ibidem, p. 130-8, 146-7, 213-4.
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