Questo testo raccoglie due gruppi di conferenze: le prime tre, pubblicate nella parte intitolata Il mio insegnamento, sono state tenute tra il 1967 e il 1968 rispettivamente a Lione, Bordeaux e Strasburgo.
Il metodo di Lacan, qui, è quello di partire da ciò che tutti sanno. Poi, insensibilmente, con astuzia, come per gioco, fa sprizzare a cascata concetti sorprendenti: un pensiero che non si pensa da sé; un inconscio che è linguaggio; un linguaggio che sta “sul cervello come un ragno”; una sessualità che “fa buco nella verità”; un Altro in cui questa verità si inaugura; un desiderio che ne viene generato, e che ne viene fuori solo a prezzo di una perdita, sempre; e l’idea che tutti questi paradossi corrispondano a una logica, distinta da quello che viene chiamato “lo psichismo”.
Il secondo gruppo di testi riunisce sotto il titolo Io parlo ai muri tre dei sette ‘incontri’ all’Ospedale Sainte-Anne, che Lacan pronunciò per i medici psichiatri tra il 1971 e 1972.
I muri sono quelli della cappella dell’Ospedale di Sainte-Anne. Lacan vi ritrova la sua giovinezza come medico psichiatra dell’ospedale. Si diverte, improvvisa, si lascia andare. L’intenzione è polemica: i suoi migliori allievi, avvinti dall’idea che l’analisi faccia il vuoto di ogni sapere preliminare, hanno issato la bandiera del non-sapere, preso da Bataille. No, dice Lacan, la psicoanalisi procede con un sapere supposto, quello dell’inconscio. Vi si accede per la via della verità (l’analizzante si sforza di dire senza mezzi termini quello che gli passa per la mente) quando essa sfocia sul godimento (l’analista interpreta i detti dell’analizzante in termini di libido).
Spaziando tra sapere e ignoranza, verità e godimento, incomprensione e altri temi, Lacan sorprende il lettore con concetti inattesi sulla psicoanalisi e sul fatto che funziona con un sapere supposto, quello dell’inconscio, cui si accede per la via della verità in funzione del rapporto che l’umano ha con il godimento.
Il metodo di Lacan, qui, è quello di partire da ciò che tutti sanno. Poi, insensibilmente, con astuzia, come per gioco, fa sprizzare a cascata concetti sorprendenti: un pensiero che non si pensa da sé; un inconscio che è linguaggio; un linguaggio che sta “sul cervello come un ragno”; una sessualità che “fa buco nella verità”; un Altro in cui questa verità si inaugura; un desiderio che ne viene generato, e che ne viene fuori solo a prezzo di una perdita, sempre; e l’idea che tutti questi paradossi corrispondano a una logica, distinta da quello che viene chiamato “lo psichismo”.
Il secondo gruppo di testi riunisce sotto il titolo Io parlo ai muri tre dei sette ‘incontri’ all’Ospedale Sainte-Anne, che Lacan pronunciò per i medici psichiatri tra il 1971 e 1972.
I muri sono quelli della cappella dell’Ospedale di Sainte-Anne. Lacan vi ritrova la sua giovinezza come medico psichiatra dell’ospedale. Si diverte, improvvisa, si lascia andare. L’intenzione è polemica: i suoi migliori allievi, avvinti dall’idea che l’analisi faccia il vuoto di ogni sapere preliminare, hanno issato la bandiera del non-sapere, preso da Bataille. No, dice Lacan, la psicoanalisi procede con un sapere supposto, quello dell’inconscio. Vi si accede per la via della verità (l’analizzante si sforza di dire senza mezzi termini quello che gli passa per la mente) quando essa sfocia sul godimento (l’analista interpreta i detti dell’analizzante in termini di libido).
Spaziando tra sapere e ignoranza, verità e godimento, incomprensione e altri temi, Lacan sorprende il lettore con concetti inattesi sulla psicoanalisi e sul fatto che funziona con un sapere supposto, quello dell’inconscio, cui si accede per la via della verità in funzione del rapporto che l’umano ha con il godimento.