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Il desiderio non si confonde né con il volere né con il potere né con il piacere né con l’utile. Parlare di desiderio vuol dire andare al di là del bisogno e prendere in considerazione l’inconscio. L’ipotesi freudiana dell’inconscio presuppone che l’azione dell’uomo – che egli sia sano o malato, che essa sia normale o morbosa – abbia un senso nascosto a cui si può arrivare. Perché arretriamo davanti alla realizzazione del desiderio? Perché abbiamo in orrore il godimento? È per il fatto che il desiderio ruota attorno a quell’oggetto perduto freudiano che non è stato mai perduto sebbene si tratti essenzialmente di ritrovarlo: Freud lo chiama das Ding, Klein la Madre, Lacan la Cosa. Ma quel posto è vuoto. Di questo vuoto Lacan svela l’orrore che si cela dietro il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” – comandamento assurdo, al dire di Freud. Ma è anche da questo vuoto che si innesca la sublimazione, sia che si presenti sotto forma della Dama dell’amor cortese sia che prenda forma nell’opera d’arte. Per delineare la frontiera di tale campo Lacan mette a confronto, per quanto paradossale possa sembrare, il Kant dell’imperativo categorico e il Sade del fantasma perverso. E lo illustra prendendo a prestito da san Paolo l’articolazione della Legge con il desiderio rispetto al peccato.
Antigone nella sua tragicità illustra l’ultima parola di Lacan in questo seminario: non cedere sul proprio desiderio. Occorrerà però attendere affinché Lacan precisi che l’oggetto a cui tende il desiderio non è lo stesso oggetto che causa il desiderio. Differenza che permetterà una più precisa articolazione tra il simbolico del desiderio e il reale del godimento.