È uscito per Mimesis Jacques Lacan, passato presente, traduzione[i] di un doppio dialogo avvenuto tra il settembre e novembre del 2011 tra due eminenti intellettuali francesi che incarnano due modi diametralmente opposti di essere lacaniani: la psicoanalista e storica Élisabeth Roudinesco e il filosofo comunista Alain Badiou. Nel celebrare il trentennale della scomparsa del controverso psicoanalista francese, Badiou e Roudinesco partono dalla constatazione comune che Lacan sia considerabile a tutti gli effetti un Maestro socratico. Eppure, lungi dal trarne una melensa agiografia, mettono subito la sua ingombrante figura alla sbarra del XXI secolo, tentando, non senza opinioni divergenti, di stabilire cosa ad oggi voglia ancora dire essere lacaniani. Le differenze tra i due intellettuali emergono sin dal loro battesimo lacaniano: da una parte, c’è Roudinesco, che dopo una iniziale diffidenza, arriva a Lacan attraverso la “cesura strutturalista” e il ritorno alla filosofia; dall’altra, c’è la rottura politica di Badiou, che ha imboccato la via del lacanismo dopo essere passato per l’impegno sartriano e lo “shock” anti-umanista di Althusser.[ii]
“Contestavo la sua idea che esista un soggetto della scienza [dice Badiou riferendosi alle sue prime esperienze nei Cahiers pour l’analyse], mentre su questo punto restavo althusseriano: la scienza rimandava sempre, per me, a un processo a-soggettivo”[iii]
Ed è proprio al bivio tra il tramonto nero dell’esistenzialismo e l’avvento dello strutturalismo che si fa strada la figura di Lacan, già svezzatasi con il pot-pourri di psichiatria, surrealismo e fenomenologia di cui erano intrise la tesi sul caso Aimée e le pubblicazioni ‘pre-freudiane’. Per quanto sia sconveniente vedere nel Lacan di questi anni “una Fenice autoproclamatasi e ispiratrice di se stessa”[iv], bisogna anche riconoscere che egli non si sia certo limitato a cavalcare passivamente l’onda del proprio Zeitgeist: come rimarca lo stesso Badiou, se da un lato Lacan “ha contribuito a rompere con la fenomenologia”, respingendo e anzi criticando duramente l’ipotesi di un soggetto confuso con “la comprensione trasparente di quello che gli accade”, dall’altro egli non ha ceduto alla tentazione dello strutturalismo duro à la Foucault e Derrida.[v] Il rigoroso formalismo logico-matematico della catena significante prima, della lettera e del matema poi, saranno sempre raddoppiati dalla necessità di conservare il soggetto al cuore dell’esperienza clinica, al punto di farne il reale stesso della struttura. Combinando la psicoanalisi con i principali fondamenti della linguistica jakobsoniana, con l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e la fenomenologia hegelo-kojeviana, Lacan salda una nozione di inconscio in grado di compiere il passaggio dalle lingue al soggetto, mantenendo quest’ultimo come proprietà minimale della struttura. L’inconscio strutturato come un linguaggio, del resto, non è che questo: il rifiuto di sminuire il soggetto a livello di una “categoria tipica dell’età borghese”[vi], facendo del linguaggio il solo riferimento assoluto. Oltre ad aver incluso in un unico paradigma soggetto e struttura (integrazione battezzata da Milner come iperstrutturalismo[vii]), il merito di Lacan è stato quello di trattenere la psicoanalisi al di qua delle discipline psicologiche, responsabili in quel periodo di una già avviata colonizzazione medicalista della società capitalistica.
A questo proposito, per tutti gli anni Cinquanta, Lacan ha condotto uno scrupoloso lavoro di mediazione che restituisse alla psicoanalisi la propria indipendenza rispetto alla morsa psicoterapeutica, mantenendola ben distante dalle mire revisioniste della Psicologia dell’Io. Scagliandosi contro la regressione ai fondamenti positivisti della psicologia e definendola nientemeno che una falsa scienza, Lacan ha prima rigettato i criteri di validazione empirica delle scienze cosiddette sperimentali in favore di una letteralizzazione estesa delle scienze umane, per poi questionare la stessa dicotomia tra scienze congetturali (o della soggettività) e scienze esatte.[viii] Come scriverà anni dopo in La scienza e la verità:
“L’opposizione scienze esatte – scienze congetturali non può più reggersi, a partire dal momento in cui la congettura è suscettibile di un calcolo esatto (probabilità), ed in cui l’esattezza non si fonda che su un formalismo che separa assiomi e leggi di raggruppamento dei simboli.”[ix]
Se Lacan è un “maestro”, convengono Badiou e Roudinesco, è anche e soprattutto a causa di questa sua postura costantemente polemica, mai asservita, che per tutta la sua carriera gli è costata numerose calunnie e tenaci opposizioni. Sulla scia del successo, man mano che la sua figura usciva dalle cerchie intellettuali francesi per guadagnarsi uno spessore internazionale, si moltiplicavano gli epiteti di “gran sacerdote, guru, dandy odioso”[x], così come i tentativi di sabotaggio e le restrizioni ai limiti della censura. La prima e più evidente di queste critiche – con tanto di scomunica – gli è venuta proprio dagli ambienti psicoanalitici, dopo che egli ha cominciato ad utilizzare Freud contro la psicoanalisi stessa. Pur rinnegando in tutto la statica oggettivazione dell’ambiente analitico infatti, il monito del ritorno a Freud non è stato dettato da una semplice esigenza clinica. Nel denunciare come il soggetto umano si alieni nelle oggettivazioni di un discorso cosiddetto scientifico, Lacan non punta il dito contro un particolare aspetto della direzione della cura, ma contro l’establishment della psicoanalisi post-freudiana tout court, accusandola di essere complice dei dispositivi oscurantisti e scientisti dell’ideologia liberista.
Ma d’altro canto, nel vagliare le ragioni del ritorno al freudismo ortodosso, Badiou e Roudinesco notano anche come vi sia “una differenza decisiva tra Freud e Lacan”, che non si esaurisce solamente sul piano intellettuale, ma fa riferimento ad un più complesso modo di venire a patti con il tragico, che si evince già da alcuni dettagli di superficie. Mentre ad esempio in Freud, sottolineano i due autori, la prosa è “classica”[xi], fluida, sempre incline alla chiarezza espositiva, la scrittura di Lacan “eccede l’immediatezza”, è persino frustrante, e sfugge ad ogni genere di esaurimento nella comprensione teorica. Più che di trattatistica, in Lacan vi è quella che Milner ha definito una protrettica negativa, una procedura discorsiva che strappa il soggetto dalle secchie del senso comune, ma lo fa redarguendolo, fino a rasentare la provocazione deliberata[xii] (si pensi a come, nel bel mezzo dei seminari, Lacan si rivolgesse spesso anche stizzosamente ai suoi colleghi psicoanalisti, o a come, più tardi, ammonisse i filosofi). Nulla di tutto ciò nello stile e nella scrittura freudiana, che tende più che altro a seguire “il movimento reale del pensiero”[xiii].
Questo divario si amplia ancora di più se, prescindendo dai dattiloscritti del seminario, ci si concentra esclusivamente sullo scritto: al Freud instancabile compositore, si oppone la scrittura sofferente di Lacan, certamente più a suo agio tra gli “echi infiniti ed enigmatici” delle sessioni del seminario. Se queste differenze, che sono solo alcune delle numerose citate da Badiou e Roudinesco, sono già abbastanza stupefacenti per pensare che fu proprio Lacan ad avviare una ripresa senza precedenti del freudismo, vi è una dissonanza ancor più significativa da considerare, che affonda le sue radici nel cuore stesso della tragedia. Come suggerisce Roudinesco, questa differenza è radicata nel particolare e differente rapporto che sia Freud che Lacan detengono con la figura di Edipo. Mentre “Freud privilegia l’Edipo re (…) Lacan mette l’accento sull’Edipo a Colono”[xiv]. Per il padre della psicoanalisi, Edipo incarna il sovrano che, giunto all’apice del proprio splendore, viene brutalmente abbattuto dalla propria hybris: la sua indagine si ritorce autodistruttivamente contro di lui, riconsegnandolo al proprio straziante ma puntuale destino. La disfatta del patriarcato e la sovversione della Legge, come avverrà anche nel Mosè e come risuonerà nel basso continuo dell’Ur-Vater freudiano, riflettono un solenne razionalismo. L’Edipo lacaniano invece è “un uomo vecchio [che] maledice la sua discendenza”, l’incarnazione di una “autorità fatta irrimediabilmente a pezzi”, che non ha nulla di sublime.[xv] Il tragico di Lacan sembra congiungere, senza mediazione alcuna, l’esasperazione suicida dell’etico con l’abietto ed il ripugnante: lungi dall’essere dei martiri o delle incarnazioni dello spirito, gli anti-eroi lacaniani sono delle figure moribonde, degli outcast, scarti che, come Sade, sprofondano tra gli alberi, tumulati in tombe senza nome.
Ed è proprio a livello di questo spartiacque etico che, lentamente, appaiono anche le differenze tra Badiou e Roudinesco. In particolare, in entrambi i dialoghi, sembrano essere due i momenti in cui le loro posizioni si separano. Il primo di questi riguarda l’annosa e mai del tutto sopita questione dell’ultimo Lacan. Come è noto, dopo i fasti del Seminario XX, l’insegnamento di Lacan comincia a presentarsi come un territorio sempre più accidentato, che ha prodotto una frattura radicale tra i suoi seguaci e studiosi. Già con l’introduzione del nodo borromeo, l’auditorio di Lacan si spacca, dividendosi tra chi ne saluta la grande e vera svolta rispetto all’opera di Freud e chi lo considera il mediocre capitolo finale di un insegnamento che non brilla più. Le arcinote vicende editoriali dell’opera di Lacan e il generale disinteresse dei commentatori hanno finito per schiacciare gli ultimi sette anni del Seminario in un tutto indistinto da cui emergono pochi e farraginosi elementi, estratti spesso del tutto arbitrariamente e senza opportune contestualizzazioni. Così, anche lacaniani ortodossi del calibro di Bruce Fink e Jean-Claude Milner pongono al varco della seconda metà degli anni Settanta le colonne d’Ercole dell’opera e del pensiero di Lacan, giudicando in modo particolarmente pessimistico l’avvento del nodo e sigillando il testamento lacaniano con il matema e lalingua. In particolare, per Fink il nodo e le sue implicazioni si rivelerebbero un concetto reazionario rispetto al formalismo della scienza del reale[xvi], mentre per Milner, il borromeismo non sarebbe solo qualcosa di “antinomico alla lettera”, ma diventerebbe persino un “animale distruttore” che farebbe terra bruciata del galileismo esteso della fine degli anni Sessanta.[xvii] Altri invece, come Bousseyroux e Soler, riferendosi agli anni Settanta, parlano di “Renaissance lacaniana” e di uno “schematismo più inglobante” rimanendo fedeli all’ultimo Lacan anche nella loro pratica clinica quotidiana.[xviii]
È interessante notare come tra i più feroci detrattori dell’ultimo Lacan vi sia proprio Roudinesco, che addirittura retrodata il ridimensionamento dello psicoanalista parigino già alla metà degli anni Sessanta, durante i fasti del Seminario XI.[xix] In particolare, Roudinesco reputa l’ultimo Lacan un intellettuale stanco e disperso sul “pianeta borromeo”, sottintendendo che la fase finale del suo insegnamento costituisca non soltanto un momento minore, ma anche qualcosa di inconsistente, ai limiti del delirante. Tra le fila dei sostenitori dell’ultimo Lacan, e in netto contrasto con Roudinesco, c’è Badiou, che vi coglie un innegabile pessimismo, ma ne sostiene il “ricorso alle scienze matematiche” e il formalismo estremista. Mentre Roudinesco rasenta quasi la compassione, per altro fraintendendo clamorosamente il rimando badusiano all’anti-eroe sofocleo, tentando di vedervi una specie di degenerazione estetica dell’abiezione (“Lacan si era trasformato in Edipo a Colono anche nel suo corpo, nel modo di camminare, nei suoi gesti all’interno di un generalizzato progresso di disgregazione”[xx]), Badiou descrive “il mutismo degli ultimi anni e la morte” come “parte integrante della sua eredità enigmatica”, fino al punto che è proprio nella “figura di un vecchio che scompare e lascia in eredità al mondo intero l’enigma insolubile della sua scomparsa” che Lacan acquisisce “una statura eccezionale”.[xxi] Questo differente posizionamento apre il largo ad una più complessa e dibattuta discussione, che si focalizza sulla valenza politica della psicoanalisi lacaniana, e che trova un preliminare ed immediato consenso nell’idea che “la cura lacaniana, per quanto apolitica nel suo esercizio, propone al pensiero una sorta di matrice politica”.[xxii]
Effettivamente, passando in breve rassegna un argomento che meriterebbe certamente molto più spazio, vi sono dei punti fermi nella psicoanalisi lacaniana che tradiscono una sottile, e quindi spesso fraintendibile, inclinazione politica, che non trova alloggio nel gergo politico tradizionale. Come è noto infatti, oltre ad aver sempre rifiutato l’ideale di un’emancipazione totale e definitiva, Lacan si è fatto beffe in più occasioni del termine ‘rivoluzione’, riducendolo al suo valore astronomico di salto sul posto (le vestigia della rivoluzione possono essere rintracciate, con le dovute differenze, in una diversa gestione del sapere, nelle rotture discorsive del Seminario XVII o, nell’ultimissimo Lacan, nel potenziale trasformativo della poesia), e la sua sardonica sfiducia per i moti rivoluzionari lo portò a qualificare il ’68 come una ‘truffa’ ordita dal sistema per l’insediamento di nuovi padroni. Eppure, pur prendendosi gioco dei moti rivoluzionari, la psicoanalisi lacaniana è disseminata di contenuti programmatici: il netto rifiuto di considerare biologicamente la differenza tra i sessi, la condanna dell’istituzione universitaria come apparato di mercificazione del sapere, ma anche la cruda diagnosi del fallimento delle utopie comunitarie (che sempre ritorna nell’invito a non colmare mai l’assenza originaria con un falso mito), l’equiparazione del socialismo al capitalismo, sino all’antispecismo degli ultimi anni. A riguardo, se per Roudinesco Lacan è in definitiva un “conservatore illuminato”[xxiii] che, non diversamente da Freud, ha tentato fino all’ultimo di rivalorizzare il primato della figura paterna, per Badiou la Legge del Nome-del-Padre non è che una faccia della politica lacaniana, subito raddoppiata dall’estrema radicalità del monito emancipativo a non cedere sul proprio desiderio. E sarebbe proprio questa capacità di produrre il nuovo nel vuoto immemoriale di una struttura qualunque che farebbe di Lacan “un pensatore del disordine”[xxiv] (si pensi a come negli anni Settanta, ad esempio, alla necessaria centralità monolitica del Nome-del-Padre si venga a sostituire la contingenza assoluta de i Nomi-del-Padre). Ma non si tratta di un disordine anarchico e disfattista: quello lacaniano è un pensiero che “nel cuore stesso del disordine” reperisce le tracce di “un ordine immanente”, un pensiero che “afferma l’irriducibilità del soggetto come tale” là dove, apparentemente, non c’è più nessuna architettura simbolica a sostenerlo.
Bibliografia
Badiou A., Roudinesco É., Jacques Lacan, passato presente. Un dialogo, Mimesis, Milano 2019.
Bousseyroux M., Lacan le Borroméen. Creuser le nœud, Érés, Paris 2014.
Cima G.P., Per un terzo classicismo lacaniano, in http://www.journal-psychoanalysis.eu/per-un-terzo-classicismo-lacaniano-a-proposito-de-lopera-chiara-di-j-c-milner/.
Fink B., “Knowledge and Science: Fantasies of the Whole” in Glynos J., Stavrakakis Y., Lacand and science, Karnac, London 2002.
Jaudel N., La leggenda nera di Jacques Lacan. Élisabeth Roudinesco e il suo metodo storiografico, Rosebberg & Sellier, Torino 2018.
Lacan J., Scritti, Einaudi, Torino 2002.
Milner J.-C.
“Contestavo la sua idea che esista un soggetto della scienza [dice Badiou riferendosi alle sue prime esperienze nei Cahiers pour l’analyse], mentre su questo punto restavo althusseriano: la scienza rimandava sempre, per me, a un processo a-soggettivo”[iii]
Ed è proprio al bivio tra il tramonto nero dell’esistenzialismo e l’avvento dello strutturalismo che si fa strada la figura di Lacan, già svezzatasi con il pot-pourri di psichiatria, surrealismo e fenomenologia di cui erano intrise la tesi sul caso Aimée e le pubblicazioni ‘pre-freudiane’. Per quanto sia sconveniente vedere nel Lacan di questi anni “una Fenice autoproclamatasi e ispiratrice di se stessa”[iv], bisogna anche riconoscere che egli non si sia certo limitato a cavalcare passivamente l’onda del proprio Zeitgeist: come rimarca lo stesso Badiou, se da un lato Lacan “ha contribuito a rompere con la fenomenologia”, respingendo e anzi criticando duramente l’ipotesi di un soggetto confuso con “la comprensione trasparente di quello che gli accade”, dall’altro egli non ha ceduto alla tentazione dello strutturalismo duro à la Foucault e Derrida.[v] Il rigoroso formalismo logico-matematico della catena significante prima, della lettera e del matema poi, saranno sempre raddoppiati dalla necessità di conservare il soggetto al cuore dell’esperienza clinica, al punto di farne il reale stesso della struttura. Combinando la psicoanalisi con i principali fondamenti della linguistica jakobsoniana, con l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e la fenomenologia hegelo-kojeviana, Lacan salda una nozione di inconscio in grado di compiere il passaggio dalle lingue al soggetto, mantenendo quest’ultimo come proprietà minimale della struttura. L’inconscio strutturato come un linguaggio, del resto, non è che questo: il rifiuto di sminuire il soggetto a livello di una “categoria tipica dell’età borghese”[vi], facendo del linguaggio il solo riferimento assoluto. Oltre ad aver incluso in un unico paradigma soggetto e struttura (integrazione battezzata da Milner come iperstrutturalismo[vii]), il merito di Lacan è stato quello di trattenere la psicoanalisi al di qua delle discipline psicologiche, responsabili in quel periodo di una già avviata colonizzazione medicalista della società capitalistica.
A questo proposito, per tutti gli anni Cinquanta, Lacan ha condotto uno scrupoloso lavoro di mediazione che restituisse alla psicoanalisi la propria indipendenza rispetto alla morsa psicoterapeutica, mantenendola ben distante dalle mire revisioniste della Psicologia dell’Io. Scagliandosi contro la regressione ai fondamenti positivisti della psicologia e definendola nientemeno che una falsa scienza, Lacan ha prima rigettato i criteri di validazione empirica delle scienze cosiddette sperimentali in favore di una letteralizzazione estesa delle scienze umane, per poi questionare la stessa dicotomia tra scienze congetturali (o della soggettività) e scienze esatte.[viii] Come scriverà anni dopo in La scienza e la verità:
“L’opposizione scienze esatte – scienze congetturali non può più reggersi, a partire dal momento in cui la congettura è suscettibile di un calcolo esatto (probabilità), ed in cui l’esattezza non si fonda che su un formalismo che separa assiomi e leggi di raggruppamento dei simboli.”[ix]
Se Lacan è un “maestro”, convengono Badiou e Roudinesco, è anche e soprattutto a causa di questa sua postura costantemente polemica, mai asservita, che per tutta la sua carriera gli è costata numerose calunnie e tenaci opposizioni. Sulla scia del successo, man mano che la sua figura usciva dalle cerchie intellettuali francesi per guadagnarsi uno spessore internazionale, si moltiplicavano gli epiteti di “gran sacerdote, guru, dandy odioso”[x], così come i tentativi di sabotaggio e le restrizioni ai limiti della censura. La prima e più evidente di queste critiche – con tanto di scomunica – gli è venuta proprio dagli ambienti psicoanalitici, dopo che egli ha cominciato ad utilizzare Freud contro la psicoanalisi stessa. Pur rinnegando in tutto la statica oggettivazione dell’ambiente analitico infatti, il monito del ritorno a Freud non è stato dettato da una semplice esigenza clinica. Nel denunciare come il soggetto umano si alieni nelle oggettivazioni di un discorso cosiddetto scientifico, Lacan non punta il dito contro un particolare aspetto della direzione della cura, ma contro l’establishment della psicoanalisi post-freudiana tout court, accusandola di essere complice dei dispositivi oscurantisti e scientisti dell’ideologia liberista.
Ma d’altro canto, nel vagliare le ragioni del ritorno al freudismo ortodosso, Badiou e Roudinesco notano anche come vi sia “una differenza decisiva tra Freud e Lacan”, che non si esaurisce solamente sul piano intellettuale, ma fa riferimento ad un più complesso modo di venire a patti con il tragico, che si evince già da alcuni dettagli di superficie. Mentre ad esempio in Freud, sottolineano i due autori, la prosa è “classica”[xi], fluida, sempre incline alla chiarezza espositiva, la scrittura di Lacan “eccede l’immediatezza”, è persino frustrante, e sfugge ad ogni genere di esaurimento nella comprensione teorica. Più che di trattatistica, in Lacan vi è quella che Milner ha definito una protrettica negativa, una procedura discorsiva che strappa il soggetto dalle secchie del senso comune, ma lo fa redarguendolo, fino a rasentare la provocazione deliberata[xii] (si pensi a come, nel bel mezzo dei seminari, Lacan si rivolgesse spesso anche stizzosamente ai suoi colleghi psicoanalisti, o a come, più tardi, ammonisse i filosofi). Nulla di tutto ciò nello stile e nella scrittura freudiana, che tende più che altro a seguire “il movimento reale del pensiero”[xiii].
Questo divario si amplia ancora di più se, prescindendo dai dattiloscritti del seminario, ci si concentra esclusivamente sullo scritto: al Freud instancabile compositore, si oppone la scrittura sofferente di Lacan, certamente più a suo agio tra gli “echi infiniti ed enigmatici” delle sessioni del seminario. Se queste differenze, che sono solo alcune delle numerose citate da Badiou e Roudinesco, sono già abbastanza stupefacenti per pensare che fu proprio Lacan ad avviare una ripresa senza precedenti del freudismo, vi è una dissonanza ancor più significativa da considerare, che affonda le sue radici nel cuore stesso della tragedia. Come suggerisce Roudinesco, questa differenza è radicata nel particolare e differente rapporto che sia Freud che Lacan detengono con la figura di Edipo. Mentre “Freud privilegia l’Edipo re (…) Lacan mette l’accento sull’Edipo a Colono”[xiv]. Per il padre della psicoanalisi, Edipo incarna il sovrano che, giunto all’apice del proprio splendore, viene brutalmente abbattuto dalla propria hybris: la sua indagine si ritorce autodistruttivamente contro di lui, riconsegnandolo al proprio straziante ma puntuale destino. La disfatta del patriarcato e la sovversione della Legge, come avverrà anche nel Mosè e come risuonerà nel basso continuo dell’Ur-Vater freudiano, riflettono un solenne razionalismo. L’Edipo lacaniano invece è “un uomo vecchio [che] maledice la sua discendenza”, l’incarnazione di una “autorità fatta irrimediabilmente a pezzi”, che non ha nulla di sublime.[xv] Il tragico di Lacan sembra congiungere, senza mediazione alcuna, l’esasperazione suicida dell’etico con l’abietto ed il ripugnante: lungi dall’essere dei martiri o delle incarnazioni dello spirito, gli anti-eroi lacaniani sono delle figure moribonde, degli outcast, scarti che, come Sade, sprofondano tra gli alberi, tumulati in tombe senza nome.
Ed è proprio a livello di questo spartiacque etico che, lentamente, appaiono anche le differenze tra Badiou e Roudinesco. In particolare, in entrambi i dialoghi, sembrano essere due i momenti in cui le loro posizioni si separano. Il primo di questi riguarda l’annosa e mai del tutto sopita questione dell’ultimo Lacan. Come è noto, dopo i fasti del Seminario XX, l’insegnamento di Lacan comincia a presentarsi come un territorio sempre più accidentato, che ha prodotto una frattura radicale tra i suoi seguaci e studiosi. Già con l’introduzione del nodo borromeo, l’auditorio di Lacan si spacca, dividendosi tra chi ne saluta la grande e vera svolta rispetto all’opera di Freud e chi lo considera il mediocre capitolo finale di un insegnamento che non brilla più. Le arcinote vicende editoriali dell’opera di Lacan e il generale disinteresse dei commentatori hanno finito per schiacciare gli ultimi sette anni del Seminario in un tutto indistinto da cui emergono pochi e farraginosi elementi, estratti spesso del tutto arbitrariamente e senza opportune contestualizzazioni. Così, anche lacaniani ortodossi del calibro di Bruce Fink e Jean-Claude Milner pongono al varco della seconda metà degli anni Settanta le colonne d’Ercole dell’opera e del pensiero di Lacan, giudicando in modo particolarmente pessimistico l’avvento del nodo e sigillando il testamento lacaniano con il matema e lalingua. In particolare, per Fink il nodo e le sue implicazioni si rivelerebbero un concetto reazionario rispetto al formalismo della scienza del reale[xvi], mentre per Milner, il borromeismo non sarebbe solo qualcosa di “antinomico alla lettera”, ma diventerebbe persino un “animale distruttore” che farebbe terra bruciata del galileismo esteso della fine degli anni Sessanta.[xvii] Altri invece, come Bousseyroux e Soler, riferendosi agli anni Settanta, parlano di “Renaissance lacaniana” e di uno “schematismo più inglobante” rimanendo fedeli all’ultimo Lacan anche nella loro pratica clinica quotidiana.[xviii]
È interessante notare come tra i più feroci detrattori dell’ultimo Lacan vi sia proprio Roudinesco, che addirittura retrodata il ridimensionamento dello psicoanalista parigino già alla metà degli anni Sessanta, durante i fasti del Seminario XI.[xix] In particolare, Roudinesco reputa l’ultimo Lacan un intellettuale stanco e disperso sul “pianeta borromeo”, sottintendendo che la fase finale del suo insegnamento costituisca non soltanto un momento minore, ma anche qualcosa di inconsistente, ai limiti del delirante. Tra le fila dei sostenitori dell’ultimo Lacan, e in netto contrasto con Roudinesco, c’è Badiou, che vi coglie un innegabile pessimismo, ma ne sostiene il “ricorso alle scienze matematiche” e il formalismo estremista. Mentre Roudinesco rasenta quasi la compassione, per altro fraintendendo clamorosamente il rimando badusiano all’anti-eroe sofocleo, tentando di vedervi una specie di degenerazione estetica dell’abiezione (“Lacan si era trasformato in Edipo a Colono anche nel suo corpo, nel modo di camminare, nei suoi gesti all’interno di un generalizzato progresso di disgregazione”[xx]), Badiou descrive “il mutismo degli ultimi anni e la morte” come “parte integrante della sua eredità enigmatica”, fino al punto che è proprio nella “figura di un vecchio che scompare e lascia in eredità al mondo intero l’enigma insolubile della sua scomparsa” che Lacan acquisisce “una statura eccezionale”.[xxi] Questo differente posizionamento apre il largo ad una più complessa e dibattuta discussione, che si focalizza sulla valenza politica della psicoanalisi lacaniana, e che trova un preliminare ed immediato consenso nell’idea che “la cura lacaniana, per quanto apolitica nel suo esercizio, propone al pensiero una sorta di matrice politica”.[xxii]
Effettivamente, passando in breve rassegna un argomento che meriterebbe certamente molto più spazio, vi sono dei punti fermi nella psicoanalisi lacaniana che tradiscono una sottile, e quindi spesso fraintendibile, inclinazione politica, che non trova alloggio nel gergo politico tradizionale. Come è noto infatti, oltre ad aver sempre rifiutato l’ideale di un’emancipazione totale e definitiva, Lacan si è fatto beffe in più occasioni del termine ‘rivoluzione’, riducendolo al suo valore astronomico di salto sul posto (le vestigia della rivoluzione possono essere rintracciate, con le dovute differenze, in una diversa gestione del sapere, nelle rotture discorsive del Seminario XVII o, nell’ultimissimo Lacan, nel potenziale trasformativo della poesia), e la sua sardonica sfiducia per i moti rivoluzionari lo portò a qualificare il ’68 come una ‘truffa’ ordita dal sistema per l’insediamento di nuovi padroni. Eppure, pur prendendosi gioco dei moti rivoluzionari, la psicoanalisi lacaniana è disseminata di contenuti programmatici: il netto rifiuto di considerare biologicamente la differenza tra i sessi, la condanna dell’istituzione universitaria come apparato di mercificazione del sapere, ma anche la cruda diagnosi del fallimento delle utopie comunitarie (che sempre ritorna nell’invito a non colmare mai l’assenza originaria con un falso mito), l’equiparazione del socialismo al capitalismo, sino all’antispecismo degli ultimi anni. A riguardo, se per Roudinesco Lacan è in definitiva un “conservatore illuminato”[xxiii] che, non diversamente da Freud, ha tentato fino all’ultimo di rivalorizzare il primato della figura paterna, per Badiou la Legge del Nome-del-Padre non è che una faccia della politica lacaniana, subito raddoppiata dall’estrema radicalità del monito emancipativo a non cedere sul proprio desiderio. E sarebbe proprio questa capacità di produrre il nuovo nel vuoto immemoriale di una struttura qualunque che farebbe di Lacan “un pensatore del disordine”[xxiv] (si pensi a come negli anni Settanta, ad esempio, alla necessaria centralità monolitica del Nome-del-Padre si venga a sostituire la contingenza assoluta de i Nomi-del-Padre). Ma non si tratta di un disordine anarchico e disfattista: quello lacaniano è un pensiero che “nel cuore stesso del disordine” reperisce le tracce di “un ordine immanente”, un pensiero che “afferma l’irriducibilità del soggetto come tale” là dove, apparentemente, non c’è più nessuna architettura simbolica a sostenerlo.
Bibliografia
Badiou A., Roudinesco É., Jacques Lacan, passato presente. Un dialogo, Mimesis, Milano 2019.
Bousseyroux M., Lacan le Borroméen. Creuser le nœud, Érés, Paris 2014.
Cima G.P., Per un terzo classicismo lacaniano, in http://www.journal-psychoanalysis.eu/per-un-terzo-classicismo-lacaniano-a-proposito-de-lopera-chiara-di-j-c-milner/.
Fink B., “Knowledge and Science: Fantasies of the Whole” in Glynos J., Stavrakakis Y., Lacand and science, Karnac, London 2002.
Jaudel N., La leggenda nera di Jacques Lacan. Élisabeth Roudinesco e il suo metodo storiografico, Rosebberg & Sellier, Torino 2018.
Lacan J., Scritti, Einaudi, Torino 2002.
Milner J.-C.
- I nomi indistinti, Quodlibet, Macerata 2003.
- L’opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia, Orthotes, Napoli 2019.
Roudinesco É.
- Généalogies, Fayard, Paris 1994.
- Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Cortina, Milano 2019.
Soler C., Lacan, l’inconcio reinventato, Franco Angeli, Milano 2010.
[i] La traduzione e la curatela sono di Diana Napoli, che presenta il volume con una sua introduzione.
[ii] A. Badiou, É. Roudinesco (2019), p. 33.
[iii] Ibidem.
[iv] Ivi, p. 40.
[v] Ivi, p. 37.
[vi] Ivi, p. 36.
[vii] Si vedano J.-C. Milner (2019) e G.P. Cima (2019).
[viii] J. Lacan (2002), p. 279.
[ix] Ivi, p. 867.
[x] N. Jaudel (2018), p. 14.
[xi] A. Badiou, É. Roudinesco (2019), p. 72.
[xii] Cfr. J.-C. Milner (2019), p. 37.
[xiii] Ivi, pp. 75-76.
[xiv] A. Badiou, É. Roudinesco (2019), p. 71.
[xv] Ivi, p. 72.
[xvi] Cfr. B. Fink (2002), pp. 172-174.
[xvii] Cfr. J.-C. Milner (2019), pp. 166, 168. Non bisogna tuttavia trascurare che in uno dei suoi primi libri dedicati a Lacan, Milner celebri proprio gli orizzonti produttivi tratteggiati dal Seminario XXII e da una politica del reale (si veda J.-C. Milner (2003)).
[xviii] Cfr. M. Bousseyroux (2014), pp. 273-274 e C. Soler (2010).
[xix] Cfr. É. Roudinesco (1994), p. 28 e É. Roudinesco (2019).
[xx] A. Badiou, É. Roudinesco (2019), p. 93.
[xxi] Ivi, pp. 93.
[xxii] Ivi, p. 51.
[xxiii] Ivi, p. 59.
[xxiv] Ibidem.
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