«O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l'anno, sovra questo colle
io venia pien d'angoscia a rimirarti …»
(Giacomo Leopardi. Alla luna, Canti)
La pandemia da Covid-19, ancora non del tutto compresa dagli specialisti delle malattie contagiose, niente affatto spenta e ancora con direttive incerte del WHO, ha risvegliato brutalmente il tema umano per eccellenza: l’angoscia di morte. Eravamo riusciti a confonderla con il mito della velocità, l’inesauribilità della forza-lavoro delle macchine, l’accelerazione dei tempi di tutto, sotto forma di mondializzazione dell’erba voglio. L’avevamo “tumulata” – quell’angoscia – così almeno ci eravamo impegnati solennemente a controllarla nei limiti della politica planetaria, dopo i molti milioni di cadaveri delle due guerre mondiali del “Secolo breve”, spergiurando sulla pace alla “Società delle Nazioni” prima e all’ONU poi. Perfino sulla non proliferazione delle armi nucleari, avevamo giurato. Troppo frettolosamente abbiamo spacciato per “progresso” lo sviluppo di un bene solo per pochi, non per tutti. Il business, diciamolo all’inglese, senza mai provare il minimo di pudore. Alla fine di tutte le prestidigitazioni delle cupidigie umane sotto forma di ricchezze accumulate all’inverosimile, distruggendo sistematicamente l’ambiente, abbiamo dovuto prendere atto che gli unici ad essere rimasti indietro e disadattati, erano gli umani. Proprio quelli che più si erano sentiti padroni, immortali, potenti. Non solo gli ultimi, i poveri, rassegnati da sempre a far con niente, ma anche i primi, i ricchi. Tutti gli esseri umani! Abbandonati alle loro fragilità, alle loro paure, paranoie, superbie, angustie di gettatezza, solitudine, finitezza.
Rovistando dentro i soliti “scatoloni delle badanti” – fungenti da deposito di estratti, testi, libri, foto di psichiatria (e non solo), frammenti di memoria di quasi un secolo (l’ultimo, il Novecento) – abbiamo trovato questo saggio di Callieri e Frighi, vecchio di sessant’anni [01]. Lo abbiamo riletto con estrema attenzione anche per cercare di comprendere le minacce reali e presenti di un virus sfuggente, viscido, beffardo, mortale a suo piacimento, e le paure più o meno consapevoli, più o meno diffuse per ignoranza o artatamente da chi pensa meschinamente di trarre vantaggio dalla loro gestione politica. Massimamente, quelli che non hanno mai fatto nessuna politica sanitaria, ma si sono distinti per il taglio dei fondi della salute, la distruzione sistematica della prevenzione, della cura, del welfare-state per dirla all’inglese e via bestemmiando, soprattutto sulla medicina territoriale. Quelli che si sono sempre e sciaguratamente distinti nel cavalcare a briglia sciolta un’opinione pubblica sbandata ma comunque indirizzata verso il Santo Graal dell’emergenza, professato come priorità assoluta.
Innanzitutto la data del saggio è il 1961. Per me un anno particolarmente fortunato. Fu quello del mio matrimonio (10 giugno) con Silvia, la mia fidanzata romana ma di tradizioni zeneisi. Ci premiammo con un lungo giro d’Europa. Inutile dire che non fummo minimamente incuriositi da quelli che attualmente sono i paesi cosiddetti “virtuosi”. Viaggiammo, invece – a bordo di una “Dauphine” (la petit Alfa-Romeo della Rénault), nuova di zecca color carta da zucchero – per più di un mese e con grande piacere soltanto per i paesi “mediterranei”. Da Como, fra le prime tappe, facemmo solo una puntatina in Svizzera, a Schaffhausen, il borgo delle cascate bagnato dalle acque del Reno. Ci fermammo a mangiare in un ristorante dove c’era una giovane coppia di camerieri italiani, marito e moglie, immigrati per lavoro, in gran difficoltà d’ogni genere. Una quindicina d’anni dopo, andando a vedere Pane e cioccolata, il film del 1974 [02] diretto di Franco Brusati con Nino Manfredi, ci rammentammo di quella coppia e confermammo punto per punto le impressioni e le sorprese maturate sul campo. La prima che ci colpì e restò indelebile come simbolo delle migrazioni di lavoro fu che quella coppia di connazionali si meravigliò perchè dopo la pasta non avessimo ordinato anche la minestra, da “bravi italiani”.
Volendo però contestualizzare il periodo storico, diremo che il 1961 fu l’anno dell’indecoroso fallimento della CIA di abbattere la rivoluzione cubana di Fidel Castro con lo sbarco di “mercenari americani”, passato alla storia come fatto d’arme della “baia dei porci”. È l’anno immediatamente precedente a quello del “Vaticano Secondo”, fortemente voluto dal Papa Roncalli che vede la Chiesa cattolica in grande angoscia. È l’anno in cui il produttore Dino De Laurentis, per girare Il giudizio universale [03], un film ambientato a Napoli, arruola De Sica e Zavattini, la stessa coppia di professionisti collaudati del “cinema povero italiano” (il neorealismo) autori di Miracolo a Milano (1951). Intendeva bissare il successo di quel film, con un cast sterminato di attori famosi, in teatro, cinema, televisione. Ma la pellicola, col titolo angoscioso e vagamente chiliastico, annunciato in sala ripetutamente dalla voce stentorea del basso di origine russa Nicola Rossi Lemeni, non ottenne il successo sperato. Forse la gente era distratta dall’ubriacatura delle Olimpiadi tenutesi a Roma l’anno precedente, il 1960. Dal punto di vista teatrale, fu anche l’anno della “prima” italiana de Il Diavolo e il Buon Dio (Le Diable et le Bon Dieu) di Jean-Paul Sartre, che si tenne l'8 dicembre 1962, al Teatro Stabile di Genova, con un Alberto Lionello formidabile nella parte di Goetz, per la regia di Luigi Squarzina. Io e mia moglie, lo vedemmo, all’Eliseo di Roma il mese successivo per festeggiare il giorno del suo compleanno che cadeva il 29 gennaio 1963, un martedì. In Francia, la première [04] s’era tenuta dieci anni prima, nel 1951, il periodo di maggior fulgore del pensiero e della corrente esistenzialista. Non c’era giovane progressista e impegnato nelle vicende sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, che non conoscesse gli scritti di Sartre e Simone de Beauvoir, che ignorasse La Nausea (La Nausée) e non avesse dato almeno una scorsa a uno dei cinque racconti che compongono Il muro (Le mur). Che non ascoltasse (dal “giradischi”) Edith Piaf, Yves Montand, Juliette Greco. Che non sognasse de se promener dans le Quartier Latin sur le rive gauche ... Ma non c’era giovane specializzando in Clinica delle malattie nervose e mentali – all’epoca orientato in termini psicodinamici – che non avesse letto il corposo volume Allgemeine Psychopathologie di Karl Jaspers tradotto da Romolo Priori (1964).
Per dovere di cronaca va aggiunto che durante gli anni Venti/Trenta, sull’altra sponda dell’Atlantico, soprattutto nell’America del positivismo forsennato, sopravvissuto alla “Grande Guerra” e alla pandemia virale della “Spagnola” del Diciannove, vi erano movimenti artistici e di pensiero in grado d’intercettare il malessere, il disagio, l’angoscia diffusa. Negli “States” del grande sviluppo industriale – quello dei “vincitori economici” della Prima Guerra Mondiale – c’erano intellettuali sensibili, capaci di intuire la corsa verso il precipizio. L’America degli “Anni Ruggenti”, dell’”Età del jazz”, il gigante dai piedi d’argilla del tragico Ventinove, stava andando – eccitata e sovrattono – verso la deflagrazione. Era disorientata, groggy, essenzialmente depressa. Era angosciata ma non lo sapeva. Furore (The Grapes of Wrath) il capolavoro di John Steinbeck, giunse nelle librerie di New York soltanto il 14 aprile del 1939. Forse tardi per l’America precedente, ma puntualmente premonitorio per l’immane tragedia che la Germania nazista di Hitler andava apparecchiando, dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939) [05].
Nell’America incredibile di Zelda e Francis Scott Fitzgerald – inimmaginabile la prima, indimenticabile il secondo – già si parlava di follia, di condizione umana sofferta, “malata” nella psiche. Ciò che veniva, però, scavalcato era il tema dell’angoscia: sentimento forse prematuro, come esperienza personale e collettiva allo stesso tempo. Nondimeno, era celato abilmente nella giallistica, nella letteratura horror, nelle trame delle pièce teatrali dark, nei copioni del cinema noir, thriller, della suspense. L’architrave del gioco scenico sfruttava tutte le ambiguità del termine inglese gaslight. Letteralmente luce a gas, quella dei lampioni stradali, che poteva essere più vivida o più fioca, a seconda dello stato di funzionamento dei gazometri e della rete degli impianti di erogazione, nelle grandi metropoli. Le popolazioni anglofone, però, sapevano benissimo che il significato allusivo principale era quello di far credere proditoriamente, alla vittima prescelta, una cosa per l’altra, in modo da spingerla alla follia. Proprio come se si manovrasse intenzionalmente il rubinetto del gas illuminante [06]. Successivamente il termine è stato usato anche per illustrare forme cliniche di patologia psichiatrica, come ad esempio il mobbing.
Non c’erano guerre ufficiali agli inizi del 1960, nondimeno si percepiva una grande inquietudine. In Italia, la spinta del “Piano Marshall” del secondo dopoguerra si era esaurita e si andava completando quello che verrà ricordato come “Miracolo Economico”. Nondimeno c’era incertezza e preoccupazione su come avrebbe girato il mondo spaccato in due e con la guerra fredda che congelava il futuro. Tutto sembrava sospeso precario ma pronto ad esplodere da un momento all’altro. Questo generava angoscia. È vero che la ricostruzione frenetica dell’Europa distrutta dall’ultimo conflitto mondiale, conferiva al vissuto generale una tonalità maniforme. Ma non c’era stata netta discontinuità col passato. Le nefandezze erano state così inumane che risultava difficile una possibilità di comprensione del momento storico, fuori dall’esistenzialismo, dalla fenomenologia, dalla psicopatologia e dalla psicoanalisi. Il saggio di Callieri e Frighi la coglie in tutta la sua pregnanza, codesta incertezza esistenziale, da restituircela oggi in tempi incerti e, tutto sommato non dissimili, quelli del coronavirus. Naturalmente il testo è stato – come per tutti i precedenti di pari età – “restaurato”, nel senso che sono stati sottolineati col corsivo (nostro) i passi più difficili, sono stati aggiunti i nomi di battesimo degli Autori segnalati nello scritto, perchè ci è parso fossero trattati “familiarmente” da chi era aduso citarli a memoria e in lingua originale, come appunto Callieri e Frighi. Ci è parso un prezioso “cammeo”, di un’epoca in cui il dibattito psicopatologico era impegnato anche in senso filosofico, giusto per contestare l’anato-patologismo radicale e il classificazionismo linneiano, diffusi come verità di vangelo: l’immacolata percezione della scienza obbiettiva.
Il termine angoscia deriva dal latino angustia, angustus = stretto, verbo angere, stringere. Il Not tedesco contrapposto all’ Angst più adatto a definire l’ansia, l’angoisse dei francesi, la anguish di Shakespeare. Ma è anche quello che i Genovesi (Zeneisi) intendono esprimere quando dicono: u l’è angusciuso ossia nel significato di è/sei opprimente, fastidioso. L’angoscia può avere diverse sfumature e varie interpretazioni, ma almeno tre – tra le più comuni, desunte dalla Treccani – si riferiscono a: 1) Oppressione dello spirito derivante da un dubbio tormentoso, una profonda inquietudine, uno stato di paura, dolore, pietà, esacerbati da particolare sensibilità individuale, in senso generale; 2) Reazione d'allarme dell'Io a fronte di situazioni per lo più interne e avvertite, spesso irrazionalmente, come pericolose, in senso psicoanalitico; 3) Il sentimento fondamentale che prova l'essere umano della nullità da cui emerge e nella quale tende a risolversi il suo essere finito, nell’accezione della filosofia esistenzialista. Tutte sono esplorate da Callieri e Frighi
In buona sostanza il saggio breve, ricco e denso di Callieri e Frighi sull’angoscia, va letto e meditato a sessant'anni di distanza per valutare come si siano evolute le paure, le angustie, le preoccupazioni del genere umano in Europa e nel mondo. Soprattutto da parte di chi si occupa di sanità e di salute mentale in particolare. Forse varrà la pena riprenderlo fra altri sessanta, oltre un secolo dunque, per fare il punto su come navigherà l’umanità – quella sopravvissuta – trasformata in un popolo di roditori per il consumo forsennato del mondo. Non solo quella sparuta dei piccoli “Creso”, ma l’enorme massa della restante che non sarà riuscita a rifugiarsi nelle foreste, nelle savane, nelle montagne sopra gli ottomila. Quella che non potrà più essere aiutata nè dalla Caritas, nè dalle ONG, nè da nessun altro movimento filantropico, per il semplice motivo che dell’antropos dovremo accertarne la presenza … di qualche eventuale superstite dei Sapiens ... magari una piccola tribù himalayana trasformata in guisa di indigeni polinesiani, ridotta a vivere sul livello del mare.
Bruno Callieri e Luigi Flavio Frighi
Il concetto di angoscia
Il concetto di angoscia, che troppo spesso è stato scambiato per un sentimento, costituisce il dato centrale della riflessione esistenzialistica. L'angoscia esistenziale rappresenta la vertigine della libertà, la consapevolezza del rischio, il senso acuto della alternativa; essa, fondandosi sulla inquietudine e la problematicità, costituisce il concreto porsi dell'uomo come esistenza, portante con sé l'acuta coscienza del disvalore, il senso delicato della realtà del male, la consapevolezza della precarietà della decisione. L'angoscia è intimamente collegata alla coscienza che non si può esercitare la libertà senza comprometterla, poiché è proprio della libertà il conquistarsi e, quindi il potersi perdere nell'atto stesso in cui si afferma. Per quanto paradossale [07] possa sembrare, la libertà è "libera di non essere libera", il che è come dire che essa è esperienza del nulla. E' questo che la filosofia dell'esistenza vuol dire con il concetto di indeterminazione e di scelta.
La scelta costituisce l'atto più autentico della persona.
La decisa polemica contro l'anonimia, in cui l'uomo non è persona ma individuo, non unico ma uno dei molti, non Io ma Sé; il richiamo dell'esistenza genuina, autentica, il dovere per ciascuno, di essere se stesso e solo se stesso; la svalutazione della convenzionalità della comunicazione rispetto all'intimità interpersonale della comunione – tutto questo conferma che il motivo fondamentale dell'esistenzialismo è l'esigenza personalistica. La finitudine umana, di cui l'esistenzialismo ha un senso acutissimo, caratterizza la vita impegnata come ricerca decisiva. In opposizione al pensiero idealistico e a quello materialistico, l'esistenzialismo afferma che la realtà è profondamente rotta e frammentata, pervasa intimamente da una cesura che non riconosce mai suture definitive. Ciò equivale a dire che l'esistenza umana è profondamente antinomica e ambigua, cioè incrinata da una “fessura”, che la pone radicalmente in questione.
Questa è la frattura – la fêlure di René Le Senne – la quale scinde la realtà nell'unicità irrepetibile del singolo e nella irriducibile alternativa, di fronte a cui l'opzione è sempre immersa nel pericolo, perchè il suo verdetto è irrevocabilmente decisivo. Il singolo è puntuale e irrepetibile proprio perchè, pur emergendo dal fatto empirico, dall'esserci (Dasein), si concreta in esso, si plasma e prende forma e figura da esso – ecco la situazione, ontica, cioè propria dell'exsistentia, dell'esistenza.
D'altro canto il singolo è valido, di una validità riconoscibile nella comunicazione, perchè, pur emergendo dall'essere, di cui è una specificazione personalissima, si inserisce in esso, ricevendo da esso significato – ecco il valore ontologico, l'in–sistentia (esser dentro, presenza, intimità). Il singolo non si riduce al fatto in particolare, né si annulla nell'essere in generale, eppure si concreta nel fatto (onticità del singolo) e assume significato partecipando dell'essere (ontologicità del singolo). In altri termini, perchè il singolo sia concreto, bisogna che, pur non riducendosi al fatto, si plasmi e prenda forma in esso (momento ontico); perchè sia valido, bisogna che, pur non annullandosi nell'essere, in esso prenda radice (momento ontologico). Il momento ontologico rende possibile l'analitica esistenziale, quello ontico l'analisi esistenziale. Come dice Ludwig Binswanger "per analitica esistenziale io intendo la chiarificazione filosofico-fenomenologica della struttura aprioristica o trascendentale dell'esserci come esserci-nel-mondo (del che dobbiamo esser grati a Martin Heidegger); per analisi esistenziale intendo invece l'analisi scientifica, empirico-fenomenologica dei modi concreti e delle configurazioni dell'esserci".
La psichiatria, come scienza non può occuparsi di analitica esistenziale, la quale è accessibile solo alla filosofia. Deve però tenerne conto come presupposto.
Il concetto di angoscia va quindi chiarito su due piani ben distinti – nell'analitica esistenziale l'angoscia è la categoria trascendentale della "mondanità – l'Io si declina nel mondo in angoscia (Sorge) [08]. Nell'analisi esistenziale si pone l'accento sulle singole emergenze, esistenze (ex-sistentia opposto a in-sistentia), che realizzano, di momento in momento, di punto in punto, la categoria analitica trascendentale dell'angoscia. E questo il motivo per cui l'analisi esistenziale è tutt'uno con l'approfondimento biografico di una esistenza (es. Une vie, di Maupassant, i casi di Binswanger, il recente caso di Blankenburg) – è trama e disegno nello stesso tempo. Ed è questo il motivo per cui le moderne indagini psicoterapiche (attuantesi come rencontre con il paziente), pur partendo da punti di vista essenzialmente pragmatistici sono così sensibili al richiamo dell'onto–analisi, che si fonda sull'inesauribile problema della subiettività (Christian Wolff).
Non è qui il caso di riferire la storia del concetto di angoscia – dalla sua formulazione etica davanti alla colpa, dal peccato originale di Soren Kierkegaard, dalla paolina "Teologia della crisi" di Karl Barth, alla formulazione trascendentale e profondamente filosofica di Martin Heidegger, alla declinazione sociale di Gabriel Marcel (esse est coesse) e di Ernesto Paci (la relazionabilità), a quella antropologica di Viktor Emil von Gebsattel, Martin Buber, Paul Tillich, Jean Paul Sartre, Jürg Zutt.
Ci preme piuttosto rilevare la profonda verità psicologica, attualmente più avvertita che mai, della sequenza incarnata in Kierkegaard – 1) la seduzione, 2) la colpa, 3) l'attesa, 4) la liberazione. Dalla teologia giudaica alla soteriologia [09] cristiana, sul piano socioculturale; dalla caduta nella solitudine (come vedremo, oltre all'esser-con-l'altro nell'amore), sul piano antropologico; dalla caduta del potenziale di comunicazione umana alla progressiva liberazione (Freilegung), nel processo psicoterapeutico: in tutti i casi è lo stesso svolgimento formale.
Si è parlato di eccessive teorizzazioni, di inane sforzo terminologico, di verbalismo; in realtà la misura del rinnovamento esistenziale in psichiatria è ben più fondata. Il rapporto dell'uomo con il mondo, con il suo mondo, non è semplicemente il risultato di una sommazione. L'uomo è uomo in quanto è nel mondo, l'uomo è mondanità (Weltlichkeit), e come tale è sempre aperto all'angoscia; invero la singolarità di questa struttura "mondana" che è l'uomo, la sua irrepetibilità, il suo esser-per-la-morte (Zum Tode–Sein) [10], la sua insopprimibile puntualizzazione spazio-temporale, (l'Io-qui-ora), costituiscono altrettanti punti nodali intorno ai quali si tesse la trama dell'esistenza.
A noi sembra utile scorgere nel concetto di angoscia il punto centrale di contatto tra le problematiche psicoanalitiche (scontro e incontro) e quelle esistenziali. Infatti sul piano psicoanalitico l'angoscia costituisce il fulcro della elaborazione dottrinaria nelle varie scuole e il punto di divergenza e di evoluzione delle successive teorizzazioni.
E' indubbio che a tale concetto inerisce un significato profondamente biologico, anche se successivamente articolato in momenti prettamente psicologici: es. l'angoscia di castrazione, di separazione, d'attesa, di anticipazione, sociale, etc.
Ma tutte queste specificazioni, in ultima analisi, si riconducono ad una situazione primitiva (Urangst), che è l'angoscia della nascita, intesa come sconvolgimento biologico, che costituisce l'incancellabile matrice per le successive esperienze angoscianti.
Accanto a questa concezione unitaria dell'angoscia, intesa in senso biologico, la successiva elaborazione freudiana delle motivazioni condusse Freud a postulare un tipo di angoscia più prettamente psicologico (l'angoscia-segnale) – questo tipo di angoscia presuppone una differenziazione e una maturazione più elevata dell'apparato psichico. Esso conduce ovviamente a un capovolgimento delle impostazioni teoriche fondamentali della dottrina freudiana: alla repressione come causa di angoscia si sostituisce l'angoscia come causa di repressione.
La modificazione della teoria di Freud significa che l'ansia ed i suoi sintomi non sono più visti come il semplice risultato di un puro processo intrapsichico ma come scaturenti dallo sforzo dell'individuo di evitare situazioni di pericolo nel mondo di relazioni. Ciò rappresenta un punto di vista più organismico, cioè la persona vista nel suo mondo di relazioni.
Alla prima impostazione, prettamente meccanicistica, segue dunque una diversa impostazione, di tipo prettamente psicologico, nella quale l'angoscia, come anticipazione del trauma, agisce da segnale, per cui l'Io mette in opera i vari meccanismi di difesa. Tuttavia, dal momento che il trauma presuppone una situazione reale di pericolo, riconducibile in ogni caso al trauma della nascita (seppure attraverso i vari gradini del trauma di castrazione, separazione, perdita dell'oggetto amato, ecc.), ne deriva che anche l'angoscia-segnale, più prettamente psicologica, è in funzione di un evento biologico reale: cioè il pericolo dell'organismo di essere travolto dallo straripamento di impulsi non controllabili. L'impostazione di questo passaggio da una visione monistica dell'angoscia ad una impostazione del problema in senso dicotomico, (angoscia automatica e angoscia di segnale) appare nettamente più evidente nelle successive evoluzioni delle teorie psicoanalitiche in senso socio-culturalistico, in particolare nelle dottrine di Erich Fromm, Karen Horney, Herbert "Harry" Stack Sullivan. L'ansia non rappresenta più la reazione specifica e univoca all'anticipazione della frustrazione di bisogni istintivi o libidici, poiché la frustrazione di tendenze istintive risulta come ansia solo quando questa frustrazione minaccia qualche valore o modo di relazione interpersonale, che l'individuo ritiene vitale per la sua sicurezza (Fromm). Per la Horney l'ansia viene prima degli impulsi istintivi, in modo che gli impulsi e i desideri divengono pulsioni (drives) solo quando sono motivati dall'ansia. Horney concorda con Kurt Goldstein nel ritenere che l'ansia inerente alla reazione catastrofica sia la reazione alla minaccia a qualche valore che l'individuo ritiene essenziale per la sua esistenza come personalità. L'ansia costituisce quindi la reazione ad una minaccia a qualcosa che appartiene al fondamento della personalità.
Ci sembra opportuno porre in rilievo la grande importanza di questo nuovo modo di intendere gli aspetti genetici dell'angoscia. Esso ci consente inoltre un avvicinamento alla impostazione esistenziale del problema, che – ripetiamo – è tutta centrata sulla "coesistenza".
Questo rinnovato interesse della psicopatologia analitica e della antropologia esistenziale per i modi della coesistenza ci permette anche di inquadrare il problema secondo i parametri della comunicazione interpersonale quale è intesa nell'ambito della teoria dell'informazione. Qui il ricevitore e il trasmettitore debbono essere intesi come inseparabili, cioè come costituenti un'unica entità informativa dinamica. L'angoscia può scaturire proprio da questa sfera di interrelazioni, nel senso che disturbi di codificazione possono generare una più o meno profonda distorsione del messaggio, che si ripercuote con altrettanti squilibri di tensione nella "sfera del tra" (Buber) (taktisch zwischen Ihnen). In un mondo in cui per superare l'incombente minaccia della solitudine, la comunicazione è divenuta il punto essenziale del nostro vivere attuale, i disturbi della comunicazione, proprio perchè rappresentano una minaccia a un valore fondamentale dell'individuo, costituiscono la matrice dell'angoscia.
Questi tre diversi modi di concepire l'angoscia, pur partendo da presupposti diversi: l'impostazione analitica come tematica intrapersonale, quella esistenziale come interpersonale (intermediarietà – coesistenza), e quella della teoria dell'informazione come di relazionabilità, finiscono tutti col convergere sull'uomo come persona. Dobbiamo tuttavia tener presente che tra l'angoscia esistenziale e quella della teoria dell'informazione, da un lato, e l'angoscia psicopatologicamente intesa, dall'altro, esiste un notevole divario – nel primo caso l'angoscia appartiene al piano concettuale, ontologico, cibernetico, nel secondo appartiene al piano affettivo. Nel primo caso l'angoscia consegue a un modo di vedere e di informare circa il proprio rapporto col mondo, nel secondo rappresenta una reazione psicologica ad una minaccia che è sproporzionata al pericolo obiettivo.
L'angoscia esistenziale si pone tutta nel "progetto" dell'esistenza, si autentica in essa e vi si risolve tutta, è "a last inner core of man, a last, unconditional center" (Otto Friedrich Bollnow [11]); l'angoscia psicopatologica comporta repressione ed altre forme di conflitti intrapsichici ed è contrastata da vari mezzi, quali inibizioni, sviluppo di sintomi, restringimento del campo della coscienza, etc. Sul piano più profondamente psicologico la distinzione classica tra angoscia e paura è basata sul criterio della consapevolezza dell'oggetto temuto [12]; tuttavia questo criterio sembra discutibile in quanto esistono delle angosce di fronte a situazioni oggettive e a soggetti ben determinati (es. fobie). Però la distinzione tra angoscia e paura può esser ugualmente mantenuta, in quanto si può ragionevolmente ritenere che in questi casi si tratti di pseudo-oggetti, cioè di rappresentazioni simboliche di altre situazioni in cui esiste una minaccia a determinati valori, essenziali per l'individuo. Ma a voler mantenere a tutti i costi la distinzione tra angoscia e paura ci si trova di fronte ad una difficoltà ben più grave; invero l'angoscia presuppone sempre il timore della perdita dell'oggetto, di cui l'individuo può non esser colpevole, a causa appunto dei meccanismi di difesa che egli stesso ha messo in moto. L'angoscia è paura che ha perduto il suo oggetto attraverso la repressione – l'oggetto della paura è stato represso. L'angoscia è quindi sempre angoscia del rien, [13] intendendo appunto con questo termine la perdita dell'oggetto.
Invece nell'ambito esistenziale la distinzione tra angoscia e paura riesce molto più agevole. La paura è riferita a un oggetto esistente, l'angoscia scaturisce dal contatto col nulla (néant) – l'esserci nel mondo è sempre exsistentia, cioè emergenza; mentre la nascita (psicologicamente intesa) è un distaccarsi-da (perdita dell'oggetto).
Possiamo ora chiederci se tra questi due concetti (angoscia del rien e angoscia del néant) intercorrano relazioni, si possano stabilire priorità, si tratti di ambiti diversi. E' indubbio che gli ambiti sono diversi: l'uno è tutto antropologico, nel senso che il mondo (mondanità) è un costituente insopprimibile di esso – l'angoscia esistenziale è sempre in rapporto al mondo. L'altro, quello analitico, è psicologico, nel senso che si fonda sul gioco delle varie pulsioni che costituiscono la psiche dell'individuo. Questi due piani così diversi, tuttavia, confluiscono su di un punto focale comune, la persona umana, cioè il soggetto che esperimenta l'angoscia, inteso proprio come soggetto e non come oggetto di osservazione.
L'uomo di fronte all'angoscia, nella psicoanalisi, resta sempre nell'autobiografico nello scontro dell'individuo con i partecipi della sua cultura; in certo qual modo potremmo dire che l'analisi non si interessa di uscire dal piano ontico; quello che rende efficiente dal punto di vista pragmatico l'analisi è proprio il considerare i problemi dell'uomo nell'ambito di relazioni con altri uomini. Però il prescindere completamente da aspetti categoriali, cioè dal piano ontologico, può rappresentare un pericolo di limitazione psicologica; gli psicoanalisti stessi avvertirono presto questo pericolo ed elaborarono una serie di tentativi di generalizzazioni, i complessi, che tuttavia però non uscivano ugualmente dal piano ontico, in quanto venivano a costruirsi sempre nell'ambito di scontro e incontro tra individui.
Invece nell'analisi esistenziale dominano aspetti categoriali – la temporalizzazione, la spazializzazione, come forme dell'esserci. Si afferma ivi che i contenuti, i complessi costituiscono solo una parte della nostra vita personale; accanto ad essi interviene sempre il fattore "forma dell'esistenza". Ad es., nell'analisi esistenziale, il volare e il cadere sono fenomeni modali primari della nostra esistenza, precedenti a qualsiasi concretizzazione contenutistica. L'analisi esistenziale accentua la profonda problematicità di questo e di altri "fenomeni originari" quali l'espandersi e il costringersi, l'aprirsi e il chiudersi, il rischiararsi e l'oscurarsi, il riempirsi e lo svuotarsi, l'essere attratto e l'essere respinto. Di questi “fenomeni originari” l'analisi esistenziale sottolinea soprattutto la forma, l'aspetto categoriale, meno interessandosi alle loro successive dialettizzazioni, che restano necessariamente secondarie, più o meno mediate. In tal modo l'aspetto più caratteristico dell'analisi esistenziale sta nel considerare il piano dell'esistenza come momento in sé, autonomo e conclusivo, come assoluta e pura problematicità, come inquietudine profonda (ansia esistenziale) che scava in se stessa e non vuol chiedere pace e salvezza. Nel considerare dal punto di vista esistenziale l'angoscia, intesa come incontro col nulla dobbiamo tenere presente una distinzione molto importante – per Kierkegaard si tratta di una angoscia psicologica, di un nulla che è nello spirito [14], invece per Heidegger l'angoscia è legata ad un fatto cosmico, al nulla assoluto da cui si stacca l'esistenza (Luigi Pareyson).
Mentre è molto difficile poter stabilire dei rapporti tra psicoanalisi e analitica esistenziale, tali rapporti sembrano più possibili nell'ambito del pensiero esistentivo e ontico – invero nella sua onticità esso si ricollega profondamente alle esperienze psicologiche che l'incontro con il paziente propone all'impostazione psicoanalitica. Un aspetto su cui l'impostazione analitica e psichiatrica in generale e quella esistenziale dall'altro, non convergono è costituita dalla ricerca di una possibilità di distinzione tra angoscia "normale" e angoscia “nevrotica” da patologica in genere.
Per la psicoanalisi e per la psichiatria clinica in genere, il problema, anche se di difficile e incerta soluzione, esiste. Si può considerare angoscia patologica quella che presuppone una minaccia ad una condizione vitale per l'individuo, che implica le messe in atto di atteggiamenti psicologici comunemente intesi come meccanismi di difesa e che, comunque, si basa sulla esistenza di un confitto tra istanze psichiche diverse. Di qui scaturisce una ulteriore evidenza dell'impostazione prevalentemente pragmatica della psicoanalisi.
L'analisi esistenziale, invece si preoccupa assai meno della distinzione tra normale e patologico, muovendosi sul terreno, delle categorie, che essa ha riproposto all'attenzione dello psicopatologo, come propedeutica all'approccio con qualunque tipo di vita psichica, normale, abnorme o psicotica che sia. Per l'analista esistenziale importa fondamentalmente il contatto da persona a persona, non tanto in retrospettiva (come nella psicoanalisi) ma in prospettiva. In questo, senso la consapevolezza della impostazione esistenziale dell'angoscia si rivela estremamente utile anche per l'attività dello psicoanalista, permettendo una visione più completa dell'esistenza umana. All'analista esistenziale importa soprattutto lo studio della "forma" di esistenza (fenomenologia esistenziale), nelle sue implicazioni ontologiche. Tanto per l'una che per l'altra, l'angoscia è il punto nodale delle loro elaborazioni; l'una in senso più schiettamente terapeutico (utilizzazione del transfert), l'altra con uno sforzo di liberazione dalle teorizzazioni, ma con una limitazione più o meno evidente dello scopo specifico terapeutico, con una tendenza marcata alla realizzazione dell'incontro (Frederik Jacobus Johannes Buytendijk) su un piano di comprensione generica tra persone umane.
Note
01. Bruno Callieri e Luigi Flavio Frighi. Il concetto di angoscia nell'esistenzialismo e nella psicoanalisi. Rivista Sperimentale di Freniatria. Vol. 85, 1961, p. 374
02. Un sapiente ed equilibrato impasto di umorismo e angosce, ritenuto una delle migliori prestazioni di Manfredi. La pellicola, che ottenne numerosi premi, fu inserita come opera rappresentativa, nella lista dei 100 film italiani da salvare.
03. Il giudizio universale. Italia, 1961, 92’, b/n, regia Vittorio De Sica, soggetto e sceneggiatura Cesare Zavattini, produttore Dino De Laurentis, con: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Melina Mercuri, Vittorio Gassman, Paolo Stoppa, Fernandel, Renato Rascel, Silvana Mangano, Anouk Aimée, Jack Palance, Ernest Borgnine, Lino Ventura, Elisa Cegani, Eleonora Brown, Akim Tamiroff, Jimmy Durante, Marisa Merlini, Andreina Pagnani, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Domenico Modugno, Mike Bongiorno, Gaddo Treves (psichiatra, primario del manicomio “Ville Turro”), Alberto Bonucci, Giuseppe Porelli, Giacomo Furia, Regina Bianchi, Luigi e Vittorio Bonos, Pietro De Vico, Enzo Petito, Luigi Reder ...
04. La “prima”, francese fu interpretata e diretta da Louis Jouvet il 7 giugno 1951 al Théâtre Antoine. I pochi fortunati spettatori se lo saranno ricordati a lungo come un prezioso cimelio. L’attore, infatti, morirà poco più di due mesi dopo, il 16 agosto 1951. La pièce sartriana, allude alla “Guerra dei contadini tedeschi” (1524-1526) – per ragioni etiche, teoriche, teologiche ma soprattutto per vessazioni insostenibili, seguite alla riforma protestante – contro “La Grande Lega di Svevia” dei nobili e del clero. Il protagonista assoluto è lo spietato e sanguinario cavaliere tedesco nonché soldato di ventura, feroce signore della guerra Gœtz. Personaggio storico realmente esistito, Götz von Berlichingen (1480-1562) di nobile famiglia del Baden-Württemberg, dove possedeva il castello di Hornberg nei pressi del fiume Neckar. Nel primo atto, per scelte morali, Götz si trasforma in persona "buona" che compie azioni “nobili” e “generose”. Dunque all’assedio di Worms quando espugna la città della Renania-Palatinato decide di non massacrare i cittadini, come normalmente aveva sempre fatto in ogni azione bellica precedente.
05. L’accordo russo tedesco era sostanzialmente l’avallo che Hitler attendeva per iniziare la prima tappa del suo folle disegno invadendo improvvisamente la Polonia con la sua blitz-krieg il 1 settembre 1939.
06. Il gaslighting come atmosfera ambigua, sospettosa, paranoicale, nasce nel teatro inglese degli anni Trenta. Il deus ex-machina è Patrick Hamilton, scrittore, novelliere e drammaturgo di Hassocks, non distante dalla costa del sud dell’isola, nella contea dell’Est Sussex. È una ridente cittadina circondata di prati erbosi poco distante da Brighton posta sulla strada per Londra. Hamilton può essere ritenuto una sorta di Pirandello britannico non molto conosciuto, ma Hassocks in nessun caso, può essere paragonata a Girgenti, nè Porto Empedocle a Brighton. La produzione letteraria di Hamilton è ampia, varia – non quanto quella del nostro “Nobel” siciliano – spazia dalla novellistica, ai racconti brevi, alla drammaturgia, spesso rappresentata con successo in teatro e rilanciata ancor più efficacemente nel cinema. Da citare per il palcoscenico, La corda (Rope) – la sua prima grande affermazione – dove si rappresenta il “delitto perfetto” (senza movente), messo in scena a Londra nel 1928. Il dramma in tre atti è ispirato a un fatto di sangue veramente accaduto nel “West End” londinese nel 1924. Due studenti universitari dell’alta borghesia, per “dimostrare la loro superiorità”, uccidono un collega più giovane dopo averlo attirato in una trappola, e ne occultano il cadavere. Dieci anni dopo, Hangover Square – che potremmo rendere in italiano con Piazza degli suonati, già tutto un programma – sancì il successo di Hamilton come autore del genere black comedy con la “prima” al Richmond Theater di Londra (5 dicembre 1938). Ma, col titolo Gaslight ebbe a Londra una lunga e fortunata stagione (1938-1939) che si protrasse ininterrottamente – passando in tre teatri diversi e cambiando anche titolo, l’ultimo dei quali fu 5 Chelsea Lane (1939) – per un totale di 141 repliche. Passò anche l’Atlantico e approdò dapprima a Los Angeles – nella primavera del 1941 – rappresentato col titolo cambiato in Five Chelsea Lane, da Vincent Price ed Edith Barrett. Naturalmente fu molto apprezzato tanto che l’anno successivo la produzione fu trasferita a Broadway. Il nome della commedia cambiato, in Angel Street. Con questo titolo e con gli stessi attori l’opera tenne il cartellone dal 1941 al 1944 per un totale di 1295 repliche. Nelle varie rappresentazioni teatrali – anche se con titoli diversi, e in continenti diversi – il canovaccio è quasi sempre lo stesso. Una ragazzina, orfana di entrambi i genitori, con la sua presenza mette in fuga un truce assassino che le ha appena ucciso la zia – celebre cantante lirica – per derubarla dei gioielli. Per superare il trauma, viene condotta in Italia da un finto benefattore dalla doppia personalità. Nella parte del “buono”, la sposa anni dopo, ma – nella parte del “cattivo” – vuole farla impazzire oscurando il suo stato percettivo come se manovrasse la luce a gas dei lampioni di strada, mentre architetta stratagemmi per ucciderla. In realtà è un pianista affetto da epilessia temporale con lucidi intervalli. Ciò che rende credibile e profetica la black comedy è l’ambientazione in una Londra angosciata e sgomenta per l’approssimarsi della seconda guerra mondiale scatenata dalla vera pazzia di Hitler. Il cinema s’impossessa del testo di Hamilton e lo cuoce in tutte le salse. In Inghilterra esce Hantise (Gaslight) nel 1940 per la regia di Thorold Dickinson, con Anton Walbrook e Diana Wynyard. Hollywood produce Gaslight nel 1944, che esce in Italia opportunamente doppiato nel 1946, fresco di premio a Cannes, col titolo molto appropriato di Angoscia. Diretto dal versatile geniale e raffinato newyorchese (origini ebraiche-ungheresi del “Lower East Side” di Manhattan) George Cuckor, con Ingrid Bergman, Charles Boyer, Angela Lansbury, Joseph Cotten, ha fatto epoca.
07. "Il paradosso. questa passione del pensiero" (Kierkegaard). (originale degli AA).
08. Sorge qui il termine tedesco è usato nel senso di Angst, Problem, preoccupazione, pensiero, dispiacere, Sorgfalt, Füsorge, sollecitudine, prendersi cura, dàrsi pensiero.
09. Può essere utile rammentare al lettore che nella storia delle religioni, per soteriologia s’intende la dottrina della salvezza, in quanto liberazione dell'uomo dal male comunque inteso.
10. In ogni tempo l'uomo di fronte alla morte sente il "mysterium tremendum" ed è portato ad allontanarsene, a metterlo fra parentesi, per affrontare esclusivamente l'apparentemente comprensibile realtà della vita. Ma la morte sta lì, non la si può eliminare – fonte perenne di angoscia esistenziale e di richiamo ontologico.
11. (presente nella paura, assente nell'angoscia) l’oggetto temuto. (originale degli AA). Si suggerisce, in proposito, un testo classico: Kierkegaard S. La malattia mortale. Svolgimento psicologico cristiano di Anti Climacus, trad. Meta Corssen, prefazione di Paolo Brezzi, Milano: Comunità, 1947.
12. Presente nella paura, assente nell'angoscia (originale degli AA).
13. Si suggerisce di tradurre con la parola rien il nostro niente ossia essere rimasti con niente di materiale, il pane per esempio, esser divenuti poveri. Col termine néant, invece, di rendere il concetto di “vuoto”, sentirsi precipitare nella vertigine dell’abisso, perchè non si ha nulla a cui aggrapparsi, ovvero esser rimasti soli per delezione della prima particella del cum-esse o anche averne improvvisamente preso contezza, oppure cogliere l’infinità dell’universo, mirando il cielo una notte di plenilunio in riva al mare.
14. Cfr. Søren Aabye Kierkegaard. La malattia mortale. Svolgimento psicologico cristiano di Anti Climacus, trad. Meta Corssen, prefazione di Paolo Brezzi, Milano: Comunità, 1947; 1965.
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