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L’attualità di Bruno Callieri: una rilettura della sua “Inquieta fenomenologia dell’attenzione”.

12 Gen 20

Di Sergio-Mellina, Bruno-Callieri

In questo Natale 2019, mi sono concentrato su Bruno Callieri e … ci siamo parlati! Ho avvertito, acutissimo, il bisogno di stare con lui per ascoltarlo e fargli gli auguri. L’ultima volta, era stato nel dicembre 2011, poi il 9 febbraio dell’anno successivo, era mancato, ci era mancato…

Per la verità, basta accendere il PC e te lo trovi vivace e brillante intervistato un po’ dappertutto, soprattutto su Pol.it psychiatry on line Italia da Francesco Bollorino, dalla giovane Rossi, da Gioia Marzi, Maria D'Ippolito e molti altri. Ma è soprattutto leggendolo e conoscendo bene la sua voce, il suo tono convincente, il suo entusiasmo travolgente, contagioso, che mi trovo con lui, perfettamente a mio agio, ancora dopo sette anni abbondanti. Capita, però, che trovi alcuni suoi lavori, per me fondamentali (di partenza e di bilancio) sempre più spesso divulgati e riprodotti con trascuratezza, sciatteria o refusi che mi addolorano. Girano certamente, sono visitati, consultati, studiati e suscitano interessi, curiosità impensate. Mi disturba la frettolosità e la sciatteria con cui vengono licenziati, per gli oceani della rete, con la sua firma. Allora mi torna in mente la sua meticolosità nella raccolta delle voci consultate. Le sue traduzioni, citazioni, osservazioni, chiose, richiami, tutte ordinatamente riportate in bibliografia e guardo quelle circolanti oggigiorno. Penso proverebbe lo stesso fastidio che procura uno stridio di coltello che scivola all’incontrario sul piatto. Ecco, trovo la sua bibliografia – la bussola di chi legge per ripercorrere i tragitti dell’Autore – sinistrata consunta, smozzicata, ridotta di livello. Le voci danneggiate, incomplete e altre brutture ineleganti che non onorano il maestro. Le ho, con infinita pazienza, restaurate, messe a posto, prima di tutto per me.

Un tempo, prima di consegnare un “lavoro” in tipografia, bisognava avere il visto del Direttore (Cerletti o Gozzano, ai miei tempi) e doveva essere chiaro da quale scuola uscisse la pubblicazione. Mi s’è affacciata una malinconica nostalgia mentre, tenendo tra le dita “un estratto” di Bruno, (questo, come tutti gli altri), guardavo i 4 classici sunti del contenuto nelle 4 lingue scientifiche – Riassunto, Resumé, Summary, Zusammenfassung – eliminate spesso per brevità di spazio o peggio, perchè ritenute inutili. Così l’opera originale scompare e il testo che circola, a mio avviso, finisce col recare un pizzico di profanazione alla figura del Maestro.

Insomma, in questo Natale 2019, son giunto alla conclusione che i “classici” di Callieri, troppo divulgati, abbiano bisogno di essere restaurati per una rilettura, sempre utile e attuale. Un’altra osservazione che ho potuto fare era il suo ecumenismo. Molti sono i saggi firmati a 2 a 3 autori. Bruno era sempre disponibile a studiare, a lavorare, scrivere saggi con chiunque glielo avesse chiesto. Sovente era lui stesso a proporre di approfondire un argomento nuovo. Non ebbe mai a manifestare gelosie o riserve per i copyright. Spesso il maestro era il socius di altri maestri o giovani allievi. Luigi Frighi, Giovanni De Vincentis, Antonio Castellani, Fiorella Felici, Renato Giorda, Aldo Masullo, Romolo Priori, Simone tanto per buttar lì qualche nome di coppia celebre.

La sua presenza era quella di un predicatore, un narratore, un affabulatore preciso, attento, documentato, colto, paziente. Sempre colmo di buone letture, le più disparate, pieno di buone domande, inquieto raccoglitor di dubbi. Mi comparve, per la prima volta, fin dai tempi che salivamo insieme sulla “Circolare esterna” per andare al Viale dell’Università 30. Uno studioso sempre in bilico tra naturalismo e umanismo, tra natura e cultura, tra bios ed eidos, tra materia e spirito. Tra la tekne come perizia artigianale acquisita col saper fare, l’empiria e la conoscenza scientifica, ossia la teoresi speculativa. Dalla sua persona promanava una cultura universale di ampio respiro. Non solo e non tanto, una conoscenza profonda della letteratura specifica che è appartenuta a ciò che un tempo fu l’insegnamento specialistico di “Clinica delle Malattie Nervose e Mentali”, quello che hanno fatto i più anziani tra noi, anche un po’ pensando a Sigmund Freud. Una specialità globale, che durò, fino alla separazione in due discipline distinte: Neurologia e Psichiatria [01]. Il taglio del nodo gordiano voluto da Carlo Lorenzo Cazzullo nel 1976. Il “Cavour della psichiatria”, come molto acutamente lo ha definito Romolo Rossi nel suo splendido articolo per Pol.It. Storia della Psicoterapia in Liguria nel XX Secolo. (12 novembre, 2018).


 

Bruno Callieri, lo rammento come presenza fisica, come ascoltatore curioso e interessato, magari giù in fondo, nell’angolo di una sala di conferenze, o in una libreria per la vernice di un testo, appena entrato a dare un’occhiata. Se c’ero anch’io, lo avevo preceduto di poco ed è segno che l’argomento doveva valere la pena se aveva interessato entrambi. Lo ricordo, Bruno, sempre intento ad arrotolarsi il cellophane dei pacchetti di sigarette. Allentava così la tensione muscolare per concentrarsi sull’ascolto e far fluire meglio il pensiero conseguente. Ecco che subito mi torna alla mente, per associazione, il registra Pietro Sharoff (1886-1969), che fu mio maestro di teatro, quando ci raccontava del clima quasi sacrale che regnava al “Teatro D’arte” di Mosca di Stanislawskij e Dancenko. Gli inventori del “Sistema” omonimo, ossia l’applicazione diretta del naturalismo psicologico alla recitazione. Il grande attore Vasilij Ivanovič Kačalov (1875-1948), alle prove – diceva Sharoff – per concentrarsi più efficacemente nel monologo shakespeariano dell’essere o non essere, doveva scarabocchiare geroglifici su un foglio di carta bianca.

 

C’è un pensiero generale di Bruno Callieri che mi pare di avere ascoltato da sempre. La sua indagine sull’attenzione, l’attesa, la tensione, l’ascolto totale dell’alterità che vogliamo incontrare, e l’intenzione con cui fenomenologicamente ci proponiamo di essere-con, cum-esse. Anche Eugenio Borgna – un altro grande maestro della psichiatria gentile, quella fenomenologica – racconta l’attesa e il suo naturale corollario che è la speranza. Nel suo testo L'attesa e la speranza (Feltrinelli Editore Milano 2005), per esempio, ce ne parla con le parole basilari, semplici, dirette, del pensiero fenomenologico. Ai fatti, alle cose che racconta, gli dà senso, ce le fa comprendere, ne accende i più riposti anfratti dell’umano sentire. Ma c’è qualcosa di più, che gli antichi autori non dicevano od omettevano di dire per distinguersi dal pensiero psicoanalitico, ed è l’azione terapeutica. Quella che si è andata configurando più propriamente, come disciplina del prendersi cura (anche socialmente) della persona malata. Non solo, ma anche del contesto in cui si è diffuso il disagio, la sofferenza, il danno che abbiamo potuto evidenziare dalla narrazione angosciata, dall’ascolto anamnestico e dalla descrizione psicopatologica. Il libro di Eugenio Borgna di cui s’è detto sopra, specie nell’ultima parte, racchiude l’insieme delle riflessioni e delle esperienze che confluiscono nella psicoterapia. È proprio questa la dimensione ideale, in attesa che la speranza diventi una componente essenziale del dialogo tra chi cura e chi è curato.

Bruno Callieri, nella sua sterminata produzione di saggi, libri, voci enciclopediche, collaborazioni a riviste italiane e straniere, da buon fenomenologo, puntava i riflettori – l’obiettivo del microscopio o quello della cinepresa, ma anche l’occhio di bue delle ribalte teatrali, fate voi – su quelli che fin dall’inizio erano stati tre momenti costitutivi dell’esistenza: quello dell’attesa, quello dell’osservazione e quello della riflessione. Diciamo pure le sue “inquietudini” primigenie. Sempre attento ai meccanismi dell’intersoggettività e a tutti i possibili intrecci che formano il ribollir fluente dell’esistenza, lo scorrere eracliteo della vita.

Il testo riportato qui sotto è una riflessione fondamentale, di Bruno Callieri, ripetuta più volte, sulla coscienza, sulla vigilanza, sull’attenzione, sull’intenzionalità. Essa parte dal primo incontro coll’alterità malata, che occorre quotidianamente al medico, nell’ambito clinico, ma anche extra-clinico. Bruno vuole esplorare (spiegar-si e spiegar-ci) cosa esattamente dobbiamo intendere quando stendiamo il protocollo che certifica, documeta la “visitazione” e testimonia la fisicità dell’incontro semeiologico. “Vigile, cosciente, lucido, orientato nel tempo, spazio, cose, persone, riferisce correttamente la propria anamnesi, decubito indifferente, ecc”. Così di solito scriviamo, ed è l’inizio. Poi cominciano i ragionamenti per l’indirizzo diagnostico. Infine viene l’epicrisi.

Che io sappia, di queste pubblicazioni specifiche di Bruno, sull’attenzione e la coscienza, sulla presenza e l’intenzione, sulla corporeità, il vissuto e via dicendo, ne dovrebbero esistere due o tre. Io ne possiedo due che uso come libri sacri, interscambiabili [02]. Li consulto, quando mi prende qualche dubbio su questo tema … anzi da questa leopardiana siepe infinita che … che da tanta parte / Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude… Dubbi sul pensare e l’agire che non ci sarebbero, se mancasse il corpo e tutto l’armamentario anatomo-neuro-fisio-psico-patologico; dubbi che non avrebbero alcun senso neppure disgiunti da un pensiero, quello filosofico per eccellenza. E i primi scienziati naturalisti (quelli del principio di tutte le cose), qui da noi, in occidente, i presocratici, lo furono, filosofi e medici, oltre che sapienti.

Bruno Callieri non aveva problemi a confezionare sugli stessi temi, vestendoli però con un abito nuovo per interessare e raggiungere il maggior numero di lettori, a chi glielo avesse chiesto, in occasione delle sue lezioni e conferenze. Repetita juvant.

Mi vien qui subito alla mente un altro maestro. Romolo Rossi, quand’era giovane Assistente della clinica genovese di Cornelio Fazio e allievo di Franco Giberti. Come tutti, partecipava ai “Lunedì di Fazio” nei quali il Direttore «invitava a parlare personaggi fra cui c'erano neurologi, neurofisiologi… e anche degli psichiatri, io ne ricordo alcuni» [03]. Tutti i giovani erano tenuti a fare domande per dimostrare la preparazione della “Scuola” e Romolo Rossi ebbe l’ardire di alzarsi nell’emiciclo per dire all’indirizzo del maestro di Conegliano Veneto, con un coraggioso timore reverenziale «Mi pare che questa antropofenomenologia sia un po' tautologica». E invece Cargnello rispose entusiasta: «Lei ha capito! Noi procediamo per tautologia, noi diciamo in altro modo le stesse cose in modo che le cose possano essere comprese meglio». Rossi ricorda Cargnello per essere stato «uno dei personaggi fondamentali della psichiatria antropofenomenologica, ma direi della psichiatria italiana sul piano culturale.

 

Dei due/tre estratti che possiedo (seppelliti nel ben noto scatolone), ho scelto di trascrivere qui di seguito il testo più recente (2006) «Per un’inquieta fenomenologia dell’attenzione», rispetto a quelli più antichi (1997-1998), presumendo che sia il più aggiornato dall’Autore medesimo, mentre ho pensato di riunire nella bibliografia le “voci” di tutti gli aggiornamenti. Quello che troneggia è l’ammonimento in esergo: «La filosofia fenomenologica è un indizio prezioso per la natura della coscienza». Asserzione firmata da Erwin Straus, Maurice Natanson, Henri Ey a chiusura di prefazione di un’opera imponente: Psichiatria e filosofia.
 

Inquieta fenomenologia dell’attenzione

The phenomenological philosophy is a precious

clue to the nature of consciousness.

E. Straus, M. Natanson, Ey H.

Psychiatry and Philosophy.

Springer, 1969, New York, pag. IX

 

Parliamo di attenzione come di quella funzione che mette a fuoco e indirizza l’attività mentale cosciente verso determinati oggetti, azioni, scopi, in un arco temporale breve, come un’attività prevalentemente intenzionata; ad essa inerisce la capacità di mantenersi, per un tempo non brevissimo, a livelli di tensione, legati all’affettività, all’interesse, alla volontà.

In tal senso possiamo dire che l’ampio spettro dei processi di attenzione può pressoché coincidere con quello dei processi di coscienza.

È opportuno premettere, in termini del tutto sommari, le linee di uno sviluppo, ormai ultrasecolare, di indagini a diversi livelli, sperimentali e teoretici, multidisciplinari e anche culturalmente diversificati, tenendo anche presente che per chi scrive è pressoché impossibile prescindere dalla propria cinquantennale esperienza clinica di neurologo e di psichiatra, ospedaliero e universitario, di ambulatorio e di corsia.

Alla fine del secolo scorso e secondo le migliori impostazioni teoretiche dell’epoca (basti pensare a Wernicke e a Wundt) l’attenzione era considerata come una funzione autonoma, distinguibile e separabile dal resto dell’attività psichica: James, Ribot e, appunto, Wundt furono i più noti e qualificati sostenitori di un tal modo di concepire. Ma ben presto non pochi furono gli autori che cominciarono a criticare questo indirizzo ed a scorgerne i pesanti limiti. Si giunse, su questa linea, a contestare l’esistenza dell’attenzione in quanto tale, cioè come una “funzione” isolata ed isolabile nel vasto ambito del flusso psichico, e a sostenere invece, come oggi fa la maggior parte degli psicologi, l’assunto, che essa sottenda una condizione energetica generale concernente tutta la personalità. Ciò, del resto, era già stato ampiamente identificato da Edmund Husserl nel 1925 in quell’opus magnum che è stato e che continua tuttora ad essere la “Psicologia fenomenologica”.

Un compromesso fra queste due tendenze è rappresentato da Piéron il quale, come è ben noto, affermava che la nozione di attenzione è molto utile perché facilita la comprensione di alcune modalità del funzionamento mentale. Ciò veniva del pari sostenuto, con dovizia di dati, da Gemelli, da Zunini, da Baudin, psicologi fra i più eminenti degli anni Quaranta.

Mi pare opportuno ricordare qui sommariamente le vicende del concetto di attenzione, che seguono strettamente l’evoluzione della cultura e della mentalità dei passati decenni, specie degli ultimi cinquant’anni. Le dimensioni di accesso ad uno studio abbastanza specificato dell’attenzione sono parecchie; ne ricordo alcune, seguendo le precise indicazioni di E. G. Boring (1970): l’equazione personale, cioè il ruolo delle variazioni individuali nell’aspettativa e come questa influenzi la velocità di reazione; l’indagine psicofisiologica dei tempi di reazione; la discriminazione dei tempi di reazione alla presentazione di due stimoli sincroni provenienti da diverse modalità sensoriali; l’estensione dell’attenzione (il cosiddetto “span”) [04]; il grado dell’attenzione, cioè la sua intensità, la sua tensione; la capacità di concentrazione, cioè la messa a fuoco e il centraggio dell’attenzione; la durata dell’attenzione; l’attenzione e il cosiddetto “arousal” dell’attenzione (il livello di vigilanza); la tensione; l’attivazione e l’attenzione come set. Questa dimensione e direttiva di indagine è ricchissima, specie per quanto riguarda gli studi sperimentali nell’ambito della psicopatologia della schizofrenia (ad es., fra i primi, Garmezy).

Accanto a questi fecondi ambiti della ricerca psicologica, anche ampiamente sperimentale, è stato sempre presente quell’indirizzo di studio più propriamente fenomenologico che vede nell’attenzione soprattutto un grado dell’attività della coscienza, un livello estremamente vario e multiforme della sua estensione e della sua chiarezza. In tal senso potrebbe dirsi che il problema psicologico dell’attenzione è destinato a dispiegarsi e risolversi tutto nell’ambito della coscienza, in rapporto alle sue oscillazioni di livello, dal sonno allo stato di veglia, dalla confusione all’iperlucidità, dalla sonnolenza alla crepuscolarità, dalla coscienza onirica alla coscienza oniroide, dalla perdita della messa a fuoco al restringimento del campo, come in alcune epilessie temporali, in certi stati psicotossici, in certe esaltazioni fissate, in stati iniziali di decadimento cognitivo, in alcune oligofrenie, in molte psicoastenie, in molte sindromi ossessive, in vari stati passionali (qui, indimenticabili, Jaspers e Zutt, i due grandi studiosi della struttura polare della coscienza e della sua psicopatologia) e in molte sindromi psicotiche difettuali.

Altri indirizzi, più recentemente, hanno sottolineato l’intimo rapporto fra attenzione ed emozione (la paticità dell’attenzione – cfr. A. Masullo), fra attenzione primaria (teorie conative), fra attenzione e determinanti di gruppo (la nota “social perception” di Bruner e Postman, ben studiata da Renzo Canestrari). Si sottolinea dunque la componente essenziale dell’atto di coscienza come esigenza di attività e di sforzo, e come funzione selettiva, sia spontanea che volontaria (Parasurman). A me pare necessario distinguere qui tre momenti costituenti: quello dell’attesa, quello dell’osservazione e quello della riflessione.

Nell’attenzione aspettante (Callieri 1981), l’individuo si prepara all’azione, la quale è sempre subordinata al verificarsi di certe condizioni attese (ad es. il cacciatore che attende al varco lo spuntare improvviso e fugace della lepre).

Nell’attenzione osservante il soggetto non prende parte alla vicenda ma la segue con interesse, è uno spettatore in toto, nessun particolare gli sfugge, la sua capacità di “cogliere” (la sua Auffassung) è piena; riesce a mantenere a fuoco la scena anche a lungo, pur se con qualche oscillazione. Qui il livello dell’interesse si rivela essenziale, e le motivazioni sono determinanti. Quest’ambito ci permette di intendere bene anche il significato modale dell’attenzione oscillante (ad es. negli stati di perplessità, di titubanza, di intensa stanchezza, di leggero assopimento) e di quella di mantenimento (ad es. nella guida di un automezzo in un lungo rettilineo poco trafficato).

L’attenzione riflettente (ne parlerò più estesamente oltre) si esercita su di un oggetto appartenente all’esperienza interiore, oggetto verso cui si tende come verso un fine, oggetto su cui si concentra appieno l’attività mentale: ad es. nel training autogeno, nella meditazione trascendentale, nella soluzione di un problema di matematica, di una questione filosofica, nell’esporre in pubblico un proprio pensiero in fieri, nell’esercizio ascetico e in varie dimensioni contemplative.

Numerose prove consentono di affermare che l’essere attenti rende più consapevoli, dà maggiore chiarezza e vivacità ai vari stati mentali, proprio per l’attenzione della “capacità di concentrazione”. È quel che si denomina attenzione conativa (mirabile la descrizione fenomenologica di Jaspers) che permette di sostenere al di là di ogni dubbio, l’idea del rapporto diretto fra attenzione e gradi di coscienza. Vanno con lui individuati tre elementi affini ivi coesistenti, che rendono il concetto di attenzione così avvincentemente articolato:

1) il sentimento di rivolgere attivamente la propria mente o intenzione ad un determinato oggetto od argomento (das Erlebnis des Sichinwendens) oppure quello passivo di esserne attratto;

2) la chiarezza e la vivacità dei contenuti di coscienza, con le loro risonanze a volte esattamente prevedibili e a volte inattese e misteriose (a meno di non ricorrere alla teoresi interpretativa psicoanalitica sul timismo globalmente inteso);

3) gli effetti dei due primi elementi sul decorso dei processi psichici, sia cognitivi che affettivi e volitivi. Ad es. la facilitazione delle azioni verso un senso ben determinato, sia pure di volta in volta mutevole e financo labile.

In base alla distinzione jaspersiana si può rilevare che il primo elemento possiede un’impronta fenomenologia in senso stretto, cioè subiettivo e accessibile soltanto all’introspezione (che è poi il carattere basico dell’intenzionalità), mentre il secondo si identifica agevolmente con le caratteristiche del livello più elevato di coscienza (che, secondo Neuchterlein, mancherebbe negli schizofrenici), cioè la consapevolezza psicocritica (la Besinnung di Störring); il terzo elemento, infine è quello che permette lo studio dell’attenzione, anche quello più obiettivo e obiettivante.

Seguendo ancor oggi il validissimo insegnamento di Piéron (1955), mi preme qui sottolineare che l’attenzione eleva la rapidità e l’intensità dei processi psichici (ricordo il vecchio tachistoscopio), ma anche che spesso questo aumento comporta una diminuzione delle forme di attività non focalizzate. Jaspers insiste sull’approfondimento dello studio dell’attenzione spontanea (o riflessa) e di quella conativa o volontaria; ma qui va ricordata anche l’importanza dell’attenzione coatta, coercitiva ab intus, come si osserva in molta patologia neuropsichiatrica, che va da certe sequele post-encefalitiche all’assoluta precisione di molti cerimoniali ossessivi. Però va aggiunto subito che l’attenzione conativa può esser vissuta soggettivamente come uno sforzo penoso, mirante ad interessi non immediati ma lontani nel progetto e nel tempo. La sua motivazione psicologica e il gioco delle energie contrastanti sono le stesse di quelle dei processi volitivi in genere. Ciò rinvierebbe ad un discorso molto gravido di conseguenze pratiche circa la volontà (si pensi alla “capacità di intendere e volere” o alla discretio judicii del Diritto Canonico) e alla sua eventuale autonomia psicologica (oggi piuttosto discutibile dopo gli studi importanti di Hans Thomac sulla dinamica della decisione).

Non posso qui non rinviare ogni psicologico e ogni psicopatologico all’opus magnum di P. Fraisse e J. Piaget (1967-75, in nove volumi) dedicato allo studio delle condizioni psicologiche che accendono e sollecitano l’attenzione in modo esagerato ed esasperato su determinate rappresentazioni o idee, anche tangenziali (paraprosessie? [05]), per es. nei fobici, negli ossessivi, in alcuni paranoici stenici e in non poche emergenze caratteriali di sospettosità, gelosia, ripetitività, cerimoniali o rituali.

Opposte a queste condizioni di iperprosessia si situerebbero le aprosessie, [06] cioè tutte quelle condizioni di eclissi dell’attenzione, di disattenzione. Qui ci si apre il vasto campo clinico che si osserva, in corsia e in ambulatorio, nei pre-frontali, nei maniacali, in certi oligofrenici, in non poche sindromi demielinizzanti, nell’alcoolismo cronico, in certi stadi delle tossicomanie e dell’AIDS, in molte sifilidi terziarie, in processi cerebrosclerotici e, soprattutto, nei processi cerebro-atrofici, nel morbo di Pick, in quello di Bonhoeffer e soprattutto nell’AlzheimerPerusini e nei suoi sottotipi. Qui è possibile studiare non solo la neurobiologia dell’attenzione ma anche la sua fenomenica e la sua fenomenologia (si pensi alla malattia di Maurice Ravel [07] e alla documentazione che ci è ampiamente nota); dalla distraibilità alla carenza di intenzionalità, dall’inconsistenza progettuale alla frammentazione dell’atto e alla sua perdita di pregnanza significante nonché all’emergenza di comportamenti di traverso (il vorbeihandeln), a volte pallidamente e malamente giustificati dall’“esser sopra-pensiero”, dal senso di sentirsi “svagati”, inconcludenti, automatizzati, depersonalizzati, derealizzati; si è davvero assorti in un vuoto tanto più penoso ad osservarsi quanto meno avvertito, che scorre nell’indifferenza sospesa di chi non è più capace di accorgersi nemmeno della propria disattenzione, di chi è facile preda di bombardamenti di stimoli indiscriminati e del tutto non selezionati, passivamente recepiti o stordidamente raccolti in un insuperabile o insormontabile “indesertimento” (la “Verödung”) interiore, o in un frastuono continuo che cancella ogni individuazione di stimoli significativi (Callieri 2001, de Martino 1977).

Ancor più ricco, per la mia esperienza clinica, è il mondo ipoprosessico [08]; mondo di certo più ricco difficilmente individuabile, mondo di grande rilievo fenomenologico, così come di grande rilievo è l’infinita gamma delle modalità della “stretta di mano” e della modalità dell’“orizzonte” (Kees van Peursen, 1954): mondo di massicci “adombramenti” (le husserliane Abschattungen), coglibili solo con la più grande “attenzione” clinica, attenzione che poi è sempre indissolubilmente legata alla spinta affettiva (Masullo), all’animus, a un orizzonte timico delicatamente oscillante o tempestosamente agitato, attenzione ancorata all’intenzione decifrativa, che in un feedback sempre ricostituentesi, anima l’agire e il sentire umani. L’ipoprosessia, di base, di accompagno, di conseguenza, può anche essere profondamente inibente (quasi sempre direi castrante) in quanto costituisce la formazione di uno stato di impotenza nel fissare qualunque cosa all’infuori di un cerchio ristretto di idee (ad es. nell’ideazione prevalente) o di uno stato vago di obnubilamento (ad es. nell’intossicazione da CO o nella sindrome di Korsakow), oppure di psicoastenia (alla Janet), di anemia dell’atto psichico, di doloroso ma vago senso di impotenza penetrativa nel tessuto e nello spessore delle cose, delle stanze mondane, delle cose del “mondo della vita”, dei “noemata” (in stretto senso husserliano) [09].

Accanto a questo ampio territorio, noto ancora solo in piccola parte, va poi ricordato il territorio (quasi del tutto ignoto) dell’iperprosessia, cioè dell’iperlucidità, dell’abnorme chiarezza della coscienza, dell’illuminazione schizofrenica, che conduce ad un’esasperazione dell’attenzione, affilata, tagliente, millimetrica, instancabile, martellante, incessante, come si osserva in molti ossessivi o anancastici, in molte condizioni parapsicologiche e pseudomistiche, di visionari, di immaginali (attenzione esasperata per suoni, luci, odori, toccamenti), anche con grande capacità creativa (vedasi al proposito il fertile convegno della Soc. Italiana di Psich. del febbraio 1995 a Folgaria, Trento, su “Creatività, psicopatologia, arte”) oppure per alcuni particolari interessantissimi deliri somato-parafrenici, per es. il delirio dermatozoico di Ekbom, con sinestesie opto aptiche (Callieri e Priori), per le polarizzazioni paranoidi sulle incessanti voci sussurrate, ascoltate e còlte con estrema attenzione, attenzione inesauribile impastata di curiosità, di paura, di attonita sorpresa, in un’atmosfera di animo sospeso, di angoscia penosa, di Karfreitag o Venerdì Santo, di “fine del mondo”, di “stato d’assedio”, di giudizio finale, di “mutamento pauroso” (cfr. Coppola, Wetzel), in cui ogni minuto e casuale contorno diviene pareidolia e viene a catturare l’attenzione per una pregnanza di significati che coinvolge in toto e sconvolge alle radici il patiens.

Ma si deve porre mente anche all’iperprosessia del grande esploratore, dell’appassionato cacciatore, dell’avventuroso subacqueo, del temerario esploratore dello spirito, astronomo degli abissi insondabili dell’animo e delle forze che lo costituiscono, attento entomologo proustiano delle relazioni interpersonali, dal sesso alle più sottili e delicate increspature del pensiero (Perniola).

Ma per me psichiatra clinico di trincea il termine iperprosessia richiama soprattutto l’ineffabile incontro con gli stati di eccitamento maniacale, in cui esiste un indicibile aumento e, nello stesso tempo, una particolare labilità dell’attenzione, una distraibilità che riesce sempre a sorprenderci, anche dopo decenni di consuetudine clinica, per le sue inesauribili modalità di manifestarsi, in quel caleidoscopio che è la fuga delle idee, nel suo vorticoso incessante muoversi. Qui non è più possibile il posarsi dell’attenzione, il suo soffermarsi accanto alle suggestioni cosali: tutto è risucchiato dalla vertigine dell’instabilità, della mutevolezza, della fuggevolezza, dell’imprevedibilità, del volatilizzarsi, del rapido trascorrere da un orizzonte ad un altro, del dissolversi della attualità fino ad un’insalata di impressioni, di idee appena emergenti e subito dissolventisi, fino ad associazioni per assonanza da cui ogni attenzione è disancorata; ogni moto attentivo è vanificato e si dissolve, in una vera “destrudo” (come direbbe lo Jung alchemico).

In questo esteso campo psichiatrico, dove è necessaria sempre “la messa fra parentesi” (l’husserliana epoché) se vogliamo non illuderci di spiegare, domina come chiave ermeneutica (empatica?) la carica affettiva, la paticità, l’investimento libidico, l’ombra lunga dell’archetipo junghiano. Ma qui è d’obbligo riproporre la grande lezione neurofisiologica, questa ineludibile lettura neurobiologica del deficit attentivo, delle inconcludenti iperprosessie, così presenti e diffuse nei bambini iperattivi (Mannuzza, 1993), dove è assolutamente necessario ricordare, per la loro importanza neuropsicogenetica, i meccanismi soppressori, oggi particolarmente studiati a proposito della regolazione dell’attività corticale (ad es. l’epilessia) e perché è possibile scorgere in essi una delle basi neurofisiologiche dell’attenzione. In verità le così dette “aree soppressorie” sono regioni circoscritte della corteccia cerebrale, per es. il gyrus cinguli, l’eccitazione provoca inibizione (soppressione) di un’attività motoria contemporaneamente avviata altrove da uno stimolo, ed una successiva inibizione dell’attività elettrica spontanea della corteccia. L’ipotesi dell’esistenza di queste regioni e dei loro effetti si deve a Dusser de Barenne (1941), ma soprattutto a W. S. McCulloch (1944); diffusamente ne tratta Granone nel suo notissimo Trattato di Ipnosi, del 1989.

Accanto e prima dell’inquadramento del processo attentivo nell’ambito della psicologia cognitiva e delle attuali conoscenze cibernetiche (cfr. particolarmente, per l’attenzione selettiva, Ceccato, Broadbent e soprattutto Richard Jung) va ricordato il pensiero anticipante di Freud (in vol. 1°, Boringhieri , 1977), che descriveva l’attenzione come la risultante di una serie di circuiti situati gerarchicamente fra la percezione e l’idea del desiderio (anzi l’idea del desiderio di aver desideri): la differenza tensionale fra queste due componenti dà origine al processo di pensiero e alla catexi (investimento) attentiva. Conclude dunque Freud che una sensazione diventa cosciente solo attraverso l’intervento dell’attenzione. Cose importanti hanno qui detto anche Moray (1969) e poi Mostofsky (1970). Ben più recentemente Silvio Ceccato, muovendo da una teoresi cibernetica, giunge a dire la stessa cosa quando afferma che alla base del pensiero vanno posti i meccanismi dell’attenzione. Più recentemente da alcuni ricercatori si propone di intendere l’attenzione come un comportamento in atto ogni qual volta compare una discrepanza fra un’informazione attuale e un precedente modello di orientamento. In definitiva possiamo oggi dire che la sperimentazione psicofisiologica più recente, pur approfondendo le nostre conoscenze sulle basi fisiologiche e neurali dell’attenzione (Kandell e coll. 1991, pag. 1135), ha rivelato la complessità di questo processo, introducendo però una terminologia che si discosta da quella della psicologia tradizionale, aprendosi invece largamente ad una ripresa del discorso husserliano: tenacità dell’intenzione, vigilanza, attenzione sostenuta, attenzione selettiva (Garmezy, 1977).

Se è indubbia, oggi, la complessità multidimensionale dell’attenzione (attenzione focale, sostenuta, alternata, selettiva, divisa) con la capacità di risposta simultanea a compiti differenti, mi pare importante fermare la nostra attenzione (mi si passi l’antanàclasi [10]) sull’attenzione selettiva, come già intesa tanti anni fa da Broadbent e, più recentemente, da Parasurman e Davies e, soprattutto, da Stefano Pallanti e coll. dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze (1995). Le loro considerazioni, come pure i recenti contributi di Antonio Pinto sulla suggestione in psicoterapia, ci consentono di intendere l’attenzione come un sistema integrante e dinamico, che consente di includere l’attenzione in quel concetto lato di conoscenza che è la consapevolezza di base. Questa è la capacità di sentire che qualcosa sta accadendo, con la possibilità di dirigere questa consapevolezza da un oggetto a un altro (qui si può ben scorgere la concezione husserliana dell’intenzionalità). Ampie sono, in tal ambito, le coincidenze con l’attenzione, sia pure nelle sue continue oscillazioni, come ad esempio si osserva nell’esser attento alla propria attenzione, sia in senso riflesso (nella norma) sia con evidente carattere di disturbo (ad es. psicastenia, perplessità, incertezza, esitazioni, distraibilità di base, obnubilamenti coscienziali neurogeni e psicogeni). Per lo più questa “consapevolezza psicocritica” è presente ma non si impone alla nostra attenzione, è spontanea, naturale, ovvia; e ciò anche nel senso della selettività; non dobbiamo dirigerla momento per momento né essa si lascia dirigere, altrimenti ci diventerebbe di grave impaccio. Siamo abituati a “sentire” quest’attivazione come lo “stato naturale delle cose” piuttosto che come un particolare stato.

Tutte le recenti acquisizioni in campo neurobiologico consentono impensati accostamenti fra neuropsicologia e fenomenologia dell’attenzione. In non pochi soggetti, ad es. in molti stati di eccitamento e negli schizofrenici, verrebbero infatti a presentarsi stimoli provenienti dall’ambiente in maniera troppo rapida per venire elaborati efficientemente senza perdita di informazione o caduta di precisione (si pensi ad es. alla “fuga delle idee”), oppure in maniera troppo rallentata, ad es. nei frontali, nei catatonici, negli stuporosi, negli indementiti, nell’intontimento sognante (la Benommenheit, di Mayer-Gross). È questo appunto il disturbo neuropsicologico che indichiamo come dis-attenzione o dis-trazione. In tal senso sembra farsi sempre più strada oggi l’opinione secondo cui il piano della soggettività nelle disprosessie è maggiormente attinente al piano del disturbo neurofisiologico e neuropsicologico invece che a quello del sintomo clinico o della teoresi metapsicologica (psicoanalitica).

La nostra riflessione a questo punto deve ulteriormente ricevere stimoli da quanto ci è stato e ci viene offerto dagli studi sulla personalità, sui temperamenti e sui vari caratteri. In tutte queste diverse tipologie l’attenzione assume coloriti e modalità, scansioni e timbri molto diversi: si pensi a quanto si può vedere nell’ipertimico, nell’enechetico, nell’ossessivo, nel gliscroide, nell’espansivo, nell’introverso, nell’astenico, nel picnico, nell’attivo, nel contemplativo, nel tipo eidetico di Walter e Erich Jaensch, nello scrupoloso e nell’arruffone (Verwirrer), nell’irrequieto e nel tranquillo, e via dicendo, nell’infinita gamma dei teofrastiani caratteri [11]. Anche i concetti di disposizione costituzionale e di livello affettivo di base (Petrilowitsch, 1958) sono fecondi punti di partenza per ulteriori indagini sulla tipologia fenomenica dell’attenzione, legata a ciò molto intimamente oltre che, naturalmente, al costruirsi della memoria, al costruirsi del suo atto (cfr. Weinschenk).

In tal modo si impone alla nostra attenzione di psicopatologi anche un ulteriore ampliamento di accesso ai “mondi della vita” animati dall’attenzione, come e quali possono darsi nei diversi temperamenti, caratteri, personalità e, soprattutto, nelle diverse disposizioni o intonazioni affettive (Stimmungen) e nei diversi “sentimenti direzionali” (le Gesinnungen, di Alexander Pfänder). Qui va seriamente presa in considerazione anche la maggiore o minore ampiezza dell’ambito di automatizzazione dell’attenzione, con le sue diverse prontezze di reazione e i suoi diversi atti di ordinamento (gli Einordnungsakte, di V. von Gebsattel), anche sociali (ancora molto importante qui l’apporto di Wieck), e i suoi diversi ancoraggi strutturali, sia naturali che culturali. Ed è proprio grazie all’attenzione che, secondo Israel Rosenfield (1994), la memoria può venir considerata non come un archivio di immagini statiche immagazzinate nel cervello ma come un insieme di procedure in continua evoluzione. La capacità di ricordare può dunque coincidere con la possibilità di riprodurre una serie di atti motori, che vengono ricostruiti ad ogni nuova esperienza; e può rappresentare (La Barbera, 1991) la possibilità di conservare la vita trascorsa e di preservare dall’oblio gli eventi che più contribuiscono alla costruzione dell’identità personale e del romanzo storico personale e culturale.

Il mondo delle nostre esperienze circa l’attenzione, dunque, attiene anzitutto ad un’area di transizione neurologica-psicologica e sembra indicare il campo attraverso il quale necessariamente psichiatria clinica e conoscere psicologico dovranno transitare nell’iter del loro progredire o, meglio, del loro incessante ampliarsi di orizzonti sia naturali che culturali. Tale dinamica è ovvia e ineludibile ove si tenga presente, lo ripeto ancora, che l’attenzione è sempre attenzione a qualche cosa, cioè è sempre direzionata, diretta verso qualcosa. Questo dirigersi, come è per la coscienza, è definibile come intenzionalità. Ciò potrebbe anche ben tradursi, in termini neurofisiologici, come “arousal” e come esser vigili, ma… [12]

Anche per l’attenzione va comunque conservato il concetto di fenomeno psichico che intenziona un oggetto, “fenomeno” che può esser sostituito, husserlianamente, dal concetto di “vissuto”. L’attenzione e la cosa da essa messa a fuoco, costituiscono un’unità immediata, Husserl qui avrebbe detto “un’unica, concreta cogitatio”. Il mondo è relativo ad una coscienza che, tramite l’attenzione come suo motus a priori, dà senso alle cose esperite. Va sempre tenuto presente, con Jaspers, che la vita psichica “non è un coacervo di singoli fenomeni isolabili, ma è piuttosto un insieme di relazioni in continuo movimento”, cui è compito dell’attenzione fornire l’accesso: compito sempre vigilantemente inquieto. Nell’atto di attenzione, direbbe il primo Binswanger (1923), io mi rapporto ad un oggetto nella sua singolarità e nella sua articolazione mondana ed ho così la possibilità di percepire, dunque di esistere (seguendo qui dappresso Heidegger, nei Seminari di Zollikon): l’attenzione sorregge e predispone l’affacciarsi dell’individuo al mondo (mondo interno, mondo vissuto, mondo ambiente).

Se vogliamo davvero esperire il mondo e con-prendere, dovremo puranco scorgere nell’attenzione, e nel nostro tentativo di coglierne le modalità del darsi, il peso determinante della cultura fenomenologica. In tal senso l’attenzione entra a far parte, proprio come momento costituente, del mondo della cultura; e anche del mondo psicoterapeutico, sia per far riemergere e dilatare i ricordi e, in generale, la dimensione mnestica, anche quella mnemotiva (di particolare rilievo per gli anziani la “lebenssituative Relewanz”, di Wieck), sia per far apprendere al paziente il riutilizzo della propria attenzione per esercitare l’autocontrollo e per illuminare i recessi più oscuri, nascosti o ignoti della sua coscienza, della sua consapevolezza storica e situazionale (cfr. anche R. Rossi, 1989). Come ben ricorda La Barbera, psicoterapeuta a Palermo, “nonostante si sappia che il materiale mnestico subisca continui rimaneggiamenti in un processo di incessante rielaborazione, possiamo ritenere che l’immenso archivio della memoria contenga una sorta di narrazione coerente e adeguata della storia individuale” (1991). Pilotare questo archivio tramite un’accorta navigazione dell’attenzione, lascia intravedere profondità insondabili, quasi proustiane. Invero in molti orientamenti psicoterapici non solo il ricordare il passato è funzione strutturante del lavoro terapeutico, ma il transfert, l’insight, le resistenze stesse possono esser còlti e compresi a partire dalla capacità attenzionale “diretta”, di far riemergere episodi passati, liberandone le intense emozioni ed elaborandone il significato profondo; si riempie così di significato lo spazio terapeutico, che viene a farsi denso di progettualità.

È proprio a tal fine che, in training psicoterapeutico, andrebbe meglio e più insistentemente focalizzata e richiamata l’attenzione del didatta sull’attenzione qua talis, sulle sue notevoli e spesso insospettate capacità di divenire uno strumento fondamentale per affinare la capacità psicocritica, il livello superiore della coscienza, per aumentare l’intensità e la fecondità del processo di riflessione e poi quello meditativo (Callieri, 1978). In tal senso l’attenzione potrebbe potenziarsi e divenire un prezioso veicolo per l’allargamento del campo di coscienza, anzi per l’acquisizione di nuovi campi di coscienza, come accade anche nei contemplativi (pur se in non molti) di ogni religione. Questo ritorno su se stessi, questa introspezione, è un procedimento di indagine psicologica (forse anche discutibile) ma molto importante, alla cui base c’è un denso e teso processo di attenzione: attenzione alla presa di coscienza dei propri atti di coscienza (ricche ed affascinanti, qui, le “Parole nomadi” di U. Galimberti).

Nell’introspezione il contatto col mondo esterno si riduce al minimo (McGhie, 1969) e tutta l’attenzione si concentra solo sulla vita interiore. Ecco perché coltivare e sviluppare le capacità attentive è un importante compito propedeutico per ogni psicoterapia. La tensione attentiva, peraltro, può divenire patologica nella misura in cui la rottura col mondo reale diviene troppo frequente e troppo importante, per es. negli psicastenici (autoanalisi meticolose e minuziose, specialmente negli scrupolosi e nel campo etico-religioso), negli schizoidi (vita molto introversa e desocializzata), nei sensitivi (analisi degli autoriferimenti, dei sottintesi, delle vaghe allusioni, sottoposte ad accuratissimo vaglio). Alcuni capolavori letterari, alludo a Kierkegaard e ad H.F. Amiel in primis, pur essendo tali, sono sempre al limite di rottura. Anche Proust è qui: “sa méthode – come dice B. Crémieux – est surimpressioniste et introspective”. Si può però ben affermare che nell’introspezione, nell’auto-osservazione, pur condotta con un’attenzione esasperata, si tende a pervenire alla conoscenza di sé, delle proprie modalità di reazione, delle proprie capacità, deficienze, debolezze, forze e limiti. Ma l’autocoscienza è sempre anche coscienza delle cose. E ciò è molto importante nelle tecniche di meditazione, sia spirituali che terapeutiche (Ancilli, 1984, Kornfield, 1994). Lo sforzo costante dell’attenzione è, comunque, pre-requisito fondamentale: dell’attenzione e della concentrazione. Qui dobbiamo però riconoscere un effetto convergente dell’intensa applicazione dell’attenzione, di una forza speciale dell’immaginazione e dell’abitudine (donde l’importanza dell’esercizio, come si ha nel rêve éveillé di Desoille) e di un certo temperamento della personalità di base (eutimico, stenico, poco vulnerabile); si deve avere una marcata disposizione che spinga ad intraprendere, nel rischio, il cammino paradossale di tendere verso ciò che ci oltrepassa, pur consapevoli dell’impossibilità di cancellare ogni riferimento alle cose sensibili e alle loro dimensioni. Molto pregnante è il cammino segnalato da Kornfield (1994). Non si tratta di sterminare il sensibile ma di render possibile l’agostiniano ritorno in sé stessi, con tutta l’attenzione possibile, per penetrare fino al fondo della propria ipseità.

In conclusione, l’ampliamento e l’approfondimento delle nostre conoscenze sui processi attentivi, sia spontanei che provocati e intenzionalmente diretti, ci propone (accanto all’orizzonte della meditatio e della contemplatio) la prospettiva perentoria dello studio degli effetti terapeutici legati al mutuo potenziamento fra cognitivo e affettivo (come sostenuto già nel medioevo dai Cistercensi), e all’inquieta fenomenologia del suo cammino. Ma, oltre a ciò, viene riproposto ai maestri delle psicoterapie occidentali un percorso fecondo di accesso alla conoscenza e al dominio di sé, come avvenne tra i grandi spirituali del Cinque-Seicento, maggiori di noi non per ampiezza di scienza ma per acutezza di visione, non per “acies mentis” ma per “acies cordis”.

 

Note.

01. Sulla G.U. del 15 maggio 1976 è stata pubblicata la LEGGE 29 aprile 1976, n. 238 che così recita: «La tabella XVIII allegata al regio decreto 30 settembre 1938, n. 1652, e' modificata nel senso che l'insegnamento fondamentale di "clinica delle malattie nervose e mentali (semestrale)" e' sostituito dai due insegnamenti fondamentali di "clinica neurologica (semestrale)" e di "clinica psichiatrica (semestrale)". Il numero complessivo degli esami necessari per la ammissione alle prove di laurea in medicina e chirurgia rimane immodificato. Nell'ordinamento didattico universitario e' soppresso l'insegnamento complementare di "psichiatria"».

02. Questi sono i titoli con cui i saggi di Bruno Callieri compaiono, anche sulla rete. «Aspetti fenomenologici dell’attenzione». Rivista “INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 32-33, pagg. 2-15, settembre 1997 aprile 1998, Roma. «Per un’inquieta fenomenologia dell’attenzione». Rivista “Segni e Comprensione”, a. XX n.s., n. 57 (2006). (pp. 13 24).

03. Romolo Rossi in Pol.It. Italia. Storia della Psicoterapia in Liguria nel XX Secolo. 12 novembre, 2018

04. L' Attention span è il tempo che un individuo può restare concentrato senza distrarsi. È chiaro che non può fare contemporaneamente più cose, svolgere più attività o essere bombardato da più stimoli. La capacità di mantenere l'attenzione su un compito può essere talvolta utile per uno scopo.

05. Paraprosessia = polarizzazione ossessiva dell'attenzione su determinate idee o rappresentazioni.

06. Aprosessia = patologica incapacità di conservare l'attenzione, tipica dell’insufficienza mentale e di talune psicosi schizofreniche. Rammento un lontano paziente manicomiale al quale ero particolarmente affezionato per la sua capacità di darmi scacco e rivelare tutta la mia impotenza. Qualunque cosa gli avessi chiesto rispondeva invariabilmente: «Non ci penzo, non ci penzo». Anche quando gli domandavo gentilmente, sedendomi accanto a lui: «Ma Salvatore dimmi almeno il tuo nome … come ti chiami?» La risposta era sempre la stessa.

07. Maurice Ravel, il celebre compositore del famoso “Bolero” dalla ritmica ingravescente, ebbe un ictus nel 1932 a seguito di un grave incidente automobilistico da cui residuò una compromissione dell’emisfero sinistro, quello della mano destra. Studi successivi (Luigi Amaducci, Enrico Grassi e Francois Boller) avrebbero ipotizzato una demenza progressiva o un’afasia di Wernicke a partire dal 1927 ma la ricerca non è terminata e le supposizioni ancora controverse. Un’encefalopatia vascolare post-ictale, con una lesione cortico-basale, si sarebbe aggiunta a partire dal 1932. Ciò influenzò la sua produzione musicale. Gli avrebbe altresì impedito di leggere ed elaborare la musica ma non di dirigerla.

08. Diminuita capacità di stare attenti per calo dell’interesse come nelle depressioni endogene.

09. Semplicemente magistrali queste righe del maestro sulle infinite sfumature del mondo della depressività. Si rammenta solo di sfuggita che qui Callieri utilizza la parola noemata per nozione, concetto, pensiero. Esattamente l’opposto di dato sensibile, impressione, percezione.

10. la più bella antanàclasi appartiene a Pascal: Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît pas.

11. La straordinarietà di Bruno era quella di sorprenderti con le sue trovate didattiche. Riusciva sempre a stare un passo avanti a tutti gli altri docenti. In queste poche righe riesce ad elencarti 15 tipologie caratteriali, dove per enechetico deve intendersi un tintinnio all’orecchio e per gliscroide la vischiosità epilettica. Quanto a Teofrasto, lo scolarca di Ereso succeduto ad Aristotele, la sua opera I Caratteri, che illustra i tratti caricaturali della gente e della tipica vita ateniese della fine del IV secolo a.C., è fin troppo nota perchè se ne dica ulteriormente.

12. Callieri con quel ma e di seguito i puntini sospensivi intende suggerirci che l’arousal neurofisiologico non allude soltanto alla vigilanza ma implica anche il pensare qualcosa.

 

Bibliografia di riferimento (riveduta corretta e completata dei nomi degli A.)

Voci preziose, di una ricerca antica, rinvenibili con difficoltà se non nella lunga coda di questa fulgida cometa ormai secolare che Bruno Callieri ci ha lasciato come ricordo di amore per l’esistenza, l’altro, il sapere.

 

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