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Le ombre di Giano e l’elogio della curiosità (passione per la vita psichica nei DSM)*

10 Gen 19

Di Angelo-Malinconico

La ragione e il maestro

Scriverò di cose “note”. Rivisiterò ancora una volta i luoghi che contengono, e mai acquietano, il mio bordeggiare tra Psiche e Techne, nonché tra la ovattata solitudine dello studio analitico e la vociante promiscuità del servizio pubblico. Stavolta, però, eviterò di  veleggiar di bolina; dichiarerò (forse enfatico, al limite dello ieratico) tutta la mia sofferenza nell’assistere, nelle mie frequentazioni professionali, allo scempio perpetrato sulle vesti di  Psiche e sulla tunica di Eros. Mi sento stimolato, nei toni caldi che utilizzerò, da un numero particolarmente caldo della Rivista. In alcuni passaggi so bene che, come ponendomi su di un ideale crinale, mostrerò il contraltare di uno sdegno etico, oltre all’analisi di stretta marca psicologica. Faccio ammenda, consapevole di dover accettare dal Lettore considerazioni sulla psicologia dello sdegno.

«Tu…tu…la ragione!», recitava con drammatica solennità il maestro ad Alberto. Attonito, questi incassava, interrogativo (poi non più), le sopracciglia aggrottate, l’anima sanguinante per un conflitto che un tempo lo dilaniava (poi non più).

Alberto è un mio paziente con un disturbo schizofrenico. Uno di quei pazienti che ci si affretta, in maniera sbrigativamente dotta, a definire non responders, o discontinui utilizzatori di servizi, ricacciando su di essi i fallimenti dei cosiddetti curanti. In realtà egli è un uomo adulto, senz’altro sofferente, cui il disordine della psicosi non ha impedito di vedere ciò che troppo spesso non riuscivano a vedere coloro i quali avrebbero dovuto prendersene cura. Un uomo che, come tanti altri, ha saputo percepire (ad un livello più o meno inconscio) la schizofrenia di certi servizi quando, attraverso l’azzeramento della curiosità,  mettono in atto un’apologia dell’anti-psichico, o quando celano dietro auto-referenziali e pompose credenziali di formazione un drammatico gioco di disumanizzazione e parcellizzazione della cura. Servizi, in definitiva, che si strutturano attorno a fughe dallo psichico e, di conseguenza, a parodie della presa in carico.

Spesso usiamo raccontare la storia dei pazienti illudendoci di poter illuminare di luce certa la complessità di esistenze particolarmente intricate. Ritengo più attendibile ed onesto riferirsi a facce di un prisma poliedrico e potenzialmente multicolore. E’ per questo che qui faccio cenno esclusivamente a ciò che riguarda il rapporto di Alberto con cure e  curanti incontrati, ponendo l’accento sulla forbice tra i suoi reali bisogni (inascoltati) e le pseudo-risposte di chi risultava pervaso più che altro  da proprie esigenze omeostatiche. A questo tema è collegato quello della  dis-etica elusione del mondo dell’affettività, termine che in questo scritto convenzionalmente interseco con psiche, psichico, mondo interno, legando (appunto convenzionalmente) termini dai contenuti polimorfi, ma che sono concatenati da solidi legacci nella pratica terapeutica, quando essa è attenta, curiosa, rispettosa, partecipativa.

Torniamo quindi ad Alberto. Il disturbo schizofrenico esplode mentre è emigrante, in Germania. Ha contatto con la realtà assistenziale tedesca, poi subito dopo con quella italiana. Incappa, purtroppo per lui, in uno di quei servizi che stigmatizzo in queste mie riflessioni. Alla patologia primaria si aggiunge quella iatrogena: parzialità, monolitiche risposte chimiche a bisogni altri, disinteresse verso  la sua sofferente complessità ed i suoi interrogativi mai decodificati, professionalità divise che si arrabattano a fornire “cure” scisse. La sua giusta diffidenza ( tradotta strumentalmente dai cosiddetti curanti come manifestazione della sua psicopatologia) lo porta a seguire il sano istinto di allontanarsi  da coloro i quali difettano di ciò che realmente egli cerca: materiale magmatico  da condividere, ri-narrazione degli smacchi esistenziali, decodificazione articolata delle dinamiche che sottendevano ai sintomi; e tant’altro ancora, di cui riesce a percepire l’impalpabile possibilità e la contemporanea massiccia negazione, perpretata dai cosiddetti curanti.

Per sua fortuna, pur essendo una “vittima della ragione” (come ci dirà egli stesso più avanti), viene spinto da questa, e da una forte curiosità, ad affidarsi alla cura della/con la psiche, tentando di leggere gli eventi esistenziali e le bizzarre traduzioni che egli ne aveva fornito. Una sana decisione, quindi, di evitare frequentazioni sadico-iatrogene, psico-tanatofiliche; un disperato tentativo di esprimere nello spazio analitico, che pur lo angoscia, la sofferenza per lo psichico negatogli e l’interesse verso di esso. Questo mio contributo si snoderà, quindi, proprio a partire dalle cerimonie funebri cui fu costretto a prender parte Alberto, ed a cui vengono costretti i mille Alberti che frequentano molti dei cosiddetti servizi per la tutela della salute mentale.

In queste mie riflessioni, non intendo contrapporre una cura duale della/con la  psiche ad una cura intesa come assunzione in carico multiprofessionale da parte di un servizio pubblico; tutt’altro: perseguo, nell’avvicinarmi a detto individuo sofferente, un’umile diapedèsi tra professionisti ed istituzioni che hanno un dovere etico ed ineludibile di approntare reti terapeutiche e pluraliste. Mi affido, proprio per parlare di ciò che ho visto, a quel saggio tutore  che è l’esperienza clinica, a quello sguardo condiviso che permette di raccontare un po’ dal di dentro ed un po’ dal di fuori, fruendo di possibilità di verifiche posizionate tra l’etica del racconto ed il progetto terapeutico psicologico. La contrapposizione non è tout-court nella modalità d’approccio, ma nell’interpretazione che se ne dà. In sintesi, l’esperienza che ispira le mie riflessioni può essere così proposta: la crisi della ragione e degli affetti colpisce un individuo, come accade a tanti; egli tenta di affidarsi, ma rinviene una moltitudine di individualità che non funziona come sistema in stretta interazione e, di fatto, minimizza e oscura il ruolo dello psichico, stroncando sul nascere ogni passione verso di esso; allora quest’uomo si defila, alla ricerca di una conferma a proprie intuizioni sull’importanza di una decodificazione che parta dal mondo interno e là lo riconduca; comincia un lavoro analitico, che lo accompagna alla consapevolezza ed alla ricomposizione dell’antinomia interna tra affetti e ragione; sperimenta, così, il riconoscimento ed il conseguente affrancamento (quello possibile) dalla psicopatologia; ha l’opportunità, finalmente, di fruire anche delle parzialità del servizio pubblico, poiché ha conseguito la capacità di non frammentarsi più, nemmeno di fronte a curanti frammentati.

Non propongo alcuna apologia di un percorso presunto-ideale; tutto sommato mi importa poco. Piuttosto cerco di evidenziare, in questo mio scritto, la necessità di un recupero della passione e della curiosità per lo psichico, se si ha l’ardire di occuparsi di disagio mentale, specie quello grave, e di provare sempre a scovare affetti ed emozioni, il loro onnipresente senso, nonché il ricco subbuglio che tale disagio dell’Altro provoca e risveglia in noi curanti.

 

Follie  istituzionali

Le variabili di contesto vengono iterativamente considerate, negli studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quali acclarati fattori predittivi dell’esito delle schizofrenie.

Mi riferisco alla tipologia, quantità e continuità del supporto sociale, alle relazioni familiari ed all’attenzione realmente rivolta ad essa dai servizi, alle ricerche ed agli interventi sullo stigma, alla ormai inevitabile necessità di riempire di contenuti meno fumosi l’abusata espressione “terapie integrate”. Purtroppo tali indicazioni rimangono troppo spesso meri enunciati e… Giano rinuncia a parte delle proprie capacità visive, Dioniso fa capolino con piglio provocatorio, per poi eclissarsi sornione.

Nel titolo cito Giano (in latino “cancello”, “barbacane”); era il dio romano del principio, dei passaggi. E’ raffigurato con due volti (a volte addirittura quattro), che volgono lo sguardo in direzioni opposte, quindi egli beneficia di una visione di tutto lo spazio. La ninfa Carna ingannava i suoi spasimanti, inducendoli ad entrare in una caverna con profferte amorose, ma si dileguava appena lo sguardo del malcapitato era rivolto verso l’ingresso di quella “caverna della curiosità”. Carna tenta tale trucco anche con Giano ma questi, sfruttando le proprie capacità visive, scopre l’inganno  e ne ottiene i favori. Lei, in uno scambio bi-funzionale, chiede di essere preservata da tutti gli incubi della notte.

Leggo tutto il mito nella direzione della reciprocità (sia nella ricchezza che nell’ambiguità e nell’ambivalenza). Carna, manco a dirlo, in-carna curanti che si propongono come ammaliatori, attraverso profferte di cure, per poi dileguarsi sulla soglia dell’incontro, favoriti dalla penombra e dalla visione mono-direzionale. Ma Carna è anche la parte del curato che tenta ed è tentata, per poi svanire attuando chiusure autistiche, se non è accolta e stimolata nella propria latente passione, se non è “scoperta” dallo sguardo appassionato. Quando all’orizzonte si profila un Giano-cliente (o della curiosità carica di passione), si può attivare un sistema polifunzionale e multidimensionale che preserva “dagli incubi della notte”. Ciò avviene solo se Giano-curante tiene sempre vivo il desiderio di utilizzare ogni sguardo possibile.

Dicevo, Dioniso compare sulla scena della cura, per poi scomparire, cacciato come eretico. Tali curanti non comprendono il forte valore comunicativo e terapeutico del gioco, e stazionano in servizi che sanno di focolari spenti; spenti del fuoco della curiosità e di un’interpretazione affettiva e gioiosamente pensante del mestiere di Chirone. Rinunciano, spaventati, ad un eros sano e rispettoso, capace di rendere l’esperienza della cura pervasa di un’atmosfera affettiva e interrogativa.

Accade allora che Eros, bandito nei proclami della tecnica, riesce ad esaltarsi nel lupanare dello scotoma, riconquistando, proprio fruendo del processo di non-visione, l’autentico significato etimologico di “amore carnale” e perdendo tutta la ricchezza dell’amore terapeutico.

L’ombra (l’Ombra) dei servizi si celebra, così, tra difetti tecnici (inadeguata scelta dei criteri di visione e d’illuminazione da parte del sistema curante), e presunti miti rinvianti a povertà di risorse, che impedirebbero l’acquisto di energia illuminante.

Credo non ci sia da meravigliarsi, poi, se  il legislatore, confuso o esaltato, a seconda del proprio assetto (che è sempre  psichico), si senta investito del ruolo di metronomo per un’orchestra che da sola non trova il ritmo e rischia l’auto-dissoluzione. Si aprono così spazi a tecnicismo sfrenato ed a regolamentazione esasperata, consentendo allo stesso legislatore di calare la scure ideologica di scriteriate contro-riforme.

 

Tecniche d’illuminazione

Parlavo, nella premessa, della mia sofferenza; la sofferenza nel vedere male illuminato un oggetto dalle tante sfaccettature, a volte bersagliato da luci aggressive ed abbaglianti, a volte lasciato in un’anonima penombra, altre volte ancora investito da un desolante buio. E quando parlo di oggetto male illuminato, naturalmente non mi riferisco al solo curato ma, principalmente, al cosiddetto sistema curante, pletora affaccendata della/sulla psiche, che sceglie di tenere in penombra il proprio psichico, la propria ferita, a vantaggio di una più rassicurante cura dell’altro. Operazione non da poco, ma…: «Si potrebbe dire senza esagerazione che ogni trattamento destinato a penetrare nel profondo consiste almeno per metà nell’autoesame del terapeuta: egli può infatti sistemare, riordinare nel paziente soltanto quello che riordina in sé. Non è un male che si sente colpito, colto in fallo dal paziente: può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso. Questo e non altro significa il mitologema greco del medico ferito» (1).

Ma Alberto non poteva essere osservato da chi non ha alcuna attitudine ad osservarsi, ad affidarsi a sguardi-altri, ad illuminare. Ai più sembrerà superfluo il ribadirlo, ma le ferite (del sistema curante-curati) vanno bene illuminate, ingrandite, sottoposte ad ispezioni che alternino parcellizzazione a visione d’insieme. Ciò può avvenire esclusivamente affidandosi a supervisioni calde e gravide di costante curiosità. Gli strumenti sono là, riposti in ordine sulle scansie di Ippocrate e di Chirone, della nostra etica e della nostra cultura; è opportuno decidere di farne uso, dopo averne scandagliato i meccanismi.

Mi piace giocare con le metafore; ritengo pertinente e, spero, stimolante, quella delle scienze ottiche.

Occorrono opportuni oculari per microscopia, un sistema di lenti con cui l’occhio osservi l’immagine che proviene dall’obiettivo. L’oculare ingrandisce l’oggetto ed è formato da corpi intercambiabili; determina, così, un continuo aggiustamento della visione, fino a rinvenire quella ottimale. Tale condizione corrisponde al massimo utilizzo della luce ed alla verifica dell’intero campo visivo.

Esiste una forma estremamente semplice di oculare: la lente dell’occhio, formata da un’unica lente convergente, a focale corta…ma questa mi attrae poco, svilisce l’oggetto e inibisce la curiosità.

Naturalmente una modalità articolata d’osservazione richiede un affidamento ai tempi giusti, al fine di  effettuare tutti gli aggiustamenti necessari e possibili, ed il posizionamento alla giusta distanza dall’obiettivo. Occorre, principalmente, come dicevo sopra, una grande curiosità nel voler vedere.

« Soltanto che il terapeuta…, essendo come lui un elemento del processo psichico della cura, è esposto alle stesse influenze trasformatrici. Nella misura in cui il terapeuta si mostra inaccessibile a quest’influsso, è privato del suo influsso sul paziente e, se è influenzato solo inconsciamente, si forma nel campo della sua coscienza una lacuna che gli impedisce di vedere il paziente com’è in realtà. In entrambi i casi, il risultato della cura è compromesso» (2).

E’ forse superfluo rimarcare che l’individualità dell’osservatore non va mortificata; non intendo esaltare uno scivolamento del singolo nell’anonimato del collettivo. La specifica tipologia va rispettata, ma va posta al servizio di un sistema che si proponga come umilmente critico. La comunicazione ed il “guardare assieme” rendono naturalmente  complessa l’osservazione. L’affidamento consapevole al co-osservatore (singolo o sistema in toto) non può che esaltare le capacità visive di chi osserva. Ripensando ad Alberto, l’oggetto chiedeva di essere posto sotto un prisma di deviazione, che interrompesse l’asse ottico del microscopio, inclinandolo fino al punto ritenuto più confortevole. Tale prisma, per essere veramente efficace, deve essere costituito da un sistema più complesso, in grado di sdoppiare l’immagine e di inviarla ad una coppia di oculari, o ancora a telecamere, macchine fotografiche, lavagne luminose. Di fatto, consente l’osservazione condivisa, il gioco dialettico, il ferma-immagini  necessario.

Cos’altro  l’ottica ci può suggerire? Una torretta portaobiettivi. E’ un corpo rotante, a revolver. La forma rotante consente di far ricorso con immediatezza all’obiettivo necessario, operando una semplice rotazione dell’eccentrico; così si riduce la pausa tra le diverse osservazioni. I tempi di ispezione risultano molto dinamici, consentendo rapidi passaggi da un’illuminazione all’altra, oppure riflessive stasi per mettere a fuoco elementi specifici.

Per ottimizzare il campo visivo, l’ideale è porre, in prossimità dell’immagine formata dall’obiettivo, una seconda lente convergente. Tale lente si chiama lente di campo o lente collettiva, in grado di inclinare e convogliare verso l’asse ottico i fasci di luce più periferici, in modo da far imboccare ad essi l’apertura della lente dell’occhio.

Dalle riflessioni psichico-ottiche di cui sopra, derivano due possibilità di concepire la cura ed i curanti (alcuni si ostinano a separare cura e curanti).  Sono volutamente schematiche, antinomiche, per comodità di approfondimento.

Una prima modalità ideologico-operativa: il mondo interno del “tecnico” viene considerato fuori dal processo di cura. La modalità d’osservazione è esterna all’oggetto. Si ritiene che  le risposte ai bisogni non necessitino di decodificazioni che vadano al di là di quanto il paziente mostri ad una prima analisi. Il mondo interno del singolo operatore ed il carico emotivo che aleggia viene così scotomizzato o, peggio, messo consciamente da parte, ritenendo debba essere preservato dagli attacchi della psicosi (del paziente).

La seconda modalità: il processo di cura viene concepito come espressione di un sistema dinamico che, occupandosi di psichico, lo cerca nelle pieghe delle domande espresse ed in quelle intuite, nella interessata attenzione all’affettività sopita, nei polimorfi movimenti interiori attivati dal daimonico della psicosi nel daimonico di ogni componente il sistema curante. Come ci dice Jung: «In tal modo medico e paziente si trovano in un rapporto fondato su una comune incoscienza. È comprensibile che al terapeuta riesca difficile prender coscienza di questa possibilità. Si prova una resistenza naturale ad ammettere di poter essere contagiati proprio nell’ambito più personale da un “qualunque” paziente. Ma quanto più inconsciamente ciò accade, tanto più il medico sarà tentato di assumere verso questo fenomeno un atteggiamento “apotropaico”, di ripulsa: la persona medici dietro la quale ci si cela può essere, o meglio sembra essere, uno strumento eccellente a questo scopo. Inseparabili dalla “persona” sono la routine e quel “sapere preliminare” che fa parte dei requisiti più diffusi  del medico pratico affermato, così come dell’infallibile autorità» (3).

 

Monadismi e onanismi

Durante tutto il periodo d’analisi, si evinceva chiaro dalle parole di Alberto l’economico trincerarsi, da parte  dei tecnici che aveva incontrato, dietro paraventi quali la sua presunta distanza affettiva o la sua discontinuità nel collaborare alle cure (quali?). In realtà  una cosa è l’inibizione-sintomo dello psicotico, altra cosa è una supposta anaffettività, dalla quale scaturirebbe ogni sua impossibilità a relazionarsi. La curiosità del paziente resta viva; anzi è addirittura amplificata dall’angoscia esistenziale, dalle modificazioni della propria  weltanschauung, dal non riconoscersi e non riconoscere coloro che fino a poco tempo prima ne rappresentavano gli appigli relazionali certi. La curiosità è solo da scovare, accompagnare, elicitare con delicatezza ed altrettanta curiosità da parte dei curanti. Come ci ricorda  Gullotta, riferendosi agli studi di Jung di inizio ‘900: «Il rapporto con gli psicotici richiedeva che, quale fondamento della vita psichica, fosse riconosciuta una funzione globale, che penetrasse la vita fin dalle sue radici. Questa funzione era l'affettività, il cui concetto Jung derivò in gran parte da Bleuler. Jung portò alle estreme conseguenze i presupposti freudiani di “affetto”. Il termine “affekt” nell'uso che ne fece Jung, ha delle connotazioni semantiche che investono la totalità del vissuto psicosomatico» (4).

Definirei la psichiatria come scienza che diagnostica e cura l’essere umano sopraffatto dall’immersione  nelle propaggini interpersonali delle strutture familiari e sociali che lo hanno generato e lo contengono. Nei fatti, però, troppo spesso viene eluso ogni possibile profondo campo d’incontro. Il monadismo diventa il pervasivo vissuto nell’équipe, e l’onanismo la sua traduzione in prassi intransitive: l’interpersonale viene semplicisticamente tradotto con la ricerca di una esclusività duale che oscilla tra l’onnipotenza e la fusività.

«Occorre sottolineare che, soprattutto nei servizi pubblici, la consultazione psicologica assume una valenza particolare: essa costituisce un “campo di incontro” (5) tra psicologo e utente, percorso da dinamiche transferali, cui non è estranea l’istituzione in cui entrambi gli attori si trovano, e può diventare per il paziente un’occasione per rappresentarsi, in un setting ricco di sollecitazioni emotive proprio perchè poco strutturato, la sofferenza connessa all’evento traumatico che l’ha indotto a chiedere aiuto, e per trovare in essa un significato condivisibile.» (6).

Se, richiamando la lezione di Jung, scelgo di considerare il delirio psicotico come un’espressione dell’esistenza umana senz’altro dotata di senso, e la terapia della/con la psiche un incontro dialettico tra curante e paziente, non potrà mai risuonarmi “ragionevole” la violenza perpetrata da ascolto-patici servizi per la salute mentale contro la sensibilità percettiva di chi è sprofondato nel buco nero dell’esperienza psicotica. Questi servizi si attivano seguendo una specularità collusiva con la necessità di negazione dello psichico da parte  del paziente grave. Curanti che, anziché attivare un fertile terreno di coltura per chi è terrorizzato dal proprio distruttivo mondo interno, ne interpretano come oscene richieste e bisogni, opponendo conseguenzialmente orecchie sorde. Addirittura si allineano  su posizioni anaffettive, proprio attraverso il non interrogarsi sullo psichico del singolo operatore, sulle relazioni, sul sistema, sulle interrelazioni e sulle vitali interferenze relazionali complesse attivate da quella determinata rete relazionale (e comunque affettiva, malgrado le loro scarne letture). Questo è un punto in cui, come dicevo sopra, etica e psicologia si intersecano e fanno pressanti richieste d’ascolto.

«Se non si tiene conto del contesto, che influenza la relazione sia sul versante dello psicologo che su quello dell’utente, si corre il rischio della collusione, cioè di una complicità che esclude  dall’incontro molti aspetti relazionali inconsci e induce i protagonisti a interagire “come se” fossero, ad esempio, un confessore e il penitente, un maestro e il suo allievo, un padre o una madre onnipotente e/o giudicante e il figlio a lei/lui sottomesso, un medico onnisciente e il paziente che a lui s’affida totalmente.» (7).

Il processo di economizzazione della curiosità è così completato. Il soggetto-paziente viene avvicinato come una monade che, nel determinato momento, reca con sé dei comportamenti (“sintomi”), letti e affrontati come fossero scorporati dalla poliedricità dell’individuo, dell’essere relazionale, calato nella complessità del sistema curante stesso. Ma altrettante monadi risultano coloro i quali si attivano per la “cura”. Infatti, la con-fusione affettiva e  la cosiddetta psico-educazione asettica sono speculari, hanno un comune obiettivo inconscio: il distanziamento da forme coerenti e perpetue di riflessione e di supervisione. La matrice è, naturalmente, la collusione, finalizzata a tenere  nella penombra o nel buio totale meccanismi che poco hanno a che fare con il sano procedere delle cure: identificazioni proiettive, processi sado-masochistici inconsci, solo per citarne due. Come dicevo sopra, l’onanismo è eletto a metodo, e si struttura attorno ad un concetto di “cura” che presume di essere concepito, partorito, allevato nella mente e nella prassi del singolo operatore.

La collusività non analizzata è una sorta di Uroboro che si auto-insemina. Il sistema curante  uroborico, pervaso da collusività, delega, si deresponsabilizza, cede facilmente alla tentazione di esaltare le capacità curative del singolo. Mette in atto un balletto di ruoli che giocano a rimpiattino. Quando il singolo operatore inevitabilmente  fallisce e chiede aiuto, viene espulso, come fosse un eretico, dalla stessa ecclesia che aveva normato in maniera silenziosa un’ideologia della solitudine. Il sistema lo accusa di protagonismo e di onnipotenza, dopo che è stato esso sistema ad aver generato protagonismi ed onnipotenze. Quando, nel corto-circuito innescato, il curante mina l’equilibrio del cosiddetto sistema, quest’ultimo improvvisamente cerca di strutturarsi come tale; comincia ad utilizzare  una gergalità dotta ed accusatoria, di marca anacronisticamente analitica, attribuisce gratificazioni e punizioni; si riferisce, quindi, alle categorie di “buono” e “cattivo”, che sono la negazione di ogni rispettoso avvicinamento al soggetto sofferente, ma anche  allo psichico del curante.

Di fatto viene messa in atto una netta scissione tra ciò che è reale e ciò che è simbolico. Viene completamente negata l’esistenza di un inconscio del sistema, di un inconscio istituzionale. Manca il semplice processo del  pensare gli affetti. Ma il mondo affettivo è un’ipostasi ed entra pesantemente in campo; purtroppo spesso si ritiene che questo mondo sia capace di auto-determinarsi, auto-contenersi, crescere in armonia con gli altri mondi interni incontrati, per chissà quali misteriose autonomie alchimistiche.

E’ indispensabile che coloro che coordinano e/o coloro che hanno più dolorosamente esplorato il proprio inconscio pongano la fondamentale questione della pensabilità (psicofilia) del mondo affettivo, che si offre naturalmente all’auto-osservazione ed alla conseguente etero-osservazione psicodinamica.

I livelli organizzativi e quelli più strettamente psicologici necessitano di un continuo intersecarsi. In ogni istituzione psichiatrica è inaccettabile una separazione netta tra i due livelli, avendo entrambi come oggetto-prodotto-interlocutore l’individuo umano (paziente o curante che sia) col proprio carico emotivo, troppo spesso  debordante ed infettante.

 

La ragione dimezzata e lo psichico ritrovato

Ho circumnavigato solo apparentemente in solitudine attorno a porti tutto sommato da non frequentare; in realtà mi ha accompagnato, sornione e ancora curioso, Alberto. Sento doveroso il gratificarlo (e con lui la coppia analitica), ripercorrendo il breve spazio-tempo dell’ultima seduta d’analisi, il luogo dove fu possibile riaccendere una curiosità carica d’affetti.

Ho scelto di riportare fedelmente la trascrizione, esponendo allo sguardo di chi legge anche le tangenzialità, le bizzarrie, i nuclei incontattati della sua schizofrenia; così non rischio di fornire parzialità, bensì tutta la complessità visibile.

Si presenta puntuale, ben vestito, anche se sommerso da un pesante giaccone, di cui la temperatura atmosferica consentirebbe  di liberarsi.

Alb.: Allora, questa è l'ultima seduta, eh? [batte le mani in segno di "concluso…finito"]… Beh! L'analisi richiede un certo impegno…io ritengo conclusa l'esperienza in senso positivo…e praticamente le elezioni le abbiamo perse, le ha vinte il Polo [ride]; sinceramente non mi sento più parte…sì, un po’ di simpatia…l'Ulivo…io non ci credo al PDS [ride]…non credo al PDS…addirittura credo di aver convertito un compagnone…gli ho chiesto: ma vengono prima le regole o le elezioni? Se tu voti il partito voti pure le regole…chi mi punge muore… Certo…i problemi ci sono…trovo difficoltà a venire in analisi e a lavorare, ma per me ci sono anche grandi conquiste, come non sentire l'ambiente ostile e che mi frammenti; è bello avvertire che possono essere in sintonia, il mio corpo e la mia mente, questo tutto al di là del Sé come un oggetto. Vedo, guardo, sento…questo, quello…un atteggiamento come di fede nei confronti della vita. Quindi rinuncio alla ragione; nel momento in cui ho scelto la fede, rinuncio alla ragione…il mio atteggiamento è di tipo spirituale; automaticamente rinuncio alla ragione. Sto capendo che la capacità di discernimento dell'uomo è una pena per l'uomo stesso. E' come per l'albero del bene e del male per la religione cristiana: nel momento in cui l'uomo ha scelto di capire, ha scelto il dolore. C'era un bel gattone che si rotolava sul marciapiede…era presto per rotolarsi ma si rotolava. Un tempo avevo deciso che avrei studiato, mi sarei sposato, avrei fatto politica. Ma tutto questo è razionale…mi appellavo alla ragione. Come giustamente diceva il Maestro: "tu, la ragione". Ed è quello che mi ha fregato. Lui mi diceva una cosa e ne faceva un'altra. Nella mia situazione sarebbe stato preferibile…Io sono andato a trovarlo spesso, finché è morto. Lui istintivamente mi diceva "tu, tu la ragione”…non era un errore, era bravo; praticamente, però, ammirava l'intelligenza e la ragione. Aveva intuìto, forse…questo errore…non a livello razionale, a livello sensitivo, no sensoriale [ride]. Praticamente una moglie forse non ce l'avrò mai…Dottò, io ho giocato fino ad adesso con la sopravvivenza, per cui questo discorso diventa anche un po’ ridicolo. [ Sta in silenzio, tossisce, guarda l'orologio, è imbarazzato, fa per togliersi la giacca ].

Beh, sì…praticamente…no, ho visto che praticamente…eh…cioè…no, perché ho visto che ormai è quasi finita l'ora…e quindi è inutile che mi tolga la giacca…ma ho un po’ caldo.

Ter.: Beh! Manca un quarto d'ora.

Alb.: Sì, adesso la tolgo…cioè…stamattina ho controllato la pressione delle ruote [ride]…mi sembrava bassa…sì, in effetti; no dottore, le situazioni di disperazione che io ho vissuto nelle fasi acute lei non le ha mai viste …ne ha visto la coda…la coda del serpente [ride] fiù…fiù…una volta l'ho visto…prima era là, poi è sparito, è velocissimo. Infatti dicono che i boa, i pitoni vengono sottovalutati; in realtà sono velocissimi.

Se mi abbandonassi alla ragione e la ragione mi avvinghiasse, che belle cose! Per fortuna che invece c'è l'irrazionalità  che è contro la ragione [ride].

Avessi dato importanza prima al maestro, che poverino è morto…sennò l'ammazzerei io [ride].

Ter.: Il maestro?

Alb.: Mio padre…perché lui, lui è il fautore della ragione. Il mio papà diceva: scrivi, fa la O, la devi fare meglio. Era terribile.

Ter.: In definitiva, questo invito pressante alla ragione cosa avrebbe provocato?

Alb.: Mi ha creato la fuga dalla ragione. Se io non avessi amato troppo la ragione, probabilmente non sarei ammattito.

Ter.: C'è qualcosa che mi sfugge: la follia è arrivata per troppo amore per la ragione e per essere fuggito dalla ragione?

Alb.: Appunto: perché la ragione mi ha…mi aveva costruito troppi impegni, troppi fili…il culmine della ragione è inevitabilmente la follia…quest'è. E' la ragione che fa parte della natura e non il contrario; cioè nell'uomo non può prevalere la ragione, ma la natura. La ragione è una parte della natura…non il contrario. Invece l'uomo cerebrale, nella cultura moderna, fa il contrario…la natura sembra una parte della ragione…è addirittura rovesciata la situazione reale…un assurdo. Altrimenti come si potrebbe spiegare che l'uomo vive a New York: di spazio ce n'è abbastanza. Eppure…vive a New York, su quei grattacieli…e quelli sono potenze ai nostri occhi…incredibile. Tecnica, capacità, certo, ma qui si è confuso…una volta la scienza era una branca della filosofia, nel senso che si partiva dall'uomo e si arrivava alla scienza. Adesso no, è tutto il contrario; si parte dalla scienza  e si arriva all'uomo. L'uomo moderno mi dà l'impressione di un vecchietto che corre appresso ad una donna; quando  questa, raggiunta, gli chiede il perché, lui non sa rispondere. Praticamente l'uomo si è messo in corsa ed ha perso l'obiettivo vero. Questo nostro  rapporto, per fortuna, mi ha riportato nella direzione del cuore…adesso sono spiritoso…riesco a ridere…prima invece…Io ho avuto…sono nato con il riso negato, dalla nascita. Tu, figlio di braccianti, non devi sorridere…mai ! Devi  pensare a studiare, diplomarti, alla promozione sociale. Adesso posso permettermi il riso…ed è un fatto che è venuto da sé, non me lo sono cercato…

Scelgo di non commentare; ho come l’impressione che una qualsivoglia lettura  rischi di delegittimare la ricchezza di un’anima ritrovata, di una contro-apologia che ridà senso, contenuto (e…calore ) allo psichico negato in lustri oscurantisti.

 

Per (non) concludere: le cure  apotropaiche

Da quanto ho raccontato finora, mi sembra si evinca chiaramente che più l’osservatore/curante tende a collocarsi  in solitudine, al di fuori della cura, a distanza, più egli viene centrifugato lontano dalle relazioni e dai “fatti” significativi che vi accadono; e meno sentirà il bisogno di sottoporsi ad ulteriori sguardi-stimoli esterni. Ciò vale per il singolo terapeuta così come per un servizio in toto. Ma vi è più non-ragione in un simile atteggiamento che nella più fantasiosa elucubrazione schizofrenica. Nell’esperienza psicotica, e nell’approccio di cura ad essa, la non-ragione può svolgere una funzione dialettica e creativa, rispetto ad una costruzione di senso, permettendo di cogliere aspetti della condizione umana che l’uomo decide (“ragionevolmente”) di non vedere, allo scopo di conservare (o restaurare) un’illusoria parvenza di equilibrio stabile tra ragione e non-ragione.

Le complesse vicissitudini esistenziali di Alberto espongono alla vista di chi “vuol vedere” delle preziose implicazioni epistemologiche per la psichiatria clinica e sociale, ma anche delle considerazioni pragmatiche e cliniche sulle quali è possibile e necessario interrogarsi.

Orbene il rigetto, da parte dei servizi ascolto-patici, nei confronti di un’esperienza emotiva in cui carni lacerate e scoperte si offrono alla vista senza pudori,  è una drammatica realtà che non è possibile negare. Il dis-incarnare l’esperienza psicotica da un sistema curante che può essere percorso da dinamiche “alienanti” e da assunti di base laceranti espone il paziente, ma anche il curante stesso, al rischio di una cronificazione del disturbo psicotico e ad una psicotizzazione del servizio stesso.

Lo sguardo con cui ci si accosta al disturbo mentale, al di là di ogni fondazione epistemologica e scuola di appartenenza, decide del senso o del non-senso dell’esperienza psicotica, dell’inabissarsi nell’ombra del mondo o del riapparire del paziente alla dialettica dell’incontro terapeutico. Tale sguardo dovrà ragionevolmente essere sguardo sistemico, se vuole garantire una reale capacità di ascolto, di com-prensione e di intervento: l’attenzione rivolta a transfert/contro-transfert/co-transfert, alle esperienze emotive diffuse e/o interpersonali-duali-gruppali, ai derivati della comunicazione dialettica paziente-curante, potrà rivelarsi allora un modo per con-vivere lucidamente con l’esperienza psicotica, nonché un utile strumento di monitoraggio del processo terapeutico intrapreso.

Per Alberto, come preannunciavo all’inizio, non è detto che l’analisi fosse l’unica strada attraverso la quale egli potesse sperimentare l’affrancamento dal male; certamente essa gli ha fornito risposte che un sistema curante scisso non poteva fornirgli. A mio avviso, l’avvicinamento agli abissi attraverso il lavoro analitico ha rappresentato l’unica chance concreta, ma il confronto della complessità della psiche di Alberto con quella dell’analista avrebbe potuto essere sostituito da un sistema curante che, decidendo di osservarsi e di riconoscersi nelle proprie sub-componenti e nelle proprie nuances psicotiche, avrebbe potuto accogliere le proiezioni della schizofrenia, restituirle detossificate…e non farsi distruggere.

In fondo quelle che mi sento di definire non-cure rappresentano tentativi di auto-cura del sistema, attraverso la fuga dallo psichico, quello proprio e quello del paziente.

«Da ogni trattamento psichico efficace ci si deve aspettare che il terapeuta eserciti la sua influenza sul paziente, ma quest’influenza può verificarsi soltanto se il paziente lo influenza a sua volta. Influenzare significa essere influenzati. Non giova affatto a chi cura difendersi dall’influsso del paziente, avvolgendosi in una nube di autorità paternalistico-professionale: così facendo, egli rinuncia a servirsi di un organo essenziale di conoscenza» (8).

Quello di cui sto scrivendo, e a cui allude Jung, lo definisco un assetto terapeutico circolare del sistema curante, che naturalmente è ben diverso dalla circolarità uroborica collusiva. L’attenzione e l’ascolto rivolti al mondo emotivo interno del singolo curante permettono l’in-carnazione consapevole dell’esperienza psicotica nel sistema curante, che non risulterà solo in grado di entrare in empatia con se stesso ma, autenticamente, anche col paziente, acquisendo la consapevolezza di ciò che accade dentro e fuori, tra ragione e non-ragione, tra “normalità” e follia.

Nella rete dei servizi per la tutela della salute mentale, ai transfert multipli provenienti da pazienti e famiglie, corrispondono risposte controtransferali multiple del sistema curante: il transfert psicotico è intenso e può avere un impatto catastrofico sul campo emotivo dell’equipe terapeutica. I curanti potranno sentirsi dispersi, senza risorse, senza ossigeno, disperati, disgregati, di fronte all’azione dissociante della psiche martoriata dalla psicosi nel paziente. L’assenza di ri-flessione in questi casi contribuisce a rendere autonomi gli aggregati di immagini, pensieri, percezioni ed emozioni primitive che l’incontro con la psicosi ha potuto (ri)attivare.

La comunicazione tra curanti e pazienti può subire allora delle gravi distorsioni: i messaggi del sistema curante possono essere di natura contraddittoria, i conflitti intrapsichici e interpersonali interni all’equipe possono generare angoscia e manovre difensive abnormi nei pazienti, contribuendo, a spirale, all’organizzazione e/o al rafforzamento dei nuclei profondi di follia di ognuno.

Emozioni  intollerabili e messaggi in codice, contraddittori e confusivi,  non riconosciuti come circolanti nella dialettica dell’incontro terapeutico, possono essere sperimentati attraverso percezioni inconsce e non realistiche, e dare luogo a comunicazioni psicotiche anche in soggetti non psicotici. «Il medico sa, o almeno dovrebbe sapere, che egli non ha abbracciato la sua professione per caso; in particolare lo psicoterapeuta deve aver ben chiaro in mente che le infezioni psichiche, per quanto superflue gli possano sembrare, sono in fondo fenomeni che accompagnano necessariamente e fatalmente il suo lavoro e corrispondono quindi alla disposizione istintiva della sua vita» (9).

L’ascolto degli affetti circolanti tra i membri dell’equipe curante, il processo di costante ri-narrazione, il con-tenimento dell’angoscia, dato dalla coesione di gruppo e dalla partecipazione emotiva condivisa, rappresentano già un ponte simbolico verso l’integrazione di contenuti inconsci potenzialmente in grado di inquinare la relazione terapeutica: è già un rendere disponibile alla coscienza una massa confusa di dati sensoriali primitivi, percezioni inconsce, messaggi in codice, emozioni e affetti di natura traumatica che, se lasciata nella sua forma libera di non-ragione, acquisirebbe fogge altamente tossiche  di espressione proiettiva per la vita psichica dei curanti e dei pazienti.

I contenuti profondi tendono naturalmente ad essere proiettati all’esterno, con il risultato che la nebulosità inconscia del mondo interno del paziente, o dei curanti, invade il campo terapeutico predisposto idealmente alla trasformazione. I curanti e il paziente non possono sottrarsi a questa dolorosa situazione, si rivela necessario perciò l’accoglimento degli affetti diffusi nell’incontro terapeutico in quanto fondamento della capacità trasformativa della psiche. L’antica concezione del demone della malattia, secondo cui il male poteva essere trasmesso a una persona sana che, grazie alla sua salute, avrebbe potuto sottomettere il demone stesso, si rivela oggi una profonda ed efficace intuizione psicologica.    

Lo sviluppo di una competenza a con-vivere rappresenta certamente l’obiettivo ideale di ogni forma di cura rivolta allo psicotico.  Ma la cecità che ignora le interferenze affettive della relazione terapeutica e la circolarità sterile dei vissuti scatenati dai nuclei profondi di follia in ognuno dei protagonisti della cura psichica rendono mortifera la vita psichica stessa. La psicosi è una sorta di congedo dell’anima dal mondo, forgiata da un progressivo disinteresse per il mondo e dal mondo, vaticinata da una perdita di significati, e spesso il prodotto iatrogeno di una anestesia locale della curiosità che permette di non vedere e non ascoltare.

Se il senso è ciò che rende reali le cose del mondo anche in assenza di luce o in presenza di cecità, il non-senso della psicosi e della “cura psicotica” contribuisce iterativamente, secondo una modalità di funzionamento uroborica, alla pseudo-irrealtà del mondo in cui versa il paziente. La disorganizzazione psicotica può essere immaginata come un movimento disordinato nel tentativo di ancorarsi alle cose del mondo: occorre a quel punto che il mondo si presti ad essere ritrovato ed abbordato.

E per il paziente psicotico le emozioni pensate riflettono non solo l’esserci del curante ma l’esistenza del mondo-sistema curante in cui tenta di ritrovarsi.

 

Chi segue Alberto?

Purtroppo è invece questa la domanda non-sense che più frequentemente aleggia e si moltiplica, per partenogenesi, in molti servizi per la salute mentale.

L’interrogativo più pertinente, ma evidentemente poco opportuno, dovrebbe essere: Alberto chi (in)segue? Da chi pietisce ascolto, e perché?

Ci si dovrebbe chiedere, parafrasando la terminologia sistemico-relazionale: chi è veramente il Terapeuta Designato dall’équipe assente a far da lepre, nei meandri di un cosiddetto servizio per la tutela della salute mentale, inseguito dall’Alberto cacciatore-cacciato? Ci si preoccupa del mondo interno di questo terapeuta, delle sue relazioni, dei suoi fantasmi, del pandemonio transferale-controtransferale che lo attraversa e spesso lo trafigge? Si stimola la sua curiosità per il proprio mondo psichico e per quello del paziente?

In opposizione alle leggi della fisica, in fondo Alberto insegue chi lo segue.

In un pirandelliano balletto di ruoli, i personaggi in cerca dell’autore (della terapia che è già anti-therapeia), giocano a nascondersi dal paziente-cacciatore, fingendo una ricerca accurata del personaggio più indicato a “seguirlo”. L’èquipe fronteggia le minacce di essere inseguita, rinvenuta, riconosciuta, cacciata, delegando un inseguitore-inseguito a far fronte agli appelli di Alberto. Il delegato, investito da cotanta stima, riconosciuto quale unico possibile baluardo contro l’avanzare della psicosi, grato, incassa vitali risorse per il proprio narcisismo; oppure, al contrario, accetta obtorto collo, non potendo poi che far pagare ad Alberto la frustrazione scaturita dall’impossibilità a declinare l’invito-designazione.

Il sistema è così salvo e solennemente si auto-assolve:

       c’è il paziente, quindi il servizio viene legittimato ad esistere;

       è stato individuato (direi, junghianamente, dis-Individuato) chi debba rispondere agli interrogativi,  poco importa se aderenti o meno ai bisogni plurimi del paziente e dello stesso Terapeuta Designato;

       c’è un insieme di persone (junghianamente: Persona/Maschera) che si auto-proclama équipe, in quanto ha dedicato energie psichiche alla ricerca del più idoneo terapeuta designato, in lunghe riunioni da Babele;

       c’è infine un progetto di cura che viene oblativamente calato su Alberto, il quale non potrà che dimostrare tutta la propria gratitudine. Se non lo fa diventa, come è accaduto proprio al Nostro, un non responder, un discontinuo utilizzatore, un paziente a prevalenza di sintomi negativi, ecc.

Il cerchio (junghianamente: Magico/Temenos) si chiude; il delitto perpretato è perfetto, in quanto nessuno intende occuparsi di vedere-scoprire il cadavere (di Alberto e della curiosità-passione per lo psichico) né, tantomeno, di cercare un colpevole.

Uno sceneggiatore occulto-occultato ha scritto per un sistema (curante?) un copione in cui per assunto di base si è deciso di non vedere, o di vedere illuminando ogni Oggetto di una luce fioca, quella appena sufficiente a confermare suggestive visioni (evoco ancora, quasi involontariamente, il nostro Jung).

Così è, troppo  spesso…se vi pare!

 

Bibliografia

 

(1) C.G. Jung, (1951), «Questioni fondamentali di psicoterapia», Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 128.

(2) C.G. Jung, (1929), «Problemi della psicoterapia moderna», Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 81.

(3) C.G. Jung, (1946), «Psicologia della traslazione», Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, pp. 187-188.

(4) C. Gullotta, «Gli antecedenti psichiatrici», in A. Carotenuto (a cura di), Trattato di Psicologia Analitica, Vol. I, UTET, Torino, 1992, p. 181.

(5) G. Riefolo, P. Sciascera, I. De Angelis, (1994), «Dinamiche dell’incontro nella consultazione psicologica», in Proposte per la Salute mentale (numero monografico: “La consulenza psicologica in ospedale generale”), 5, pp. 97-112.

(6) O. Codispoti , C. Clementel, Psicologia clinica, Carocci, Roma, 1999, p. 97.

(7) O. Codispoti , C. Clementel (1999), op. cit., p. 99.

(8) C.G. Jung, (1929), «Problemi della psicoterapia moderna», Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981,  p. 80.

(9) C.G. Jung, (1946), «Psicologia della traslazione», Opere, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 188.

 

 

 

*Da: A. Malinconico, Le ombre di Giano e l’elogio della curiosità (passione per la vita psichica nei servizi per la tutela della salute mentale), in Rivista di Psicologia analitica, nuova serie, n. 21, Ed. Magi, Roma, 2006, pp. 57-76

www.rivistapsicologianalitica.it

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