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Psicoterapie nei servizi: tra mito e realtà

10 Ott 12

Di Franco-Fasolo

Il principio di utilità è il mio pallino, a cui cerco di avvicinare tutte le bocce che posso nel campo psichiatrico.

A che cosa serve la psichiatria? è una vecchia domanda, che oggi però rifarei nei termini pressanti di A chi serve la psichiatria?. Se non serve ai pazienti, per aiutarli a cambiare, a cosa e a chi serve?

Lavoro ormai da trent'anni, e quando dico che la psicoterapia è la terapia specifica della psichiatria (altrimenti parliamo di altre specialità) mi ricordo di un buon numero tra gli psichiatri, gli infermieri, le psicologhe che ho conosciuto e di cui vedevo scaturire un senso dalle pratiche empiriche o dalle scelte teoriche riscontrabili solo se pensavo: a) che in fondo molti tecnici fanno questo lavoro essendo transpersonalmente ancora intrisi di una basilare sfiducia sull'efficacia della psichiatria (ovvero della psicoterapia); b) che altrettanto in fondo molti tecnici, ma non altri (purtroppo spesso gli stessi citati al punto a) sono personalmente piuttosto distanti dal riconoscimento che per curare efficacemente qualsiasi malato mentale bisogna – in base alle evidenze scientifiche – mettersi in gioco personalmente nella relazione terapeutica, cioè rendersi disponibili a cambiare anche noi. E, quando non sono gli stessi, i tecnici del gruppo b) si orientano preferibilmente nel praticare solo le teorie accuratamente selezionate che troveranno ampio consenso empirico proprio fra i tecnici del gruppo a), i quali d'altronde le teorie e le pratiche anche se efficacemente documentate, non le percepiscono nemmeno – alla faccia della evidence-based psychiatry – e sono invece ben contenti di essere bravi a fare la riabilitazione a quegli "handicappati organici" dei loro malati mentali ben disabilitati con cure neurologiche pregresse.

Mi torna in mente Ferdinando Barison, quando diceva che l'incontro col malato in una cornice d'indagine fenomenologica ha effetti trasformativi anche sullo psichiatra, salvo poi sottopormi a pubblica reprimenda quando mi fossi permesso di dire che anche gli schizofrenici si possono vedere guariti, se li collochi e/o li aiuti a rimanere in un contesto osservativo diverso da quello di matrice "manicomiale" in cui, complici della (o delle?) Società, tendiamo ancora a cacciarli.

Perciò rispetto al sottotitolo "fra mito e realtà", continuo a cogliervi una sottile provocazione: la psicoterapia nei servizi psichiatrici "è un mito": ma per chi? Sarebbe come se qualcuno dicesse che la produttività di un'azienda non passa attraverso i processi lavorativi necessari per concludere quella specifica trasformazione che consente agli operai di dire che quel lavoro è finito. Chi oggi potrebbe dire che la catena di montaggio Fiat o della Ford è un mito? Uno della concorrenza? Uno che oggi non usa né l'automobile né il trattore né l'autobus?

D'altro canto, è veramente difficile anche per me dire che la psicoterapia è un mito "fondativo" nei servizi: i colleghi dei gruppi a) e b) non si riconosceranno certo in una fondazione di questo genere, finché avranno a disposizione la Smith & Kline.

Si noterà che uso esplicitamente un gergo aziendale. Quando parlo così con i tecnici della amministrazione locale e della Programmazione Generale dei Servizi lo faccio a ragion veduta, con una precisa intenzione di ridurre ad absurdum questo discorso: se la Psichiatria facesse parte di una Sanità veramente aziendalizzata i Direttori generali ci farebbero rigare diritto in modo ben diverso, dato che ci imporrebbero di perseguire quella mission che però a loro stessi finora nessuno ha mai affidato.

Su questo punto della mission tornerò in seguito. Ma il gergo aziendale lo uso volentieri in servizio perché fa parte della mia mentalità aziendale. La vera mentalità aziendale è connaturata alla medicina, e dunque può esserlo anche alla psichiatria, perché è la mentalità di chi lavora davvero. Il lavoro produce effetti in tempi programmabili, diceva l'ultimo Jaques. Ecco da dove proviene la mia passione per la aziendalizzazione vera: se la psichiatria si aziendalizza, finalmente può diventare lavoro vero, un lavoro utile ai pazienti e non ad altro (resto sulle generali perché non è questo il contesto dove fare storia o cronaca): in psichiatria è utile fare psicoterapie in tempi utili, si potrebbe anzi sostenere che solo le psicoterapie che tengono anche conto del fattore temporale hanno qualche garanzia di efficacia, data la particolare essenza del "materiale" (la persona) che devono "lavorare" (ovvero che devono aiutare a guarire): questa indicazione che fornisco di "lavorare sui tempi" ha conseguenze reali molto compatte e consistenti. Non si può dire "psicoterapia nei servizi fra mito e realtà" senza indicare in che modo si sta lavorando per realizzare psicoterapie nei servizi psichiatrici: è solo allora che questo sospensivo "fra" non è più solo una provocazione lobbista, ma segnala la normale condizione di tensione, che c'è in tutti i lavori, fra il mito fondativo (la "vision") e la realtà contestuale. Nel caso nostro dovremmo piuttosto dire più semplicemente "fra mission e produttività specifica". E arriviamo allamission, come prima promettevo (quante poche promesse, invece, quante poche prognosi vere, quante poche intenzioni dichiarate usiamo noi psichiatri nel nostro lavoro!).

La mission del Dipartimento di Salute Mentale è quella di ridurre la somatizzazione e promuovere la mentalizzazione.

Due specificazioni sul Dipartimento di Salute Mentale, che qui sostituisce il termine "servizi": il Dipartimento comprende molti diversi Servizi, anche se è costituito fondamentalmente dal Centro di Salute Mentale: soprattutto, da oggi non abbiamo finalmente più scuse per i ritardi e le ambiguità con cui abbiamo segnato il passo sul crocevia fra la psichiatria ospedaliera e la psichiatria di comunità: sarà già circolata in rete la notizia della pubblicazione di "The Mental Health Matrix" scritto da Tansella e Thornicroft (Cambridge, 1999): con questo solido e pratico modello scientifico, adesso possiamo andare avanti: e chi non lo fa, non è né di destra né di sinistra, è un lobbista. Non sia considerata eccessiva, questa mia presa di posizione. Il libro di Tansella e Thornicroft, è davvero fondativo. Ma, soprattutto, è talmente ben fondato che diventa la base per il passo successivo, non avanzato dai due Colleghi, che è quello di esplicitare che la psichiatria serve specificamente a ridurre la somatizzazione e a promuovere la mentalizzazione, e che, naturalmente, ciò si ottiene operativamente solo centrando il Dipartimento di Salute mentale sulla pratica sistematica della psicoterapia nelle varie formulazioni teoriche e nei suoi vari formati.

Sappiamo tutti, sulla base di evidenze ben confermate, che nella maggior parte dei casi bastano solo poche sedute di psicoterapia individuale per sbloccare, ovvero per far evolvere positivamente situazioni personali di stallo, ovvero di crisi. Ma è necessario molto impegno per modificare gli atteggiamenti e calibrare le tecniche in modo tale che i terapeuti e i loro gruppi di lavoro pratichino queste competenze regolarmente, in modo efficace e soddisfacente con tutte le prime visite, e con tutte le consulenze in generale. Una psicoterapia breve tempestiva ha poi potenti effetti documentati di riduzione della somatizzazione, che è l'esito frequente di molte situazioni evolutive bloccate o peggio mal sfociate nella cronicità. Come dicevo, se i nostri Direttori Generali avessero un mandato diverso da quello di risparmiare sulle cose fondamentali (per investire i nostri soldi sulle tante cose inutili ma più remunerative disponibili sul mercato) ci costringerebbero a sviluppare meglio le tecniche di psicoterapia breve. Allo stesso modo, ci imporrebbero anche tutte le altre pratiche che comunque aumentano lamentalizzazione, e fra queste dunque anche quelle che si realizzano con la psicoterapia di gruppo.

Ricordo quando si pensava come fare servizi migliori per tutti, e in particolare mi rammento delle appassionate discussioni a Padova (fra gli altri c'erano Gozzetti, Patarnello, Novello, Sara Genova): come si può fare psicoterapia per, anzi con tutti i malati? Allora veniva già fuori l'idea, oggi minimalista, che il gruppo di lavoro ben curato funzionava per gli interventi ad orientamento psicoterapeutico, e poi successivamente cominciai a prendere contatti in giro per l'Italia per sviluppare l'idea del piccolo gruppo come il formato psicoterapeutico più flessibile per tutti i pazienti, anche quelli non IAVIS (gioco di parole con JERVIS).

Anche Tansella e Thornicroft dicono che i Dipartimenti di Salute Mentale devono essere "comprehensive", cioè per tutti; ma insistono più volte nel loro testo che poiché i servizi specialistici sono in grado di assistere solo il 2% della popolazione locale, mentre ogni anno almeno il 20% di quella stessa popolazione soffre di malattie mentali, allora bisogna scegliere e "naturalmente" bisogna dare priorità ai malati più gravi. Ritengo che se nel frattempo avessimo già iniziato a fare gruppi a breve termine con pazienti ambulatoriali depressi/ansiosi/somatizzatori, avremmo già "coperto" una parte di quei "bisogni" che hanno gli stessi diritti dei malati gravi, attivando così anche a fare quelle campagne di prevenzione primaria che continuiamo a rinviare per carenza di personale.

I gruppi ambulatoriali a breve termine quindi possono essere proposti come campagne di prevenzione primaria, ma non solo. Nel corso di questi trent'anni è poi divenuto oramai chiaro nel panorama internazionale che il piccolo gruppo è un buon acceleratore temporale, che in azienda consente di stabilire un buon rapporto fra l'efficacia e i costi complessivi; che la psicoterapia di gruppo è un ottimo coadiuvante nel trattamento ospedaliero di alcune categorie di malati di cancro. In particolare un altro aspetto rilevante è che la regolare partecipazione a un gruppo psicoterapeutico ambulatoriale riduce efficacemente le due situazioni più critiche: gli episodi di violenza fisica (suicidi inclusi) e di ospedalizzazione. In gruppo ormai noi curiamo esplicitamente anche la malattia diventata "cronicità", che una volta si chiamava "sindrome di istituzionalizzazione". Purtroppo Goffman è quasi dimenticato. Per contro, sono felice invece che i gruppoanalisti stiano riscoprendo un altro sociologo, Norbert Elias, ma non vorrei in questa sede addentrarmi in un tema troppo specialistico – anche se riguarda direttamente la psichiatria di comunità.

Sostanzialmente possiamo utilizzare il formato psicoterapeutico gruppale lungo due direttrici di sviluppo specifiche della psichiatria di comunità.

I gruppi terapeutici ci consentono in primo luogo di lavorare sui tempi. Nell'arco degli ultimi vent'anni siamo sistematicamente passati dai gruppi socioterapeutici alla vera (e ben codificata) psicoterapia di gruppo i per pazienti cronici, passando dai tempiglaciali suggestivamente descritti da Resnik ai tempi lunghi necessari per curare efficacemente i disturbi psicotici. Abbiamo attivato gruppi ambulatoriali a termine sia per malati depressi, sia per pazienti con disturbi di personalità, inserendoli in un progetto di interventi psicoterapeutici intermittenti nell'arco della vita (e della presa in carico continuativa) di questi pazienti. Abbiamo recentemente avviato gruppi molto precoci per gli esordi schizofrenici, perché in gruppo gli schizofrenici recuperano la cosiddetta evidenza naturale, cioè guariscono prima.

E negli ultimi due anni abbiamo realizzato gruppi di 4-6 sedute nel periodo estivo, che nulla però hanno a che vedere con i notissimi GREST.

In secondo luogo, usiamo i gruppi terapeutici sempre più consapevolmente a scopo di prevenzione, e non solo secondaria. Abbiamo reclutato, con una specifica iniziativa denominata passar per gruppi, un gruppo a breve termine serale, molto utile. Inoltre organizziamo ogni anno diversi incontri con la popolazione, centrati su temi di organizzazione sanitaria, consapevolmente gestiti nei termini tecnici delle dinamiche specifiche di gruppo. Tornando alla psicoterapia nei suoi vari formati, siamo ormai addirittura arrivati albench-marking, un'altra di quelle pratiche aziendali su cui molti Direttori Generali non hanno ancora maturato la dovuta competenza: penso qui allo scarso impegno con cui l'Azienda ospedaliera di Padova ha "venduto" finora la psichiatria di consultazione sviluppata a livelli eccellenti prima da Pavan e poi anche da molti dei suoi collaboratori; ma Losanna vende bene invece, anche in Italia, le psicoterapie brevi alla Gillieron. Inoltre devo dire che due corsi proposti a Cittadella sulla psicoterapia di gruppo hanno avuto un certo successo, e ne stiamo perciò organizzando altri, su come si promuove il fattore terapeutico basilare, (la coesione) nei gruppi, sulla psicoterapia di gruppo per gli anziani (la vecchiaia non è una malattia ma una tappa evolutiva sempre più frequentata), e infine addirittura sulle psicoterapie di gruppo a breve termine, la miglior pietra di inciampo che io abbia mai gettato sulla strada ben battuta della psichiatria "ospedal-centrica" o su quella della psicoterapia privatistica: che percorrono strada fra loro comunicanti, come sa bene chi da molti anni è impegnato in un lavoro scientificamente "militante".

Coerentemente con l'attenzione che sia nella pratica clinica che nella riflessione teorica ho sempre prestato alla fase di conclusione dei trattamenti psichiatrici (cioè psicoterapeutici), sempre in vista del mio pallino che la cura psichiatrica debba essere un lavoro e non una sinecura, e che perciò debba finire perché possano maturarne i risultati negoziati. Riassumo ora ciò ho già esposto prima.

Ho cercato di stringere un po' meglio le maglie della rete, finora troppo lassa, che a mio avviso dovrebbe raccordare e tenere insieme con maggior coesione, e quindi con più mirata coerenza, la psichiatria di Comunità, il Dipartimento di Salute Mentale, e la sanità aziendalizzata; si tratta di recuperare e rilanciare il senso profondo, ovvero la mission, della psichiatria di comunità nella sua dimensione concreta del modello dipartimentale, punto cardine della struttura aziendale della sanità pubblica. Malgrado le spinte contrarie e divergenti di tutte le lobbies che ormai invadono pesantemente il nostro lavoro, riteniamo che la psicoterapia vada intesa come un obiettivo fondamentale soprattutto della psichiatria di comunità.

Mi sono limitato in questo scritto a fare una breve disamina sulle pratiche concrete che localmente si sono potute sviluppare, ma che devono poi essere raccordate in un progetto più ampio. I modelli proposti da Tansella e Thornicroft, così come quelli di Pavan e Elias sono per noi di grande interesse. Ho sostenuto infatti che oggi bisogna parlare di "psicoterapia come pratica qualificante del dipartimento di salute mentale, fra mission e produttività specifiche": questa nostra esperienza con molti altri sviluppi operativi che ho qui solo accennato è documentata in "Psichiatria di territorio. Almanacco 1999", uscito a completamento del primo edito lo scorso anno. Un altro documento a cui rimando è Il Quaderno n. 6 dedicato a "Etica e Medicina", curato da Benciolini e Viafora per la fondazione Lanza, che è stato inviato anche al Ministro Bindi.

Ma oltre al dibattito teorico, cui rimando il lettore in nota, si dovrebbe far girare la domanda "a chi serve oggi la psichiatria?", insieme alla domanda epistemologicamente ancora più inquietante: "come può ancora fare senso la psichiatria?"

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