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Le supervisioni di Carlo Viganò: COGNITIVISMO E PSICOANALISI Incontro del 25.6.98

4 Gen 20

Di FRANCESCO BOLLORINO

PREMESSA
di Carlo Viganò

Oggi Tronconi dirà alcune sue elaborazioni sul modello psicoanalitico nella contaminazione con il cognitivismo. Dal punto di vista epistemologico altri hanno altri orientamenti. Il fatto che si possa discutere di clinica utilizzando diversi modelli teorici mi sembra un'acquisizione fondamentale, perché viene a dire che è la clinica stessa a fare da quadro epistemologico nel nostro dibattito. Non c'è bisogno di fondare una teoria a livello universale, a livello filosofico, di fondamento filosofico, per utilizzare la teoria nella clinica… Non è un'esigenza che si sia dimostrata necessaria alla discussione empirica, quella di ridurre i modelli teorici ad uno, ad un universo di riferimento fondativo. Si può fare della clinica utilizzando differenti strutture teoriche di riferimento, differenti concettualizzazioni. E' chiaro che nel fare questo si deve, ogni volta che si usano i concetti, chiarirli, spiegarli, in modo che siano utilizzabili anche da chi partecipa al dibattito. Quindi che la clinica faccia da riferimento epistemologico distintamente dalla filosofia mi sembra un'acquisizione non da poco e… nel dibattito clinico il fatto che si abbiano riferimenti teorici concettuali differenti è di volta in volta spesso origine di una maggiore apertura, di una maggiore illuminazione sul campo del fenomeno clinico stesso, se il sintomo può essere illuminato di volta in volta meglio da un differente riferimento concettuale. Questo sposta l'esigenza dell'uno, perché è un'esigenza innata dell'uomo quella di fare unità, dalla fondazione filosofica ad un altro tipo di fondazione. Per poter fare questa discussione che usi la teoria come uno strumento e non come una metafisica, non come una fondazione filosofica, occorre essere disposti a questo compito, occorre avere una particolare pazienza, generosità nell'ascolto del concetto utilizzato dal collega, per poterlo utilizzare nella pianificazione clinica. Quindi, "l'uno" è questa pazienza, questa disponibilità che, in termini più precisi io qualificherei come "disposizione etica". Se non c'è bisogno di una fondazione filosofica epistemologica, c'è bisogno di un'etica comune, per poter instaurare un dibattito clinico, che utilizzi concettualizzazioni tratte da linee transferali di gruppi, di scuole di ricerca differenti.

Tronconi ci ha dato il testo che stava alla base della sua esposizione:

 



 

 

 

COGNITIVISMO E PSICOANALISI
di Aristide Tronconi

"Attualmente c'è una certa convergenza tra i clinici che hanno avuto una formazione psicoanalitica e quelli i cui interessi riguardano principalmente le tecniche cognitivo comportamentali. Mentre questi ultimi vanno sempre più interessandosi ai processi non coscienti e all'impatto della relazione terapeutica, gli psicoanalisti si interessano alla natura delle rappresentazioni della conoscenza e al significato di fattori cognitivi che potrebbero render conto del lento progresso in psicoterapia (A. Roth e P. Fonagy, 1997).

Mi occuperò oggi di cognitivismo e di psicoanalisi soprattutto nel loro versante applicativo e più precisamente quello clinico. Mi soffermerò sia sui rimandi teorici dei due modelli sia sugli obiettivi e sulle tecniche che il terapeuta dei due orientamenti prende in considerazione quando si deve occupare di un paziente.

I punti di congiunzione che ho trovato non sono pochi e riguardano gli aspetti emotivo-affettivi della persona e come essi entrano in gioco nella relazione terapeutica, il funzionamento inconscio della mente, l'importanza del periodo infantile, l'uso dei sogni durante il trattamento, la formazione dello psicoterapeuta. Per motivi di tempo vi parlerò solo del primo.

Una precisazione mi sento tuttavia di dover fare prima di inizare: di quale cognitivismo e di quale psicoanalisi ho scelto di parlarvi. A proposito del primo, Mahoney (1991) riconosce l'esistenza di una ventina circa di approcci psicoterapici come sufficientemente indipendenti gli uni dagli altri. Ho basato allora la mia scelta sul modello di cognitivismo e di psicoanalisi oggi più conosciuto, e forse anche più diffuso, almeno in Italia.

"Nel 1972 veniva fondata a Roma, con sede presso l'Istituto di clinica psichiatrica diretta dal Prof. G. Reda, la Società italiana di terapia del comportamento. Due anni dopo, nel 1974, in occasione del Congresso di Londra della European Association of Behavior Therapy, la Sitc era ammessa a questa prestigiosa associazione europea. In occasione del primo Congresso nazionale del giugno del 1981 venivano apportate una serie di modifiche allo statuto e la denominazione diventava quella attuale: Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva. Questo cambiamento nasceva dalla consapevolezza da parte di molti soci di un'evoluzione scientifica verso un approccio cognitivo" (S. Bianco, V.F. Guidano, M.A. Reda, 1990).

Così è nato il cognitivismo clinico in Italia: come un'evoluzione del comportamentismo.

"Per quanto riguarda la nostra personale evoluzione, in una prima fase scientifica e clinica, i principi del corpus dottrinale della behavior therapy (Bandura 1969) sembravano soddisfare la dimensione metodologica che andavamo cercando, in quanto ci mettevano a disposizione metodi di osservazione e rilevazione dei dati clinici e di intervento terapeutico alternativi a quelli psicoanalitici o, in genere, a quelli tradizionalmente in uso negli ambienti accademici. Ci rivolgevamo all'individuo in termini di principi dell'apprendimento classico e operante, e consideravamo il comportamentismo umano alla stregua di un congegno di precisione regolato, passo dopo passo, dal gioco delle contingenze che le azioni acquistavano con l'ambiente circostante.

Nonostante avessimo in breve tempo dei miglioramenti, ad un certo punto cominciammo ad avvertire uno spiacevole senso di discrepanza allorchè tentavamo, usando la medesima impostazione teorica, di arrivare ad una spiegazione esauriente di quanto si era avuto modo di osservare durante la terapia. Inoltre, spesso, appariva chiaro che il miglioramento prodottosi era il risultato di atteggiamenti terapeutici non intenzionali o, comunque, non direttamente connessi con la strategia che si stava portando avanti; avevamo la sensazione di operare con modalità che non conoscevamo, su meccanismi cruciali del paziente che non eravamo in grado di descrivere. Mettendo a fuoco il nostro disagio dovuto alla discrepanza fra i risultati ottenuti e il limitato potere esplicativo dei principi dell'apprendimento, diventava sempre più chiaro che attività cognitive quali le aspettative, la memoria, il pensiero, ecc… dovevano svolgere un ruolo cruciale nel mediare la risposta comportamentale allo stimolo ambientale" (S. Bianco, V.F. Guidano, M.A. Reda, 1990).

Oggi accade di trovare in letteratura, ma anche nei seminari di studio, la dizione "cognitivo-comportamentale". Occorre tener presente che l'approccio esclusivamente comportamentale non è del tutto scomparso, anche se ritenuto dai più superato. L'approccio cognitivo si è suddiviso in razionalista e costruttivista (Mahoney 1991).

"La visione razionalista si basa sul realismo, cioè sull'assunto che esista un'unica e stabile realtà esterna… La visione costruttivista abbandona invece l'idea che esista un'unica realtà, a favore di un relativismo che ammette l'esistenza di tante realtà quante sono le costruzioni individuali e collettive di ordinamento dell'esperienza…Gli psicoterapeuti razionalisti considerano i problemi del paziente come deficit o come correlati emozionali di disfunzioni causate da cognizioni irrazionali e irrealistiche da correggere. Il ruolo del terapeuta è quindi quello di dare al paziente istruzioni e indicazioni tecniche, cercando di vincere le resistenze, che costituiscono un ostacolo al cambiamento… Per gli psicoterapeuti costruttivisti l'esplorazione dei significati personali, delle esperienze emozionali e delle modalità di relazione interpersonale all'interno di una relazione sicura, sollecita e intensa, quale dovrebbe essere quella psicoterapeutica, rappresenta il più importante strumento di cambiamento" (G. Chiari e M.L. Nuzzo, 1996).

Per quanto riguarda la psicoanalisi essa

"fu così denominata da Freud fin dal 1896. Nel 1923 la definì nel triplice contemporaneo aspetto di metodo investigativo dei processi psichici altrimenti inacessibili, di cura mediante di esso dei disturbi mentali e di insieme dei concetti generali sul funzionamento mentale, atti a formare una disciplina scientifica specifica, acquisiti tramite questo metodo

Come è ben noto l'Istituzione psicoanalitica nasce ufficialmente nel 1910 con la costituzione dell'Ipa al Congresso di Norimberga. Già nel 1908 era stata progettata, ma già un embrione di istituzionalizzazione si può ravvisare nelle riuinioni del gruppo del mercoledì. L'organizzazione dell'Ipa e delle Società nazionali componenti, di cui la costituzione di quella italiana risale al 1932 e il suo accoglimento nell'Ipa al 1935, è stata affiancata in anni recenti dal sorgere di raggruppamenti regionali quali la Federazione europea di psicoanalisi" (G. Hautmann, 1990).

Non mi soffermerò a spiegare quali siano i postulati della psicoanalisi classica, così come non mi sono fermato a parlare di Pavlov, di Skinner, di Eysenck o di Wolpe per quanto riguarda il comportamentismo. Questi due modelli erano quelli che, fino alla seconda metà degli anni sessanta, avevano il predominio negli Stati Uniti. Oggi, come si sa, non è più così: il comportamentismo ha fortemente risentito della rivoluzione cognitiva, come la psicoanalisi ideata da Freud è andata incontro a grosse trasformazioni.

Parlando di cognitivismo mi riferirò allora a quegli autori che si riconoscono o che appartengono alla Sitcc; parlando di psicoanalisi mi riferirò a quegli autori che si riconoscono o che appartengono alle Società psicoanalitiche riconosciute dall'Ipa.

Iniziamo col cognitivismo. La differenza più evidente con il comportamentismo è che il principale oggetto di studio di quest'ultimo è il comportamento, mentre per il primo sono gli stati o processi mentali (M. Reda, G. Liotti, F. Mancini, 1988 ).

La mente secondo i cognitivisti produce essenzialmente cognizioni ed emozioni. Inizialmente le cognizioni erano ritenute primarie e le emozioni secondarie, successivamente, soprattutto ad opera dei costruttivisti, le emozioni vennero ritenute processi primari di conoscenza e di sviluppo (G. Chiari, M.L. Nuzzo, 1996), riconoscendo che la separazione tra queste due modalità di funzionamento è un'ipersemplificazione di scarso valore euristico, priva di credibilità (A. Roth, P. Fonagy, 1997).

Va da sé che la prassi clinica dovette tener conto di queste asserzioni di base. Infatti nel secondo capitolo del Manuale di psicoterapia cognitiva, dedicato al terapeuta cognitivo, B. Bara (1996) scrive:

"Considereremo come psicoterapia un'integrazione di cognizioni ed emozioni, rivolta all'obiettivo di raggiungere e mantenere un consapevole equilibrio dinamico, e ottenuta grazie alla relazione fra terapeuta e paziente..

Gran parte del cambiamento interno consiste in quella che possiamo chiamare accettazione di sé, che ancora una volta coinvolge sia la sfera cognitiva che quella emotiva. Il paziente tende a vivere la parte di sé sofferente, o malata, come una sorta di orrore da dimenticare, o di nemico da eliminare, possibilmente in modo definitivo… Si tratta di riuscire a cogliere come ogni nostro aspetto ci appartenga, ogni nostro diverso Sé sia costitutivo della nostra persona, al di là della sua attuale adeguatezza…

Un terapeuta troppo desideroso di guarire gli altri può penalizzare i pazienti che insistono nel loro star male, perché non migliorano in modo corrispondente ai suoi sforzi e alle sue aspettative. Così facendo li priva della possibilità di vivere un affetto incondizionato, esperienza di infinito valore umano che i figli sempre donano ai genitori, e i genitori solo talvolta concedono ai figli: ti amo al di là di quel che fai, solo per quel che sei. Per un paziente è prezioso sentire che il suo terapeuta non lo allontana, colpevolizzandosi e colpevolizzandolo, se la sua sofferenza perdura o peggiora, ma gli permette invece di essere com'è. Una buona psicoterapia comporta piena accettazione dell'altro nell'interezza della sua persona…

Va sottolineato il fatto che l'organizzazione del paziente si è strutturata intorno a eventi in primo luogo emotivi, quali sono le condizioni di attaccamento-accudimento in cui si è trovato a vivere. Perché tali strutture emozionali profonde e antiche possano modificarsi, la persona deve trovarsi in una situazione di mobilizzazione emotiva… Un ragionevole livello di indefinitezza della figura del terapeuta permette al paziente di esprimere più compiutamente i propri schemi, sia quelli irrigiditi dalla nevrosi che quelli man mano più elastici della guarigione… Il paziente può così attribuire al terapeuta credenze ed emozioni caratteristiche di un ruolo usuale all'interno di un proprio gioco… Al paziente è quindi consentito essere aggressivo o seduttivo, ma il terapeuta non può mai lasciarsi andare a simili aperture emotive. Un eccellente strumento è ancora una volta l'interpretazione relazionale, che permette di non prendere alla lettera aggressioni o seduzioni, ma di rileggerle come aventi un altro significato, relativo ai ruoli giocati… C'è una fatica emotiva caratteristica, e consiste nell'entrare in relazione genuina con ciascun paziente, ogni volta esponendo se stesso a un contatto che si può rivelare improvvisamente doloroso… Una certa quantità di fatica psichica è comunque indissolubile dall'essere terapeuta: eliminandola si elimina la qualità profonda di una psicoterapia".

Proseguendo ora con la psicoanalisi, mi sembra che i progressi fatti, in quasi cento anni di esperienze cliniche e di dibattiti scientifici, non siano poi così conosciuti. Non avendo cambiato denominazione com'è accaduto per il comportamentismo, può accadere, ai non esperti, che continuino a pensarla come sempre uguale a se stessa.

S. Bolognini, in un articolo apparso su "Il sole – 24 ore" porta, a titolo di esempio, il sogno.

"E' curioso constatare – scrive – come a un secolo dalla stesura dell'Interpretazione dei sogni, l'opera freudiana più nota presso il pubblico colto, i progressi della psicoanalisi in questo campo siano in realtà ignoti ai più: al punto che eccellenti divulgatori e persino esperti di scienze adiacenti si esprimano spesso sulla psicoanalisi in materia di sogno, basandosi soltanto sulla conoscenza dello scritto di Freud"

Che cosa allora è cambiato nella concezione teorica di buona parte della psicoanalisi odierna? Sicuramente l'idea che gli istinti siano alla base della motivazione umana e che gli affetti siano secondari, ossia da essi derivati (A. Modell, 1984; A. Cooper, 1990).

La neurobiologia contemporanea ha mostrato che Freud pose le cose all'inverso, nel senso che non vi è prova scientifica dell'esistenza di istinti unitari o che gli istinti siano categorie biologiche. Si stanno invece accumulando prove che gli affetti possono essere ritenuti come categorie biologiche perché possono essere differenziati secondo le proprie vie nervose.

"La recente ricerca neurobiologica che usa tecniche non invasive su soggetti umani, come la risonanza magnetica funzionale, ha prodotto dati che indicano che tali affetti come la rabbia, la paura e il piacere possono essere differenziati in base alle loro vie nervose separate. Per esempio è stato recentemente mostrato che l'amigdala è specificamente attivata nei soggetti umani come risposta alla visione di facce spaventate. La neurobiologia sta ora confermando ciò che lo psicologo S. Tomkins intuì, che gli affetti e non gli istinti o le pulsioni sono la principale fonte della motivazione umana" (A. Modell, 1997)

"La biologia alla quale la psicoanalisi si è originariamente ispirata era deterministica e riduzionistica, orientata dal traguardo della semplicità. La psicobiologia evolutiva di oggi è invece orientata dalla crescente complessità organizzata. Man mano che si sviluppa, l'organismo utilizza capacità intrinseche ed estrinseche, diventando più complesso: il piccolo umano è creativo ed esplorativo sin dalla nascita e non appare quindi diretto soltanto dalla scarica pulsionale" (S. Bordi, 1977)

All'epoca sia la psicoanalisi che il comportamentismo, ma in genere tutta la psicologia accademica, ruotava attorno alla visione del bambino come unità passiva che forniva risposta agli stimoli provenienti o dall'ambiente o dall'istinto. Lo stato naturale dell'organismo umano sembrava, secondo i modelli di allora, essere quello della quiete (R. Emde e J. Robinson, 1979).

Un esempio chiarificatore può esserci dato dal neonato che viene disturbato mentre dorme dallo stimolo della fame. A livello psicologico tale stimolo si rappresenta come pulsione orale che tende sia alla scarica, attraverso il pianto, sia al soddisfacimento, con il ricevere il latte dalla madre. Una volta pianto e una volta bevuto il latte, il bimbo ritorna allo stimolo di quiete originario e può quindi riprendere a dormire.

"Questo modello di eliminazione degli stimoli è oggi completamente superato per tante ragioni, tra l'altro si è visto che il sistema nervoso centrale è alla continua ricerca di stimoli provenienti dal mondo esterno e dal mondo interno. Persino quando la madre è intenta a calmare il bambino, il semplice tirarlo su dalla culla e appoggiarlo sulla spalla è tutt'altro che una diminuzione di stimoli perché l'operazione comporta un aumento dell'input: stimoli vestibolari, propriocettivi diretti e indiretti, oltre una grande stimolazione dell'attenzione visiva…

La complessità delle interazioni madre-bambino sin dai primi stadi di sviluppo sta infatti evidenziando che la mamma non si limita a offrire ricompensa soddisfacendo i bisogni di fame, sete, calore e conforto. Prima si sottolineavano soprattutto questi momenti perché la psicologia aveva una concezione della ricompensa che era basata sulla riduzione degli stimoli. In realtà è vero il contrario, i genitori offrono ricompense ai loro bambini dando loro degli stimoli, incoraggiando la capacità di esplorare e aumentando in ogni modo le occasioni di apprendimento… Le ricompense che derivano da sequenze interattive sono reciproche, nel senso che è più probabile che un bambino che ha avuto una ricompensa dal genitore riesca a sua volta a restituirla. E' osservazione comune il fatto che se un genitore viene gratificato da un sorriso, è più probabile che si impegni nel mantenimento dell'interazione e dell'accudimento…" (S. Muscetta, 1990)

 

La ricaduta clinica più vistosa, consequenziale alla rivisitazione teorica a cui ho brevemente accennato, è la posizione che l'analista assume oggi nel processo di cura. Si parla sempre più di concezione diadica della situazione analitica dove analista e paziente sono dipendenti e indipendenti l'un dall'altro (H. Thomae e H. Kaechele, 1990).

L'intersoggettività della situazione terapeutica diventa la base del processo analitico deputato al cambiamento, conformemente a quanto succede in natura, tra madre e bambino, fin dai primi momenti di vita.

La psicologia sperimentale (T. Bower, 1974; D. Stern 1985; A. Sameroff e R. Emde, 1989) ha dimostrato che il bambino nasce come essere sociale con la capacità di distinguere sé dall'altro, così come avevano intuito alcuni analisti post-freudiani (M. Klein, 1932; W. Fairbairn, 1952; D. Winnicott, 1965).

Se a questo dato aggiungiamo quello precedente per cui gli affetti sono unità primarie portatrici di significato, ne risulta che la capacità di risonanza dell'analista può svilupparsi più liberamente perché rispondere non equivale a gratificare (H. Thomae e H. Kaechele, 1990).

Questi cambiamenti teorici si può dire abbiano favorito nella clinica uno spostamento da una visuale esclusivamente intrapsichica e internalistica della mente a una comprendente anche quella relazionale ed esternalistica (M. Cavell, 1991; S. Bordi, 1997).

"Gli psicoanalisti sono oggi assi diversi da quello stereotipo un po' caricaturale che li voleva inesorabilmente silenti dietro il paziente, salvo manifestarsi in maniera oracolare per elargire l'oro analitico dell'interpretazione… L'analista di oggi non è più soltanto un investigatore o un archeologo… ma una figura più complessa che accompagna il paziente nella regressione prima, e nella ricostituzione di sé poi, condividendo parzialmente da vicino e da dentro le sue vicissitudini" (S. Bolognini, 1998).

"L'analista di oggi è portato piuttosto a ritenersi un compartecipante attivo, un coadiutore di una storia, costruita sulla matrice relazionale" (S. Bordi, 1977).

"Oggi si può affermare con sufficiente certezza che una relazione analitica è fondata sugli affetti transferali e controtransferali… L'amore, il desiderio di protezione, la rabbia, la delusione, l'odio, sono tutti affetti che strutturano la relazione e condizionano le fasi di sviluppo, prima fra tutti quella dell'organizzazione del pensiero. Su questa base diventa chiara l'importanza degli affetti in analisi" (M. Mancia, 1990).

Mi sembra di aver portato abbastanza materiale per poter affermare che cognitivisti e psicoanalisti la pensano un po' allo stesso modo sull'aspetto emotivo-affettivo della persona e su quanto esso entri in causa nella relazione tra terapeuta e paziente. Vorrei allora concludere riportando il parere di un cognitivista.

"L'idea di strutture cognitive profonde deputate a organizzare, anticipare e rappresentare l'esperienza interpersonale non è, certamente, esclusiva della psicoterapia cognitiva. E' nella teoria freudiana del transfert che troviamo espressa per la prima volta questa concezione… Con il superamento e il rifiuto della metapsicologia, è stato l'aspetto cognitivo della teoria freudiana che è andato affermandosi, rendendo praticamente indistinguibile, su un piano concettuale, il contributo di autori di area psicodinamica da quello di autori di area cognitivista… La convergenza tra orientamento psicodinamico e orientamento cognitivista non si realizza solamente sul concetto di strutture prototipiche predittive dell'andamento relazionale, ma entrambi evidenziano come tali strutture includano una componente affettiva ed esperienziale… Una conseguenza di queste considerazioni è l'alta probabilità che, in ogni relazione terapeutica, il terapeuta sia sottoposto a una pressione emotiva che lo spinge verso una riproposizione dei cicli interpersonali disadattivi del paziente… Diversi autori cognitivisti (Greenberg e Safran 1987; Liotti 1994; Safran e Segal 1990; Semerari 1991) hanno insistito sulla necessità di monitorare i propri stati emotivi, nonché le fantasie e i pensieri automatici diretti verso i pazienti. Lo scopo di tale raccomandazione non è solo quello di evitare che i terapeuti rimangano imprigionati nei propri personali schemi di significato, ma anche e soprattutto quello di utilizzare le proprie reazioni come informazioni di ciò che sta accadendo al paziente e alla relazione…Come nell'esperienza quotidiana, così nella pratica clinica, gli aspetti emotivi e cognitivi si influenzano costantemente in interazione reciproca" (A. Semerari, 1996).

 

 

DISCUSSIONE

Freni – Io personalmente sento un po' troppo ottimistica questa convergenza, perché in realtà è vero che ci sono dei punti dove si finisce con l'usare in pratica lo stesso linguaggio, ma che costituisca esattamente lo steso significato non sarei così certo. Come pure ci sono tutta una serie di problemi : il fatto che un terapeuta cognitivista oggi stia molto attento alle reazioni che prova nel contatto con il paziente, non so se corrisponda poi così esattamente a tutta la problematica del controtransfert, per come si è sviluppata nell'ambiente psicoanalitico. Però una cosa è certa, che sul piano concettuale e sul piano anche di questi rimandi alle neuroscienze attuali indubbiamente c'è molta apertura, come pure sul piano dell'utilizzo di alcune teorie che bisogna dire onestamente sono nate in ambiente psicoanalitico, anche se paradossalmente l'ambiente psicoanalitico le ha un po' oscurate, messe da parte. La teoria dell'attaccamento in ambiente psicoanalitico non ha avuto molta fortuna. E' stata più presa come una specie di teoria etologica, mentre i cognitivisti le hanno dato molto risalto e hanno costituito la base scientifica e metodologica di ricerca, per fare poi il discorso del pattern di attaccamento, i clichés ripetitivi. Questa è veramente una storia molto strana, contraddittoria. Oggi uno psicoanalista moderno, che studia un po', non può ignorare alcuni dati incontrovertibili della neurobiologia. La cosa che citavi sulle facce spaventate o che suscitano spavento, correlate alla funzione dell'amigdala, mi pare che è un dato ormai incontrovertibile. |

Beh ! Sono delle immagini, sono delle cose sicuramente da spiegare. |

Però la correlazione con il funzionamento dell'amigdala mi pare che è abbastanza dimostrato. |

Smeraldi – C'è tutto un problema… c'è tutto l'aspetto del… lobo frontale, della continuità, che è molto problematico. Perché in genere si dice… si tende a banalizzare in una forma sconvolgente. In realtà, sì, c'è anche la memoria di lavoro e c'è l'aggressività, però c'è anche tutto quell'aspetto di attuazione ( ? ) di significato… che è difficile concettualizzare poi in test specifici di tipo neuropsicologico. Io l'ho fatto questo sforzo, cercare di fare dei test complessi… è difficile poi, anche per chi non è della materia, riuscire a seguirli fino in fondo. Però oggettivamente là dove c'è una lesione del frontale ci sono degli aspetti di alterazione… del pensiero, però la cognitività risulta diversa da prima della lesione. Questi sono degli aspetti meno biologici e meno interessanti. Adesso va di moda la molecola… questa è più un'area integrativa. L'obiezione che forse – interpreto io un po' il silenzio dell'aula – … ok !, io ho cercato di seguire questo ragionamento… quello che a me sfugge, e ritorno all'introduzione, è però la pertinenza clinica di questo discorso. Cioè… abbiamo sentito il parer di illustri personaggi che si sono dedicati… accetto questa loro posizione, però dovrebbero spiegarmi qual è la pertinenza clinica. Dovrebbero spiegare a uno che fa la clinica dove gli possono servire queste cose. Quali obiettivi uno può perseguire con questi strumenti. Perché non è che con questi strumenti uno possa perseguire tutti gli obiettivi, avrà degli specifici obiettivi. Allora identificare gli obiettivi e sapere quando usare questi concetti e quindi dare la pertinenza di questo modo di affrontare la patologia e chi fa della clinica ! |

Viganò – E' su questo che io vorrei fare un commento. Ho ascoltato nella relazione di Tronconi un elemento interessante, che io formalizzerei così : come una linea di spostamento dell'attenzione dalla distinzione cognizione-emozioni (questo all'interno del comportamentismo cognitivismo), ma, lui l'ha documentato e io sono assolutamente d'accordo, anche all'interno della ricerca psicoanalitica lo spostamento è stato dello stesso ordine. Quindi al di là delle formalizzazioni teoriche ( ?) le teorie iniziano su una base cognitiva, di interpretazione simbolica dei fenomeni. Per Freud è stata l'idea della rimozione e del ritorno del rimorso, quindi del sintomo come formazione di compromesso, quindi interpretabile come una metafora simbolica cognitiva comunque e poi Freud è andato proprio in crisi, o ha dovuto allargare o modificare la teoria proprio a partire dalla non esaustività di questa lettura e ha introdotto la funzione di morte e quindi tutto l'elemento non simbolico, ma affettivo, pulsionale, qui i termini sono veramente quasi corrispondenti. Si passa dalla cognizione all'emozione. Il passaggio di queste teorie psicologiche comunque è verso un dare sempre più peso di specificità clinica all'emozione… Io non appartengo a nessuna delle due categorie delle appartenenze a cui si è riferito Tronconi, né a quella cognitivista né a quella dell'IPA e quindi dico che anche dal mio punto di vista terzo, uno psicoanalista eterodosso rispetto all'IPA, come Lacan, lo chiama godimento, oggetto, come qualcosa che sfugge alla presa simbolica. Questo elemento non simbolizzabile, emotivo, quantitativo (nei termini di Freud), legato quindi alla pulsione di morte, nel senso che sfugge all'interpretabilità, questo si rivela essere il nocciolo più importante dello psichismo, il nocciolo specifico. Come dire, il nocciolo non simbolizzabile, "organico", biologico o chimico, di cui si può legittimamente aspettare una rispondenza anche nelle strutture biologiche. Su questo punto io trovo una risposta alla domanda del professor Smeraldi, cioè che effettivamente l'utilità clinica…, queste teorie di tipo psicologico – mettiamo pure alla pari comportamentismo, Pavlov, cognitivismo e psicoanalisi – alla prova della clinica, devono modificare il punto interpretativo iniziale per introdurre un elemento che sfugge all'interpretazione e che chiamano via via godimento, pulsione o affetto. E come un elemento specifico, quantitativo della clinica da cui ci si può aspettare, io vedo nell'esperienza, … si ritrova una corrispondenza con le strutture isolate per altra via, una via più biologica o anche statistica. L'utilità di questa carrellata io la trovo innanzitutto in questo elemento : il vedere come, in fondo, un elemento specifico, organico, a cui ogni psicologia arriva è (chiamiamolo) l'emozione, (chiamiamolo) l'affetto, (chiamiamolo) la pulsione, equivalente equivalente equivalente, cioè gli elementi non decifrabili in termini simbolici ermeneutici stretti. Direi una seconda cosa. Questo elemento quantitativo, affettivo, che sta alla base dello psicologico anche indagato a partire dall'ermeneutica invece che a partire dalla biologia, come mai lo si ritrova… questo elemento è semplicemente indebolire la teoria di partenza, che fosse ermeneutica psicoanalitica o che fosse cognitiva, cioè una sorta di rinuncia alle premesse teoriche per avvicinarsi di più al biologico o al clinico come tale, perciò una sconfessione del punto di partenza, oppure questa evoluzione, che io individuavo a partire dalla clinica, è comunque debitrice del punto di partenza ? Mi sembra un quesito forse un po' astratto, ma ha il suo peso. Io credo che queste due teorie, queste due correnti teoriche che ha esaminato Tronconi, che percorrono in fondo uno stesso itinerario che le porta in qualche modo anche a convergere nell'isolare l'elemento psichico comune, che io chiamerei l'oggetto non decifrabile, l'oggetto psichico primario, credo che restino comunque debitrici al punto di partenza, nel senso che l'oggetto così isolato, la pulsione o l'affetto sono debitrici al punto di partenza. Io ho trovato un passo del seminario di Lacan in cui dice : "Non ce n'è che uno di affetti ed è il risultato dell'opera del linguaggio sull'essere parlante, che produce un oggetto, o anzi che produce il soggetto come oggetto per l'altro, per il desiderio dell'altro." In fondo l'affetto è questa oggettualità che l'oggetto diviene, a partire dall'influenza del linguaggio. Quindi ciò che il linguaggio non arriva a dire, ciò che non si può dire, diventa oggetto d'amore. L'oggetto è essenzialmente l'oggetto dell'amore, l'oggetto indicibile. Trovo che questo sia il debito che il pulsionale, l'emozionale deve al linguaggio, che in realtà questo elemento psichico… che è emozione, pulsione, ecc., è il prodotto della cognizione, è il prodotto del linguaggio, il prodotto della cultura, che secerne come nocciolo desiderante del soggetto ciò che non è culturalizzabile, ciò che non è interpretabile, ciò che non è dicibile. E' ciò che resta misterioso nell'essere umano che diventa oggetto del desiderio, oggetto dell'amore. Questo è l'itinerario della teoria psicoanalitica. Resta interessante l'osservazione finale, su cui si reggeva proprio l'argomentazione di Tronconi, cioè della convergenza di un oggetto, che siamo abituati a pensare nella maniera più metafisica possibile (l'oggetto dell'amore come in fondo isomorfo, isostrutturale), con l'oggetto nel senso più strettamente biologico o addirittura biochimico o genetico. L'elemento che per via psicologica si raggiunge come non ermeneutico, non dicibile, che il linguaggio isola come punto motore del desiderio umano, abbia una corrispondenza con l'amigdala, con certi tipi di lesione… quindi con l'organicità più stretta. Non mi appoggerei su questo dal punto di vista argomentativo. E' sufficiente dire che mettere l'oggetto psichico isolato come emozione invece che come cognizione, come godimento invece che come formazione dell'inconscio, mi dà un utilizzo clinico più adeguato e più vicino alla clinica reale. |

Tronconi – … Paradossalmente io ho affrontato solo uno dei punti di convergenza. Con il cognitivismo ce ne sono ben cinque altrettanto trattabili in modo esaustivo. Quello che volevo aggiungere… ad esempio sull'emozione agli inizi i comportamentisti facevano degli interventi brevi perché non doveva esserci emozione tra terapeuta e paziente. Era qualcosa che dava addirittura fastidio, poteva rovinare l'esito e l'obiettivo da raggiungere. La stessa cosa avveniva anche per la psicoanalisi. Nel 1910 Freud, quando parlò per la prima volta di controtransfert al congresso di Norimberga, mica ne parlò in termini come qualcosa di utile. Allora c'è stata da entrambe le parti una sorta di evoluzione, ognuno fruendo dei dati clinici…, che i comportamentisti si trovavano dei risultati sorprendenti, non per le tecniche che usavano, ma per qualcos'altro che capitava. Allora la clinica psicoanalitica ha scoperto in realtà che le emozioni non erano qualcosa che doveva essere eliminato, per cui il proprio controtransfert, ossia l'emozione che prova il terapeuta, era qualcosa che poteva far male alla relazione e doveva essere quindi risolto nel più breve tempo possibile. E' qui che parimenti è stato portato l'utilizzo delle emozioni e l'utilizzo dell'affetto. Su ambedue i fronti… |

Sartorelli – Io devo dire che non sono assolutamente d'accordo… Per questa ragione : perché non si può fare questo parallelismo che tu fai tra lo sviluppo delle teorie cognitive e la psicoanalisi. La teoria del transfert nel 1910 Freud l'aveva già elaborata. | Io parlo del controtransfert. | Ho capito che tu parli del controtransfert. Perché ti dimentichi del transfert ? Il tratto distintivo della psicoanalisi è la teoria del transfert. Che tu metta in luce come Freud vedesse il processo solo in una direzione, cioè dal paziente verso l'analista e invece sia stato uno sviluppo ulteriore il vedere una direzione più univoca sono d'accordo, ma non si può dimenticare che il tratto distintivo riguardasse esattamente gli affetti ab origine, a differenza delle terapie cognitive e delle teorizzazioni ( ?) cognitiviste… Infatti se vogliamo considerare la psicoanalisi esclusivamente (ma è un'opera di astrazione assolutamente lecita, ma che va precisata) come un modello teorico ed essenzialmente ridurla appunto ad un modello teorico, ermeneutico, va benissimo. Se vogliamo considerarla nel suo complesso non si può dire che gli affetti, le pulsioni, ecc. non siano presenti, non siano fondanti. Cioè il processo analitico si fonda (1910 "Scritti sulla tecnica e dintorni", ma anche a proposito dell'interpretazione del sogno, Cap. VII), sul fatto di ricordare, ripetere, rielaborare, per usare una banale sintesi dell'applicazione della teoria analitica… Ma cosa vuol dire ripetere, rielaborare ? Vuol dire che l'analista è interessato…, sì è vero interpreterà il sogno, penserà, farà associazioni, utilizzerà strumenti linguistici, ermeneutici, tutto quello che vuoi, però è interessato ad adoperare tutto questo tenendo su ( ?) un dato esperienziale, che condivide col paziente e che consiste nell'esperienza di questo ripetere, con l'analista, i vissuti emotivi della propria esperienza. Io credo che una distinzione ci sia,… questo ovviamente nulla toglie alla possibilità di una riflessione teorica… di confronto tra modelli. Io poi ero interessato a questa domanda del professor Smeraldi, che dice : "Ma qual è il punto di applicazione di questo… come può poi il clinico utilizzare queste cose ?" Io risponderei così : "La teoria psicoanalitica e la pratica psicoanalitica si può applicare ( ?) alla patologia quando il clinico pensa di avere a che fare con un proprio simile e pensa che c'entrino, cioè che siano decisivi nel modo di vivere e di pensare patologico e di sentire patologico del paziente… fattori tipo le emozioni, lo scambio di emozioni e di pensieri, come ci si sente e ci si pensa nello stare accanto ai propri simili. Nel momento in cui ha presente questo c'è una linea di ricerca, quella psicoanalitica, che dice : "Guardate che in certe condizioni opportune, se uno le mette in atto, come ad esempio un setting analitico, può scoprire determinate cose e può succedere trattando l'esperienza che si condivide, possono succedere determinate faccende." Ci sono pazienti… che tollerano che noi ci avviciniamo a loro e parliamo e tollerano di prestare loro attenzione a quello che sperimentano, a ciò di cui si accorgono o a quello che desiderano e ci sono quelli che non lo tollerano. E allora per coloro che non tollerano di avere delle emozioni o dei pensieri non c'è niente da fare con questi strumenti. Ci si può lo stesso avvicinare a questi pazienti per un lavoro preliminare, cioè tentare con loro, visto che fintanto che continuano a campare il problema esiste, se sarà possibile, una convivenza con quello che giorno per giorno, momento per momento, per il fatto di essere vivi, trovano in sé stessi : emozioni e pensieri. |

Smeraldi – Interessante questa visione. Mi tocca di specificare alcune cose che io ho detto… L'indicazione che lui dà è l'indicazione generica su una sofferenza psicologica, in questo caso siamo d'accordo… sul significato e l'utilizzo di uno schema di riferimento di tipo anche psicoanalitico… Ma è la psicopatologia che mi complica la vita. Perché è la psicopatologia che mi detta un obiettivo, che non è quello generico di stare vicino e lenire la sofferenza o aiutare, o creare dei fatti psicologici, ma è quello di ridurre determinati fenomeni. Allora il problema prende un'angolatura diversa. La mia domanda, forse l'ho fatta in termini troppo generici, quando ho chiesto della pertinenza di questi discorsi sulla clinica, io intendevo un discorso di questo genere : quand'è che devo attivare non un trattamento psicoanalitico o un trattamento cognitivista, ma quando, nell'approccio clinico, che è quello via ultima comune, posso pensare che questi due elementi mi sono utili nella loro convergenza ? Questa è la pertinenza. Se no rimangono dottrine, rimangono un approccio conoscitivo notevolissimo (ce ne sono tanti di approcci conoscitivi, ci sarà anche questo), ma non mi è utile, non ha una pertinenza sulla mia prassi. Quando ho fatto la domanda intendevo questo. Mi pongo questo problema. Ho sentito delle cose. Possono essere interessanti, qualcuno le condivide, qualcun altro no… Ma io voglio sapere la pertinenza, perché questo è un approccio di ordine clinico. Se poi invece facciamo un approccio di ordine speculativo diventa una cose diversa. |

X – Io penso siano invece assolutamente specifiche di questo intervento. C'è una differenza tra un approccio scientifico (non so, studiamo la fisiologia, studiamo la neurofisiologia e tutto quello che vogliamo) e ci pensiamo ( ?) in un assetto mentale particolare. Io propongo che sia specifico e pertinente a qualunque patologia si presenti, perché si può sapere, si può pensare, si può valutare abbastanza agevolmente e per certe patologie è un approccio che non ha senso semplicemente. Però in genere ha senso. Ha senso anche per i pazienti che sono ricoverati qua. |

Smeraldi – Questo approccio ha sicuramente senso per tutti, perché tutti hanno una psicologia. Anche quelli che hanno dei fenomeni psicopatologici mantengono un assetto psicologico individuale. Anche quelli che hanno un fenomeno psicopatologico hanno una risonanza emotiva e cognitiva della presenza del fenomeno psicopatologico e quindi, come tale, è un approccio che va bene per tutti… il discorso è se è pertinente su quell'altro pezzo, perché allora io devo utilizzarlo in termini più specifici. Cioè devo sapere qual è l'obiettivo, qual è la tecnica da usare, cosa devo ottenere, quali sono i tempi in cui lo ottengo… cioè una prevedibilità dell'intervento sul fenomeno psicopatologico. Poi è chiaro che nell'approccio clinico generale c'è anche un aspetto psicologico. |

Freni – Mi sembra che il primo punto che metteva in risalto Sartorelli ci riporta alla questione se, al di là di queste convergenze plurimodellistiche teoriche rimane ancora questo "iatus" tra il modo di comprendere psicoanalitico… e il modo di comprendere cognitivista, che qui è dubbio se avviene per identificazione o per ostensione, per obiettivazione, il che sul piano della pratica pone uno iatus piuttosto importante, che non è possibile liquidare così ottimisticamente. Per quanto riguarda invece l'altra questione che poneva Sartorelli cioè che, premessa la condizione per cui due esseri umani si incontrano, si dichiarano disponibili a incontrarsi per capirsi, questa condizione di base diventa il punto specifico, scientifico di riferimento per qualsivoglia tipo di psicopatologia, effettivamente non risponde al quesito che poneva il professor Smeraldi, perché lui pone il quesito dal punto di vista in cui lo pone oggi l'orientamento più moderno, sia quello scientifico che amministrativo, di costo-efficacia dei trattamenti. Oggi ci sono questi criteri di valutazione, che pongono questi problemi. Allora mi pare che da questo punto di vista non c'è stata ancora una risposta. Cioè a me sembra che a questo punto una possibile risposta la troviamo nella citazione di Semerari ed altri, quando parlano di queste strutture prototipiche predittive. Cioè è la predittività, la correlazione tra capacità predittiva di un modello, di un cliché, che lo chiamiamo cliché di transfert, che lo chiamiamo pattern di attaccamento,… il problema è poter rispondere che abbiamo dei dati per cui questo approccio, sia che sia di ordine psicoanalitico, per cui si potrebbe dire un transfert negativo, aggressivo e distruttivo, erotizzante, ecc., richiede un trattamento sicuramente più lungo, più complesso, espone l'analisi dell'analista a esperienze tormentose, aggressive (può accadere che nel corso di un'analisi ci siano manifestazioni suicidarie), piuttosto che un transfert benevolmente positivo… oppure un attaccamento sicuro, che predispone ad un trattamento breve, facilmente attuabile attraverso la psicoterapia cognitiva, piuttosto che un attaccamento disordinato, confuso, che ha a che fare con gli stati dello spettro schizofrenico. Ci sono effettivamente dei dati utili. Come quando è venuto ( ?), a proposito dei borderline diceva della superiorità, in termini di rapidità e di efficacia, dell'approccio cognitivo nel borderline che tende al suicidio, rispetto all'approccio psicoanalitico, perché l'approccio psicoanalitico mobilita il mondo emotivo, può al limite pericolosamente riattivare questi clichés ripetitivi. Mentre l'altro approccio… li affronta all'interno di un setting molto duro, rigoroso, li impedisce in un certo senso e pare, sul piano operativo, più efficace. Ci sono effettivamente molti dati anche se, secondo me, non sono ancora così ben organizzati da poter dire se hai un paziente "Con questo tipo di manifestazione sicuramente l'indicazione è questa"… Questa indicazione è molto per grandi linee per cui c'è il rischio di vendere stereotipi : depressione uguale terapia cognitiva-comportamentale, borderline con tendenze suicidarie meglio cognitiva… Non vorrei che succedesse come spesso succede nell'organizzazione soprattutto accademica del sapere, quella che passa attraverso i libri di testo, che passa attraverso la formazione specializzante, che nei semplici dati provenienti da ricerche abbastanza circoscritte, con metodologie non ancora del tutto rigorosamente controllate, diventano poi delle indicazioni generalizzabili. Per esempio tutti gli studi fatti sulla brevità o meno delle psicoterapie, in cui si confrontano farmaci su psicoterapie, psicoterapie di un tipo su psicoterapie di un altro tipo basandosi su 10, 15, 20 sedute, metodologicamente non sono da prendere sul serio. Possono indicare qualche cosa, ma prenderli sul serio veramente è ridicolo perché è fuorviante, è una bugia… Io sfido chiunque, qualunque tipo di psicoterapeuta a dirmi che risolve una condizione borderline con 15, 20 sedute di qualunque tipo di psicoterapia. Può risolvere una specifica area problematica, ma non la personalità borderline. Ci vogliono 10 anni, 20 anni di psicoterapia, se ce la fa a modificare una struttura di personalità. Per concludere se tu hai qualcosa di più specifico da dire… forse rispondi meglio alla domanda… |

Morgese – C'è una precisazione… Riallacciandomi a quello che diceva il professor Smeraldi. Giustamente si trattava di procedere per obiettivi. Cioè noi cosa vogliamo ottenere quando curiamo un paziente ? Allora i cognitivisti cosa fanno ? Questo è il punto. Operano su un livello di coscienza. Operano nel campo della coscienza, che non ha a che vedere con il campo dell'inconscio, dettato da Freud. Ma quando ? Dopo il 1910, dopo il 1915. In altre parole, il primo Freud faceva esattamente come fanno i cognitivisti : rafforzava l'IO, il campo di coscienza in cui viveva il paziente e basta. La reicidiva dei sintomi, la ripresentazione dei sintomi sullo scenario era un problema per Freud. In altre parole Freud aiutava i pazienti ad usare per esempio la sconfessione… perché secondo Freud sconfessando ciò che l'individuo rafforzava lì e teneva fuori dal campo di coscienza gli impulsi indesiderati. Però a un certo punto si è accorto che ricorrendo al metodo della sconfessione, cui si abituava il paziente, "Tu sconfessa quegli impulsi che insistono a rappresentarsi al campo di coscienza", si è accorto che quello stesso fenomeno, meccanismo psichico della sconfessione era una delle origini del sintomo. Quindi a un certo punto ha dovuto abbandonarlo. Il problema è questo qui per non cadere nell'ingenuità : noi affidiamo in seguito a un'osservazione il paziente a un cognitivista. Perché ? Perché evidentemente riteniamo che quel paziente, quell'individuo debba essere rafforzato nel suo IO e deve rimanere su un campo di coscienza abbastanza strutturato, con un contesto che non va decontestualizzato, che non va fatto regredire in funzione del passaggio dello stesso individuo al campo dell'inconscio, altrimenti… quel paziente potrebbe destrutturarsi, potrebbe scompensarsi. Quindi, secondo me, va detto in primis che cosa vogliamo ottenere e poi, quando ci riferiamo alla psicoanalisi, a quale psicoanalisi ci riferiamo. Perché, ripeto, lo stesso Freud aiutava i pazienti, le isteriche per esempio, a ricorrere a quel meccanismo della sconfessione, che poi egli stesso successivamente ha posto alla base della formazione dei sintomi. Quindi lui si era accorto che aiutava i pazienti, nella prima fase… a perpetuare il meccanismo della formazione dei sintomi… E' importante questo. Dire a un paziente : "Lei potrebbe fare un'esperienza di psicoterapia ad orientamento analitico", bisogna dirgli alcune cose ben precise… Con i cognitivisti, secondo me, siamo ancora in un campo di coscienza ben preciso… |

… Proprio su questo punto io prima intervenivo. Cioè io non sono così sicuro che i cognitivisti moderni… |

Lo dicono i cognitivisti ! "Noi apprezziamo la psicodinamica che voi mettete alla base del transfert. L'apprezziamo però non interessa… |

Il problema è che quando loro parlano di strutture prototipiche ripetitive stanno parlando di cliché di transfert con un altro linguaggio. Quando parlano di pensieri automatici che si impongono alla coscienza… |

Parlano di "sintomi" loro, di moduli comportamentali… |

Ma è un modo indiretto di dire, con un linguaggio diverso, ciò che in linguaggio psicoanalitico… | Sotto il profilo descrittivo sì. |

Freni – … va sotto il nome di dell'inconscio. Il problema che rimane aperto, non so se tu puoi chiarirlo, è se loro se ne occupano partendo dall'accettazione del concetto di inconscio. Perché ci sono cognitivisti moderni che sono aperti al discorso ( ?) dell'inconscio, altri che dicono : "Noi non abbiamo bisogno di postulare l'inconscio per dire quello che andiamo a dire. Non ci serve la nozione di inconscio." Questo è un punto fondamentale che poi, a livello della pratica, inciderà su quella cosa che dicevo prima io : capiscono per identificazione o capiscono per obiettivazione, ostensione, il paziente ? |

Agiscono per rafforzamento del campo di coscienza… |

Se agiscono così è una forma di psicoterapia di sostegno… |

Protofreudiana !

Protofreudiana, formalizzata con delle operazioni tecniche… |

Sì, ma loro lo dicono ! |

Ostensione e identificazione secondo me dipendono dal fatto che a quel punto la convergenza è solo nel fatto che si vede. Cioè si vede un cliché ripetitivo… |

La convergenza a questo punto è la descrizione dei fatti di coscienza per come si vede… … attribuito all'organizzazione della mente che era un'organizzazione limitata e ripetitiva. Per la psicoanalisi invece ha una serie di significati che hanno portato a convergere e a non essere più in grado di svilupparsi. Per cui la convergenza diventa solo sul fatto osservato, che in effetti si assiste a una ripetitività, a un cliché riduttivo… |

Ma questa è un'altra cosa. Io penso che chiunque si occupi di fatti psichici se osserva la fenomenologia descrittiva userà parole un po' diverse, ma più o meno… concordiamo sul fatto che stiamo osservando delle cose che, sul piano di un linguaggio conscio…

Freni – … Oggi la sfida in campo di ricerca tra psicoterapie, di confronto tra psicoterapie diverse è questa stranezza per cui ogni psicoterapia cerca di affermarsi su una presunta superiorità, forza teorica, clinica e capacità terapeutica. E questo è un campo dove ancora non c'è nessuna dimostrazione. Oggi molto faticosamente siamo arrivati al punto di dire : "La psicoterapia genericamente serve." Arriva il professor Smeraldi e dice : "Ma io non faccio fatica a crederlo. Se una persona soffre e un altro è disposto a condividere con lui la sofferenza non c'è dubbio che questo gli serve. Ma io vorrei capire per che cosa serve, quanto costa, quanto tempo dura, se intervengono delle specificità per cui è preferibile fare così, piuttosto che cosà." Pone la problematica su cui chi è interessato alla ricerca scientifica in psicoterapia si sta rompendo la testa per trovare una risposta a questi quesiti e onestamente, dobbiamo dire, ancora non c'è. Tranne quei pochissimi esempi che facevo prima, che non possono essere presi, generalizzati, universalizzati. Sono ricerche recentissime che vanno ancora riviste. E' questo il punto… Una tecnica importante del cognitivista è… "challenge". Un esempio classico è il depresso : "Sono sicuro che starò male…" E' una tecnica cognitivista-comportamentista classica. Il terapeuta a quel punto sfida il paziente a dimostrare la sua capacità predittiva su un evento positivo : "Lei la fa facile a predire un evento negativo… perché non mi prevede un evento positivo, che lei esce da qui e diventa contento, allegro, si innamora ? Mi faccia una previsione di questo tipo, vediamo se l'indovina." Questo è il classico challenge molto usato soprattutto nella terapia della depressione. |

E' un po' la tecnica paradossale in termini sistematici. |

Vedi come appunto noi crediamo a specificità che non esistono. Per questo la convergenza è auspicabile se porta a questa scrematura di cose inutili,… che sono le espressioni, l'imperialismo del linguaggio, caratterologie dei vari autori. Altra cosa molto precisa : l'isterica depressa che si piazza a letto mezza morta. Un classico delle terapie di questo genere… è quello di dire : Non fate come fanno i familiari ("Alzati, vai !"). Quante volte anche noi ingenuamente, nei reparti, cadiamo in queste cose. Oggi si sa ed è clinicamente provato che in questi casi… Io mi ricordo un caso straordinario di una che non si muoveva più. "Cara signora lei stia tranquilla. Lei può stare qui tutto il tempo che vuole. Può stare una settimana, un mese, un anno, 10 anni. Nessuno la disturberà. Lei si alzi solo quando se la sente. I suoi familiari li cacciamo, non li facciamo neanche entrare." Dopo mezza giornata si è alzata e s'è fatta dimettere. Per dire che effettivamente ci sono delle tecniche comunicative nella misura in cui colgono certi clichés, pattern ripetitivi… risulterebbero più efficaci che altre. Piuttosto che stare lì passivamente, porsi in ascolto silenzioso, interventi del genere risulterebbero… più incisivi, più efficaci… Queste cose si possono dire. Però temo che purtroppo ancora non sono così sistematizzate e sistematizzabili al punto da costituire una risposta valida al quesito che poneva il professor Smeraldi. Però c'è tutto un lavoro in questa direzione… |

Tronconi – … Ho dato una bibliografia… Il libro di Roth e Fonagy "Psicoterapie e prove di efficacia" è ricco di semplificazioni cliniche. Fonagy è proprio quello che ho citato all'inizio e che ha messo in evidenza la convergenza dei due modelli. In questo libro fa vedere la specificità degli approcci e quando è più indicativo usare l'uno o l'altro addirittura in successione. Ricordo un bellissimo caso in cui è stata usata prima la terapia cognitiva e successivamente la terapia analitica. E fa vedere le diversità… l'altra cosa che volevo dire a Sartorelli è parlando di convergenza non significa eliminare le divergenze. E' ovvio, ogni modello ha una divergenza con l'altro. Come parlare di controtransfert non significa eliminare il transfert. Io volevo far vedere semplicemente una cosa, molto specifica e focalizzata. Perché è indubbio che oggi la psicoanalisi tratta il controtransfert diversamente da come veniva trattato 50 anni fa. Semplicemente volevo far vedere come alcune cose, anche negli altri modelli, sono state modificate. In quei modelli che secondo me sono intelligenti. Tanto è vero che i tre modelli che si sono salvati sono il modello cognitivista, il modello psicoanalitico e il modello sistemico. Perché qui non si è parlato della sistemica, ma la trasformazione che ha avuto il modello sistemico non avete idea ! Allora… se si ricava dall'esperienza clinica, anche la teoria viene modificata. Quello che, se vogliamo, la psicoanalisi ha avuto come gratificazione è che le modificazioni che ha introdotto nella clinica sono state poi riscontrate in prove sperimentali che qui ho citato. Quando parla della famosa situazione "diadica" è tutto stato confermato che è un dato naturale e continuo. Mentre l'analisi lo scopriva man mano che faceva prove con i pazienti. Con alcuni pazienti, ad esempio, Winnicot… a un bel momento ha un paziente. Gli dice : "Anch'io, come lei, odierei sua madre." Winnicot è il primo che ha introdotto sue modalità emotive e ha trovato delle risoluzioni. Per non citare tutti gli altri che hanno cominciato a introdurre nella clinica, nella pratica. E questo poi si è visto che ha modificato tutto un aspetto fondante. Oggi siamo più sicuri su alcune cose. Un'altra cosa a difesa del cognitivismo. Attenti a non far dire al cognitivismo quello che voi volete. Per quello io ho portato oggi una comunicazione molto ricca di citazioni di cognitivisti quando parlano di cognitivisti. Non è vero che i cognitivisti oggi sostengono solo la coscienza… perché veramente fanno un grosso torto a uno sforzo che hanno fatto i modelli cognitivisti a introdurre un elemento importantissimo nella relazione, che è l'emozione, che è l'affetto, su entrambe i versanti. Questo non si può più negare. Ed è questa la convergenza, che può far parlare e intendere i due modelli. Per non parlare poi del modello sistemico, che addirittura partiva con una teorizzazione forte, che deve avere il nucleo familiare sempre presente… se non si presentavano tutti i componenti della famiglia li mandava via. Adesso si parla di terapia sistemica individuale. E' questo, secondo me, anche l'aggiornamento che dobbiamo fare noi, avvicinati ad altri modelli ma veramente per i loro guadagni e per i loro cambiamenti e non avere in mente, come ho scoperto molti hanno in mente, la psicoanalisi sempre quella là, la sistemica sempre quella là. Il cognitivismo oggi, quando ne parlo, tutti lo confondono con lo "stimolo-risposta". Ma forse è un'altra cosa !… |

Viganò – Infatti credo che forse il termine convergenza è un po' fuorviante. Nel senso che queste intersezioni forse, che si sono viste tra psicoanalisi e cognitivismo (adesso si introduce anche la sistemica effettivamente) mostrano secondo me che c'è una trasformazione delle teorie tale per cui effettivamente le teorie si arricchiscono e prendono anche dei pezzi l'una dall'altra. Perché la psicoanalisi non solo si è trasformata, ma si è arricchita e l'introduzione di quella versione dell'affettività o dell'affetto, che è la relazione d'oggetto ad esempio, ha permesso di fare, in un modo analitico, la diagnosi differenziale tra il campo delle nevrosi e delle psicosi. Credo che questo sia il contributo specifico dell'individuazione dell'affetto a livello della psicopatologia, che chiedeva il professor Smeraldi. Perché Freud diceva : "La psicoanalisi è adatta per la nevrosi. Punto a capo. Perché solo lì c'è il transfert." Non bisogna dimenticarlo questo. Lui sconsigliava di trattare analiticamente le psicosi. Questo è tutto un movimento che c'è stato dopo Freud, della psicoanalisi, di trovare degli strumenti derivati dalla psicoanalisi per cui si è scoperto che c'è un transfert di un altro tipo,… c'è una posizione rispetto all'oggetto dello psicotico di altro tipo, rispetto a quello del nevrotico, per cui lo psicoanalista con lo psicotico non farà certo le interpretazioni. Al paranoico non va a iperinterpretare, perché interpreta già il paranoico e casomai farà un lavoro di decostruzione dell'interpretatività paranoica, ponendosi in una relazione affettiva che… allenta la morsa di quest'interpretatività paranoica. Quindi lo psicoanalista ha allargato, attraverso proprio la questione, l'elaborazione dell'affetto e dell'oggetto, una possibilità sia di terapia della psicosi, sia soprattutto di descrizione psicopatologica della psicosi. Poi ci sono adesso nuove acquisizioni… che permettono ad esempio allo psicoanalista di fare una diagnosi differenziale, rispetto a patologie come anoressia e tossicodipendenza, che non sono né psicosi né nevrosi. In linguaggio normale si parla spesso di disturbi di personalità, di borderline, ecc. Ma c'è una via psicoanalitica a questa psicopatologia che risulta interessante. Ciò che ne risulta come panorama, è che effettivamente c'è un'intersezione tale fra cognitivismo, psicoanalisi, sistemica, ecc., per cui… le autonomie tecniche secondo me scompaiono… Il professor Freni prima ha fatto un intervento paradossale. Allora in quel momento lì è diventato sistemico ? Poi adesso ridiventa psicoanalista ? E' chiaro che sono acquisizioni transculturali nella terapia, per cui dei modelli penetrano negli altri. Allora cos'è questa distinzione ?… Perché abbiamo così bisogno di dire il cognitivista, lo psicoanalista, il sistemico, perché queste distinzioni che non sono più tanto presenti a livello di certi utilizzi di strumenti nella terapia invece ricompaiono nel definire dei personaggi, dei professionisti, delle scuole, dei raggruppamenti di scuola e di appartenenza ? Lì risorgono le distinzioni nette, pure e dure. Mentre poi anche il congitivista, quando si trova con il suo paziente, usa il transfert. Vorrei vedere che non usasse il transfert. Il transfert è una struttura che esiste anche se lui non gli dà un nome. |

Sartorelli? – Però secondo me un'altra differenza, un'altra fonte che potrebbe essere interessante per valutare la convergenza è che in realtà dargli il nome non è poi così indifferente,… perché in realtà si creano… dei criptotipi, dei mascheramenti di contenuti dietro il nome della parola, l'etichetta che poi creano per esempio la possibilità di strumenti diversi. Perché quando io inizio a chiamare "seno buono" o "relazione d'oggetto" una cosa, questa cosa prende dei contenuti, non è solamente una definizione… Acquista delle valenze che poi sono latenti e sviluppano un'influenza per esempio sugli strumenti, che userò per intervenire. Una volta definito un linguaggio, quelle parole che cadono sotto una determinata definizione continuano a mantenere una valenza, che dipende dall'apparato teorico di riferimento. Quindi lo psicoanalista piuttosto che il cognitivista continueranno a essere separati anche per le parole che usano, perché queste parole trasportano, trascinano una serie di ipotesi, di presupposti, che non sono neutri. |

Viganò – Mi sembra molto importante. Sarebbe da dedicare un seminario a questo effetto di ritorno. Perché è vero : l'uso di certe categorie, a partire dal contesto in cui sono nate, hanno un ritorno che è di natura clinica, tecnica… io lo qualificherei, questo qualcosa che i concetti si portano dietro per il fatto di essere denominati così, anche se sono la stessa cosa di un altro concetto usato in un altro campo teorico-tecnico, ciò che si portano dietro le parole, i concetti come tali nella loro formulazione, nel loro peso significante, credo che sia qualcosa della… qualità etica. Io preferisco dire etica piuttosto che tecnica. Quindi di un atteggiamento, di una posizione con cui si sa che un soggetto terapista riempie il vuoto della tecnica piuttosto che essere… il pieno della tecnica, cioè quello che è descrivibile, trasmissibile, per cui si scrive un manuale, si fa un protocollo, chi lo adotta è in quella tecnica, quello è trasmissibile e non è legato a questo peso di ritorno… di feedback dei concetti. Quello che è veicolato da questo feedback del concetto nella sua origine, è ciò che non è tecnico, che però agisce nella tecnica e che è una qualità legata allo stile. La parola etica, vedo, fa rabbrividire qualcuno. |

Merlini – Era un po' per riprendere quest'ultima cosa che hai detto tu, adesso, sulla questione delle convergenze o delle divergenze, che a parer mio non possono essere affrontate passando dai confronti teorici. Nel senso che di fatto poi, dall'enunciazione della teoria alla pratica o alla tecnica c'è quel "gap", che è sempre riempito da quello che accennava Viganò, che si può chiamare quell'oggetto mancante o si può chiamare quell'atteggiamento etico e sul quale io credo che stiamo soltanto iniziando a ragionare e a pensare. Qui stiamo proprio balbettando qualche cosa su quello che è il punto fondamentale. Ci riempiamo invece più facilmente la bocca quando invece parliamo delle teorie, di taluni concetti che diamo ovviamente per scontati, ma che poi invece non sono così, neanche fra gli stessi appartenenti a scuole, indirizzi e quant'altro. Dire, ad esempio, che uno lavora con il transfert e l'altro no a parer mio non vuol dire assolutamente niente, se non applichiamo a questo tipo di nozione quell'aspetto, che io chiamo etico,… su cui si deve applicare la tecnica per poi arrivare a un confronto con la clinica. Sono tutte parole. Io trovo che interpretare… lo strumento dell'interpretazione può essere uno strumento fortemente direttivo, quindi lontano in un certo qual modo da certi principi psicoanalitici, come ad esempio può essere invece altamente psicoanalitico, nell'ambito di un certo tipo di cura, anche la prescrizione di un farmaco. Allora se noi usciamo dalle teorie ed entriamo un po' in questi parametri, io credo che si possano trovare delle convergenze e delle divergenze, ma transitando dall'operatore, che applica la teoria e la tecnica, non baipassando dalla teoria tout court, dicendo : "Anche voi usate il controtransfert." Ma cos'è esattamente per me, per Viganò, per Freni, questo concedere il controtransfert ?… Tale per cui se una volta bastava dire tre, quattro cose : "Usi il lettino ? Quattro volte alla settimana il paziente ? Allora sei uno psicoanalista." Oggi credo che una cosa così non sia più sostenibile. Può essere sostenuto anche il contrario. Il gruppo di lavoro che si è riunito attorno a Viganò per l'aspetto teorico clinico, il gruppo di lavoro che si sta organizzando attorno a Madei per la ricerca… secondo me sono due esempi di operatività che va… oltre le singole appartenenze, oltre le singole teorizzazioni, ma che si incontra su un piano, che io ritengo essere quello della soggettività, quello dell'etica e quello del confronto proprio sulla tecnica. Allora lì è possibile discutere, capirsi, affrontare e confrontare e tirare fuori quello… che dovrebbe poi essere un po' la teoria unificante. E qui sposo un po' l'idea della fisica, che è lì che si arrabatta per cercare di mettere insieme le due teorie deboli e quella dei quarq, per cercare finalmente una teoria unificante, che spieghi tutto. Nella mia divagazione un po' onnipotente, penso che si debba andare in quella direzione. Ovviamente, questo lo dico come analista, salvaguardando quei due, tre presupposti che sono fondanti, fondamentali per qualsiasi approccio di psicoterapia : la responsabilità, l'etica, l'autorità, ma non il potere. Ad esempio, sono convinto che un'operazione che distingue lo psicoanalista in un certo senso dallo psicoterapeuta sia tutta la questione legata all'autorità o al potere. Io penso che come psicoanalisti noi non abbiamo nessun potere nei confronti del paziente. Neanche quello di dire : "Tu devi fare questo tipo di terapia, perché secondo me rispetto alla diagnosi oggettivamente che ti faccio è meglio questo approccio piuttosto che quest'altro." Trovo molto psichiatrico un atteggiamento così, non psicoanalitico e quindi secondo me la questione dell'autorità come esercizio di ruolo, ma non come esercizio di potere, è uno dei criteri fondamentali. La responsabilità è un altro di questi… Attorno a questi concetti credo si possa trovare la cosiddetta "teoria unificante"… |

Di Giovanni – … Un'osservazione che mi deriva dal discorso molto interessante che ho sentito oggi, ma soprattutto… mi sono trovata a riflettere su un lavoro mio… per cui parlo di un'osservazione legata al fatto di essere operatore con una formazione psicoanalitica in un'istituzione. Questo mi faceva dire due cose… Una : si è parlato anche del fatto che per parte ( ?) della teoria cognitiva non si neghi l'esistenza dell'inconscio e lì ci siamo fermati… Però io volevo dire che, partendo da questo, la differenza psicoanalitica mi pare che sia non solo ammettere l'inconscio… ma averlo sperimentato su sé stessi, ossia aver sperimentato quel tipo di esistenza dell'inconscio con un'analisi di quel tipo. Questo fa sorgere l'altro problema dell'indicazione di certi interventi… su certi tipi di patologie. Qui si tratta… per lo meno pensavo al mio lavoro,… di valutare, qui c'è una responsabilità solo individuale per certi aspetti quando si è soli con il paziente, fino a che punto spingere l'esplorazione dell'inconscio o fino a che punto anche indicare… una psicoterapia e invece fino a che punto, essendo sempre il punto di partenza proprio quello che può guidare, indicare altri interventi… Però in istituzione non si lavora da soli e quello che può essere integrazione di teorie fondamentali a livello del proprio paziente singolo, nell'istituzione, viene a confrontarsi con altri operatori. Sarebbe a dire per fortuna ! Per cui se ci fosse quello che il dottor Viganò all'inizio ha auspicato io credo che… si possa di volta in volta valutare quale tipo di intervento, quale parte di intervento, può essere concordemente consigliata o applicata con un certo paziente. Per lo meno questo è quello che ci troviamo qua a fare.

 

 

 

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