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Le supervisioni di Carlo Viganò: Incontro del 28.5.98

10 Giu 19

Di FRANCESCO BOLLORINO

Il caso di Alberto

D. Cosenza:

– Il dispositivo
Il caso che vi presento riguarda un ragazzo di 28 anni, Alberto, che vedo da circa tre anni e mezzo, nel quadro di un'esperienza di lavoro di sostegno psicologico a domicilio attivata su alcuni casi di psicosi in collaborazione con Carlo Viganò e Luigi Colombo. Si tratta quindi du un'esperienza di equipe privata di lavoro in ambito clinico, caratterizzata dal comune riferimento dei suoi operatori ad un'orientamento di marca psicoanalitica. Alberto è seguito da me e Colombo nel lavoro domiciliare una volta alla settimana ciascuno, e da Viganò in studio settimanalmente per oltre due anni, fino al momento in cui Alberto prese la decisione, espressa pubblicamente in uno dei nostri incontri periodici con lui ed i suoi genitori, di porvi fine almeno temporaneamente. 
. Le scansioni del lavoro sui casi e l'emergenza del materiale clinico vengono da noi elaborati collettivamente in una riunione d'equipe con cadenza mensile. Un altro momento importante nella nostra modalita' di lavoro consiste in un'incontro, anch'esso di cadenza mensile, con Alberto ed i suoi genitori. Nel caso di Alberto, il nostro lavoro si inserisce all'interno di una rete di rapporti con strutture che gia' si occupano di lui a differenti livelli. Infatti, parallelamente all'inizio del nostro intervento, 
nel luglio del '95 Alberto aveva iniziato anche a frequentare a Milano un centro diurno per reinserimento ed avviamento al lavoro di ex tossicodipendenti, che ha cessato di frequentare da qualche mese, senza essere riuscito ad ottenere, dopo una serie di tentativi falliti, un'occupazione lavorativa. La cura farmacologica viene seguita da una psichiatra del Centro Psicosociale di zona che lo ha preso in carico a partire dal marzo del '95, su segnalazione di un collega del NOT, e che tuttora lo segue. Si tratta di una congiuntura, quella che si gioca nella prima meta' del '95, importante nella storia di Alberto. Si tratta infatti di un momento che fa da spartiacque tra la sua precedente identita' di tossicodipendente, e la sua nuova identita' di malato psichiatrico, simbolizzata dal passaggio della sua presa incarico dal NOT al CPS. Proprio all'interno di tale congiuntura, durante la sua ultima permanenza in una comunita' per tossicodipendenti tra gennaio e marzo '95, si sono infatti manifestati quegli episodi dissociativi acuti che hanno determinato lo spostarsi delle competenze del suo caso nell'ambito della psichiatria. 
Alberto ha iniziato fin dall'eta' di 14 anni a fare uso di sostanze psicotrope, e dall'89 è passato ad un consumo massiccio di eroina; da allora, e per circa una decina di anni ha condotto una vita marcata dai segni della tossicomania. All'eta' di 17 anni interrompe la scuola di perito meccanico che stava frequentando, ed inizia a condurre uno stile di vita da deviante, frequentando i gruppi di drogati e di spacciatori. Quando abbiamo iniziato a vederlo, nel giugno del '95, aveva da qualche mese smesso di fare uso di droga e passava le sue giornate senza uscire da casa.
La nostra esperienza cono Alberto si è attivata a partire da una domanda di sua madre a Viganò affinchè si facesse carico di qualcosa, del figlio, che non riguardava tanto la sua tossicodipendenza, quanto l'emergere di fenomeni che facevano presumere, così gli avevano detto gli psicologi della SAMAN che lo avevano seguito, l'esistenza di una patologia di tipo psichiatrico. Da qui è partita l'idea e l'iniziativa di attivare anche per Alberto, quella forma di intervento gia' da noi attivata in altre situazioni, implicante anche un lavoro di assistenza psicologica domiciliare e di accompagnamento che ha coinvolto anche me e Colombo. Inizialmente, l'idea di mettere in campo due operatori per il lavoro domiciliare fu dettata da ragioni pratiche, legate alla nostra esigua disponibilita' di tempo rispetto alle richieste del ragazzo e dei familiari; in seguito, tuttavia, ci rendemmo presto conto della fecondita' con Alberto di tale operazione. Infatti, la presenza di due operatori diversi ha permesso a noi di costruire l'intervento domiciliare rendendo l'investimento emotivo di Alberto su ciascuno di noi più ripartito e tollerabile facilitando i nostri movimenti nella relazione con lui, ed a lui ha consentito di costruire nell'intervento terapeutico una differente orientazione del suo discorso, calibrata in modo specifico con ciascuno di noi a seconda di ciò che siamo giunti a rappresentare per lui. In termini più concreti, Alberto parla più diffusamente di alcune cose con me, di altre con il mio collega, a seconda dei differenti tratti specifici che ha voluto riconoscere in ciascuno di noi, fornendo in tal modo a noi del materiale clinicamente utile per le nostre èquipe mensili, in cui ricomponiamo le differenti sequenze di discorso che Alberto intrattiene con ciascuno di noi. 
A differenza di Viganò, che occupava nella relazione con Alberto il posto asimmetrico di colui rispetto al quale egli doveva provare a dire qualcosa di soggettivo rispetto alla propria sofferenza, io e Colombo ci siamo posizionati rispetto alla relazione con lui in una modalita' più simmetrico-speculare, più "debole", giungendo a condividere con lui non solo esperienze di parola, ma anche esperienze pratiche come l'andare al cinema o al ristorante. 

II – Il contesto 
Alberto vive in un piccolo appartamento di due locali insieme a sua nonna, un'anziana signora madre della madre, in un quartiere di Milano situato tra il centro urbano e la periferia ovest della citta'. E' nato e vissuto tutta la vita nel palazzo nel quale vivevano le famiglie dei suoi genitori prima che essi si sposassero e che, dopo una decina di anni dalla nascita di Alberto, si separassero. Due piani sopra l'appartamento in cui vive oggi Alberto c'� l'appartamento in cui vive suo padre, uomo intorno ai cinquant'anni, dirigente di una compagnia di assicurazioni spesso in viaggio per lavoro, che dopo la separazione dalla moglie ha avviato da anni una relazione con un'altra donna, pur rifiutando l'idea di un altro matrimonio ed anche di una convivenza. Vive insieme al figlio maggiore, fratello di Alberto, Luca, ritenuto da entrambi i genitori il figlio "buono" di contro alla sregolatezza incontrollabile di Alberto. La madre invece, donna di eta' intorno ai 45 anni, responsabile del personale di una azienda del settore elettrico, dopo la separazione dal marito, ha vissuto dapprima per alcuni anni sola in un monolocale ed � in seguito andata a vivere, ormai da diversi anni, col suo nuovo uomo, un medico pi� giovane di lei, in un appartamento del centro storico. 

III – L'incontro con Alberto
La prima volta che andai a trovare Alberto a casa sua, nel giugno del '95, mi venne incontro con un sorriso piuttosto impersonale ed uno sguardo fisso. Ci eravamo gia' sentiti telefonicamente il giorno prima per accordarci sull'orario del mio arrivo, e la madre aveva gia' provveduto ad informarlo sulle ragioni dei nostri futuri incontri con lui. Attendeva il mio arrivo. Dopo esserci presentati, mi fa accomodare e si offre di prepararmi un caff�. Gli domando come si sente, e lui comincia a parlarmi di qualcosa che a iniziato a manifestarsi nella sua vita da un po' di mesi e che lo ha, a suo dire, trasformato. Giovanni mi parla cio� di qualche cosa che lui ha vissuto come uno spartiacque tra una prima fase della sua esistenza, ed una seconda nella quale ora si sente immerso. Un punto di discontinuita' che gli sta cambiando radicalmente la vita. "Non so bene cosa mi � successo, mi dice. E' da un po' di tempo che ho dei problemi col linguaggio corporeo. Quando mi trovo con gli altri non riesco pi� a capire i segnali che loro mi mandano. E' per questo che � da un mese che non esco pi� di casa. Solo andare in un bar a prendere un caff� mi manda in confusione. Non capisco nello sguardo degli altri se c'� un messaggio rivolto a me oppure no!". Questo � quanto mi dice con un linguaggio piuttosto forbito e impersonale, di cui colpisce la scansione rallentata delle parole. Gli domando allora come era la sua vita prima che lui avesse questo problema legato al linguaggio corporeo. "Prima ero un ragazzo sveglio, furbo, ribelle. Uno che ci sapeva fare. Sono scappato diverse volte dalla comunita' SAMAN per andare a farmi, e alla fine non hanno pi� voluto tenermi. Prima di entrare in comunita', uscivo tutte le sere di notte con la mia macchina e andavo in discoteca tutte le sere, e mi procuravo la roba rubando gli stereo delle macchine e rivendendoli. Frequentavo tutti i giri di spacciatori e di tossici del Giambellino e di quarto Oggiaro (zone periferiche degradate di Milano) e tutti ancora si ricordano di me. Ora invece non esco pi� di casa. Non vado pi� in discoteca da tanto tempo. Non frequento pi� i giri di droga. Non posso pi� usare la macchina. Il mio corpo � bloccato. Mi guardo allo specchio e i miei occhi sono spenti!". 
Alberto mi descrive il punto di rottura che ha segnato l'impasse della sua vita come una metamorfosi che lo ha trasformato improvvisamente in qualcosa di "altro" da un tossicomane come credeva di essere; qualcosa di diverso dagli altri tossicodipendenti che vedeva nelle comunita' o nel centro diurno che frequentava. 
Gli chiedo se � stato informato sulle ragioni degli incontri che lui avra' con me e gli altri componenti dell'�quipe e se � d'accordo sul fatto che ci incontriamo. "Ho bisogno di ricostruire la mia personalita' che si � rotta", mi dice "Parlare con voi mi pu� aiutare a rimettere insieme, piano piano, la mia personalita'". 
L'esigenza di Alberto sembra essere quella di una riparazione di qualcosa che si � rotto, qualcosa che introduca un ordine nella disarticolazione del suo linguaggio corporeo, qualcosa che riporti una unita' alla frammentazione che lo attraversa. 

IV – La congiuntura di scatenamento
Nei successivi incontri, Alberto ricostruisce con ciascuno di noi, a partire dalle nostre domande, i frammenti di quanto avvenuto nel periodo della sua crisi in comunita', permettendocene una messa in ordine successiva nelle nostre riunioni d'�quipe. Ci dice che i fenomeni allucinatori che si sono verificati allora (vedeva peni che si muovevano lungo le pareti della stanza, e diceva di essere lui ad accendere e spegnere le luci interne alla comunita' con la forza del pensiero) si sono dopo un episodio omosessuale intercorso tra lui ed un tossicodipendente pi� grande, Enrico, noto per essere un "femminiello", uno che offre prestazioni sessuali agli uomini a pagamento. Una fellatio praticata da Enrico ad Alberto in comunita' scatena in lui la crisi psicotica che portera' al suo ricovero, ed in seguito al suo affido allo psichiatra del CPS, che iniziera' a trattarlo nei primi tempi col Melleril ed il Talofen, per poi stabilizzare dopo sei mesi, per lungo tempo, la terapia farmacologica con il Moditen. Interrogato da me su che cosa aveva provato per quel ragazzo, dice di essere stato conquistato dalla sua gentilezza e dalle sue attenzioni, e di avere sentito per lui "una specie di innamoramento", paragonabile a quello che provava per Lucia, la sua prima fidanzata. A conferma di ci�, la madre mi confid� a suo tempo che in quel periodo Alberto le aveva domandato di fare inviare a Enrico da parte sua un mazzo di rose rosse. Qualcosa di intollerabile nell'ambiguita' sessuale di Enrico e di s� stesso ha incrinato nell'esperienza di Alberto quell'equilibrio stabilizzatore che l'eterosessualita' della sua vita di coppia, prima nel rapporto con Lucia, durato dai 17 ai 26 anni, subito dopo il rapporto con Consuelo, tuttora in corso seppure con grandi difficolta', avevano contribuito a stabilire. 

V – Lo snodarsi dell'intervento e le crisi di Alberto
Per circa tre anni, dal '95 a oggi, intervento terapeutico con Alberto si è strutturato attorno ai tre poli costituiti dal centro diurno, in cui trascorreva, seppure in modo discontinuo le mattine ed i pomeriggi dei giorni feriali oltre che alcune riunioni serali; dal nostro intervento a domicilio e in studio; dal riferimento psichiatrico mensile al CPS. Alberto in questi tre anni tendenzialmente differenziava questi tre luoghi, identificando nel centro diurno il luogo della regola e del dovere (dover andare tutti i giorni, in orario, partecipare alle attivita', non fare tutto quanto il centro proibisce ai suoi ospiti, trovare un'occupazione nel corso del periodo della presa in carico), nel lavoro con noi il luogo della parola, nelle visite con lo psichiatra il luogo del farmaco. La famiglia, ed in particolare la madre, hanno operato come agenti primari di costruzione di una rete tra tali interventi, entro cui inquadrare le vicissitudini di Alberto ed arginarne le manifestazioni patologiche. Nel corso di questo lungo periodo, Alberto è andato incontro a tre momenti di crisi, legati ai due nodi del rapporto con le figure femminili e con la sostanza. In concomitanza di queste crisi, il nostro intervento ha avuto modo di caratterizzarsi per lui con una sua specificita'. La prima crisi, risalente all'ottobre del '95, è consistita in un suo precipitarsi, dopo circa 10 mesi di astinenza, nel consumo di eroina. E' in seguito a questa crisi che lo psichiatra del CPS modifichera' la terapia farmacologica somministrandogli il Moditen. Se il fratello non fosse giunto a casa e non l'avesse trovato in bagno con ancora la siringa nelle vene, se avesse solo tardato di qualche minuto, sarebbe probabilmente morto di overdose. Telefona il giorno dopo sia a me che a Colombo per dire, con un topo affranto, che aveva fatto una sciocchezza, cioè che era tornato a farsi. L'operazione che mettiamo in atto come èquipe, ciascuno nel suo intervento singolare, è far sì che Alberto metta in questione l'idea, mutuata dai genitori e dagli operatori del centro diurno, secondo cui con questo atto aveva mandato all'aria tutti gli sforzi compiuti nei mesi precedenti. Il nostro intervento è consistito nel cercare di fargli mettere in parola le ragioni implicite di questo atto, cercando di mostrargli, a partire dal suo stesso discorso, che tale atto ha avuto per lui un senso che gli sfugge. Emerge così che quella noia intollerabile della sua vita da semirecluso in casa con la nonna e al centro diurno che dice averlo spinto a ricadere nell'eroina, così diversa dalla sua vita spavalda di semideviante, è stata vissuta da lui come un cedimento rispetto alla richiesta, per lui insostenibile, di un ritorno alla normalita', di un'uscita dalla droga verso un accesso al mondo del lavoro, di un passaggio simbolico che attraverso la convivenza ed il matrimonio rendesse possibile a lui soddisfare le richieste di Lucia, sua fidanzata coetanea che dall'adolescenza di Alberto ha sopportato per 8 anni, con impressionante costanza e regolarita', senza fargliela pesare, la tossicomania di lui, con uno spirito da fidanzata "crocerossina" che ha coinvolto anche i genitori di lei nel tentativo reiterato di un suo recupero. Dice che non è morto per un pelo, ma che non aveva nessuna intenzione di morire; voleva soltanto stordirsi, riprovare l'emozione del pieno godimento che l'eroina ricorda avergli fornito in passato. Alberto ammettera' con noi che non se la sente ancora di assumersi la responsabilita' di una vita coniugale con quanto essa comporta, in primis la ricerca del lavoro; e che forse questo suo atto ha avuto per lui il senso di togliersi da quella insostenibile posizione in cui gli altri (la sua famiglia, Lucia) stavano cercando di collocarlo. Gli facciamo passare il messaggio di telefonarci ogni volta che si sente in preda alla depressione e comincia a pensare alla droga. Da allora le telefonate di Alberto diverranno una scansione costante del nostro rapporto con lui, con cadenza settimanale nei periodi di maggiore tranquillita', ma persino quotidiana nei suoi momenti più difficili. Avra' una seconda ricaduta nella droga nel maggio del '96, un anno dopo l'inizio del nostro intervento, ad un mese dal termine del suo percorso al centro diurno che avrebbe dovuto preparare il suo reinserimento lavorativo. Il giorno prima della ricaduta, la madre era partita per una settimana di vacanza con il suo uomo. Questa volta l'andamento della crisi è assai differente: fa uso di droga ripetutamente per una settimana di fila, sull'onda di un tono d'umore maniacale, ma, ci dira' lui stesso, rispetto alla crisi precedente questa volta "è stato più attento". Uscito dalla fase tossico-maniacale, torna ad incupirsi in uno stato depressivo in cui ripropone il discorso dell'azzeramento di tutti i passi compiuti, sulla scia delle reazioni di familiari, fidanzata, operatori del centro diurno da cui sarebbe dovuto uscire in meno di un mese per iniziare a cercare lavoro. Nei differenti colloqui con noi, così come nella riunione insieme ai genitori, riemerge alla base della sua crisi l'ansia per la fine del programma di reinserimento che lui viveva come un dovere a questo punto assumersi la responsabilita' di un lavoro; ma emerge al contempo l'importanza per lui della congiuntura della partenza della madre. Ciò che restituiamo ad Alberto ed ai genitori è comunque la differenza del modo in cui lui ha rifatto uso della sostanza, dopo un lungo periodo nel quale si è tenuto lontano dalla droga. Ciò che mi dira' qualche giorno dopo è che questa volta la droga non gli ha dato quel piacere assoluto e stordente che provava in passato; "forse", gli feci notare, "la droga sta iniziando a perdere quella forza di attrazione che fino ad ora ha avuto su di te". Di fatto, Alberto dopo questa crisi del maggio '96 non ricadra' più nel consumo di droga. 
Nell'approssimarsi dell'estate '96 avviene un evento importante nella vita di Alberto: Lucia, che ha cessato di credere nelle sue possibilita' di recupero, lo lascia, e questo evento, inizialmente molto inquietante per Alberto, finisce con l'essere arginato nei suoi effetti di perdita affettiva con una rapidita' impressionante
in seguito al nascere della relazione con Consuelo, ragazza latino-americana di diversi anni più grande di lui, che aveva iniziato a lavorare come donna delle pulizia in casa di sua nonna. 
Il passaggio da Lucia a Consuelo si rivelera' con l'andare del tempo traumatico per Alberto, perchè Consuelo non accetta di occupare per Alberto il posto di fidanzata "crocerossina" lasciato vuoto da Lucia. Consuelo non lascia passare ad Alberto mancanze di attenzioni nei suoi confronti, non esita a sottolineargli ciò che lei si aspetta da lui ed a fargli pagare le sue manchevolezze, lasciandolo ripetutamente, umiliandolo a più riprese, facendogli perdere quella parvenza di sicurezza nel suo rapporto con le donne che la lunga relazione con Lucia aveva alimentato. Pone come condizione del proseguimento del loro rapporto il fatto che lui lavori, gli dice che vuole un uomo che gli possa dare un figlio. Dopo che per un lungo periodo ebbero rapporti sessuali senza precauzioni anticoncezionali, lei rimase incinta ma subì un aborto spontaneo. Alberto visse questo evento, dopo averne preceduto gli sviluppi con una sorprendente ed incosciente accettazione, con un sospiro di sollievo, ma lei gli fece pesare in seguito il fatto di non essere neanche in grado di dargli un figlio. Prima dell'estate decide di interrompere le sedute in studio da Viganò, dicendo nella riunione con noi ed i genitori che non ne sentiva più il bisogno e che voleva provare a camminare in modo più autonomo, pur mantenendosi aperta la possibilita' di riprendere qualora ne avesse sentito l'esigenza. Forse l'asimmetria della relazione terapeutica era divenuta per lui insostenibile, al punto da spingerlo a porvi fine. Anche i tentativi di Alberto di trovare un lavoro sono risultati a tutt'oggi fallimentari: appuntamenti saltati, dimenticanze, inerzie, colloqui svolti in stato di alterazione per l'uso di sostanze psicotrope prese per l'occasione, lavori durati un giorno, al massimo una settimana. L'ultimo episodio emblematico lo ha visto protagonista del seguente evento: telefona a Colombo col cellulare per dirgli che mentre stava andando ad un colloquio di lavoro si è letteralmente cagato addosso. Legge lui stesso questo suo atto come un sintomo del suo non volerne sapere in realta' di lavorare e sottoporsi ad un regime di convivenza forzata e regolamentata da leggi prescrittive. Cerchiamo di restituire a lui ed alla sua famiglia un messaggio secondo cui non necessariamente un lavoro è quanto occorre che Alberto giunga prima o poi a trovare, quanto una qualche attivita', anche non remunerata, dalla quale egli possa trarre una forma di soddisfazione ed un effetto di maggiore stabilizzazione della sua esistenza, di cui tuttavia si fa fatica tutt'oggi a rintracciare delle coordinate concrete. Nel frattempo, Alberto ha sviluppato una forma singolare di entrata in contatto per lui col mondo esterno alla famiglia ed agli operatori che si occupano di lui. La compravendita di oggetti tecnologici (videoregistratore, stereo, ed in particolare telefono cellulare) è diventata da più di un anno a questa parte una sua specie di occupazione quotidiana, preparata dalla consultazione della rivista "Seconda Mano", da cui trae gli annunci per entrare in contatto con gli inserzionisti degli oggetti che intende acquistare. Una pratica, questa, che da un lato gli permette di mettere un qualche ordine nelle scansioni vuote della propria quotidianita' (in particolare da quando, qualche mese fa, ha cessato di frequentare il centro diurno, tornando a trascorrere la gran parte del suo tempo a casa davanti al televisore), e dall'altro non è priva di accenti di tipo maniacale. L'ultimo momento di crisi di Alberto risale a qualche settimana fa. Dopo un litigio con Consuelo ed il suo tentativo reiterato di rimediare scrivendole una lettera d'amore e portandole un mazzo di fiori che lei ha fatto a pezzi davanti ai suoi occhi, si è precipitato a casa ed in preda all'angoscia ha ingerito un quantitativo eccessivo di farmaci chel'hanno mandato in coma per un giorno. Il giorno dopo il coma telefona e mi accoglie a casa sua per parlarmi di questo suo gesto, nel quale dice, non voleva morire, ma solo stordirsi per vincere la sofferenza. Qualche giorno prima di tale atto, erano tornate a succedergli delle cose che definisce "strane", aveva avuto la sensazione di volersi tagliare un braccio ed aveva riferito a Colombo il desiderio di "farsi ricoverare in psichiatria" per poter essere un po' sereno. Comincia ad articolarsi in Alberto per la prima volta l'esigenza di trovare un luogo di riferimento diverso dai luoghi per i tossicodipendenti, dove potersi in qualche modo proteggere dalle richieste per lui insostenibili che gli provengono dalla vita reale, dal rapporto con gli altri, nonchè dai pericoli autodistruttivi insiti nella sua patologia.

 

Discussione del Caso Clinico

VIGANO': Far tre precisazioni, tre riflessioni, una riguardo alla presa in carico integrata, alla qualit di questa integrazione e alle varie scansioni, una relativa al transfert, e una di puntualizzazione diagnostica e terapeutico/strategica.
Per quanto riguarda la "rete", costituita da noi, dal Centro Diurno, dallo psichiatra, e dalla madre, anche se c'è stata collaborazione non posso dire che si trattasse di vera integrazione, tranne che fra noi tre del progetto di presa in carico che qui è stato riferito da Cosenza.
Per quanto riguarda gli altri due poli, e cioè lo psichiatra del CPS e il Centro Diurno c'è stato un affiancamento, e anzi in certi periodi, in particolare con il Centro Diurno che perseguiva un obiettivo molto specifico di riabilitazione – direi di normalizzazione, mirante al recupero delle capacit lavorative e adattive , molto fondato su criteri di premi/punizioni, ecc. – c'è stata chiara divergenza.
Questo elemento dell'integrazione direi pi sulla carta che reale, si collega con il secondo punto, del transfert e della domanda, in quanto bisogna dire che questo soggetto ha s accettato la nostra presenza, ha instaurato una buona relazione con noi, ma la domanda iniziale è stata della madre e tuttora è la madre che tiene le redini di tutta l'operazione, è lei che la finanzia, è lei in ultima analisi la regista, quella che integra e raccorda fra loro i diversi punti di vista. Fra l'altro è la madre che ha a lungo cercato di favorire e di perseguire la via della "normalizzazione", della riabilitazione sociale di Alberto, e a questo era legato un suo non voler mollare rispetto al Centro Diurno, nonostante i chiari segni di difficolt e di non tolleranza di Alberto a questo genere di prospettive. Il terzo punto al quale mi riportano queste considerazioni , è quello diagnostico e strategico, per cui la nostra lettura è quella di una psicosi schizofrenica, manifestatasi in Comunit, con quell'episodio acuto, subito rientrato, ma che faceva seguito ad un incontro (quello con l'omosessuale) che manda all'aria le fragili compensazioni immaginarie su cui si era retto fino ad allora l'equilibrio di Alberto. L'incontro con questo godimento non simbolizzabile ha spalancato l'impossibilit, per Alberto, a restaurare la sua identit di tossicodipendente trasgressivo, con cui si sosteneva in precedenza. Anche il rapporto con la donna, che in fondo non lo aveva mai chiamato in causa veramente, ora non pu pi essere restaurato, e vediamo che c'è un vero crollo dei punti di riferimento per questo soggetto, che, se anche smette rapidamente di delirare, fatica non poco a ritrovare dei punti per organizzare il proprio godimento e simbolizzare la realt. Si assister infatti, ad un progressivo decadimento dal punto di vista della funzionalit sociale, cioè non c'è pi la possibilit di un'organizzazione nevrotica della realt (come vorrebbe, per es. la madre). 
In questo senso, direi che a questo punto anche a livello della conduzione della cura siamo arrivati ad un punto molto delicato, un punto che molto spesso ci si trova a dover gestire con le famiglie degli psicotici, in cui si deve prendere coscienza che il soggetto non sar in grado di organizzare fallicamente la realt, che non sar pi in grado quindi di lavorare o di vivere autonomamente, ma tuttavia la scommessa è quella di favorire un viraggio, che pur non insistendo a vuoto su una normalizzazione impossibile, non sacrifichi completamente la progettualit, arrendendosi a quella che viene chiamata "cronicizzazione".
Trovare una via alternativa alla cronicizzazione, un modo vivibile, condivisibile di organizzazione del godimento per questo soggetto, che lo rimetta in circolazione come soggetto seppure attraverso canali marginali, alternativi a quelli della societ produttiva, è la scommessa che ci troviamo ora a dover giocare con la madre.
Questa fase è sempre molto delicata, e presuppone la capacit da parte delle famiglie di elaborare la ferita legata all'impossibilit e all'ineluttabilit della posizione psicotica, tuttavia credo che tutta la clinica delle psicosi e in generale il lavoro di rete abbiano proprio questo obbiettivo specifico, di escogitare, inventare una vivibilit per lo psicotico che possa differenziarsi dal processo di cronicizzazione.
Per ora, in questo senso, abbiamo solo poche indicazioni, a livello del soggetto c'è solo questa attivit di compravendita, di oggetti elettronici usati, ma è un'economia direi a perdere dal punto di vista dello scambio reale, e che per ora risponde solo ad esigenze di contabilit pulsionale. E' la madre che tampona e praticamente finanzia queste operazioni che sono sempre in perdita.

FRENI: Credo che queste tue precisazioni siano veramente preziose, e vorrei subito aggiungere qualcosa. Intanto devo ancora una volta rammaricarmi del fatto che i riferimenti al lavoro integrato con la psichiatria siano sempre cos poveri, e testimoniano veramente anche nello stile espositivo, il fatto che questa benedetta integrazione è veramente ancora tutta sulla carta, come dici tu, tutta da costruire. Non si capisce bene come sia stato fatto questo passaggio al CPS, il soggetto era consenziente? qualcuno gli aveva chiesto che cosa si aspettasse da questo trattamento? Cosa sapeva di questa iniezione mensile di moditen, che cosa si aspettava che potesse dargli? Poi c'è anche tutta la questione della tossicofilia e dell'abuso farmacologico. Quali erano i farmaci di cui abusava e con cui ha tentato il suicidio? Come se li era procurati? Gli erano stati prescritti?
Sempre collegandomi a queste considerazioni vorrei anche dire qualcosa della diagnosi, magari poi anche Smeraldi potr aggiungere quello che pensa, ma a me sembra che ci siano pochi dati per parlare di psicosi schizofrenica. Che cosa ti fa fare questa diagnosi? C'è un solo episodio dissociativo acuto, in condizioni particolari, e non c'è altro su cui appoggiarsi. Certo l bisognerebbe sapere che cosa ha spinto lo psichiatra a prescrivere il moditen depot, che è un farmaco che gi implicitamente fa pensare ad una resa alla cronicit, è un farmaco pesante, che difficilmente si prescrive agli esordi, e poi con il rilascio lento presuppone una mancanza di compliance che invece non sembra reale in questo soggetto. E' un ragazzo puntuale, disponibile, certamente come dici tu non ha fatto ancora una sua domanda personale di trattamento, ma dargli un farmaco depot è il modo peggiore per lavorare su una possibile condivisione del processo terapeutico. Poi c'è tutta la questione della madre, che tu metti in luce molto bene. Sembra in fondo che, al di l delle apparenze, ci sia stata una specie di collusione fra lo psichiatra del CPS e voi, su uno scivolamento verso la cronicit, laddove invece io credo che quando si parla di riabilitazione in psichiatria, bisognerebbe guardare avanti il meno possibile, recuperando un po' l'atteggiamento dei fisioterapisti, che lavorano giorno per giorno, senza mai dare per scontato un risultato finale, perchÈ i risultati dipendono dall'impegno quotidiano e possono essere sorprendentemente diversi da caso a caso.

SMERALDI: Sono molto d'accordo con quello che dici, anch'io vorrei dire qualcosa sulla diagnosi e sulla terapia. la diagnosi di schizofrenia si appoggia sull'episodio isolato delle allucinazioni visive dei peni sulla parete della Comunit, e oltre tutto con le allucinazioni visive bisogna sempre andare molto cauti, e caso mai possono far pensare a qualche danno organico, ipotesi che, in questo caso, dato anche l'abuso di droghe cos come è stato descritto, mi sembra un ipotesi da prendere molto seriamente. Anche noi abbiamo esperienza di soggetti del genere, che non riescono a strutturare un profilo e una carriera da classico "tossicodipendente", pur magari facendo un uso massiccio e spesso sconclusionato di sostanze; sono fra l'altro soggetti che, come quelli del caso descritto, non riescono a reggere una psicoterapia, in fondo perchÈ dimostrano di mancare di quel substrato, di quel supporto cognitivo e intellettivo che è necensario per agganciarsi ad un lavoro introspettivo. Questi soggetti ad un certo punto cominciano ad avere fenomeni allucinatori o comunque psicotici, e allora c'è il viraggio alla psichiatria, proprio come in questo caso. Io credo, e la statistica lo conferma, che si tratti di quel trenta per cento circa di casi in cui un danno funzionale determina deficit cognitivi che vengono mascherati nell'adolescenza dall'uso di sostanze, sostanze che per altro vanno a peggiorare ed estendere il danno, che poi si manifesta appunto con questi scompensi e le conseguenti gravi problematiche adattive che questi soggetti presentano, dopo lo scatenamento. 
Se questa ipotesi è corretta, non vedo proprio perchÈ ricorrere subito ad un antipsicotico, e soprattutto al moditen depot, il cui uso è giustificato solo nei casi di soggetti violenti, agitati, e altamente non collaboranti. In questo caso, se l'ipotesi cui accennavo è giusta, il neurolettico rischia di peggiorare la situazione dei recettori, e di aggiungere danno su danno.

FRENI: Bisogna stare molto attenti, effettivamente, quando si prescrive un neurolettico, perchÈ nei casi in cui la diagnosi è corretta, l'ipotesi è quella di andare a modificare un certo funzionamento dei recettori, legato ad una modificazione della chimica dei neurotrasmettitori; ma se la diagnosi non è corretta, il rischio è anzi quello di andare a creare o a peggiorare un danno funzionale magari gi in atto. In questo caso poi l'uso del moditen, che è un farmaco bomba, oggi per lo pi abbandonato anche per i fastidiosi e massicci effetti collaterali, mi sembra davvero poco giustificato.
E' interessante quello che dicevi (rivolto a Smeraldi), perchÈ anche io ho trovato in letteratura (cita il testo) la descrizione di questi pseudo-adattamenti adolescenziali, che pi che basati su veri processi di identificazione, adottano condotte adesive per poi scompensarsi tardivamente, dopo aver assunto caratteristiche fenomenologiche pseudo/nevrotiche, come l'abuso di sostanze o i comportamenti devianti o borderline.
In questo caso, fra l'altro, io sull'asse II vedrei senz'altro un grave disturbo Borderline. Ma comunque, diagnosi a parte, mi sembra davvero che il rapporto con lo psichiatra, il senso di questo invio e di questa presa in carico psichiatrica non sia per niente "dinamizzato". Cosa ha significato per il soggetto questo passaggio allo psichiatra?.

VIGANO' : provo a dare alcune informazioni, e poi continuiamo senz'altro la discussione. Dico subito che accetto totalmente queste critiche, che mi sembrano importanti e tendono a mettere in risalto una zona d'ombra cruciale, in questo caso, che è quella della condivisione del progetto. In particolare, rispetto allo psichiatra del servizio pubblico, devo dire che noi abbiamo accettato piuttosto acriticamente la terapia farmacologica, e fra l'altro, quando ci siamo sentiti telefonicamente, il collega sembrava poco disposto a problematizzare il caso, poco desideroso di inserirsi in un discorso di integrazione che andasse al di l della mera prescrizione, e in questo adduceva motivazioni legate al carico di lavoro, all'estrema difficolt di far fronte alle continue emergenze, e anche l'ammissione di una fondamentale difficolt a barcamenarsi con casi difficili e con nuove terapie. Aveva chiaramente indicato che per una presa in carico pi soddisfacente sarebbe stato necessario e auspicabile rivolgersi "altrove". Questo collega per altro era una persona onesta, una brava persona.

FRENI: Sono abbastanza costernato, e direi scandalizzato. Spero che nessuno di voi (si rivolge agli specializzandi), per quanto oberato dal lavoro e schiacciato dalla quotidianit, si trovi mai a dare una risposta del genere. Purtroppo questo è uno degli aspetti della realt dei Servizi. Esistono ancora sacche di profonda disinformazione e approssimazione, anche nell'uso dei nuovi neurolettici, per quanto riguarda i dosaggi, ecc., e questo è un fattore che va molto spesso ad incidere pesantemente sui destini e sugli esiti prognostici delle psicosi.

BARRACCO (dalla sala): Questa madre regista dell'intervento, che tiene insieme l'operazione e paga l'intervento a domicilio, si accontenta di uno psichiatra cos impotente?

FRENI: Effettivamente questo punto è cruciale, perchÈ forse permette di mettere in luce quello che dicevo prima, cioè la mia ipotesi di una collusione fra l'intervento domiciliare e lo psichiatra, che sono andati entrambi nella direzione di un disinvestimento evolutivo sul caso, e che di fatto hanno coinciso con il desiderio inconscio della madre. C'è un testo (cita il testo) che analizza e chiarisce la posizione che inconsciamente assumono queste madri, che si fanno carico dei loro figli psicotici, manovrando per sempre le cose in modo che il loro gran darsi da fare non produca realmente dei cambiamenti, il chÈ permette di ottenere una sorta di assoluzione del proprio ruolo, della propria implicazione nella sofferenza del figlio, la cui causa verrebbe alla fine fatta ricadere nella pacificante concezione organicistica ("Non c'è niente che si sarebbe potuto fare e che io non abbia fatto per mio figlio, nessuno ha potuto farci niente perchÈ non c'è niente da fare").

BARRACCO (dalla sala): Vorrei fare una domanda al prof. Smeraldi. Lei dice che in questo caso, come in una certa percentuale di casi di tossicomania, tossicodipendenza o comportamenti tossicofilici o di abuso in genere, si determinano danni organici, o si aggravano danni preesistenti, e che questo, come nel caso di oggi, spiegherebbe i fenomeni psicotici. Tuttavia sarebbe interessante sapere come lei mette in connessione la questione organica o funzionale con quello che il relatore chiamava "congiuntura di scatenamento", perchè non mi sembra che la precisazione della psicosi organica, per quanto possa essere una condizione necessaria per inquadrare il caso e rettificare l'intervento farmacologico, non mi sembra per condizione sufficiente per rendere conto dell'evoluzione del caso, in cui direi che gli elementi messi in luce da Cosenza, in particolare la questione legata all'identit sessuale, una certa stereotipia dei comportamenti che questo soggetto adotta con l'altro sesso (il mazzo di fiori, per es.), fino all'incontro cruciale con l'omosessuale in Comunit, sono indispensabili per individuare l'articolazione in questo soggetto dei registri immaginario/simbolico e reale. 
Rispetto allo scatenamento forse potr dirmi qualcosa di pi Vigan o Cosenza, che forse potrebbero effettivamente, a partire da queste precisazioni, rendere conto meglio della loro ipotesi diagnostica. Tuttavia, mi interesserebbe che, tenendo buona e quindi rimanendo all'interno dell'ipotesi diciamo organicistica, del danno funzionale, potesse illustrare come si articolano, come è possibile e se è possibile articolare un raccordo con i dati accidentali o episodici dello scatenamento, legati anche a fattori della personalit del soggetto. Altrimenti temo comunque che si cada nell'ipervalutazione di dati strutturali (che sono comunque indimostrabili e credo anche molto difficili da trattare) e si rischi invece di sottovalutare il dato concreto di come attualmente si organizza il reale per questo soggetto, a partire da quali problematiche si è dissolta l'organizzazione simbolica pseudo/nevrotica precedente, e a partire da cosa è possibile pensare ad una qualche modalit di supplenza.

SMERALDI: Rispondo per quanto mi concerne, anche se effettivamente la questione esula un po' dal caso specifico, e riguarda una considerazione generale di ordine diagnostico. 
Intanto tengo a precisare, se non fosse stato sufficientemente chiarito dal mio intervento, che non tutti i tossicodipendenti presentano danni organici e funzionali, e non è l'uso di sostanze in sÈ a produrre questo danno. Si tratta di soggetti che gi presentano lievi problemi a livello dell'integrazione funzionale, problemi di deficit cognitivi che per potrebbero anche non rivelarsi come tali, ma che per l'esperienza clinica dimostra essere spesso alla base di disturbi dell'apprendimento e della personalit, e quindi spesso, come causa secondaria, possono portare a comportamenti devianti e all'uso di sostanze. In questo caso, l'uso sconsiderato e massiccio di sostanze pu andare ad aggravare un quadro funzionale gi in parte compromesso, andando a definire questa condizione che ho chiamato "psicosi organica".
In genere poi sono casi abbastanza riconoscibili, perchè hanno le caratteristiche che il relatore qui (Cosenza) ha descritto chiaramente, e che si ripetono in modo talmente fedele da isolarsi abbastanza nettamente come fenomeno. Mentre Cosenza raccontava questa storia non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro caso, che veramente sembra il suo fratello gemello, anche questo figlio di una coppia separata, di borghesi benestanti, che ci è stato affidato dalla madre, ed è stato preso in carico inizialmente anche con un tentativo di psicoterapia che appunto è fallito con le stesse identiche modalit, e poi era seguito da educatori, animatori, che lo portavano al cinema, e cercavano insomma di lavorare sulla dimensione adattiva…
Anche questo, dopo una carriera da tossico, sempre un po' sui generis, direi, aveva avuto fenomeni allucinatori isolati, e poi per non era pi riuscito nÈ a restare nel giro della tossicodipendenza e della microcriminalit, nÈ a ritrovare un grado accettabile di funzionalit sociale, andando in un certo senso alla deriva della cronicit psichiatrica. Ora in questo caso noi abbiamo il problema del padre, che è un famoso diabetologo, e che si è messo letteralmente a delirare, sostenendo che per guarire il figlio è necessaria la terapia di schock insulinico. Questo è assolutamente un delirio, molto ben incistato ma anche difficile da criticare. 
Questo per dire che effettivamente il fatto di isolare una causa precisa, di tipo organico o funzionale, non è che risolva il problema; si tratta di situazioni molto ostiche, in cui poi certamente la componente ambientale, familiare, e direi anche le problematiche dell'asse II che vi sono sempre associate (sono d'accordo con Freni che in questo caso c'è anche un disturbo grave di personalit) devono essere prese in considerazione. Io ci tenevo solo a dire che in questo caso la diagnosi sull'asse I non mi sembra corretta, e di conseguenza non lo è assolutamente neanche la prescrizione farmacologica, il chÈ certo non risolve tutti i problemi, ma almeno ha il vantaggio di non crearne di ulteriori.

VIGANO': Provo a dire qualcosa a proposito del mancato raccordo con lo psichiatra, cose che mi vengono in mente al momento. Effettivamente io credo che ci sia stata da parte nostra una volont malconsapevole e per lo pi inconscia a mantenere i rapporti in questi termini, a non problematizzare pi di tanto le indicazioni dello psichiatra. Non abbiamo considerato lo psichiatra tanto come un interlocutore, una risorsa di cui servirsi, da interrogare e con cui entrare nel merito dei contenuti. Ci interessava avere l'appoggio istituzionale, come garanzia di una presa in carico pubblica. In fondo entrando nel merito dei contenuti avremmo potuto essere sollecitati ad occuparci direttamente anche dell'aspetto farmacologico, cosa che potevamo benissimo fare, essendo io psichiatra, ma in questo modo avremmo perso l'aggancio istituzionale con il territorio.
Vorrei anche precisare, rispetto al tentato suicidio che ha menzionato Cosenza, che anche questo episodio aveva effettivamente a che fare anche con la presa in carico psichiatrica, perchÈ – una cosa importante che effettivamente non è emersa dalla relazione di Cosenza – l'unico vero sintomo residuale, l'unico vero sintomo soggettivo che questo soggetto lamentava, e che si trascinava da prima dello scatenamento, era un'insonnia severa, che lo faceva molto soffrire. Per questo lo psichiatra gli aveva prescritto il Roipnol, farmaco ben noto per non essere un sonnifero qualunque, di cui i tossicodipendenti fanno notoriamente uso, abuso e commercio. Con questo farmaco, in ogni caso, lui aveva messo in atto il suo tentativo di suicidio.

FRENI: Certo anche questo prescrivere il Roipnol ad un soggetto del genere la dice lunga su questa presa in carico istituzionale. Tornando alla questione dello psichiatra "assente", credo che la discussione di oggi sar utile per modificare e direi forse correggere la rotta del vostro intervento, a partire da un superamento, una sospensione dell'ipotesi di questa presunta "cronicit", tornando a lavorare giorno per giorno, valutando di volta in volta i progressi, i cambiamenti che possono essere realizzati, e le risposte che il soggetto e il sistema familiare pu mettere in atto. In questo senso, torno a sottolineare che anche la scelta di un farmaco diverso, meno pesante sul piano degli effetti collaterali, che non inibisca e non produca coartazione, pu riaprire possibilit non trascurabili per il lavoro terapeutico, e magari una somministrazione variabile, per bocca, pu permettere una pi attenta valutazione della compliance e pi in generale pu essere uno strumento di manovra di grande importanza per costruire un progetto terapeutico il pi possibile condiviso con il soggetto. 
Veramente questo dei farmaci è un argomento trascurato, su cui gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti continuano ad essere un po' sordi e approssimativi, mentre invece io ho visto situazioni molto diverse e quadri profondamente modificati, nel senso di trattamenti psicoterapeutici, di psicoterapie possibili o impossibili, legate proprio ad una corretta scelta farmacologica, all'aver individuato o meno la molecola giusta e la giusta dose per un soggetto.

TRONCONI: (dalla sala): Vorrei ringraziare i colleghi Cosenza e Vigan per questa preziosa e direi abbastanza rara testimonianza di collaborazione fra pubblico e privato. Testimonianza anche coraggiosa nel denunciare questa difficolt a condividere realmente un progetto col collega del CPS, col Centro Diurno, difficolt che nella maggior parte dei casi sono talmente grandi da rendere impossibile persino l'impresa, anche solo "sulla carta", e cos queste cose non si fanno, non si tentano neanche. Dire "noi" è pi facile quando ci si riconosce tutti in un Servizio, si condividono logiche e rituali fra quattro mura…

FRENI: do' subito la parola, ma vorrei risponderle a caldo: sono d'accordo con lei, tranne sull'ultima parte: non penso affatto che la collaborazione sia pi facile nelle Èquipes che lavorano fra quattro mura, fra le varie figure professionali che lavorano fianco a fianco, pubbliche o private che siano; l'integrazione fra gli interventi, la presa in carico multiprofessionale, l'intervento di rete, è la cosa pi nuova in fatto di psicosi e di grave disagio mentale, ma di fatto è anche la cosa pi difficile. Fra l'altro esistono molte concezioni diverse di "rete", e questo complica ulteriormente le cose.

DOTTORE COL CAMICE (dalla sala) : Mi riallaccio a queste considerazioni sulla strategia di rete, per poi tornare al caso. In un interessante studio che ho consultato recentemente, è stato dimostrato come l'ambivalenza e il carico d'ansia che i familiari degli utenti riversano sulle Èquipes, sotto forma di domande contraddittorie e di richieste esorbitanti, siano la causa diretta delle risposte-agito, degli atteggiamenti da burn out, come quello testimoniato in questo caso, dello psichiatra che appunto era una "brava persona". D'altra parte la strategia di rete non solo è il modo migliore per la presa in carico dello psicotico, ma è anche l'unico modo possibile, dato che la rete lo psicotico te la impone, è lui stesso che se la costruisce ed avere a che fare con questa molteplicit di attori in gioco è una sfida inevitabile. (cita poi un passo di Freud, in cui si dice che non è mai Dio a scegliersi un popolo, ma sempre il popolo che sceglie il suo Dio).

PSICOANALISTA BRIZZOLATO (dalla sala): parla di un caso, di una giovane che aveva avuto alcuni ricoveri, e che era stata sorpresa in comportamenti chiaramente inquadrabili nell'ambito dell'agito a sfondo sessuale; era trattata farmacologicamente con antipsicotici. Anche in questo caso la tendenza diagnostica andava verso una schizofrenia, con evidente disinvestimento e tendenza alla cronicizzazione. Lui invece, dopo alcuni mesi di colloqui, era andato convincendosi sempre pi che si trattasse di un grave disturbo di personalit, e comunque considera che bisognerebbe recuperare la vecchia categoria di "isteria", e che i quadri isterici si sono molto modificati, ma non sono affatto spariti. Lo stesso si pu dire per la tendenza analoga a trasformare in psicosi tutti i gravi casi di tossicomania, che magari invece non sempre mascherano la psicosi. Concorda quindi col fatto che è sempre meglio andarci piano, essere prudenti sulle diagnosi impegnative (che comportano inevitabilmente un atteggiamento prognostico infausto e quindi tendono a produrre delle controidentificazioni negative e un conseguente disinvestimento delle risorse), ed è meglio optare per l'atteggiamento del "giorno per giorno".

ULTIMO INTERVENTO (dalla sala): ribadisce l'analisi in base alla quale l'intervento è andato a realizzare il desiderio inconscio della madre, tuttavia ritiene che questo è un momento importante, di ridefinizione del progetto, in cui, grazie alle riflessioni di oggi, il gruppo di lavoro che ha in carico il caso potr riconsiderare ci che si è fatto, e ci che si potr fare.

VIGANO' : Ringrazio tutti i presenti, e oggi lo faccio in modo particolare, per le indicazioni preziose che mi saranno utili e che mi vedono direttamente implicato. 
(Ricorda poi il prossimo appuntamento e da' alcune informazioni sul sito internet in cui sar possibile trovare gli interventi e continuare il dibattito).

CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE (di Anna Barracco).

Rileggendo a distanza di tempo il resoconto della discussione, mi ha colpito come ci si sia focalizzati sulla questione dello psichiatra, mettendo s in luce la collusione del gruppo di presa in carico col desiderio inconscio della madre, ma in fondo non approfondendo la questione clinica. Fra l'altro sarebbe interessante chiarire perchÈ Vigan e in generale il gruppo della presa in carico psicodinamica ci tenessero cos tanto a questo appoggio territoriale "pubblico". Questo non mi sembra sia stato veramente chiarito.
Inoltre mi sembra che si è enfatizzata l'importanza di una supposta causa organica (che poi paradossalmente è proprio il fantasma della madre, come viene adombrato dal testo citato da Freni), e anche il peso di un'opzione farmacologica diversa (che certamente pu essere importante, ma non credo poi cos decisiva. E comunque, non ci si è pronunciati. Neurolettico, s o no? E che cos'altro?), e tutta la questione dell'organizzazione del soggetto è stata tralasciata. Si veda, per es, la mia domanda a Smeraldi, a Vigan e Cosenza sulle congiunture di scatenamento, che è stata completamente ignorata, cos come un dibattito pi articolato sulla diagnosi di struttura.
Un'altra cosa che mi ha colpito, rileggendo il testo, è stato lo schiacciamento sul concetto di "cronicit" che ha subto l'intervento di Vigan, che invece mi pareva andasse in altra direzione, adombrando una via possibile di organizzazione simbolica e relazionale, che, seppure doveva prescindere dalla normalizzazione nevrotica (nel senso di Freud di amare e lavorare, penso), andava comunque ricercata ed era tutta da articolare sia per questo soggetto, sia in generale come obiettivo di questi interventi di "rete". 
In fondo mi sembra che le indicazioni emerse, questo lavorare "giorno per giorno" del fisioterapista, se non viene meglio articolato rischia di essere solo il braccio di ferro comportamentista che il Centro Diurno (e apparentemente la madre con lui) intentavano con il soggetto, che non ne voleva sapere, e il risultato di tutto questo grande affaccendarsi, lo sappiamo bene, è molto spesso proprio la cronicizzazione e la realizzazione dei desideri sadici dell'istituzione, e masochistici dei soggetti psicotici.
Quindi una madre che comunque tiene in piedi una macchina del genere, per quanto animata da desideri ambivalenti, è l'unica risorsa, l'unico punto di partenza, come l'unica possibilit sembra essere quella di articolare meglio questa terza via, fra la normalizzazione e la cronicizzazione, una terza via del "giorno per giorno", dell'individuare le modalit soggettive di vivibilit, di supplenza possibile, ma che evidentemente è ancora tutta da indagare.

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