Mediante i dispositivi H (interpretazione ermeneutica) e D (analisi dinamica) sarà, poi, descritto il suo denso percorso terapeutico, che apre, da parte di Alba, all’assunzione di una postura riflessiva nei confronti della propria vulnerabilità nonché a una differente ermeneutica rispetto alla propria condizione psicopatologica, all’interno di un bilancio del proprio percorso di vita.
A inizio gennaio dell’anno 2018 vengo contattata telefonicamente da una voce femminile che, piangendo in modo concitato al punto da rendermi difficile la comprensione delle sue parole, esordisce impetuosamente:
“ho bisogno il prima possibile di un appuntamento con lei perché non riesco a smettere di controllare quello che fa Marco, il mio ragazzo e quello che fa Sara, che Marco mi dice essere solo un’amica; li controllo usando 2 telefoni in contemporanea tutto il giorno, vivo in funzione di un telefono e non posso andare avanti così! sto tanto male”.
In queste concise parole è espressa con chiarezza la richiesta iniziale di un’Alba disperata; percependo la sua urgenza comunicativa e il suo bisogno impellente, fisso l’incontro per il giorno venturo, il lunedì, che diventerà (assieme al giovedì) il momento ritmato del nostro tempo condiviso, che perdura tutt’ora. Di fronte alla porta del mio studio si presenta una donna calma e rassicurata dall’accoglimento celere della sua richiesta, nel corso della nostra ora (e nelle sedute successive), un sorriso caldo e dal sapore ammiccante è sempre presente rivolto a me e accompagna il suo sguardo ininterrottamente fisso sulla mia figura che non viene mai distolto; Alba scruta dettagliatamente il mio livello attentivo dall’interno dei suoi grandi, leggermente protrusi e iper-vigili occhi neri. Da subito è disinibita comunicativamente il suo eloquio non è rallentato né accelerato e ben articolato, esteticamente la sua corporatura è normale, l’abbigliamento è casual e non appariscente, il suo aspetto è curato, è una donna gradevole fisicamente, porta dignitosamente i suoi 40 anni.
Aprendo autonomamente la conversazione con una breve premessa autobiografica, Alba mi racconta che intrattiene con Marco (50 anni) una relazione sentimentale da 2 anni a questa parte, lui è residente a Milano e ingegnere, lei originaria e abitante a Verona è segretaria presso uno studio notarile, ha un’unica sorella maggiore, Alessandra (48 anni), titolare di un negozio di vestiti; Alba e Marco si raggiungono vicendevolmente nei week end.
Alba, quando giunge nel mio studio (del tutto casualmente, dopo aver trovato il mio numero online) porta con sé una storia di terapeuti abbandonati e che (a suo dire) hanno mantenuto una concentrazione totale e asfissiante sul suo passato, tale da farla “fuggire” dopo pochi incontri. La nostra cornice terapeutica è stabile e regolare nonché priva di un’integrazione farmacologica (data la riluttanza della paziente nei riguardi della figura dello psichiatra), ha previsto 2 incontri settimanali per i primi 6 mesi, per poi passare ad un incontro settimanale. Alba durante il primo colloquio afferma con forza quella che lei ritiene, adesso, essere l’unica motivazione che l’ha mossa a richiedere un aiuto psicoterapeutico:
“il mio problema è che Marco mi tradisce con Sara e mi ha sempre tradito con altre donne, è solo un traditore e io ogni giorno devo scavare fino a che non trovo le prove”
È palese la totale assenza della domanda iniziale (telefonica) di Alba che, per “scavare”, monitora costantemente l’attività di Marco e Sara (un’amica di Marco che risiede a Treviso e con la quale Marco si sente telefonicamente, di rado) su diverse piattaforme (Facebook, Instagram, Whatsapp) e mi porta alcuni esempi, per lei prove inconfutabili, del tradimento del suo compagno e dell’ingerenza, all’interno della loro relazione, delle “donnine” ma, in particolare, di Sara (che Alba nomina spesso con l’appellativo di “disturbatrice”):
“Marco il mercoledì va a giocare a basket e dice di fermarsi dopo a mangiare un boccone con gli amici ma secondo me ha le sue donnine, l’altra settimana mi ha mandato su Whatsapp una foto con orario 23.34 di lui con gli amici e va bene… ma poi non mi ha più contattato e ha fatto l’accesso su Whatsapp alle ore 00.25 per darmi la buonanotte, in quel lasso di tempo ha lasciato i suoi amici ed è stato con una donna” (…) “Sara l’altro giorno ha rilasciato una recensione su Tripadvisor su un ristorante giapponese a Treviso e da questo ho dedotto che lei ci è andata con lui perché Marco ama il giapponese e da Milano ha preso un treno per andare a Treviso, si è fermato da lei e poi è tornato; la sera dopo era nervoso (mi ha detto che era nervoso perché non avrebbe giocato), ma io ho capito: il problema era che si erano visti”.
Nella peculiare modalità di esperienza e conoscenza della realtà che risulta essere il suo delirio, l'individuazione di indizi è il prodotto di una focalizzazione esclusiva: essi vengono isolati dalla loro originale cornice situazionale per essere attribuiti a un differente contesto; sulla base di questa scotomizzazione, Alba costruisce un sistema coerente e acquisisce la certezza del proprio postulato (il tradimento), corroborando il nucleo della propria visione del mondo: l’infedeltà e l’inautenticità dell’altro-fingitore.
“Questa settimana me ne sono capitate di tutti i colori: mi si è bloccata la macchina, non funzionava la cassa del supermercato… sono certa che è tutta colpa di Sara che mi fa i riti Woodoo perché è gelosa di me, mi augura ogni male possibile; lo ha anche tolto da Facebook, lo ha fatto per mettere zizzagna nella nostra relazione, per crearci problemi perché sapeva che io lo avrei visto e poi avrei capito”.
Alba (auto-identificata come “vittima”) appare inizialmente immersa in un’esperienza di autoriferimento (ravvisabile nella lettura degli eventi della propria vita attraverso una prospettiva persecutoria, essi vengono imputati ad una figura femminile che si intromette forzatamente nella coppia in modo minaccioso e attribuisce a Sara (rappresentata in quanto “disturbatrice”) non solo il ruolo di amante gelosa e possessiva di Marco (emblema “del traditore”) ma anche la responsabilità delle sue disavventure quotidiane. All’interno di un’esperienza di doppia persecutorietà (ascritta a Marco che dissimula, si sottrae alla fedeltà, inganna e tradisce e, contemporaneamente, a Sara che intrude nella coppia e malevolmente nella sua vita), la paziente, attraverso un ferreo sistema pseudo-deduttivo, costruisce un mosaico di idee dimostrato fino all’evidenza. Il suo delirio di gelosia organizza la propria struttura sulla base della rigidità sistematica della passione che ne costituisce il perno e si delinea come uno nodo ideo-affettivo impermeabile e ribelle ad ogni evidenza dal quale Alba non può prescindere, tanto da rimanerne assorbita e da rielaborare la sua intera biografia pregressa sotto la luce illuminante del paradigma delirante, all’interno della tipica distorsione retrospettiva del passato (propria del paranoico) per cui, come Alba stessa mi spiegherà, ogni singolo uomo con il quale lei ha intrattenuto una relazione sentimentale l’ha sempre tradita. Dentro questa trasformazione della relazione amorosa da duale in una situazione invariabilmente triangolare, il delirio è l'assunto che esprime e organizza il mondo in cui vive la paziente e si configura come la plausibile, ordinata e coerente conseguenza di una posizione originariamente assunta: a partire da una rete di “deduzioni” (espressione che utilizza Alba in modo straordinariamente pertinente) intorno a un punto di aggregazione, si intrecciano idee ed emozioni che trovano la loro collocazione nel romanzo delirante centrato sull'infedeltà. Sulla base di un'idea passionalmente investita e di tale impasto ideo-affettivo scaturisce un delirio a settore (de Clérambault) che rimane contenuto nei limiti della vita amorosa e nel quale è possibile ritrovare quell’aspetto formale dirimente che travalica il criterio contenutistico (la veridicità o meno del tradimento): l'articolazione interpretativo-deduttiva dell'argomentazione si basa, infatti, sul “come” ossia sulla peculiare e distorta modalità deduttiva attraverso cui la paziente giunge ad una convinzione dal significato ineludibilmente confermativo.
Il caso clinico di Alba è definibile psicopatologicamente come un delirio di gelosia secondario (quindi deliroide in quanto esasperazione quantitativa del tratto pre-morboso) sviluppato sulla base di una preesistente configurazione personologica paranoicale con agiti che si mantengono sufficientemente moderati (appostamenti e telefonate anonime) tali da non esitare, come avrebbero detto Serieux e Capgras, nella condotta gravemente drammatica del “delirante dell’azione”, al centro della propria solitudine rancorosa e distruttiva. Nel corso delle sedute Alba si rivela immersa in un’oscillazione persecutoria sul crinale del rimuginare dubitativo e dell’evidenza deliroide, talvolta sembra essere completamente assorbita all’interno del suo vissuto delirante, talvolta questa dimensione appare maggiormente psicologizzabile. La possibilità dialogica è individuabile nel prevalente polo astenico presente all’interno della sua configurazione paranoicale, la quale è definita dalla giustapposizione di una primaria posizione caratteriale astenica (espressa in una delicatezza temperamentale manifesta e nella marcata difficoltà a sopportare il confronto interpersonale) in conflitto con un tratto stenico, a sottolineare la permanente disomogeneità tipica dell’organizzazione sensitiva della paziente, all'origine di una vulnerabilità all’esperienza della vergogna che (al cospetto del mondo esterno) sottolinea in Alba, come vedremo, la propria insufficienza percepita. La paziente non transita mai completamente nel polo stenico di rivendicazione ipertrofica che seppur presente (altrimenti non sarebbe evidente l’esteriorizzazione della colpa per proprie mancanze e la sua proiezione all’esterno) non è pienamente definito e strutturato; in lei è ancora evidente il tema della perdita e dell’inadeguatezza e, proprio l’essere transitoriamente in contatto con il proprio marcato vissuto di inferiorità, apre alla mia possibilità di allearmi in terapia con questa autentica parte depressiva (che, come si nota nella richiesta iniziale, la paziente ha chiaramente presente a sé stessa). In questa “fiacca” paranoia passionale (rispetto alla paranoia sensitiva sistematizzata) la polarità astenica non è completamente assorbita dalla parte di pura grandiosità ma, all’opposto, proprio il polo stenico conserva la funzione di maschera orgogliosa a protezione e schermo del nucleo astenico; come sarà chiaro nel corso dell’elaborato, l’idealizzazione irrealistica dell’altro e l’elemento tossicomanico (rispetto alla relazione con l’altro e alla sfera alimentare) aprono alla dimensione patico-passionale del quadro clinico.
Phenomenological Unfonding – dispiegamento fenomenologico
Tempo vissuto:
“Ogni giorno io mi sveglio, entro su Whatsapp e Facebook e guardo a che ora era online l’ultima volta, guardo quante ora sono passate e fino a che non trovo l’orario preciso continuo a cercare, durante le pause lavorative guardo gli accessi, controllo una volta ogni mezz’ora, quando sono a casa ci sto fissa a controllare; se vado in palestra o esco con le mie amiche il tempo scorre lento, mi sembra sempre di stare via un’eternità anche quando esco per poco, sto male e non sono rilassata perché non posso controllare e non posso sapere cosa sta facendo Marco! appena torno a casa ricontrollo, la notte dormo poco per controllare e se poi mi sveglio ricontrollo”.
Alba mi descrive così la sua quotidianità, che drammaticamente si ripete identica ogni singolo giorno e al suo interno il tempo è scandito in modo esclusivo non più dall’esperienza vissuta ma dall’unico bisogno di controllare (al fine di trovare indizi comprovanti una relazione fra Marco e l’altra donna e corroborare la certezza del tradimento subito). Così, condannata ad una ripetizione (l’inevitabile ricerca del tradimento, il comportamento vessatorio nei confronti del partner che condurrà irrimediabilmente alla rottura e a una nuova deduzione di tradimento e di torto subito), Alba, si trova immersa in una temporalità non più lineare ma, invece, tristemente ricorsiva. All’interno di questa dimensione il delirio, racchiuso “en secteur” ossia nel settore vertebrato del postulato passionale (de Clérambault), potentemente spezza i suoi argini interni e diviene totalizzante in Alba permeando la sua intera dimensione esistentiva e (prendendo in prestito l’espressione di Sérieux e Capgras) “si espande” (fino ad inglobare tutto il suo accadere mondano in una rete centrata sul modulo ripetuto del tradimento) “ma” “non evolve”. La temporalità di Alba non progredisce ma è siderata in un tempo immobile attraverso la ripetizione infinita del medesimo tema (il tradimento) che investe tutto il fronte di realtà all’interno una struttura interna “en réseau” ossia a rete, la quale si articola, però, dentro il settore della sfera amorosa (su cui si incardina l’intera identità della paziente, fagocitata da una dimensione affettiva assoluta). In questa ciclicità temporale (cristallizzata sul momento in cui Alba deve esercitare il controllo, all’interno della sua acribica attività di scavo) il tempo della vita viene arrestato e reso inabitabile; lo schema delirante rappresenta, dunque, un assunto che si ripete identicamente e non una storia che si sviluppa, uno stampo continuo dello stesso cliché all’interno di un tempo a-biografico. Quando Alba non si trova nella condizione di poter agire l’impulso controllante, il tempo viene percepito come massimante rallentato ed estenuante all’interno di un’attivazione angosciosa e priva di scarica, laddove in questo tempo collassato il suo bisogno impellente e la sua motivazione primaria rimangono insoddisfatti.
All’interno di questa dimensione (completamente scardinata dalla normale ritmicità del mondo vissuto) si possono, dunque, individuare tre livelli temporali coesistenti: dapprima, se quella di Alba può essere definita innegabilmente una temporalità circolare, congelata e figée, una seconda particolarità risiede nel fatto che la sua certezza non si rivela essere mai piena ma, piuttosto, alla perenne ricerca di un riscontro (in quanto il suo postulato ha la necessità di essere validato) e questo margine dubitativo (della certezza insatura) spezza il blocco e la monotonia del post-festum. È questa indeterminatezza (propria del dubbio) che mette in movimento una terza modalità temporale ossia quella dell’istantaneità e dell’immediatezza: l’impulso a controllare coglie la paziente nel qui e ora, immediatamente, la attiva e la muove alla dettagliata indagine; la certezza di Alba è, quindi, un post-festum continuamente mosso dall’impulso improvviso e ricorsivo di ricercare la conferma e, all’interno di questa urgenza pulsionale, è possibile cogliere un ulteriore aspetto cardine dell’habitus di Alba: il godimento nel riscontro del suo sospetto e del suo assunto di partenza. La paziente indaga non al fine di avere la disconferma della sua quasi-certezza (ossia la rassicurazione che il suo compagno non sia un traditore), ma desidera trovare l’ulteriore prova che colma la sua verità, ambisce all’incontrovertibilità del fatto di aver visto le cose come effettivamente sono, di essere nel giusto di una verità convalidata; è proprio questo bisogno di dimostrarlo che relativizza l'assoluto delirante: sebbene il postulato passionale sia precipitato a certezza obiettiva, tale evidenza (asserita in tutta la sua perentorietà) non è incrollabile, in quanto lei stessa ne attende ineludibilmente la dimostrazione. Alba, attraverso la sua inesauribile attività controllante, allontana la vulnerabilità a cui il dramma del dubbio la espone e, all’interno di una realtà solidificata e cristallizzata attraverso il paradigma delirante, afferma una percezione di sé stessa come grandiosamente acuta e capace di frugare la realtà in ogni sua piega più recondita, il cui sguardo è l’unico capace di scorgere l’invisibile che si cela dietro l’orizzonte. Alba, inoltre, si percepisce come tagliata fuori dalla dimensione vissuta (in questo frangente dalla temporalità) del suo oggetto amato, desidera intrudervi e si include e coarta dentro il desiderio di coincidenza del suo tempo con il tempo del suo amato, illudendosi di partecipare alla vita di Marco, il quale si configura, nell’iperbole delirante, conoscibile nella sua totalità.
Spazio vissuto
“La mia casa sono solo due stanze ma ci sto tanto bene, mi dà sicurezza anche se è piccolina perché è l’unico posto dove mi sento completamente libera e posso controllare Marco e le sue donnine, anche al lavoro quando sono sola ogni momento lo passo a controllare dal computer il Facebook di Marco (…) quando esco sto male perché non posso controllare e se c’è tanta gente mi sento molto a disagio, non riesco a relazionarmi e penso sempre a cosa starà facendo Marco”.
Alba è mossa ricorsivamente dalla ricerca di una dimensione sicura e protetta in cui poter agire il controllo e dare, così, pieno respiro al bisogno di intrusività; la casa è il suo spazio intimo e rappresenta uno squarcio privato sull’unico mondo abitabile per Alba (quello virtuale) dove può insinuarsi silenziosamente nella spazialità vissuta del suo oggetto amato e delle “sue donnine”. Al di fuori di questo guscio difensivo, la dimensione spaziale viene esperita dalla paziente come angosciosa e decontestualizzante in quanto intrisa di un profondo senso di estraneità; per Alba i luoghi esterni sono fonte di sofferenza, proprio a causa dell’impossibilità di agire indisturbata e con segretezza la sua necessità di controllo e intromissione nella vita di Marco. Inoltre, come sarà massimamente evidente dai prossimi esistenziali, in questa situazione di assente familiarità, gli spazi aperti rappresentano l’occasione dolorosa di un mancato incontro a priori per Alba che rifugge il confronto interpersonale e patisce la variabile contestuale perché essa le mette in evidenza il proprio vissuto di inettitudine relazionale; questa atmosfera confusiva e esponente favorisce, nella paziente, l’emergenza di un profondo sentire di inadeguatezza, legato alla sua percezione di inferiorità personale nel confronto con l’altro. Non trova la giusta misura per occupare un suo spazio autonomo, né all’interno della dimensione domestica né tantomeno in quella corporea (percepita, come sarà evidente, come difettosa), non possiede una collocazione che le consenta di abitare il proprio mondo della vita ed è priva di un posto in cui esperire un auto-riconoscimento. Quella di Alba è una posizione sfuggente che manca di individuazione e caratterizzazione anche relativamente alla dimensione lavorativa, all’interno della quale la paziente sembra essere immersa come un automa, in un grigiore amorfo, accidentale e privo di motivazione alcuna, ad eccezione del momento, per lei privilegiato, che sfrutta per controllare.
“Sabato alle 12.02 lei ha cambiato la foto su WhatsApp tutta truccata, lui è entrato sabato pomeriggio e si è sorpreso del cambiamento della sua foto perché si è collegato e subito dopo è uscito; poi è rientrato la sera e si sono messaggiati come matti, il momento clou me lo sono perso andando in palestra ma dalle 20 alle 22… un continuo”.
La dimensione virtuale (esplicita nelle piattaforme di Facebook, Instagram, WhatsApp) si configura come una spazialità che, seppur astratta e meccanica, per Alba acquista una consistenza assoluta e le rappresenta un alternativo mondo della vita (digitalizzato), una estroflessione del suo spazio psichico e un allargamento illimitato del suo spazio vissuto. In questa dimensione virtuale, esperita da Alba come sicura e protettiva, la paziente circoscrive essa stessa lo spazio percorribile e, calandosi interamente al suo interno, tra un pallino verde di Facebook e un accesso di WhatsApp, stabilisce i suoi personali punti di repere che delimitano il perimetro del “tutto torna”, ossia dell’assoluta verità confermativa del suo delirio. In questo mondo della vita digitale sostitutivo, la lebenswelt reale si impoverisce sempre più e contemporaneamente si arricchisce la dimensione fittizia (straordinariamente sincrona) del computer/cellulare che permette ad Alba, attraverso il dispositivo social asservito al suo immaginario delirante, di insinuarsi dentro la vita altrui. Così, il segno verde di Facebook del contemporaneo accesso di Marco e della “sua donna” acquista inizialmente per Alba un preciso valore polisemico in quanto esprime contemporaneamente sia il banale accesso e la permanenza usuale alla piattaforma (conserva il suo significato comune del nostro quotidiano condiviso) sia (all’interno del suo personale sistema di rimandi che ricalca la paralogia) una dimostrazione inoppugnabile di un dialogo passionale fra i due, comprovante il tradimento. Essendo lo spazio altrui originariamente impenetrabile e ipersignificante, il paranoico (per allontanarsi da questa opacità e inacessibilità del dato reale) è costretto a ricostruire il mosaico delirante dagli indizi che riesce a cogliere e questa attività ricostruttiva comporta una decontestualizzazione dei segni che vengono, quindi, espunti dal comune contesto di appartenenza e reinterpretati secondo il paradigma delirante. La polisemia iniziale, dunque, si richiude sul delirio all'interno di un sistema monosemico, racchiuso in un unico significato ed è in tale senso che il paranoico si sente, nella sua spinta megalomanica, in diritto pieno di entrare nella vite degli altri, attraverso un circuito auto-espansivo risignifica a suo modo, totalmente personale. Lo spazio digitalizzato abitato dalla paziente diviene il cinematografo delle infinite, ricorsive e identiche scene prodotte e dirette da Alba, di cui lei è l’unica regista e spettatrice, all’interno del suo film erotizzato; è coglibile un piacere voyeuristico che la anima nello scrutare cosa fanno i suoi due personaggi, l’entusiasmo come motore della sua scoperta, la suspence per la scena appassionata non ancora vista ma immaginata in ogni dettaglio e la delusione di non aver partecipato allo spettacolo racchiusa nel “mi sono persa il clou” che appartiene solo a una spettatrice fedele (assorta nel proprio film privato) che gode nello sceneggiare il suo romanzo e manipola dell’intreccio storico dei suoi personaggi..
Corpo Vissuto:
“Non mi piaccio, non mi piace niente di me, ho il faccione troppo grande rispetto al corpo, non ho il corpo tonico; quando ero bambina ero grassa, poi dimagrita, da dimagrita mi è rimasta la pancia molle, esteticamente faccio maschere viso, lampade, massaggi, palestra, ma rimango flaccida, non mi sento sicura, è sempre stata una lotta con il mio fisico”.
La percezione corporea di Alba è legata ad un profondo vissuto di difettosità e all’angoscia del proprio corpo esperito come squallido e danneggiato, la paziente si mostra assolutamente sprezzante nei confronti della propria corporeità (da lei stessa definita come “flaccida”) e, a ciò, consegue un estenuante impiego inconcludente di energie a scopo migliorativo; così, i continui ricorsi agli affezionati trattamenti cosmetici per il viso e il corpo e la regolare e intensa attività sportiva in palestra risultano comunque insufficienti a risanare l’egodistonia del suo corpo vissuto, espressa nella percezione di flaccidità che concerne proprio il modo in cui Alba vive la sua carne di donna: si sente amorfa, messa in scacco dalla perdita fantasmatica del corpo desiderato e dal mancato conseguimento di un Sé tonico, al centro di un vissuto dismorfofobico che concerne il suo viso, percepito di proporzioni eccessive. All’interno del suo paradigma valoriale imperniato sulla bellezza fisica (connotata come proporzione e tonicità della forma corporea), Alba non raggiunge mai l’ideale estetico desiderato (lo stesso che, come sarà evidente dalla sua alterità vissuta, riconosce esplicito in qualsiasi altra donna, ipervalutata e invidiata in quanto più avvenente di lei). La paziente, irretita dal luogo comune di una bellezza, costituita da misure e dallo standard sociale di desiderabilità, si vive come l’unica portatrice di un corpo astenico che ha il suo fulcro nell’inadeguatezza e nell’inferiorità percepite del proprio Sé, nonché nel bisogno di dare consistenza al suo molle involucro. Questo Sé flaccido è, infatti, perennemente in attesa di trovare una colonna vertebrale, una pienezza che colmi la sua essenza difettuale; ecco che, dal fondo di questo bisogno, emerge lo strumento utilizzato da Alba per placare questa mancanza: il cibo.
“Ho un rapporto strano con il cibo: in dei momenti mangio molto poco, in altri divoro tutto; la notte quando non dormo vado in cucina e mangio… mangio un vasetto di nutella, tanti dolci insieme… è più forte di me, ogni volta devi mangiare”.
Alba, come emergerà nel corso della terapia, tenta di controllare la consistenza del proprio Sé corporeo attraverso l’astinenza oppure l’eccesso di cibo, il quale le rappresenta uno strumento di regolazione emotiva. Infatti, Alba, guidata nella gestione della distanza interpersonale da una fatua idealizzazione della relazione affettiva e ricercante una presenza costante da parte della sua figura di riferimento, attraverso la sfera alimentare (racchiusa nei suoi episodi bulimici notturni) raggiunge una compensazione dell’assenza e dell’indisponibilità dell’altro. L’assunzione eccessiva di cibo (all’interno di una spinta tossicomanica) si verifica unicamente quando il suo oggetto di amore è mancante oppure percepito come emotivamente distante, rappresenta il tentativo di riempirsi (assicurandosi una presenza continua e una stabilità del proprio Sé).
Questa modalità viene utilizzata dalla paziente congiuntamente al ricorso alla dimensione relazionale del controllo dell’altro significativo (nel tentativo di farsi presente nella vita altrui per colmarsi attraverso l’assimilazione dell’esistenza dell’altro) e rende esplicito quanto, in Alba, le radici della sua tendenza a controllare siano radicate nella percezione del suo corpo danneggiato.
Ipseità vissuta
“Mi sono sempre sentita ingannata e tradita da Marco, ho tanta rabbia nei suoi confronti perché lui è lì che fa la sua vita felice e che si diverte, soddisfatto dopo avermi cacciato mentre io sono qui che guardo lui e mi trincero (…) ho rabbia nei miei confronti perché sto sprecando la mia vita, tutti gli uomini che ho avuto mi hanno sempre lasciato perché stringevo troppo, mi sento una persona da schifo, sono riuscita a distruggere tutte le mie relazioni con le mie mani”.
Una consueta Alba, sempre in primo piano e identificata come la vittima designata di un tradimento perpetrato, si sente fuorviata e mortificata dal suo traditore, abbandonata da lui e emarginata dalla sua vita; ancora immersa nei panni del ruolo della spettatrice rabbiosa e gelosa dell’esistenza altrui, contempla il suo amato (sprezzante di fronte alla sua sofferenza e la cui vita continua a fluire naturalmente e senza rimpianti) che adesso è finalmente appagato in virtù della sua assenza e al centro di una dimensione godereccia e dissoluta mentre Alba, lasciata a margine (la cui dimensione vissuta è completamente appiattita e arrestata) non può fare altro che raccogliere e subire silenziosamente tutta la sua umiliazione mentre osserva di nascosto il prodotto della sua immaginifica scena (di un Marco felice, in compagnia delle sue attraenti donnine). Accanto a questa preminente Alba si recupera ed affianca, con il progredire della terapia, una seconda Alba che, al di là dell’oggetto anonimo-Marco, è tristemente consapevole e profondamente insoddisfatta di avere profuso tutta la sua vita nel tentare di costruire relazioni che in realtà, all’opposto, vengono demolite proprio a causa della sua modalità relazionale oppressiva e intrusiva. Questa Alba, osservandosi attentamente dal suo pertugio, è insofferente e reagisce con rabbia e sdegno alla vista che le si mostra allo sguardo: una lei flaccida e amorfa che, invece di internalizzare la sua insufficienza, la esternalizza nella figura maschile (che diviene “chi tradisce”) e (nelle altre donne (che assumono le caratteristiche di “malevolenza e provocazione”); proprio quella Alba gelosa è pronta a ricercare, nella proiezione sull’altro della propria angoscia, una soluzione alla sua problematicità e mancanza personale.
altro vissuto
Marco è solo un vigliacco, è sempre stato un falso, un bugiardo, mi ha lasciato perché voleva stare con la sua donnina, è sempre stato pazzo di amore per lei, gli auguro tutto il male del mondo, è un essere indegno di stare sulla terra”.
Nella sua descrizione ricorrente si profila un Marco che diviene il perno di una polarizzazione affettiva fortissima in senso svalutativo e colpisce come si palesi, in lui, la mancata attribuzione di qualsiasi qualità umana fino a configurarsi, nell’immaginario delirante di Alba, disumanizzato (in tutta la sua “indennità”).
In questo tratteggio di Marco come disprezzato e avvolto da un alone di sdegno (in quanto colpevole assoluto di aver cessato la loro relazione), la forza con la quale Alba sottolinea l’esclusiva responsabilità del suo “spregevole” partner nella chiusura del loro rapporto rivela quanto, per lei, sia intollerabile recuperare in sé stessa questa sofferenza. Questa visione altamente dispregiativa nei confronti di Marco si alterna ad una sua seconda rappresentazione, più concreta, umanizzata e sicuramente maggiormente riflettente il Marco reale:
“Al telefono Marco era sempre cupo, storto, introverso, però, quando ci vedevamo ci prendeva la voglia di stare insieme, si illuminava! mi proponeva di fare tante cose, era molto presente e affettuoso”.
A fronte di un Marco che mostra tutta la sua presenza affettuosa e un grande trasporto emotivo (assolvendo così al suo bisogno di dedizione), la paziente (rassicurata da questo equilibrio) non ha alcuna necessità di farsi fagocitare dall’angoscia psicotica ma, all’opposto, è proprio questo Marco infrasettimanale “storto e cupo” che le fa percepire di essere in balia di un oggetto indefinito, discontinuo, emotivamente indisponibile e slatentizza la persecutorietà, in un’Alba incapace di gestire la distanza emotiva e impossibilitata ad accettare il distacco. Così, se la presenza fisica dell’oggetto amato la aiuta proprio nella costituzione di questo altro rispecchiante le sue caratteristiche reali, nel momento in cui la paziente percepisce una minima distanza fra lei e il suo partner (sia pure essa trascurabile come una sfumatura nel tono di voce), non la attribuisce a normali oscillazioni all’interno della relazione di coppia o a problematiche personali che possono concernere la persona-Marco ma le ascrive immediatamente ad un’altra entità esterna (ossia l’inconfessato desiderio del suo altro amato di tradirla e la sua celata “pazzia d’amore” per un’altra donna). Alba manca nella costituzione dell’altro concreto che, percepito come irraggiungibile, sfuma i suoi contorni umani, si dissolve e, nella sua assoluta opacità, facilita la costituzione di un altro cattivo e persecutorio, più intuitivamente visualizzabile.
All’interno di questa drammatica incapacità della paziente di tollerare l’ambiguità e del suo personale processo di auto-corroborazione che si perpetua, la figura di Marco improvvisamente sprofonda e dalla crepa delirante emerge un oggetto totalmente maligno. Così, le quotidiane violente liti telefoniche con Marco (nelle quali viene accusato sistematicamente di tradirla e che lo indurranno a fine gennaio a lasciare bruscamente Alba telefonicamente, negandole un confronto visivo) e il ricorso spasmodico alla dimensione controllante diventano espressione di una persecutorietà che, paradossalmente, riscalda il ghiaccio creato dalla distanza e riavvicina l’altro, nel tentativo disperato di ripristinare una vicinanza con l’oggetto sfuggente. Alba ritrova consistenza nell’altro immaginato, al quale demanda la costituzione del proprio Sé: nel momento in l’altro reale si allontana, lei (dopo aver tentato infruttuosamente di appropriarsene, consumandolo e svuotandolo) e posta in una posizione totalmente asimmetrica (di fronte al suo oggetto turgido e adesso lontano) si indebolisce e affonda nel vuoto dell’abbandono, fino al momento liberatorio in cui ritrova il suo amato proprio nella costituzione paranoicale e in cui lei risorge nuovamente come una fenice maestosa e pura.
“Con tutti i miei ex, da che mi ricordo, quando loro non mi rispondevano al cel. e non mi volevano vedere o percepivo qualcosa che non andava dalla voce, mi scattava il controllo, pedinavo con la macchina e passavo le ore al freddo sotto la loro casa o sotto il loro ufficio perché pensavo subito ad altre donne”.
A fronte della pretesa idealistica di una simbiosi totale con l’atro significativo, all'insegna dei valori e delle regole che Alba pone (rispondenti alle logiche di un amore narcisistico autoreferenziale e cieco di fronte all’altro-da-sé), l'amato rappresenta una comparsa nel suo scenario sentimentale, un oggetto generalizzato immesso al suo interno al fine di colmare un vuoto identitario e soddisfare un bisogno adesivo relazionale.
Ogni partner, per la paziente, si configura indistintamente come uno specchio riflettente iper-caricato di responsabilità e portatore del senso della sua stessa esistenza, non è riconosciuto in quanto -altro- (foriero di una separatezza individuale e di una storia personale) ma, all’opposto, viene continuamente assoggettato al bisogno di Alba di sentirsi validata; proprio da quella frattura umana (che nasce dall’interno del suo desiderio per l’altro, inattingibile e non riconducibile mai totalmente ad esso) emerge il paradigma delirante, teso a saturare l’inconoscibile e renderlo prevedibile nel suo schema invariante dell’altro-traditore.
Inoltre, nella paziente, l’oggetto di amore si rivela massimamente attraente e attivante in quanto mancante, quando lo ottiene e l’idealizzazione viene conseguentemente raggiunta, esso perde precipitatamente di interesse (le appartiene già, per cui diviene vano e insoddisfacente) e frana poiché in ogni caso, l’alter sognato non può essere mai completamente incarnato nel reale. Contrariamente, nel momento in cui l’altro si allontana, si riattiva il desiderio eccitatorio e inglobante (assieme all’angoscia abbandonica) e l’oggetto diventa nuovamente desiderabile, all’interno di un circuito auto-alimentante nel quale, se l’astrazione si cala nel reale, essa decade e appare completamente deludente, al punto tale da dover ricominciare a ricreare una situazione di asimmetria che favorisca l’elicitazione di una potente angoscia (nel momento in cui l’altro si sottrae nuovamente). Quindi, Alba (il cui vissuto di iscrive in un profondo sento di solitudine), immessa all’interno di un rapporto parassitario con l’altro amato (improntato al suo sfruttamento per aumentare la propria autostima), messa in scacco di fronte alla non disponibilità e all’assenza di presenza dell’oggetto, non può fare altro che agire il suo bisogno di intrusività all’interno della vita altrui. Sulla scena relazionale di Alba si ergono, per rilevanza, altre due figure maestose e necessariamente centrali nella sua vita: la madre e (a dispetto di un padre descritto come schivo, riservato, che sembra rivestire ben poca importanza nella vita della figlia ed essere vissuto da lei come assolutamente marginale) la sorella maggiore, Alessandra.
Dalle parole di Alba, relative alla madre:
“Mia mamma è sempre stata invadente, pressante, ha sempre cercato di controllarmi, anche da grande dovevo renderle conto proprio di tutto (…) da bambina e adolescente, su ordine di mia mamma, dovevo controllare che cosa faceva Alessandra quando usciva fuori, dovevo seguirla e dire a mia mamma che cosa aveva fatto e con chi si era vista oppure dovevo accompagnarla ogni volta che usciva (…) mia mamma, se a mia sorella comprava una cosa, a me ne comprava due, mi viziava per accontentarmi per fatto che io ero quella grassa”.
La madre (che, così descritta, sembrerebbe ipoteticamente anch’essa una struttura antropologica di tipo paranoicale) sicuramente, per prima, introduce in famiglia la dimensione del controllo anziché dell’affetto e nega il calore a un’Alba bambina (eccessivamente responsabilizzata e del tutto impotente nei confronti del ripetuto mandato materno di esercitare il controllo sulla sorella maggiore) ma, anzi, le trasmette un messaggio fortemente svalutativo permettendole di godere di trattamenti di favore (che la paziente interpreta erroneamente e ingenuamente come “essere stata viziata”) in quanto grassa e venuta male. Ciò avviene nel tentativo della madre di compensare (attraverso oggetti materiali) la carenza del corpo inadeguato di questa bambina le cui parti deboli vengono blandite, placate, saturate ma non riconosciute (all’interno di una modalità relazionale che, paradossalmente, accentua la sua percezione di difettosità e diversità).
Le parole di Alba riferite alla sorella Alessandra e alle “altre donne”:
“Mia sorella Alessandra non la sopporto perché mi critica sempre in modo pesante dicendomi che sono una persona immatura, che le storie le ho fatte finire tutte nello stesso modo; inoltre, ha un carattere tremendo: si impiccia sempre degli affari degli altri, è una pettegola e fa la superiore e sa tutto lei di ogni cosa (…) Alessandra ha sempre avuto il fisico più tonico e snello e mi sono sempre sentita inferiore rispetto a lei che, adesso, ha una vita perfetta, è sicura di sé ed è felice (…) tutte le altre donne sono meglio di me, più slanciate, attraenti agli sguardi degli altri, quando esco di casa e passeggio guardo le altre coppie vedo che sono felici e le donne sono tutte belle, io non sono alla loro altezza”.
Alessandra (che propone una modalità giudicante e accusatoria costante verso un’Alba esasperata e intollerante) è definita come una donna che, al di là delle caratteristiche fisiche straordinarie, si mostra estremamente sicura di sé e realizzata, verso la quale Alba nutre una potentissima ambivalenza: la sorella maggiore è idealizzata e fonte di rivalità perché vive la propria vita piena, prosperosa e gratificante ma è, in contemporanea, disprezzata e biasimata in quanto “impicciona a cui piacciono le chiacchiere da bar e saccente, non degna di fiducia” che, per giunta, giudica e umilia la sorellina ogni volta che le si presenta l’occasione.
Verso la sorella maggiore, Alba nutre un radicato e antico vissuto di inferiorità e di gelosia, che verrà secondariamente esteso ed espresso attraverso un interesse spasmodico verso tutte le altre donne (le quali, aspecificamente, saranno vissute ognuna come maggiormente affascinante, vitale e sessualizzante di lei).
Il confronto con la realtà esterna per Alba diviene fonte di sofferenza nella misura in cui potentemente evidenzia tutta quella bellezza (presente in modo così connaturato nelle altre) a lei “non concessa”; similmente, le coppie sconosciute e casuali che incrocia per strada si prefigurano, nel giudizio della paziente, come “meravigliose e soddisfatte” per merito una felicità e un benessere che le rimangono inaccessibili.
È sottolineato, così, il profondo vissuto di esclusione (da questo tipo di situazione appagante) proprio di un’Alba che si sente portatrice di un corpo svalutato e la cui insufficienza non potrà che portarla a mettersi in competizione, per poi franare rovinosamente, al cospetto delle altre donne, verso le quale nutre all’unisono ammirazione e gelosia, poiché vissute come “migliori” rispetto a sé stessa. La paziente è pienamente immersa all’interno di un mondo spaventante popolato Dalla Donna, ossia -un archetipo ideale e schiacciante- (che possiede qualità in lei mancanti come un corpo funzionante e vitale, mentre lei ne esibisce uno danneggiato e sproporzionato rispetto al “faccione”). Diventa comprensibile, allora, calandosi nell’apparato ideativo di Alba, come il suo Marco possa essere amato (dalla paziente) solo se viene preventivamente o contemporaneamente reso desiderabile da altre donne, in quanto ciò gli conferisce un valore a fronte del fatto che, se viene amato unicamente dal Alba (che si percepisce come non amabile e indegna), ciò risulta assolutamente ininfluente; questo crea una saldatura circolare viziosa in cui più Marco è amato, maggiormente diventa oggetto desiderabile. Quindi, nell’immaginario di Alba (che sembra quasi sentirsi assediata dalla portata grandiosa della figura femminile che la investe e immersa in una gelosia totalizzante tesa a mascherare la propria disistima), quel Marco-uomo-desiderato non può che preferire le altre donne mentre lei si vive come esclusa dalla possibilità di assimilare le loro caratteristiche desiderate.
Materialità degli oggetti
“Grazie al computer e al cellulare guardo gli accessi di Marco, il suo numero di amicizie, guardo Sara e le sue amiche, se sono single o sposate, i loro nomi e di dove sono, guardo che cosa fa Marco e dove si trova (…) mi sono fatta un profilo falso e ho aggiunto tutte le amiche di Sara, vorrei chiedere a loro se conoscono una certa Sara T. che si scambia messaggi hot con mio marito perché si passino la voce, per farla apparire una poco di buono (…) ho creato un secondo profilo falso dove mi chiamo esattamente come lei e ho aggiunto di nuovo tutte le sue amiche, fingendomi lei ho messo mi piace e commenti tipo -amazing, il top- a posti strani tipo discoteche e a posti dove Sara era stata con i suoi ex, così magari con il passaparola Marco lo viene a sapere, si ingelosisce e litigano, poi lui la lascia”.
Come risulta cristallino dalle parole della paziente, gli strumenti telematici rappresentano per lei esclusivamente mezzi utilitaristici asserviti a molteplici scopi: dapprima e senza posa, un’Alba detective osserva segretamente la vita di Marco (al fine di corroborare l’immagine di un Marco bugiardo). Ma, l’aspetto più drammaticamente interessante (rivelatore del polo stenico che rimane sempre presente all’interno della configurazione personologica paranoicale) è proprio l’alone rivendicativo che muove Alba nel suo contorto disegno quando (dando piena apertura ad un’acuta intelligenza a servizio del dispositivo emozionale turbato della paranoia) costruisce, con modalità certosina, profili falsi creati ad hoc con la finalità (da lei stessa esplicitata) di porre Sara nella denigratoria luce dell’amante spietata e della “rovina famiglie”. Alba spinge la sua ricerca al dettaglio morboso nell’arricchire il profilo Facebook da lei stessa creato in cui impersona questa “seconda Sara” inondandolo di icone religiose, richiami ecclesiastici e “santini” (la paziente descrive Sara come una persona che, fingendosi devota, mostra nel suo profilo immagini di peregrinaggi in luoghi santi e citazioni clericali). In questo eccesso caricaturale, la paziente punta a mettere pubblicamente in risalto l’idiosincrasia di una Sara che, fra il sacro e il profano, si professa come “pura e casta” ma, in realtà, è solo “una squallida puttana” che (grazie all’acume di un’Alba auto-compiaciuta del proprio operato) si rivela anche social-mente tale. Infatti, la paziente (ricalcando lo stile di scrittura tipico di Sara e dopo aver acquisito su di lei tutte le informazioni necessarie, attraverso una puntuale rassegna biografico-storica di tutto il suo profilo Facebook) tesse sapientemente la propria tela sottile di commenti, like e cuoricini “compromettenti” (a luoghi “peccaminosi” e potenzialmente dannosi per l’integrità dell’immagine pubblica della “disturbatrice”). Queste azioni vengono compiute con speranza che, attraverso il dispositivo infettivo del pettegolezzo, Marco venga a conoscenza di questo legame emotivo mai spezzato e la rabbia lo spinga a lasciare la donna per cui è “pazzo di amore”. Se tutto ciò accadesse, un’Alba eccitata e frenetica (completamente immersa nel sistema delirante che diventa una chiave di lettura totalizzante del suo mondo) avrebbe esaudito il proprio desiderio di distruttività nei confronti della “disturbatrice” (adesso sbugiardata) e di un Marco che, improvvisamente, si trova costretto a uscire dalla spirale gioiosa in cui si era inserito per affrontare la verità rivelata: essere finalmente consapevole di aver scelto accanto a sé una donna sbagliata, ipocrita e maligna. La paziente (che non sopporta l’idea di un Marco completo in sua assenza), nell’intento di devastare la felicità del suo amato e tentando di infliggere la commisurata pena punitiva a Sara, ottiene un effetto restitutivo: all’interno di un movimento febbrile e megalomanico (che nutre la sopita spina stenica), ribalta sia l’esperienza di passività che l’identificazione nel ruolo di vittima inerme e reintroduce un controllo totalitario e onnipotente sugli eventi, nonché una possibilità di agentività. Alba vendicativa (che, attraverso il disegno delirante, acquista un rinforzo narcisistico e un senso di coesione del Sé) si riappropria del ruolo attivo di carnefice che trama di ordine danni a proprio vantaggio e coltiva la fantasia grandiosa di manipolare la dinamica interpersonale altrui.
Sarà, di seguito, presentato il denso percorso terapeutico di Alba che apre all’assunzione di una postura riflessiva nei confronti della propria vulnerabilità nonché a una differente ermeneutica rispetto alla propria condizione psicopatologica, all’interno di un bilancio del proprio percorso di vita vissuta.
Hermeneutic – interpretazione ermeneutica
A seguito di un mio iniziale spaesamento, nelle prime sedute mi ritrovo sorprendentemente immersa all’interno una singolare atmosfera allo stesso tempo coartante, captativa e torbida, mai esperita prima e che percepisco avvolgente attorno alle pareti del mio studio, unicamente in presenza di questa nuova paziente, la cui esperienza soggettiva risulta trasfigurata dal delirio e dal dispositivo emotivamente turbato dell’organizzazione paranoicale che mi si erge, infrangibile, di fronte. Quasi risuonando all’unisono con il suo arroccamento esistenziale, sento distintamente il mio spazio di agentività mentre si restringe e inizialmente la ascolto, cauta, limitandomi esclusivamente a porre domande tese a dispiegare maggiormente i vissuti che intessono e intrecciano il mondo della vita della paziente, serrata nella sua ferra ideazione (fatta di inflessibili e logore “deduzioni”) che, seppur contenutisticamente plausibile, mi appare così formalmente distante da sembrarmi irraggiungibile. Sebbene Alba sia impegnata, fin da subito, strenuamente in un’opera meticolosa di persuasione nei miei confronti della correttezza e incontrovertibilità della sua tesi, ponendomi come base etica della relazione terapeutica quella di non essere “contro” la paziente (con il rischio concreto di essere vissuta come un’entità persecutrice) né tantomeno “insieme” (con il probabile pericolo di essere inglobata dal suo vissuto e creare una dannosa sovrapposizione di ruoli) io ho cura di non colludere (né tantomeno collidere) con un tale sistema impermeabile, che nella mia fantasia assume presto la forma immaginata di una stanza di solo granito levigato, fredda, senza pertugi e di cui la paziente è la prigioniera inconsapevole, non offre inizialmente anfratti perché io possa accedere al suo interno. Così, non mi resta che rintracciare pazientemente una linea di frattura, la quale (una volta individuata e scalfita) induca la creazione di una crepa, favorente una possibile problematizzazione terapeutica; la riconosco nell’immagine altamente dicotomica che Alba conserva di se stessa, che rappresenterà proprio il nostro eidos rischiarante l’intera terapia. Infatti, in Alba sono presenti due chiare rappresentazioni incompatibili di sé stessa: in seduta compare quasi esclusivamente un’Alba preminente che si sente ingannata e umiliata dal suo traditore, impiegante la totalità del suo quotidiano nella ricerca di indizi che comprovino i molteplici tradimenti ad opera di Marco (che rappresenta l’ennesimo oggetto del tutto indifferenziato di una modalità relazionale persecutoria sempre agita).
Questa Alba, identificata pienamente nella posizione della vittima e riluttante di fronte all’alterità dell’altro (che le rappresenta unicamente un dispositivo riflettente, perno delle proprie proiezioni), non può che avere costantemente presente a sé quel Marco irreale e immaginato che alimenta la tragica scena del suo romanzo delirante e la allontana, sempre più drasticamente, dalla possibilità effettiva di un mondo della vita vissuto.
Raramente, affiora (dalle pieghe del lavoro terapeutico) un’Alba sofferente, precedentemente conosciuta da me telefonicamente, disperata e in contatto con un vissuto profondo di fallimento personale, consapevole di essere unicamente la spettatrice di vite altrui e auto-esclusa dalla possibilità di costruirsi una relazione non fallace; esasperata e inerme (nonché sopraffatta da una primeggiante Alba vertebrata dal delirio). È del tutto evidente la dicotomia espressa da queste due rappresentazioni antitetiche che, nella loro essenza duale, mostrano bisogni e desideri differenti: se un’Alba (identificata nel ruolo della vittima umiliata) ricerca nell’altro una soluzione al suo problema di mancanza, si satura incentrandosi sull’entità esterna Marco (di cui, autocompiaciuta, deduce torti e tradimenti) e si proietta interamente nella dimensione vissuta altrui, l’altra Alba è sofferente in quanto dolorosamente consapevole di essere egodistonicamente pressante ed oppressiva con la figura maschile di riferimento nonché insopportabilmente priva di uno spazio esperienziale e relazionale privato; questa secondo Alba è penosamente cosciente che di un’apertura al mondo della vita non digitalizzato e di un recupero di agentività necessiterebbe, a dispetto di una vita mancata che le si manifesta impietosa allo sguardo e si esprime in modo del tutto impressivo, attraverso questa dolorosa affermazione:
“Mi sono sciupata la vita, ho perso un sacco di tempo a stare dietro a quello che facevano gli altri e ho perso tutte le persone per il mio problema del controllo”
Proprio per merito di questa “spaccatura” intima e autoriferita (racchiusa nella duplice rappresentazione che anima la paziente), immediatamente e fin dalle prime sedute, si tratteggia in me l’immagine eidetica rivelativa delle “due Albe”, la quale si fa imponente e, come uno squarcio di luce che trafigge il buio della notte, rappresenterà quell’essenza illuminante che costituirà la via clinica che accompagnerà tutto il nostro percorso.
Nel corso dei primi mesi, i miei interventi sono tesi a mettere in luce e rammentarle quella che è stata la sua richiesta iniziale (con l’obiettivo di recuperare e rinsaldare proprio la sua seconda rappresentazione), attraverso il lavoro terapeutico la conduco progressivamente e il più delicatamente possibile ad individuare la propria contraddizione interna e alla messa in evidenza dell’egosintonia implicita del suo comportamento, fissando come cardine del nostro lavoro le stesse affermazioni antinomiche portate dalla paziente in relazione a sé stessa, che evidenzio a lei continuamente, per favorire una sua presa di posizione in merito. Ecco un frammento che, nella sua essenza paradigmatica, esemplifica il cuore della prima parte della faticosa ma stimolante terapia:
T: “Se si ricorda, quando mi ha contattato mi ha detto che il suo problema era che lei controllava Marco e che stava male per questo; mi sembra che ci stiamo allontanando da questo tema, mi sembra che, piuttosto che concentrarci su di lei, siamo sempre focalizzate solo su Marco e, mi corregga se sbaglio, non mi sembra così preoccupata di continuare questa attività di controllo ma più incentrata sul metterla in atto in modo strumentale per acquisire informazioni, è corretto?”
P: “Sì, sono anche preoccupata e mi impongo di non farlo ma… poi io devo sapere cosa fa, devo saperlo”
T: “Come mai è così importante sapere cosa fa?”
P: “Perché vorrei sapere la sua motivazione all’abbandono, oltre essere pieno dei miei comportamenti, c’è dell’altro, ha un’altra storia, ne sono sicura, lui mi ha tradito e preso in giro”
T: “Se, invece, ipoteticamente scoprisse che questo tradimento non è mai avvenuto ma che, in realtà, lui ha cessato la vostra relazione solo perché era esasperato da questo tipo di comportamento, come si sentirebbe?”
P: “Boh… io sono così, non ho indossato nessuna maschera, sono stata sempre me stessa”
T: “è stata autentica, questo è un dato di fatto, lei mi sta dicendo: -io sono stata autentica anche mentre lo controllavo?”
P: “Sì, esatto”
T: “Dicendo questa frase sembra quasi voler dire -io mi vado bene così, anche mentre controllo-; da una parte vorrebbe eliminare questo aspetto (del controllo) e dall’altra lo accetta come parte integrante della sua personalità, come se mi stesse dicendo -accetto di essere così e mi va bene perché è un sintomo della mia autenticità-; è giusto?”
P: “Sì”
T: “Mi pare che siano presenti due prospettive conflittuali tra loro perché quando mi ha contattato sembrava che il bisogno di controllare fosse per lei un grave problema; dobbiamo ragionare su questo: il suo bisogno di controllo e il suo comportamento conseguente è qualcosa di sé stessa che lei può accettare oppure no? mi pare che non sia chiaro”
P: “Infatti non lo è, in effetti non ci avevo mai pensato ma sono un po' ambigua…”
T: “In seduta è come se vedessi due Albe, un’Alba (che c’è più spesso) che si sente tradita, umiliata e passa la sua vita a vedere quello che fanno Marco e Sara, a vedere che loro stanno bene e lei no; poi c’è un’altra Alba (che fa capolino qualche volta) che mi ha contattato all’inizio dicendomi di avere un problema perché soffre, lei non soffre per Marco e Sara, soffre perché si rende conto che la sua vita non è vissuta, impegnata come è a osservare quella di altri…”
P: “Sì è così, in me ci sono tutte e due ma non vanno molto d’accordo”.
L’habitus controllante appare come sintonico con la propria sfera dei valori e iscritto naturalmente nell’“autenticità” di un’Alba immersa pienamente nel sistema delirante (che accetta e si avvale strumentalmente del controllo), ma, all’opposto (primariamente nella richiesta iniziale telefonica) si fa presente anche una seconda Alba, maggiormente auto-consapevole, che esprime con forza il voler smettere di agire il controllo (il quale rappresenta, per lei, un impulso egodistonico verso cui si descrive come riluttante). Attraverso un paziente esercizio di dispiegamento, le offro un filo esperienziale e una possibilità narrativa che tracima il limite di Marco e ci permette di avventurarci cautamente in un terreno personale ancora non battuto, laddove (piuttosto che forzare bruscamente un decentramento) scelgo di affiancare ciò che Alba continua a portarmi sul suo amato, all’esplorazione graduale e delicata di altri aspetti cardine della sua esperienza.
Ha inizio, così, la seconda fase della terapia, all’interno della quale, una differente prospettiva (incentrata quasi esclusivamente sui vissuti della paziente che esulano dalla dinamica Marco-donne) rende meno urgente a Alba il bisogno di parlare di lui, minor pressante la necessità di esternalizzare in questo oggetto proiettivo la sua insufficienza e ci permette di far emergere gradualmente l’esperienza vissuta della paziente. Così, si svela al mio sguardo un’Alba svalutante nei confronti della propria corporeità, che si vive come la portatrice emblematica di un corpo difettoso e subisce la carenza percepita di una corporeità ideale che non riesce mai a saturare. Un intimo vissuto di inadeguatezza e inferiorità ha accompagnato la paziente fin da piccola quando “si ingozzava spesso senza avere fame e poi vomitava tutto” e, in età adulta, Alba continua tutt’oggi a mantenere una condotta alimentare altamente sregolata: durante il giorno si alimenta in modo ipocalorico mentre sovente presenta episodi di assunzione incontrollata di ingenti quantità di cibi dolci e ipercalorici, che vengono ingurgitati rapidamente e voracemente e non sono accompagnati da una necessità fisiologica di alimentarsi. Le abbuffate notturne, inizialmente inspiegabili per Alba, acquistano (grazie al dialogo terapeutico) una caratterizzazione inerente lo stato emotivo della paziente che, immersa all’interno di un’esperienza soggettiva di profonda angoscia abbandonica, sente il bisogno irrefrenabile di nutrirsi nei momenti di indisponibilità e assenza percepita (oppure fisica) della figura di riferimento sentimentale, all’interno dell’urgenza di riempimento di un corpo che non viene sentito come pieno ma come vuoto. Nella paziente, che comincia a essere consapevole del misero spazio che ha dedicato ad una dimensione personale, si verifica un movimento di riconcettualizzazione dell’impulso bulimico che, da atto meccanico, aspecifico e non problematizzato, diviene un preciso e finalizzato strumento teso a colmare una radicata percezione di inferiorità corporea e un’angoscia imminente di abbandono ed esclusione. Le sedute hanno permesso di donare spazio a quella seconda rappresentazione della paziente intimamente sofferente e decentrata dalla scena totalitaria di Marco; partendo la questa nuova posizione prospettica, è emersa una’Alba che mostra il bisogno narcisistico di ricercare l’approvazione dell’altro per rispecchiarsi positivamente nel suo sguardo e assimilarne conseguentemente il proprio valore personale (nell’aspettativa dell’immagine positiva rimandata dall’altro). La banale preparazione di una cena sembra rivelarsi un progetto emotivamente insostenibile in quanto la paziente non accetta di sé un risultato che non raggiunta il livello perfezionistico, nella finalità di fornire una rappresentazione pubblica della sua persona che si confermi all’altezza dello standard auto-imposto, all’interno di una struttura antropologica che tradisce un inflessibile ancoraggio alla scrupolosità (inerente la dimensione organizzativa e della sfera domestica), nel tentativo di arginare l’intimo nucleo di autosvalutazione.
T: “A casa invita persone?”
P: “Molto poco, e soprattutto non a cena, perché mi fa pensiero: non so mai che preparare, bisogna che mi anticipi per bene e mi stresso, mi sta fatica”
T: “ha paura dell’immagine negativa che può dare, ad esempio qualora la cena non fosse gradita agli invitati?”
P: “Si, poi mi va che la casa sia tutta in ordine, pulita e sistemata, non riesco a presentarla come vorrei e ho paura che i miei amici la guardino e la notino male, mi entra questa agitazione”
T: “Questo succede perché sono gli amici ad essere un po’ puntigliosi oppure perché si sente in difetto lei per aver lasciato disordine?”
P: “Mi sento in difetto io”
T: “Mi sembra che lei tenga molto a dare un’immagine positiva di sé perché, probabilmente, si sente inadeguata rispetto all’immagine che vorrebbe dare agli altri e rispetto all’immagine che pensa gli altri si aspettino da lei”
P: “Sicuramente, è proprio così, non è un -voler apparire- ma devo dare una certa immagine di me”
T: Come ha detto lei non è un voler apparire- ma è un ricercare attraverso l’approvazione dell’altro di approvare sé stessi, lei si sente bene se è guardata bene, le torna?
P: Si, io sono un’insicura, lo sono sempre stata.
Si inizia ad apprezzare la rilevanza del polo astenico che pervade Alba (la cui organizzazione personologica si rivela attraversata da un’insicurezza di base) il cui risultato comportamentale (ossia la tendenza perfezionistica), come correttamente sottolinea la mia stessa paziente, non si riduce affatto a un bisogno superficiale dettato dalla mera “apparenza”, ma riflette la necessità profonda della paziente di dirimere (prendendo in prestito un’espressione di Kretchmeriana memoria) “quell’angoscioso vissuto di trasparenza e di vergognosa insufficienza”, con il quale Alba si confronta in ogni occasione di incontro con l’altro, il cui sguardo mette a nudo la propria vulnerabilità. Su questo terreno di sensibilità intrapersonale che esploriamo cautamente, inaspettatamente Marco, probabilmente resosi conto di non aver affrontato in modo maturo la chiusura, invita (dopo mesi di silenzio) Alba per “un caffè” e mantiene con lei un atteggiamento amicale, ravvisabile poi dal “messaggio” settimanale che le manda per un breve scambio vicendevole in cui conversano “del più e del meno” e che sembra rappresentarle quella base contestuale sicura e favorente un’apertura terapeutica che la muove ad una riconcettualizzazione della figura del suo ex partner; all’interno dell’obiettivo di spostare l’attenzione dalle caratteristiche di Marco alla funzione narcisisticamente riempitiva che lui assolve:
P: “Ho avuto poca voglia di controllare, sto meglio, adesso mi cucino e penso più a fare le mie cose, esco più volentieri la sera con le mie amiche, il tempo passa e mi accorgo che Marco mi manca però meno, solo in determinati momenti”
T: “Era abituata che le mancasse sempre?”
P: “Sì, prima mi mancava sempre, adesso senza sto abbastanza bene”
T: “Si sente diversa da prima per quanto riguarda questo aspetto?”
P: “Sì, diversa…”
T: “E questa consapevolezza come la fa sentire?”
P: “Bene ma confusa, il perché non lo so…”
T: “Lei è abituata alla Alba bisognosa di Marco, mentre con la terapia si sta affacciando una’Alba più autonoma che, quindi, sente molto meno la mancanza di Marco e, forse, al momento lei non sa in quale riconoscersi maggiormente”
P: “Sicuramente, però devo dire che mi dà proprio fastidio non averlo il sabato sera, quando sono sola”
T: “Le dà fastidio non avere Marco il sabato sera o le manca avere qualcuno per passare il sabato sera?”
P: “Direi qualcuno, perché infatti quando sono con le amiche sto bene e non ci penso a Marco, anzi… sto proprio bene”
T: “Sembra quasi che lei non abbia bisogno di Marco in quanto tale ma della presenza di qualcuno per colmare quei momenti di vuoto in cui è insofferente di stare da sola”.
P: “Si, poi mi fa sempre piacere sentirlo per messaggio eh… ma adesso è diverso… non lo so”
T: “Mi sembra di capire che il messaggio che riceve non le dia più quell’attivazione di prima”
P: “Sì, anche se, quando ho visto il messaggio in cui mi ha scritto lui, devo essere sincera, ero gioiosa”
T: “Questo, secondo lei, è accaduto perché lei ha sentito un trasporto emotivo verso Marco o più per la gioia di sentirsi valorizzata dal messaggio in quel momento?”
P: “Più per la gioia del messaggio”
T: “Vede… c’entra meno con quello che lei prova per Marco e più con quello che Marco le fa sentire; mi sembra che il bisogno, da parte sua, di essere valorizzata sia superiore al riconoscimento, per lei, di un sentimento per Marco”
P: “Sicuramente sì, mi ha fatto piacere perché mi sono sentita importante”
T: “Mi sembra che lei sia molto meno coinvolta da Marco ma quello che continua a premerle sia una valorizzazione della sua persona da parte di Marco, e riconoscere questo è importante perché non ha a che fare con Marco ma con il fatto di come lei viene percepita da un occhio esterno, quello di Marco”
P: “Cioè?”
T: “Di essere vista in modo accattivante dagli altri, in questo caso da Marco; le faccio un esempio: quando prima le ho chiesto che cosa pensava in relazione ad un altro ipotetico incontro le mi ha detto -di farmi la manicure, la pedicure-”
P: “Sì, sì esatto”
T: “Ecco…queste sono le solite cose che lei fa per apparire attraente e piacevole allo sguardo dell’altro, come se questa fosse la prima cosa per lei importante, per cui i sentimenti che lei prova per l’altra persona vengono messi in secondo piano rispetto a quello che l’altra persona ritiene di lei e all’immagine che lei dà all’altra persona, mi spiego?”
P: “Sì, in effetti sono sempre stata così, con tutti, anche con le amiche… io devo dare una certa immagine di me a tutti”.
Alba, sensibilmente anestetizzata dal pensiero costante del suo oggetto-amato, sembra acquistare una dimensione esperienziale propria nella quale ha maggiore cura di sé stessa e propositività (recupera la piacevolezza legata alla dimensione alimentare, costruisce una sua spazialità esperita attraverso passeggiate autonome, coltiva lo scambio interpersonale e condivide la propria dimensione quotidiana con le amiche in modo del tutto egosintonico). È possibile creare un’interlocuzione con quella Alba in contatto con un profondo vissuto di fallimento e inferiorità che, transitando dal tema monocorde dell’inadeguatezza dell’altro alla possibilità di parlare della propria inadeguatezza (all’interno di un’immagine di sé stessa fallimentare, che le è adesso familiare), riflette in merito alla propria necessità di acquisire consistenza attraverso la validazione e il rimando entusiastico (relativo a se stessa) da parte dell’altro, il quale assolve una funzione solidificante la propria “flaccidità”; attraverso lo sguardo ammirato altrui, Alba ritrova la stabilità del proprio Sé vacillante.
“Il mio comportamento oppressivo era dettato dal suo essere sempre storto e dal suo umore, quando lo sentivo attivo e presente per me, non ci pensavo al tradimento. Se Marco non avesse avuto momenti di distacco io gli avrei creduto, io il controllo ce l’ho solo quando c’è qualcosa che non va; basta che abbia tranquillità e finisce il controllo (…) con i miei ex quando non mi rispondevano al cel. e non mi volevano vedere oppure anche quando percepivo qualcosa che non andava dalla voce, di qui scattava il controllo, quando andava tutto bene perdevo interesse e li consideravo troppo poco”
In Alba lentamente il controllo non viene più esternalizzato in Marco (nel tentativo di dimostrare il suo ritratto peggiorativo) ma è riconcettualizzato in una luce diversa, come monito per riflettere sulla rappresentazione che Alba ha di sé e sulla sua modalità fallimentare di gestione della relazione interpersonale: nel momento in cui l’altro è percepito come fonte di imprevedibilità e insicurezza, la paziente, incapace di tollerare non solo la non presenza e la discontinuità dell’altro significativo (seppur nelle sue fisiologiche e quotidiane oscillazioni), si ancora alla dimensione relazionale, in cui il bisogno di controllo (e il contemporaneo tentativo di presentificazione) assolve una funzione di riempimento spasmodico di un vuoto emotivo e relazionale.
Nel momento in cui l’altro (iper-presente e colmo di attenzioni) rispecchia quel canone idealistico proprio di Alba, soddisfacendo pienamente il suo bisogno richiedente di dedizione continua nonché incarnando l’aspirazione alla completa adesione a sé stessa, improvvisamente l’interesse della paziente viene meno, l’oggetto viene esautorato e collassa di colpo; quel moto vitalizzante (che la attiva nell’affannosa e perennemente insatura ricerca) può riavviarsi quando, poi, l’oggetto si fa di nuovo irraggiungibile.
Come emerge dal seguente frammento (che vede la paziente acquisire un’iniziale consapevolezza della sua organizzazione), è sempre presente nel suo immaginario una donna disturbante assieme un Marco traditore, pronti a riemergere contestualmente. Alba è abituata a ricevere l’usuale messaggio di Marco e non appena questa consuetudine si interrompe, si riaccende in lei una transitoria “fiammella” delirante: Alba non può fare a meno di spiegarsi quell’assenza immotivata ricorrendo al suo affezionato delirio. In virtù di un lavoro terapeutico anteriore che ha sedimentato nel terreno ideo-affettivo della paziente, questa spiacevole ripetizione si trasforma in un’occasione per incoraggiare Alba ad addentrarsi internamente al proprio polo astenico.
P: Questa settimana non mi ha proprio cercata e allora adesso penso ci sia un’altra”
T: (tono ironico) “adesso chi è che fa capolino sul suo panorama?”
P: (ride di rimando) “Sì, infatti! una certa Anna che guardicchio”
T: “E che contatti avrebbe con Marco questa Anna?”
P: “Nessuno” (ride)
T: (rido anche io) “nessuno…”
P: “Bè… hanno messo tutte e due -mi piace- ad un video di un locale di Milano, non sono neanche amici su Facebook, è fra una quindicina di donne che ha messo -mi piace- a questo locale”
T: “E in che cosa spiccherebbe il profilo di questa Anna rispetto alle altre, come mai l’ha colpita tanto?”
P: “Perché è single… mah… poi boh… è un po' poco, in effetti magari neanche si conoscono…”
T: “è dunque possibile che, nel momento in cui Marco non si fa vivo con lei, lei Alba sente tanto l’angoscia di questa mancanza che ha bisogno di trovare una giustificazione -di questa assenza di Marco- in una frequentazione di Marco?”
P: “Sì in effetti mi torna, perché io pensavo mi scrivesse… devo essere sincera, me lo aspettavo un messaggino! Poi non mi ha scritto niente…e mi è presa di nuovo questa cosa delle donne… sono ricaduta nelle donne”
T: “Mi sta dicendo che, se queste donne rappresentano il suo tentativo di rispondere all’angoscia per le assenze di Marco, il tema delle donne è un qualcosa che appartiene a lei e non a Marco?”
P: “Sì”
T: “Dunque, le va di descrivermi che cosa l’ha colpita fisicamente di questa Anna?”
P: “è una bella donna, magra…”
T: “è per caso snella? con il viso proporzionato rispetto al corpo…?”
P: “Sì esattamente, come fa lei a saperlo?”
T: “Sa, in verità l’ho immaginato… mi viene in mente che queste sembrano essere proprio le caratteristiche fisiche che, secondo lei, a lei mancano…pensa sia un caso?”
P: “Forse no”
T: “Lei, di sé, mi ha descritto tutto un altro tipo di fisicità… quindi, forse, lei ascrive a queste figure femminili quello che, secondo lei, a lei manca ed è ricercabile in altre donne da un uomo, non a caso sceglie sempre donne con delle caratteristiche che lei, secondo la sua percezione, non ha, o sono belle oppure sono come Amalia (che lei descriveva come sessualmente provocante, cosa che lei non sente di essere)”
P: il fatto è questo: anche quando le mie amiche mettono le foto su Facebook dove ci sono anche io, io sto male perché non mi ci vedo proprio, mi vedo brutta, non mi sento all’altezza”
T: “E, come dicevamo -dato che si sente così inadeguata- forse, per lei è naturale pensare che ci sia una figura femminile, fisicamente più attraente e prestante di lei, alle attenzioni della sua figura di riferimento dal punto di vista sentimentale, tanto più che questa si dimostra poco presente o assente per lei. Che ne pensa?”
P: “Sì, è vero, mi descrive proprio”.
La scelta dell’impiego, rischioso ma pienamente consapevole, dello strumento sottile dell’ironia (come via di accesso al vissuto di Alba) è sottesa a sottolinearle delicatamente e in modo non invasivo la stonatura implicita della sua esperienza soggettiva e ha come effetto una marcata presa di coscienza del crinale psicotico (sul quale, in quel momento, lei vacilla nuovamente) e delle modalità che, a questa posizione, l’hanno condotta. Per darsi un’immediata spiegazione al silenzio fragoroso di Marco, la paziente ritrova, stavolta, il suo oggetto cattivo nella donna tanto temuta quanto ammirata, perché avente le caratteristiche fisiche di cui Alba percepisce la dolorosa assenza (ossia la snellezza fisica e la proporzione del viso rispetto al corpo). L’attenzione su questa modalità proiettante da lei impiegata nelle situazioni percepite come abbandoniche, ha come risultato l’auto-riconoscimento e la conseguente assunzione di una nuova prospettiva responsabilizzante all’interno della quale Marco cessa di essere il traditore e la donna non è codificata più come una disturbatrice. Essi vengono visti per ciò che le rappresentano realmente ossia: strumenti atti a completare il proprio disegno, con la finalità di decentrare Alba (che delega ad oggetti inconsistenti e iper-investiti il senso del proprio esistere) dalla sofferenza e dall’umiliazione della sua esperienza. Un utilizzo coerente della propria capacità autoriflessiva permette a questa Alba “nuova” di apprezzare questa sua dinamica altamente disfunzionale.
Diventa evidente nel corso della terapia che, all’interno dell’organizzazione antropologica tipicamente sensitiva della paziente, è presente una sensibilità intrapersonale al contesto: Alba, nel momento in cui si percepisce sotto l’influsso di esperienze particolarmente frustranti, in un terreno di vulnerabilità che elicita in lei un potente vissuto di solitudine e di esclusione e nel momento in cui esperisce l’assenza prolungata del nostro settimanale (in occasione di mie ferie e o festività), perde il richiamo al setting mentalizzato e riapproda in quella palude stagnante dove gli antichi fantasmi riprendono vigore e dove la circolarità del delirio riemerge in tutta la sua potenza. Così, per esempio, la stanzetta “buia e squallida” in cui capita (emblema dell’horror vacui della sua vacanza estiva), il confronto implicito con sorella appagata che insieme a marito e figli si gode la pausa feriale e soprattutto il vuoto della mia presenza rappresentano l’humus fertile sul quale germoglia una nuova efflorescenza psicotica, all’interno della quale l’esperienza di fallimento e di umiliazione costituiscono proprio i temi inattingibili di bruciante contatto con il proprio polo astenico; quasi come se si ricongiungesse con un vecchio compagno, Alba richiama a sé la sua parte malata. A fronte di queste fasi episodiche e cicliche di “rigurgito”, l’esser-ci del nostro “tra” terapeutico, la sua funzione contenitiva e ermeneutica crea, ogni volta, una sfaldatura della graniticità della costituzione delirante (attraverso le sue crepe) che favorisce lo spegnimento e una dialettizzazione della riattualizzazione delirante; tessere insieme nuovamente i fili della tela esperienziale di Alba (che, come una moderna Penelope, lei scioglie ricorsivamente) pone le basi per una ritrovata postura riflessiva e una rinnovata apertura al mondo della vita.
(Psycho)Dynamic – analisi dinamica
Ricostruire la storia del vissuto di inadeguatezza di Alba e storicizzare l’esperienza del vuoto e della mancanza è uno degli obiettivi terapeutici più impegnativi che mi propongo e che, toccato finora, ha mostrato che, nella paziente, il vissuto di impotenza è presente e caratterizzante fin dall’infanzia nella Alba bambina, intrisa, non solo, di gelosia (per la sorella Alessandra, mitizzata come “la più bella” e la portatrice di una fisicità che lei può solamente desiderare e mai possedere) ma anche di iper-responsabilizzazione da parte della madre.
Infatti, la paziente era costretta ad assecondare il quotidiano monito materno che le impone di spiare e seguire (oppure di accompagnare) la sorella, la quale mostra a Alba, fin dalla precoce età, di avere una vita piena e interessante al contrario della sua; la paziente rimane in scacco, reclusa nel ruolo di passiva spettatrice e spesso allontanata dalla sorella (che paga la propria libertà spaziale e temporale in “soldini per le merendine” che offre a Alba perché lei esca di scena). Inoltre, la paziente è oppressa dall’intrusione e dall’iper-controllo della mamma-matrona che si esprime, non solo attraverso l’esortazione a sorvegliare costantemente la sorella maggiore, ma anche in un ferreo monitoraggio di ogni attività di che include Alba (che perdura fino all’età adulta attraverso interrogatori sui posti, gli orari, le amicizie delle uscite e sugli ingressi in casa di amici o fidanzati che prima dovevano essere rigorosamente vagliati dalla mamma). In questa situazione così problematica, Alba sperimenta un vissuto profondo di impotenza dal quale diviene incapace di distaccarsi e che, in età adulta, la paziente (identificata del tutto inconsapevolmente con questo habitus invariante) arriva a trasmutare in strumento attivo e a ripetete nei confronti della figura di riferimento sentimentale. Una lettura possibile per l’habitus comportamentale e relazionale di Alba (incentrato sulla pervasività controllante) è che l’iper-controllo (che la paziente esercita su Marco e, prima ancora, invariabilmente su qualsiasi figura maschile sentimentalmente significativa), non sia che una ripetizione di un copione involontario e inconsapevole di quel controllo che la madre esercitava su di lei (che, nella sua chiarezza e impressività paradigmatica, illumina l’attuale habitus di Alba). Grazie al controllo la paziente tiene sotto scacco quel vissuto di oppressione dovuto all’iper-presenza della madre, appropriandosene grandiosamente (divenendo lei stessa parte attiva che intrude e disturba) e proiettandolo sull’altro significativo. Segue il momento riflessivo che introduce una frattura in questa costanza e rende Alba parzialmente consapevole della sua coazione:
T. “Mi descrive spesso sua madre come sempre presente e quasi oppressiva, le ha sempre dato un ristrettissimo spazio personale e voleva controllare tutti i suoi movimenti…questo comportamento le fa risuonare qualcosa di sé stessa?”
P: “si, è come ho fatto sempre io con i miei fidanzati, volevo sapere anche io ogni spostamento e li chiamavo in continuazione, se non li trovavo, allora, li pedinavo”
T: “Forse, dato che questo comportamento intrusivo di sua madre l’ha fatta fuggire di casa perché ne era esasperata, può capire come possano essersi sentiti i suoi fidanzati quando, anche loro, venivano a essere oggetto di questo comportamento, forse non hanno trovato altra soluzione che allontanarsi…”
P: “In effetti è davvero pesante, anche io, fossi in loro, avrei fatto lo stesso”.
In Alba che inizia a rendersi conto dell’identica ritmicità inerente al proprio stile oggettuale con l’altro e che inizia a prendere posizione nei confronti di questo copione involontariamente reiterato, si amalgama un intrinseco sentire di difettosità nei confronti delle altre donne, che costituisce proprio la sua base astenica.
Sembra, altresì, plausibile avanzare l’ipotesi che, alla radice dell’idealizzazione della figura femminile, si prospetti la ripetizione di un antico contrasto con Alessandra (spostato fantasmaticamente sulla dinamica conflittuale con la figura di Sara) e che la sorella maggiore rappresenti, in Alba, proprio la metaforica costola dalla quale discende la sua “disturbatrice”, che la paziente definisce specularmente caratterizzata da un’arrogante strafottenza e che l’ha “umiliata” cercando di incunearsi nella coppia Alba-Marco al fine di creare conflittualità, con lo stesso stile “impicciante” (descritto nell’esistenziale -alterità-) ascritto proprio alla sorella Alessandra (la donna “originaria”). Inoltre, il nucleo patogeno (che porta all’habitus controllante) è proprio la percezione di inadeguatezza corporea, la quale ha accompagnato negli anni la paziente, che ha avuto da sempre la sensazione che “le mancasse qualcosa”. Adesso un’Alba cresciuta patisce per l’assenza dell’aspetto fisico mai raggiunto e questa angoscia si sostanzia in un riferimento alla figura femminile percepita come asintotica, al cui confronto lei è inevitabilmente carente. L’effetto della terapia giunge a modificare l’ideazione concernente la donna (che nell’immaginario di Alba si unisce alla percezione della coppia connotata dalle medesime caratteristiche), approdando a una rappresentazione maggiormente concreta:
“Sono andata a fare un giro al parco e osservavo i passanti, all’inizio mi è presa un po' la malinconia perché vedevo tante coppie e io ero lì da sola, ma poi le osservavo meglio: lei, imbambolata col cellulare e lui dall’altra parte e ho pensato: -meglio da sola che cosi, tutto sommato da me non sto così male-, quando esco non controllo più perché voglio godermi quello che mi sta intorno”.
È apprezzabile, nella paziente, un’esperienza soggettiva e una posizione esistentiva differente: se, prima, il controllo veniva sentito come pienamente egosintonico al punto tale da coartarla in casa (mentre le uscite erano vissute unicamente come momenti di pausa da questo impulso), adesso la condotta controllante (sentita pienamente come egodistonica), non viene più utilizzata in quanto il metterla in atto, per la concettualizzazione della paziente, significherebbe la perdita della possibilità di calpestare ed esplorare il proprio mondo vissuto.
Alba, dopo aver cessato di esternalizzare nelle usuali “donnine” la propria insufficienza e avere iniziato a dialogizzare il proprio polo astenico, ha smesso di avere una mira femminile da tenere sotto scacco e non sente bisogno pressante e incontenibile di controllare il profilo di Marco, che visualizza unicamente poche volte a settimana adesso, senza che sia per lei un impedimento alle uscite con le amiche (che incontra volentieri per le cene fuori, gli aperitivi del fine settimana oppure le terme domenicali). Infrasettimanalmente continua a ritagliarsi un suo sempre maggiore spazio autonomo in cui fare passeggiate, cucinare piatti che le diano soddisfazione al palato, si prende cura del proprio aspetto e di sé stessa in modo molto semplice ma unicamente per il proprio piacere personale. Comincia a concettualizzare la propria modalità invariante nel rapporto con l’altro (che l’ha sempre caratterizzata) all’interno di uno stile di relazione che struttura nel medesimo modo: “vittima-traditore-disturbatrice” in cui l’esternalizzazione ha un senso di alleggerimento e di decentramento dalla possibilità di fermarsi a riflettere sul proprio scenario. Gli obiettivi cardinali del nostro lavoro terapeutico sono una modulazione maggiormente efficace della gestione della distanza interpersonale assieme a un delicato lavoro di presa in carico del polo astenico. Infatti, per Alba, il contatto con la propria parte insufficiente può condurla alla possibilità di scoprire di non avere avuto solo il corpo molle ma un’esistenza flaccida, immersa nell’anonimità proiettiva del mondo digitale. Questa consapevolezza e l’elaborazione di tale polo significano un’occasione per riflettere sul mancato incontro con la propria vita (evitando che essa esiti in una depressione deflagrante o che transiti nella solitudine rancorosa) per investire una scommessa valorizzante su sé stessa.
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