Vi ricordate certo il racconto di E.T.A. Hoffmann, di Nathaniel che incontra il fantasma notturno che è il “mago Sabbiolino”. Quest’ultimo subisce una serie di metamorfosi: si concretizza nel personaggio di Coppelius, il chimico che fa esperimenti col padre, si associa a Spallanzani (il costruttore della bambola meccanica Olympia), poi diviene Coppola, l’occhialaio. Nathaniel finisce col manifestare uno stato delirante acuto, che infine si concluderà con il suicidio. Il filo conduttore è quello degli occhi. “A me gli occhi, a me gli occhi” gridava Coppelius sul braciere col padre, e poi c’è il regalo del cannocchiale, e infine, dall’alto della torre, il protagonista guarda giù e vede l’occhialaio Coppola con il cannocchiale. Tutto questo gli comporta un sentimento particolare, che Freud definisce “unheimlich”.
Che cosa sia il perturbante Freud lo ha analizzato linguisticamente con molta attenzione prendendo spunto da questo racconto, cercando gli elementi che lo caratterizzano:
il meccanicismo, ossia la de-umanizzazione: vedi la bambola meccanica di cui lui si è innamorato scambiandola per una fanciulla. A un certo punto s’accorge che senz’anima e mossa da un meccanismo interno (siamo in un’epoca in cui non esistono ancora i racconti dei robot, che nascono con Asimov nel 1947). Olympia è rappresentata come una ballerina, dal movimento meccanico. La natura della bambola Olympia è poco chiara, ed il suo essere meccanica viene scoperto quando il protagonista assiste alla lite tra Spallanzani e Coppola, il fornitore di occhi artificiali, e quando vede Spallanzani che prende gli occhi di Olympia e glieli getta: qui il perturbante è al massimo livello.
Il secondo punto è la ripetitività. Ripetitività che Freud ritrova anche in una sua propria esperienza, spinta da un fattore sessuale: l’esperienza di quando si era trovato in una città italiana, in un posto malfamato che aveva stimolato la sua sessualità; a questo punto egli si era allontanato indignato, come era tipico del borghese ottocentesco e del carattere di Freud, per poi ritrovarsi di nuovo nella stessa zona. Questa ripetitività indica che nel perturbante c’è la pulsione che si ripresenta, nonostante tutto. Lucrezio aveva già detto: “La natura la puoi gettare via con la forza ma ti ritornerà sempre tra i piedi”. L’elemento perturbante è anche questo.
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Infine il riferimento all’Anello di Policrate, ossia al racconto di Erodoto in cui il protagonista butta in mare l’anello legato alla sua malasorte, e poi gli viene riportato, nel ventre di un pesce, da un pescatore; oppure, sempre di Erodoto, il racconto del re Rampsinito, in cui la principessa afferra il braccio del ladro che fugge per trattenerlo, e si trova in mano l’arto staccato da un cadavere, nascosto sotto il mantello del furfante.
Nella letteratura di quei tempi il massimo del perturbante proveniva da E.A. Poe.
Tra il perturbante e il ridicolo il passaggio è breve, può essere terribilmente perturbante una cosa che diventa ridicola. Quando per Freud un fatto è perturbante? Qui nel racconto tutto è legato all’occhio, al guardare: c’è il cannocchiale (“a me gli occhi!”) che porta con sé il problema della sessualità infantile, una sessualità che resta attiva in noi per tutta la vita.
Arriviamo ora alla connessione del perturbante con le superstizioni e con le religioni. Sappiamo che il perturbante è presente nelle religioni, anche se le grandi religioni istituzionali tentano di eliminarlo il più possibile, mentre nelle “piccole” religioni è utilizzato ad esempio per costruire una setta o qualcosa di analogo. Interessante è, anche qui, il modo di procedere di Freud: cerca di trovare la radice univoca delle cose, quello che dà origine a tutti questi fenomeni: come risalendo un grande fiume che a un certo punto si sparge in mille rivoli.
Nell’Anello di Policrate l’ospite si allontana inorridito perché nota che ogni desiderio dell’amico si realizza immediatamente e ogni sua preoccupazione viene istantaneamente scacciata dal fato.
Vi ricordate la frase di Alceo: “Nessuno può dirsi felice finché non muore”? La ripetitività delle cose: questo era il principio degli antichi. Anche il buttar via l’anello comporta questo ritorno angoscioso: “non posso nemmeno liberarmi della mia fortuna, essa ritorna”; e diventa perturbante persino la felicità
Per l’ospite l’amico è diventato “perturbante”, perché, come egli stesso ci informa, chi è troppo fortunato deve temere l’invidia degli dei; ma è una spiegazione questa, che resta impenetrabile ai nostri occhi, essendo il suo significato velato dal linguaggio mitologico.
Il mito attenua il perturbante, la religione in qualche modo lo amplia perché lo razionalizza.
Rifacciamoci perciò ad un altro esempio tratto da situazioni molto meno eccezionali. Nel tracciare la storia clinica di un uomo affetto da nevrosi ossessiva, ho riferito che questo malato aveva trascorso una volta un certo periodo in un istituto idroterapico e che da questo soggiorno aveva tratto un grande giovamento. Egli fu tuttavia tanto intelligente da attribuire questo successo non alle virtù curative dell’acqua, bensì alla posizione della sua camera, attigua a quella di una compiacente infermiera. Quando tornò per la seconda volta nell’istituto chiese che gli venisse assegnata la stessa camera, ma si sentì rispondere che era già occupata da un vecchio signore, e alla notizia sfogò il proprio malumore con queste parole: “Che gli venga un colpo!” Due settimane dopo il vecchio signore ebbe effettivamente un colpo. Per il mio paziente questa fu un’esperienza “perturbante”. Tale impressione di turbamento sarebbe stata ancora più forte se tra quella esclamazione e l’infortunio fosse trascorso un periodo di tempo assai più breve, o se egli fosse stato in grado di riferire molte altre coincidenze simili. In effetti, portare queste conferme non gli creò il minimo imbarazzo; ma non lui soltanto, tutti i nevrotici ossessivi che ho studiato erano in grado di raccontare di sé cose analoghe. Essi non si sorprendevano affatto di incontrare regolarmente la persona alla quale avevano appena pensato, magari a distanza di un lungo periodo di tempo; era cosa consueta per loro ricevere al mattino una lettera da un amico quando, la sera prima, avevano detto: “E’ da un po’ che non sento più parlare del tale”; e, soprattutto, era raro che si verificassero incidenti o casi di morte senza che poco prima ciò fosse loro balenato in mente.
La concezione freudiana (che ha influito su parte della cultura moderna, soprattutto quella fine-ottocentesca, positivistica) è questa: non si crede alla telepatia, alla psicocinesi, all’esistenza dell’aldilà, a tutto quello che è magico, perché si presta fede soltanto a ciò che si può comprovare. Naturalmente questa è la risposta alla fantasia degli spettri che è propria anche della letteratura del periodo. La cultura ottocentesca è razionalistica; sente l’influsso della rivoluzione francese e dell’illuminismo che sono arrivati all’estremo d’abolire la religione. Ogni tanto ricompare questo indirizzo filosofico che abolisce l’elemento perturbante. Ai fatti sovrannaturali, dice Freud, è vero che non crediamo, ma non possiamo fare a meno di prendere atto della loro esistenza nella mente umana, perché l’elemento perturbante che li caratterizza non è altro che l’irruzione della vita infantile nella nostra vita adulta, e difficilmente possiamo eliminarlo. Il ‘900 ha scosso tutta questa concezione. La scienza diventa più probabilistica, per il principio di indeterminazione della realtà, mai così sicura; emerge inoltre un grande bisogno di fantasia. Noi viviamo in un mondo razionalistico, e il dilagare dell’idolatria scompare solo perché tenuto sotto controllo dalla religione (vedi il caso di Padre Pio).
Freud annota che l’ossessivo vive l’esperienza del perturbante, ma ciò non è del tutto esatto: l’ossessivo ha la piena consapevolezza della realtà, e cerca di prendere distanza da tutti questi vissuti. Tutti noi abbiamo l’impressione che, se stiamo dietro a tutto quello che accade, diventiamo premonitori del futuro: noi abbiamo dei presentimenti, ma perché su dieci presentimenti negativi nove non s’avverano, e ce ne dimentichiamo subito, mentre quello che ha funzionato ce lo ricordiamo?
[gli ossessivi] esprimevano abitualmente questo dato di fatto con la massima semplicità, affermando di avere dei “presentimenti” i quali, “perlopiù”, si rivelavano fondati.
Una delle forme più perturbanti e più diffuse di superstizione è la paura del “malocchio” di cui un oculista di Amburgo, Seligmann, ha fornito una trattazione approfondita. Sulla provenienza di questa paura non sembra vi siano mai stati dubbi. Chi possiede qualcosa di prezioso e al tempo stesso di perituro teme l’invidia del prossimo, in quanto proietta sugli altri l’invidia che egli proverebbe se si trovasse al loro posto.
In-videre è guardare malamente, non vedere bene.
Questi moti dell’animo si tradiscono con lo sguardo anche quando ci si vieta di esprimerli a parole, e, se vi è chi spicca tra gli altri per caratteristiche ben evidenti, specie se indesiderate, subito sorge il sospetto che la sua invidia raggiungerà un’intensità particolare e che questa intensità verrà poi anche mandata ad effetto. Si teme perciò un’intenzione segreta di nuocere e si suppone, basandosi su determinati indizi, che questa intenzione disponga anche della forza per attuarsi.
Gli esempi di perturbante che ho citati per ultimi dipendono da un principio che, accogliendo un suggerimento di un paziente, ho chiamato la “onnipotenza dei pensieri”.
Cosa è l’onnipotenza del pensiero? È quel fenomeno immaginato, per cui il pensiero di per sé ha la capacità di modificare la realtà senza passare attraverso l’azione. Se io sono convinto che soltanto pensandolo possa far avvenire qualcosa, questa è l’onnipotenza del pensiero. E ancora, se voglio parlare con una persona devo in qualche modo lanciare un messaggio, scrivere un biglietto, parlare con lui, passare dal pensiero al comportamento. Ma se io pensando immagino che lui recepisca il mio messaggio senza nessun segno, questo è onnipotenza del pensiero. Ciò è proprio delle religioni. Se io prego Dio in silenzio, è perché presuppongo che uno dei due debba essere onnipotente: o io che prego o Lui che ascolta. Se nessuno dei due fosse onnipotente, non si potrebbe comunicare in quel modo.
Il concetto di onnipotenza è il modo tipico di ragionare del mondo infantile, ma anche dei popoli primitivi o degli adulti non primitivi quando entrano nella dimensione religiosa.
Ora non possiamo più dire di non sapere su che terreno ci stiamo muovendo. L’analisi dei casi in cui compare l’elemento perturbante ci ha ricondotti all’antica concezione del mondo proprio dell’animismo; tale concezione era caratterizzata dagli spiriti umani che popolavano il mondo, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici, dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia che su questa onnipotenza era costruita, dall’attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell’evoluzione si opponeva alle esigenze irrecusabili della realtà. Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale, abbiamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei primitivi, che questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestarsi, e che tutto ciò che oggi ci appare “perturbante” risponda alla condizione di sfiorare tali residui di attività psichica animistica e di spingerli a estrinsecarsi.
La caduta della razionalità la si può constatare chiaramente: quanti medici, che conoscono bene le leggi biologiche, nel momento in cui sono colpiti da grave malattia vanno dall’omeopata, dal mago, o accendono una candela votiva! Evidentemente di fronte ad un’esigenza, un’angoscia, una paura, si regredisce.
(…) A molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte, con i cadaveri e con il ritorno dei morti, con spiriti e spettri.
Freud cerca di dimostrare che cosa è il perturbante. Tutti sappiamo che il cadavere deve stare ben lontano da noi, per quanto appartenga ad una persona cara.
Abbiamo visto che alcune lingue moderne non possono rendere le parole tedesche “una casa unheimlich” che con un’espressione “a Haunted house” che noi renderemmo con la seguente circonlocuzione: “una casa abitata dagli spettri”. A dire il vero avremmo potuto iniziare la nostra ricerca con questo esempio di perturbante, che è forse di tutti il più spiccato, ma non l’abbiamo fatto perché, in questo caso, il perturbante è troppo strettamente frammisto con l’orrido e coincide in parte con esso. Ma è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato così poco dai tempi primordiali, in cui l’elemento antico si sia conservato così bene sotto una scorza sottile, come nella nostra relazione con la morte. Due fattori contribuiscono a determinare questa situazione di stallo: la forza delle nostre reazioni emotive originarie e la scarsa certezza delle nostre conoscenze scientifiche. La biologia non è ancora riuscita a decidere se la morte sia il destino ineluttabile di ogni essere vivente o soltanto un caso che si verifica di norma, ma che forse potrebbe essere evitato.
Freud si sta avvicinando alla teoria dell’istinto di morte, del dualismo degli istinti, che avverrà nell’opera a seguire: “Al di là del principio di piacere”. Per parlare dell’istinto di morte, fa questa affermazione che certamente è “straordinaria” per il positivismo dell’800. Tutti devono morire. Ma in biologia non è detto: la morte dello schizomicete è una cosa dubbia. Chi dice che il gene muore? Secondo logica, noi dovremmo avere una parte di DNA di Adamo. Teniamo separato il concetto di morte mentale, che riguarda l’uomo. Il nostro cervello è molto complicato e se va in coma, muore, noi non abbiamo più la coscienza dell’Io, non possiamo più svolgere le nostre attività abituali perché non ne siamo più consapevoli.
La morte è un fenomeno attivo, non passivo: uno per morire deve fare qualcosa.
La proposizione: “Tutti gli uomini sono mortali” fa infatti bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuno la considera tale, e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l’idea della nostra stessa mortalità. Le religioni continuano a contestare l’importanza di un fatto irrecusabile, la morte individuale, e postulano la prosecuzione dell’esistenza oltre il termine della vita; …
Freud dice che la religione cristiana parla della vita oltre la morte, anche se il concetto di purgatorio sembra un concetto soprattutto letterario, di cui le altre religioni non parlano. Egli dimentica il buddismo, ma soprattutto dimentica la religione dei suoi avi, che di esistenza dopo la morte non aveva mai parlato. Non c’è scritto da nessuna parte: gli Ebrei ortodossi non credono alla sopravvivenza dopo la morte, ma ad un rapporto con Dio che è qui, adesso, quando si è vivi. Che io sappia non si parla di paradiso ebraico. L’anima immortale è, sul piano razionale, un tentativo di negare la morte.
… i poteri statali giudicano impossibile conservare l’ordine morale tra i viventi se si rinuncia a correggere la vita terrena con un aldilà migliore; sui tabelloni delle nostre metropoli i manifesti annunciano conferenze in cui gli oratori vogliono insegnarci come metterci in contatto con le anime dei defunti, ed è innegabile che parecchi dei cervelli più fini e dei pensatori più acuti tra gli uomini di scienza hanno ritenuto, specie verso la fine della loro esistenza terrena, che tale rapporto sia possibile. Poiché quasi tutti noi su questo argomento abbiamo ancora la stessa mentalità dei selvaggi, non c’è neppure da stupirsi se il timore primitivo nei confronti dei morti è ancora così forte in noi e pronto ad estrinsecarsi non appena qualcosa lo faccia affiorare. Probabilmente questo timore ha ancora il significato antico secondo cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti e mira a prenderli con sé come compagni della sua nuova esistenza.
Freud, fra tutti i ricercatori del suo tempo, è tra i più precisi e rigorosi razionalisti. Per lui non è possibile affermare, con un “atto di fede”, l’esistenza di fenomeni che sfuggano alla possibilità di spiegazione completa sul piano del rapporto causa-effetto; e se non si dispone di tale spiegazione, egli prova a cercarla. Freud, che ricerca le connessioni mentali, è molto rigoroso perché su questo piano altrimenti potremmo dire tutto ciò che vogliamo.
Potremmo chiederci piuttosto, data questa immutabilità del nostro atteggiamento verso la morte, che ne è della rimozione, il prodursi della quale è una condizione necessaria affinché l’elemento primitivo possa riemergere come alcunché di perturbante. Ma anche questa condizione sussiste: ufficialmente le persone cosiddette colte non credono più alla possibilità che i defunti diventino visibili in forma di spiriti, ne hanno collegato l’eventuale apparizione a condizioni insolite e raramente realizzabili; e l’atteggiamento emotivo verso il morto, originariamente ambivalente e ambiguo al massimo grado, si è andato smorzando, per gli strati superiori della vita psichica, nell’atteggiamento univoco della pietà.
A questo punto saranno sufficienti alcune integrazioni perché con l’animismo, la magia e l’incantesimo, l’onnipotenza dei pensieri, la relazione con la morte, la ripetizione involontaria e il complesso di evirazione abbiamo più o meno esaurito l’ambito dei fattori che trasformano l’angoscioso in perturbante.
Siamo nel 1920, nella borghesia viennese, e in questo periodo di angoscia sociale, tanto più si assiste ad una de-strutturazione e tanto più i mondi sono perturbanti, tanto più il rimosso emerge.
Anche di un uomo vivo diciamo che è perturbante, e precisamente quando gli attribuiamo cattive intenzioni. Ma questo non basta, dobbiamo ancora aggiungere che queste sue intenzioni di nuocerci si realizzano con l’aiuto di particolari poteri. Lo “iettatore” è un buon esempio di questa figura perturbante viva nella superstizione dei popoli neolatini, che Albert Schäffer — con poetica intuizione e profonda comprensione psicoanalitica — ha trasformato in una figura simpatica nel suo libro Josef Montfort [1918].
La iettatura, è un fenomeno pressoché ubiquitario; noi italiani lo abbiamo fatto rientrare nella nostra cultura e non ci facciamo caso, ma per un tedesco è una cosa assai perturbante. Lo iettatore nel testo italiano è mantenuto in italiano, solo che è gettatore.
Ma questi poteri segreti ci riportano sul terreno proprio dell’animismo. È il presentimento di questi poteri misteriosi che rende così perturbante Mefistofele agli occhi della pia Margherita:
Sie fühlt, dass ich ganz sicher ein Genie,
Vielleicht wohl gar der Teufel bin…
[Lei sente che io di certo un genio
Sono, forse anche il Diavolo.]
L’effetto perturbante del mal caduco e della follia ha la stessa origine. Il profano vede qui l’estrinsecazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente la presenza in angoli remoti della propria personalità. [O.S.F., Vol. 9, da pag. 100 a pag. 104]
Mefistofele, nel Faust di Goethe, è veramente diabolico e perturbante: prima irretisce Faust col suo discorso del tempo che passa: “il tempo passa e tu non riesci a fare quel che desideri”. (Il passare del tempo è uno dei problemi centrali della persona, l’accorgersi che non c’è il tempo di realizzare i propri progetti). Aggiunge: “Puoi fermare il tempo nel momento della tua soddisfazione, puoi fermare il tempo e fare tutte le tue scoperte scientifiche”. Faust è uno scienziato moderno avido di scoperte. Tra le cose che Faust vuole fare, però, c’è anche la conquista di Margherita, una ragazza felicemente sposata. La vuole, e Mefistofele si adopera perché lui soddisfi tutti i suoi desideri, così gliela fa possedere con la seduzione. Ma chi è il seduttore? papa. È lui stesso, Mefistofele, che fa in modo che Margherita si innamori di Faust, e Margherita ha poi un bambino, che uccide perché non le è concesso tenerlo; perde quindi la testa Tutto questo è perturbante, diabolico, per il comparire di elementi, che nascono prima dalla negazione della morte, quindi dalla soddisfazione onnipotente di tutti i desideri.
Consideriamo il perturbante che compare nell’onnipotenza dei pensieri, nel subitaneo appagamento dei desideri, nelle forze nefaste occulte, nel ritorno dei morti. Non si può disconoscere la condizione che determina in questi casi il senso del perturbante. Noi — o i nostri primitivi antenati — abbiamo ritenuto vere in passato tali possibilità, abbiamo creduto nella realtà di questi processi. Oggi non ci crediamo più, abbiamo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo completamente sicuri di questi nuovi convincimenti, giacché le antiche credenze sopravvivano ancora in noi e stanno lì in attesa di conferma.
Freud dice: “state attenti, queste cose possono ricomparire da un momento all’altro, venendo fuori dall’inconscio”. Nel futuro di un’illusione dice: “state attenti alle religioni perché se non le tenete d’occhio…” Freud diffida di queste convinzioni, dice: “studiamole come esperienze perturbanti, ma stiamo attenti a non crederci. Il sonno della ragione genera i mostri”.
Ebbene, non appena nella nostra esistenza si verifica qualcosa che sembra convalidare questi antichi convincimenti ormai deposti, ecco che nasce in noi il senso del perturbante; …
Freud dice: “E’ qualcosa di antico, che l’uomo ha sempre avuto, che ricompare e ci perturba.”
… ed è come se esprimessimo un giudizio del tipo: “Ma allora è vero che si può uccidere una persona col solo desiderio, che i morti continuano a vivere e diventano visibili nei luoghi in cui operarono in vita, e via di seguito!” Chi al contrario si è radicalmente e definitivamente liberato di queste convinzioni animistiche è insensibile al perturbante di questo tipo. La più straordinaria coincidenza tra desiderio e realizzazione, la più enigmatica ripetizione di episodi analoghi nello stesso luogo o alla stessa data, le più ingannevoli percezioni visive e i rumori più sospetti non gli causeranno alcuno smarrimento, non desteranno in lui traccia alcuna di quell’angoscia che può essere chiamata angoscia di fronte al “perturbante”. Si tratta qui semplicemente di una faccenda che riguarda l’“esame di realtà”, di un problema attinente alla realtà materiale. [Ibidem, pag. 109]
Principio generale freudiano è: dove c’è l’es, deve esserci l’io. Se l’io non prevale è un ‘disastro’
Ci siamo domandati prima perché la mano mozza che compare nella storia del tesoro di Rampsinito non ha lo stesso effetto perturbante che ha per esempio nella Storia della mano mozza.
Ricordiamo anche un famoso racconto di E.A. Poe, molto perturbante, che precede l’epoca dei trapianti di organi. Lui immagina che una persona che ha perduto la mano abbia la mano rimessa a posto da uno straordinario chirurgo, ma questa persona perde poi il controllo della mano, che non scrive più quello che vuole lui, e alla fine viene strangolato dalla stessa mano di cui ha perso il controllo.
La domanda ci sembra più significativa ora che abbiamo appurato che la refrattarietà del perturbante è maggiore quando esso ha la sua fonte in complessi rimossi. La risposta è facile: nel racconto di Erodoto noi siamo attratti non da ciò che prova la principessa bensì dalla superiore astuzia del ladrone. Può darsi che alla principessa non sia stato risparmiato il senso del perturbante, siamo perfino disposti a credere che sia svenuta, ma, quanto a noi, questa sensazione non la proviamo affatto giacché non ci immedesimiamo in lei, bensì nell’altro personaggio. In virtù di un’altra costellazione, nella farsa di Nestroy che ha per titolo Il dilaniato, l’impressione perturbante ci viene risparmiata quando l’evaso, che si considera un assassino, vede sorgere da ogni botola di cui solleva il coperchio il presunto spettro dell’assassinato e, in preda allo sgomento, esclama: “Eppure io ne ho ucciso uno solo! Che senso ha questa orribile moltiplicazione?” Noi, che conosciamo i precedenti della scena non condividiamo l’errore del “dilaniato” e per questo ciò che su di lui non può che avere un effetto perturbante, esercita invece su di noi un effetto comico irresistibile. Perfino uno spettro “reale” come quello che appare nel racconto Il fantasma di Canterville di Wilde è costretto ad abbandonare tutte le sue pretese di suscitare almeno un senso di orrore, quando lo scrittore, per celia, ironizza su di lui e consente che sia schernito. Ciò prova quanto l’effetto emotivo possa essere indipendente dalla scelta del materiale nella sfera della finzione letteraria. Le fiabe non devono fare paura, e quindi non devono neanche destare sentimenti perturbanti. Noi questa cosa la comprendiamo ed è per questo che sorvoliamo su quegli spunti che potrebbero dar luogo a qualcosa del genere.
Quanto alla solitudine, al silenzio e all’oscurità possiamo dire soltanto che sono veramente le situazioni alle quali è legata l’angoscia infantile di cui la maggior parte degli esseri umani non riesce a liberarsi mai completamente. La ricerca psicoanalitica si è occupata altrove di questo problema. [Ibidem, pag. 113, 114]
L’angoscia infantile compare spesso in seguito a certi racconti degli adulti, perché essi colgono quell’elemento fondamentale che è il senso di colpa legato al guardare là dove non si doveva guardare; ciò viene mantenuto sempre vivo dalla continuità della pulsione. Mentre la razionalità si è evoluta, la pulsione sessuale è la stessa che un tempo spingeva a guardare. Qui concludiamo il perturbante. Vi è poi un testo strano, un piccolo caso di omosessualità femminile, in cui Freud si cimenta per la prima volta. Freud, al di fuori della sua pratica clinica, aveva scarsa esperienza diretta di due tipi di persone: le donne e i bambini. Di donne aveva conosciuto soltanto le sue pazienti. Questo caso di omosessualità femminile lo sconvolge; egli cerca di capire, traendo elementi straordinari dalla sua esperienza perturbante.