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L’inconscio deve essere sicuramente quantistico…

5 Apr 22

Di g.garrapa

Premessa 

 

Nel sogno, Gianluca sale sul treno alle 23.00 di un giorno X diretto nella città di P. dove arriva alle ore 19.24 dello stesso giorno. Gianluca si ritrova davanti al cancello d’ingresso di un istituto di Fisica Quantistica della città di P., all’uscita tre persone, maschio, femmina, transessuale, quando nota, per l’appunto, che sul biglietto del treno l’orario di arrivo è precedente all’orario di partenza. «Dunque» dice Gianluca a una delle persone del sogno, «l’inconscio deve essere sicuramente quantistico… cioè (può) viaggia(re) indietro nel tempo.»  

 

Quello che segue è un esperimento fantapsichico di scrittura desiderante in 9 passeggiate, suggestioni che da tempo pratico nei laboratori di scrittura e nelle lezioni di counseling creativo che conduco, e che ora vorrei raccogliere qui non per coglierne il senso ultimo ma per dilatarne ogni possibilità metaforica, poetica e fantascientifica a beneficio della trasformazione di ogni conflitto inconscio in possibilità creativa. 

 

(Eventuali refusi o errori concettuali sono parte costituente e attiva dell’universo desiderante qui proprosto. Come Joyce insegna, ma non lo so se la citazione è corretta, ogni errore è propulsione a ulteriori errare, a scoperte di interiori mondi e lingue, a altri desideri.) 

 

Dove si parla a casaccio di scrittura desiderante e buchi neri. 

 

Quanto andremo sperimentando, io provando a scrivere e voi provando a leggere, è ‘scrittura desiderante’. Ci muoviamo nell’ambito dell’esperienza estetica, di quel luogo-tempo in cui il bello, e anche il brutto, diventano la cosiddetta esperienza artistica che in questo ambito, quello del counseling creativo, traghetta il malessere, che è sempre conflitto desiderante, dalla sponda del disagio a quella del riuso creativo: non c’è terapia, così come nell’universo nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, allo stesso modo la sofferenza psichica si può solo trasformare in esperienza estetica. Dal momento in cui il soggetto è preso nel linguaggio egli soffre per sempre. Dal momento in cui il soggetto viene nel mondo egli entra nell’orbita di un buco nero, letteralmente e, sapete cosa succede avvicinandosi a un buco nero? Se ciò fosse possibile fisicamente, il nostro corpo subirebbe un processo di ‘spaghettificazione’, ecco: quando il soggetto entra nel linguaggio, egli non potrà più recuperare il godimento primordiale della Cosa, ma gli si avvicinerà asintoticamente senza mai soddisfare il desiderio primitivo di ricongiungimento all’uno. Il soggetto, superato il terzo stadio dell’Edipo, per come ne parla Lacan, entra in quell’orbita perpetua di rotazione intorno alla Cosa materna perduta, intorno al reale della Cosa, come intorno a un buco nero. Il Buco Nero della Cosa è la prima suggestione intorno alla quale ci dondoleremo (per la verità ci sarà tempo forse per trastullarci intorno ai Buchi Bianchi, che invece di succhiare l’energia dell’universo la sputano fuori…) 

Lacan parlava del bello artistico come una barriera che permette di osservare l’orrore della Cosa senza esserne sopraffatti. La Cosa è quel godimento, mortifero, perduto per sempre, che abbiamo sperimentato prima della nascita e per poco tempo ancora fino a che il Nome del Padre ha sciabolato la sua legge e ci ha resi soggetti divisi, dal linguaggio appunto. Il nome che ci hanno assegnato, a esempio, è uno dei colpi inferti dall’Altro sociale, culturale, del linguaggio al nostro corpo biologico, rendendolo pulsionale. Da in-fans, non ancora parlanti, siamo diventati parlanti, o meglio, parlesseri. Da quel momento in poi una contraddizione ci abita: siamo immersi nel linguaggio, ma una sorta di cripta, in noi, resta impermeabile a ogni parola. Si chiama mancanza a essere, un vuoto costitutivo dell’essere umano, che causa desiderio che noi sempre cerchiamo di colmare, fallendo… grazie al cielo. 

Gianluca si occupa di counseling creativo e conduce laboratori di scrittura desiderante in ambito psichiatrico, scolastico, e sociale. Abbastanza anni per comprendere come il laboratorio non sia uno spazio-tempo fine sé stesso e nemmeno una dimostrazione egocentrica della bravura dell’io-operatore, tentazione cui il conduttore di laboratori, che si occupa di scrittura, attività artistiche o teatrali, spesso cede. È naturale. Il narcisismo insito nell’indole dell’artista come in quella dello scrittore spesso mal si concilia con la missione del counselor che si occupa di creatività e che attraverso la conduzione di un laboratorio deve mettersi da parte per far sbocciare il desiderio dell’utente. Altra trappola del narcisismo dell’operatore è supporre che senza la sua azione, l’utente non avrebbe mai realizzato il proprio desiderio. Sbagliato! È solo una coincidenza se il mio laboratorio ha messo in moto il desiderio perduto dell’utente. Ciò che deve accadere, accade: era un verso di un brano di Giovanni Lindo Ferretti, ex frontmen dei CCCP. Il filosofo Nietzsche si raccomanda: “Divieni ciò che sei.” 

Certo, il laboratorio può condurre alla scoperta del proprio desiderio solo se l’utente lo desidera. Se non lo desidera, se non sente il desiderio proprio di desiderare, il risultato finale è piacevole solo per il narcisismo di entrambi, utente e operatore: obbedisco al compito di desiderare, ma faccio finta di desiderare il compitino che ho portato a termine. Il desiderio che si realizza, in questo caso, è quello del farsi desiderare dall’Altro. Più desiderante è invece chi desidera non partecipare più al laboratorio e trascorrere il tempo dedicatovi a non far nulla o a fare il nulla. Non deludere le aspettative dell’Altro. Piacere a Mammà. Il lavoro è svolto! Desiderio o non desiderio, in apparenza il risultato finale soddisfa la domanda del narcisismo sociale. Si gode di ciò. Laddove il desiderio proprio, soggettivo, porta con sé sempre un gradiente di sofferenza che individua il soggetto come entità individuale e differente dagli altri individui. In questo consiste il condividere socialmente e il sentirsi parte di un’unità gruppale più vasta: la riscoperta del proprio desiderio.  

La tendenza, invece, del gruppo di laboratorio che deve sottostare a dei risultati finali che siano funzionali agli obiettivi è quella sì di creare un’unità gruppale, ma obbediente al godimento narcisistico. Raggiungere la normalità, la bellezza del prodotto artistico, l’omologazione, il voto sufficiente a essere promossi. Il fine è piacere. Il like. L’operatore si sacrifica per sentirsi adorato, incensato e investito del carisma del ‘guaritore’. Laddove, invece, dovrebbe eclissarsi, fallire, sempre meglio, perché, in genere, il desiderio non coincide quasi mai con la perfezione della società spettacolare, della vendibilità da milione di copie della società post-editoriale. Il laboratorio di scrittura desiderante funziona come processo e non come prodotto. Per il prodotto esistono le varie scuole di scrittura creativa, di teatro, di pittura. Scuole, appunto. Che insegnano l’omologazione. Ma quasi mai il desiderio.  

Il desiderio non ha scuola, non ha forma. Il luogo è soltanto quello dell’ascolto e di particelle gemelle che si influenzano a vicenda. 

In ambito scolastico e psichiatrico, in ambito sociale tout court, i laboratori dovrebbero essere finanziati e sostenuti dallo Stato. Ma sarebbe un controsenso: la scuola, l’istituzione, la società alimenta e soddisfa bisogni spesso del tutto inesistenti, ma a cosa gioverebbe sostenere ognuno a coltivare il proprio desiderio. Il desiderio soggettivo ha una quota considerevole di non Legge. Una società di soggetti desideranti sarebbe temuta dai più bisognosi e dai codardi. Per desiderare bisogna avere coraggio. Per godere basta apparire, avere soldi magari. Essere come gli altri. Conformarsi. Non essere responsabili di nulla.  

   

L’operatore deve essere responsabile del proprio desiderio. Deve aver lavorato su di sé. La questione è che lo scrittore o l’artista non possono fare a meno del proprio sintomo. E dunque è necessario averlo sottomano e saperlo gestire nel migliore dei modi, trasformandolo in qualità creativa e generatrice di esempi cui gli utenti possano attingere. 

 

La pratica desiderante non è sottomessa al godimento narcisistico del pubblico e dell’operatore\operatrice, ma al processo e alla rappresentazione finale che dà voce alla virtualità di un testo che muta nel mutevole svolgersi degli eventi quotidiani, quasi un flusso, come avrebbe detto il performer americano Schechner. La condivisione laboratoriale è tale da permettere una destrutturazione dell’io autocentrato e la riacquisizione di un volto totemico: se la maschera cancella e nasconde il desiderio soggettivo, il volto totemico lo libera e lo fissa nella peculiarità dell’individuo che ha ritrovato il proprio desiderio: (il termine volto totemico lo estrapolo dal saggio di Chiara Simonigh su Il corpo risibile in Storia del Comico e del Riso, testo&immagine ed. e lo adatto liberamente al discorso desiderante). Il volto totemico è proprio la pelle esterna del desiderio. Del proprio desiderio. Desiderante è quella scrittura o descrittura del proprio percorso individuante e al tempo stesso collettivo. Per collettivo intendiamo ‘intreccio cosmico’, intreccio comico. L’azione collettiva è contagiosa come una risata e riusa lo stesso principio, tra l’altro indimostrabile, per cui pur a distanze siderali il cambiamento di una particella influenza il comportamento della particella gemella. Non c’è nulla di matematico in queste passeggiate se non la precisione metaforica del sintomo che collega realtà lontanissime del tempo e nello spazio. Trasformare i sintomi in azioni creative è come passare al vaglio del microscopio le infinite interiorità dei microrganismi o penetrare nelle lontane galassie perlustrate dai potenti occhi telescopici. 

 

Ma cosa è la scrittura desiderante e cosa ha a che fare con tutto questo? Con la fisica quantistica, con i Buchi Neri e i Buchi Bianchi, con la poesia e la metafora?  

Non lo so e non importa saperlo.  

E comunque, prima di rispondere a questa domanda, ne propongo un’altra, di domanda: cosa c’entra il linguaggio con il fallo 

Lacan dice che il fallo (Φ) come simbolo della castrazione è il significante dell’operazione significante e linguistica. È il posto vuoto che permette le  connessioni e le sostituzioni dei significanti, di creare metafore e metonimie, viaggi nel tempo e nello spazio. Il linguaggio è una vera è propria protesi che permette di catturare il reale, il pianto del bambino per catturare il cibo dal seno della madre, la risata che ha preso il senso, o il doppio senso della battuta. In questo senso la parola [parole] è un dono del linguaggio, e il linguaggio non è immateriale. È corpo sottile, ma è corpo, scrive Lacan, onde che vibrano di particelle.  

 

Ecco: siamo quasi vicini alla scrittura desiderante… 

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