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L’Io e il soggetto indefinito

12 Ott 12

Di alberto.porta@apss.tn.it

Wo Es war, soll Ich werden. Con questa semplice frase, difficilmente traducibile in italiano, che gioca sulla possibilità di leggere la seconda parte in prima persona singolare o in terza ("Dov'era, devo diventare" oppure "Dov'era Es, deve diventare Io" o addirittura "Dove era l'Es, deve subentrare l'Io") in altri termini che pone il problema non della oggettivazione dell'Io ma della soggettivizzazione dell'apparato psichico e, più radicalmente, dell'individuo, Freud conclude la 31a lezione di introduzione alla psicoanalisi (Cfr. su questo punto l'analisi di J. Lacan (1966) in La chose freudienne).

Su questa frase, nella storia del movimento psicoanalitico, ci siamo soffermati un po' tutti, noi psicoanalisti, proprio per quella mancanza dell'articolo (soll Ich werden, non soll das Ich werden) che indica la volontà di Freud di non oggettivizzare Es o Io, anzi che indica la precisa intenzione di far dire "Io", senza alcun articolo che lo determiniCiò che, in termini astratti, è facilmente concepibile, mentre in termini pratici sorprende sempre un po', per le difficoltà connesse a questo compito.

In termini pratici: arrivando in seduta trafelato, un paziente si stende sbuffando sul divano e dice di essere in ritardo perché, giunto all'ultimo ponte prima del mio studio, si è accorto che stava parlando dentro di sé e si è bloccato. Non gli era mai capitato prima — dice — anche se capisce, anzi è stata anche questa cosa che lo ha fatto bloccare, che a dirlo in questo modo si fa la figura del cretino o si rischia di non essere capiti. Cioè lui sa bene di aver sempre pensato ma questa volta pensava con le parole, non sa bene come spiegarsi, insomma stava parlando, cosa che ora gli sembra diversa dal fatto di pensare con le parole, perché ovviamente tutti i pensieri sono fatti di parole, ma parlare è una cosa diversa, non sa se si è spiegato bene. Fatto sta che si è fermato sul ponte e lì per lì non se ne è accorto neppure: semplicemente è rimasto lì. Poi s'è accorto ed è sceso dal ponte. "Non saprei come dirle —aggiunge – ma ero proprio io che pensavo". Poi continua "Chiaro che vale la domanda opposta: prima, chi pensava?" Gli chiedo: "Scusi ma, se si è accorto d'improvviso che stava parlando, semmai la domanda adeguata sarebbe: chi stava parlando?" "Il fatto è — dice – che stavo parlando in prima persona, stavo… non so, m'ha dato l'impressione che prima parlassi ma non in prima persona, anche se usavo l''Io'. No, è una cosa poco chiara, mi sento confuso e come sollevato".

Il paziente in questione, questo signore che ora dice di sentirsi confuso e sollevato, prova sempre una leggera angoscia quando inizia la seduta. Quando iniziò l'analisi, quest'angoscia era divenuta man mano notevole e talora capitò che egli, prima di suonarmi il campanello, si bevesse un paio di bicchieri. Un tempo si diceva che il Super-io fosse solubile in alcool e in certi casi è proprio così: per quanto riguarda il mio paziente, ho avuto spesso l'impressione, però, che in alcool fosse solubile qualcos'altro o, fuor di metafora, che l'elemento psichico insopportabile e fonte di angoscia fosse la responsabilità derivante dal poter o dover riconoscere di essere lui a pensare un determinato pensiero. Ma, appunto, il problema sta nel fatto del cosa vuol dire "essere lui a pensare".

Il pensiero di questa volta, tuttavia, è differente proprio per il fatto che il paziente può riconoscere una propria responsabilità. La riconosce — nel racconto in seduta — segnalando un blocco della motilità, ma anche un punto di vista diverso, dall'alto del ponte, cosa non priva di contenuti simbolici per ora solo accennati.

Comunque, questo pensiero, un pensiero fatto di parole, un pensiero parlato, dunque un discorso, anche se un discorso interiore, ha il potere di fermarlo. Si è fermato sul ponte e lì per lì non se ne è accorto neppure: semplicemente è rimasto lì. Poi s'è accorto ed è sceso dal ponte. Beninteso: questo è il pensiero che il paziente dice dal divano, nella forma di ricordo di un avvenimento recente. Che ciò sia accaduto o meno, è del tutto irrilevante e comunque non mi riguarda. Quel che posso davvero constatare è il fatto che qui, in inizio di seduta, il paziente descrive uno stop, un arresto, una fermata, un'attività di pensiero alternativa all'attività motoria e che questo pensiero è fatto di parole. "Io parlo" potrebbe dire il paziente. E non dice che questa volta l'angoscia iniziale non c'è, lasciando essa il posto al sentirsi confuso e sollevato. Stava parlando, cosa che ora gli sembra diversa dal fatto di pensare con le parole.

L'impressione mia è che questa volta egli non abbia parlato come cercando affannosamente di inseguire un pensiero altrimenti fatto, in un'ansia di descrizione di qualcosa con cui non può mai identificarsi e che si risolve sempre in una descrizione incompleta e come in una rincorsa da parte della coscienza di un qualcosa che è ben diverso e che comunque abitualmente non ha bisogno di alcuna descrizione e che solo per me deve diventare detto. No, questa volta ha parlato. Io sono arrivato là… ma sorprendentemente questo là non è laggiù, in fondo, dov'era Es o dov'ero Es, ma alla superficie, qua.

Mentre— distrattamente, come cerco sempre di fare — ascolto il paziente che prosegue le sue associazioni, mi vengono in mente due altre pazienti, molto diverse tra loro.

La prima era una signora che al primo colloquio mi era sembrata insieme assorta ed attenta, tanto da farmi osservare che mi dava l'impressione di una persona intenta ad un doppio lavoro. Quando glielo dissi, mi comunicò con qualche vergogna che, fin da bambina, si era "allenata" a contare le sillabe dei discorsi degli altri. Era attenta dunque a contare le sillabe di quel che potevo dire io, eassorta perché temeva di sbagliare il conto.

La seconda paziente, viceversa, alla quale ad un certo punto dell'analisi avevo detto che mi stava facendo sentire quant'era importante che lei mi potesse comunicare che mi considerava uno scocciatore (uno che si inseriva sempre nel discorso altrui e magari a sproposito) m'aveva risposto che effettivamente — e benché lei venisse da me di sua propria volontà — era vero che aveva l'impressione che interrompessi il suo dialogo. "Dialogo?", chiesi. Sì, perché era sempre stata abituata – mi rispose – a parlarsi, a dirsi e contraddirsi, a tenersi compagnia parlandosi, con un dialogo continuo tra due persone. Non sapeva bene chi fosse "io" e chi fosse "tu" —le due "persone" che adoperava- anche perché "io" poteva diventare "tu" e viceversa. Ma c'era sempre questa situazione. A dirla francamente, aggiunse, benché questa esperienza le fosse assolutamente comune e quotidiana, e benché una certa sensazione di fastidio verso gli altri come possibili "interruttori" (parola sua) del suo dialogo interiore ce l'avesse sempre, solo in analisi aveva sperimentato questa idea, che era contenta di dirmi perché avrebbe voluto dirmela da tanto tempo, che io fossi a tal punto uno scocciatore, uno scocciatore patologico, non privo di un certo intuito, perché mi ficcavo sempre nel bel mezzo del suo dialogo proprio quando le sembrava di arrivare da qualche parte, a tal punto uno scocciatore da essere insomma in certo senso un pazzo.

Durante l'analisi del primo paziente, naturalmente, queste due signore mi vengono in mente in forma del tutto condensata, il ricordo di loro due e della sorpresa che avevo provato in quelle situazioni. E' un attimo, insomma. Entrambe quelle persone avevano una particolare strutturazione del sistema conscio: la prima aveva un'area conscia che funzionava continuamente come un contatore di sillabe. "E' un gioco", aveva detto la signora, "una cosa che mi accompagna". Un gioco parallelo, privo di contatti con il resto dell'attività psichica cosciente — anche se, certo, non privo di effetti su quella. Chi ha letto La via del pellegrino o la Filocalia sa che questa modalità di pensiero — nella forma della preghiera esicastica — è stata anche utilizzata culturalmente, per esempio appunto nell'ortodossia russa.

La seconda, viceversa, poteva in qualche misura distanziare i contatti con gli altri e prenderne in considerazione i discorsi solo distraendosi momentaneamente da sé, come quelle commesse sempre attaccate al telefono che dicono ad un'amica: "scusa un attimo, che c'è qui uno (sottinteso, appunto: uno scocciatore) ti richiamo appena posso (cioè appena lo ho liquidato)".

Entrambe queste signore, poi, avevano la caratteristica di non avvertire come un disturbo o se si vuole un sintomo il loro particolare funzionamento, anche se poi nel corso dell'analisi questo divenne fortemente distonico e apparve come la classica punta dell'iceberg.

Il paziente da cui ho iniziato, invece, pensava ma non parlava, non parlava interiormente voglio dire.

[Persona assolutamente socievole e "di compagnia", non aveva praticamente combinato nulla nella vita, se si eccettua il collezionare amici e conoscenti. Godendo di una certa rendita, aveva potuto tirare avanti così per parecchi anni dopo la morte dei genitori. Le vicende del calo dei rendimenti finanziari fissi lo avevano gettato nello sconforto, visto che l'amministratore del suo gruzzolo gli aveva comunicato che avrebbe dovuto vivere con un quinto di quel che guadagnava in precedenza. E un amico gli aveva consigliato non solo di trovarsi un lavoro — ciò che non gli era stato difficile, vista la quantità di amici che aveva — ma e soprattutto un analista — ciò che era stato più difficile. Naturalmente le due cose andavano assieme perché l'impatto con il lavoro aveva improvvisamente reso più difficili i rapporti con l'amico che gliel'aveva procurato e, soprattutto, con sé stesso, confrontato a difficoltà impreviste. Il posto di lavoro che gli era stato affidato, infatti, riguardava i rapporti con il personale di una media azienda e d'un colpo egli si era trovato sbalzato da un clima di amicizia e bonomia diffuso ad un clima di microconflittualità continua. Con lui, non era stato un problema fargli seguire la regola fondamentale: in un certo senso, dava l'impressione di averla sempre seguita, come se la sua vita non fosse stata altro che una libera associazione, ma priva sempre di qualunque implicazione pratica. Un ragazzone, come dicevano gli amici. Un ragazzone adorabile, come dicevano le amiche — nessuna delle quali, peraltro, aveva mai pensato di stabilire una relazione seria e stabile con lui. ]

Tutti e tre questi pazienti, infine, difficilmente avrebbero potuto dire "io": per tutti si poneva in forma letterale l'interrogativo "chi parla?". Parlo io o parli tu, si sarebbe potuta chiedere la signora che dialogava, e la signora che sillabava avrebbe potuto sempre dire che l'altra era la persona che contava di più. E il paziente se lo è chiesto, in fondo, quando si è accorto che il pensare parlando era davvero qualcosa che non aveva mai provato in quella forma, che solo in quel momento aveva potuto dire "io parlo".

Già — chi parla — chi parla davvero. Lì, sul momento. Un'esperienza pratica sconcertante, consistente nell'accorgersi che tra il soggetto grammaticale e il soggetto vero e proprio c'è uno iato non colmabile, spesso però illusoriamente colmabile e che perlopiù invece c'è al massimo una tensione dell'Io verso il soggetto o del soggetto alla conquista dell'Io. Ma che dire "io" è perlopiù una finzione, un modo di tranquillizzarci. Da chi sono parlato quando dico "io"? Chi è "io"?

Il fatto è che la famosa frase di Freud, dopotutto, non riguarda affatto il sistema cosciente, riguarda l'Io che è un'istanza in larghissima parte inconscia. Come dire che tra il soggetto grammaticale e il soggetto vero e proprio la distanza è data dal fatto che "Io è (anche) inconscio". Come dire che la sensazione di unità che si prova le volte che davvero si può dire "io" è anche una sensazione di unità tra sezioni dell'apparato psichico che non possono essere pensate dalla coscienza e che è prodotta dal desiderio. Perciò il paziente si è sentito sollevato, ma anche confuso. "Io parlo, ma chi sono Io?"

Con questa consapevolezza si può affermare che l'Io può percorrere un po' di strada nel campo dell'Es — notate che ciò si può dire solo oggettivando il problema — ma non si può affermare altrettanto della coscienza: essa può solo avere degli squarci, una consapevolezza, non può certo conquistare dei territori. Ed è anche vero che il sistema della coscienza, che pure ci rende servigi inestimabili, è parzialmente pleonastico.

Non volendo qui addentrarmi in una disamina della questione del soggetto e dei disastri che una deriva pseudofilosofica di Lacan ha prodotto nella sua teoria e nella teoria del soggetto a livello di tutto il ripensamento psicoanalitico, e non volendo neppure entrare nella polemica con la regressione alla intersoggettività prepsicoanalitica che è propria di alcune correnti della "psicoanalisi" (tra virgolette) americana, mi soffermerò sulla rilevazione di un fenomeno che questi tre pazienti incarnavano in vario modo: un fenomeno che si potrebbe chiamare della precoscientizzazione del soggetto o dell'ipertrofia relativa del preconscio e che è collegato appunto alla condizione di relativa pleonasticità della coscienza.

Come si sa, quello del sistema preconscio è un costrutto psicoanalitico di primaria importanza — e le attività psichiche cui questa costruzione si adatta costituiscono un'area di esperienza psichica di importanza fondamentale per la strutturazione dell'individuo umano e forse dell'individuo tout court. Man mano, nella storia della psicoanalisi, sono apparse concettualizzazioni di vario tipo centrate sullo studio di fenomeni attinenti al preconscio. Oltre ovviamente agli studi di Freud e alla costante concettualizzazione del preconscio negli scritti della prima generazione di analisti, in particolare di Reich, importanti e innovativi contributi sono stati dati da analisti o scuole analitiche assai diversi, come Lopez in Italia o come quelli inglesi legati alla scuola di Anna Freud (Sandler, ad esempio) e quelli di ricercatori francesi, tra i quali voglio ricordare qui almeno quelli dell'Ecole psychosomatique di Pierre Marty e quelli — in parte collegati ad essi — di René Kaës. Gli analisti dell'école psychosomatique hanno studiato specifici deficit della funzione preconscia in relazione allo sviluppo di una condizione o di una organizzazione psicosomatica, Kaës (e gli analisti che ne seguono le tracce teoriche) ha centrato la sua attenzione sulle funzioni di gruppo che possono rappresentare un metodo di investigazione e di trattamento di una patologia del preconscio caratterizzata da una incapacità di stabilire e mantenere una distanza da rappresentazioni inconsce pericolose che è necessaria all'Io per il suo funzionamento. Quello che è comunque specifico di queste trattazioni è la messa in evidenza di situazioni deficitarie o disfunzionali del preconscio.

I soggetti dei quali invece vorrei qui discutere — e che mi sembrano, come dire?, molto moderni – sono a mio avviso affetti da una situazione di squilibrio intersistemico, nel senso che, a fronte di una problematica iper-permeabilità ai confini tra sistema inconscio e preconscio, le attività preconsce subiscono una ipertrofia, pagata però al prezzo di un rafforzamento della seconda censura, quella tra sistema preconscio e sistema conscio, e di un impoverimento globale di quest'ultimo. Quando dico "impoverimento globale" intendo dire che — in un certo senso, cioè in senso metaforico – c'è spesso in queste persone più una riduzione di tutte le attività psichiche tipiche del sistema conscio (in relazione alla crisi del giudizio) che una riduzione disarmonica di qualcuna delle sue componenti, come accade viceversa nelle nevrosi classiche. Insomma un sistema Cs piccolo a fronte di un sistema Pcsipersviluppato. Credo si tratti di una strutturazione psichica che deriva la sua patologicità dalla sua stabilità, tanto da far tornare in mente certe costruzioni formali relative al carattere proprie della psicoanalisi pre-bellica. Bisogna notare però che se viceversa questa strutturazione psichica anziché essere stabile ha una attuazione transitoria e momentanea, l'ipertrofia appunto transitoria del preconscio si rivela essere una delle condizioni intrapsichiche necessarie per lo sviluppo della creatività, giacché solo nel preconscio il processo secondario di pensiero ha la possibilità di utilizzare a fondo tutti i sistemi rappresentazionali, di qualunque origine essi siano. Di qui anche l'aspetto ingannevole del paziente di cui ho parlato, che poteva sembrare — come certi adolescenti — estremamente creativo, dotato di un pensiero libero, e del quale ci si sarebbe potuti domandare allora perché mai sistematicamente non avesse combinato nulla nella vita, negli studi o nel lavoro.

In quel bellissimo libro che è Psicoanalisi come percorso, Franco Borgogno affronta questo tema sia dal punto di vista pratico, illustrando col suo libro stesso una modalità di pensiero che si svolge in un lungo periodo ma che solo in determinati momenti può trasformare una elaborazione creativa preconscia in pensiero cosciente, sia dal punto di vista teorico, studiando il ruolo che determinate "percezioni preconsce" hanno avuto nel pensiero di Freud e mostrando in modo convincente come determinate elaborazioni preconsce abbiano bisogno di tempo, anche di molto tempo, per poter essere comprese da chi le elabora o — addirittura — da chi legge determinati elaborati scritti che contengono anche parte della elaborazione preconscia dell'autore. Credo si tratti di un contributo importante anche per la comprensione delle dinamiche di sviluppo della nostra disciplina. Ma qui mi interessa citare questo contributo perché esso tratteggia, per così dire, la fisiologia di un processo del quale, nella clinica, si può osservare anche la patologia

La mia impressione è che siano sempre più frequenti le persone che, per così dire, hanno un sistema conscio labile e vivono viceversa facendo stabilmente molto affidamento sulla funzione del sistema preconscio.

Mi sembra che un elemento tipico di questa situazione possa essere rinvenuto nella crisi del giudizio.

Il giudizio è – dal punto di vista psicoanalitico – una funzione fondamentale del sistema conscio. Freud si è a lungo interrogato su questa particolarissima e fondamentale funzione, a partire dai tempi del Progetto per giungere alla Nota sul notes magico e allo scritto su La negazione (1925) perché, per usare le parole del Progetto, il giudizio è necessario per passare dalla quantità alla qualità. Esso è cioè qualificativo e la qualificazione è necessaria per consentire il pensiero cosciente. Si tratta di una funzione inapparente, ma osservabile: basti pensare che, ad esempio, precipiteremmo in uno stato di confusione totale se a ciascun contenuto ideativo o affettivo di ciascun momento della vita psichica conscia non attribuissimo una qualificazione precisa. Questa immagine che mi viene in mente in questo momento è un sogno o una fantasia o un ricordo o una percezione, questo sentimento che sto provando è tenerezza o rabbia o angoscia o amore o odio: posso permettermi di tollerare di non sapere da dove questa immagine o questo affetto originino, ma non posso permettermi di non qualificarli, perché se non potessi distinguere tra sogno e percezione o tra amore e rabbia cadrei in uno stato letteralmente indescrivibile.

Nelle persone – a mio avviso sempre più frequenti – che presentano una crisi del giudizio quel che accade non è un tale stato di confusione, ma è piuttosto una sorta di distrazione continua.

Sarebbe comodo poter pensare che questa distrazione avvenga a seguito di un aumento del flusso degli stimoli esterni, caratteristico del mondo contemporaneo, per far fronte ai quali l'apparato psichico – un po' come una dogana intasata da migliaia di autovetture – abbasserebbe la guardia, controllando solo pressapochisticamente chi entra e chi esce, ma la cosa non è così semplice. Piuttosto, si potrebbe descrivere questa situazione dicendo che queste persone "sono sovrappensiero" e riservano solo l'attenzione necessaria all'agire. Non si soffermano a pensare quel che stanno pensando, a sorprendersi per quel che gli passa per la testa, spesso anzi non lo pensano proprio.

Non si tratta di una patologia clamorosa, ma di un aumento quantitativo dell'importanza di un meccanismo abituale in tantissime persone e che consente comunque forme di pensiero elevate, ma senza che necessariamente giungano alla coscienza. Nella vita quotidiana, ad esempio, questo fenomeno si può osservare nell'esecuzione di un pezzo pianistico: esiste un livello di pensiero che traduce una lettura di una forma musicale, scritta sul pentagramma, in una serie pressocché perfetta di movimenti delle dita, delle mani, delle braccia, dei piedi ecc.: durante l'esecuzione, il pianista può badare esclusivamente al proprio funzionamento corporeo, senza dirsi verbalmente quel che sta facendo. La lettura di uno spartito, sia essa finalizzata alla riproduzione interiore del pezzo (a "suonarselo dentro di sé") sia essa finalizzata invece ad una traduzione in parole (la sinfonia si apre con una nota di do maggiore…) ma non accompagnata dall'esecuzione, utilizza altri modi di pensare.

Beninteso anche quando camminiamo facciamo la stessa cosa, ma si tratta di una prestazione di livello più semplice: quello che questi esempi illustrano è semplicemente il fatto che si tratta di modalità fisiologiche di pensare anche pensieri complessi, che magari non saremmo capaci di pensare con sistemi linguistico-simbolici. Quale sistema di equazioni, ad esempio, servirebbe per poter descrivere esattamente il lavoro a maglia necessario per fare un bel maglione?

Sennonché questo pensiero evoluto è un pensiero preconscio. Che accade se una persona adopera questo sistema in forma estesa e stabile?

Accade, per quel che ho potuto osservare, che il sistema di pensiero basato sull'uso prevalente dello strumento linguistico passa in secondo piano. E che da un lato si assiste ad una sorta di rincorsa della coscienza all'occupare il proprio ruolo (espressa, sintomaticamente, da un parlare continuo che, per certi versi, diventa una vera e propria logorrea: le persone che parlano "perché hanno la bocca"), ma dall'altro si può notare una sorta di equi-valenza (altrettanto sintomatica) tra i contenuti del discorso. L'elemento interessante – e che dà da pensare su quella misteriosa barriera tra preconscio e conscio su cui Freud per primo ha attirato la nostra attenzione – sta dunque nel fatto che il giudizio, in questa situazione, non viene ingannato ma piuttosto è reso meno importante ed il "peso" dei singoli elementi del discorso cosciente tende ad equivalersi. [Infatti il giudizio serve a qualificare i contenuti psichici espressi tramite le rappresentazioni di parola, ma se le parole non possono venire impiegate per un uso logico-razionale e riflessivo dello strumento linguistico, la qualificazione è di minore interesse. Sta qui la crisi del giudizio.] Si potrebbe parlare di ecclissi della coscienza. E questa metafora può servire ad illustrare il fatto che, benché essa ci sia ancora, non illumina più il percorso che il soggetto deve compiere. Egli, per così dire, cammina utilizzando altre fonti di orientamento.

Insomma in questa situazione il soggetto può di fatto disinvestire parzialmente la coscienza, la quale continua sì il suo lavoro, ma, per così dire, senza grande passione. Dov'è, in queste situazioni il soggetto? O, più terra-terra, come si avverte una persona che vive in questa condizione? Si avverte, curiosamente, ben solida anche se meno definita dal proprio soggettivo modo di essere, più legata al gruppo e ai sentimenti di gruppo, come se ad un soggetto indefinito corrispondesse un Io inattaccabile.

Certo, che senso acquista la regola psicoanalitica basata sull'uso della parola – e della libertà di parola – quando quest'ultima è in tal modo resa meno importante? Nella pratica analitica, in queste situazioni, la regola diventa sì un ponte per il passaggio di derivati inconsci dall'area preconscia a quella conscia, ma l'effetto è, all'inizio, piuttosto pesante. Non è affatto facile tollerare l'idea di esser fin là vissuti, per così dire, in coda dell'occhio. Nè è semplice comprendere perché questa condizione si instauri. E le persone che riscoprono o instaurano nuovi collegamenti tra il proprio mondo preconscio e quello conscio, non avvertono affatto una sensazione di libertà, ma piuttosto tendono ad elaborare di sé un'immagine totalmente determinata. Quasi che il sistema conscio, quando riprende la sua funzione, venisse avvertito esso stesso nel suo insieme come un legame. Il passaggio dunque da un soggetto indefinito e fluttuante ad un soggetto consapevole passa per la scoperta di un altro significato della parola "libertà".

Poiché siamo a settant'anni dall'uscita del Disagio nella civiltà, permettetemi una considerazione finale in sintonia con quello scritto.

Se guardiamo questo tipo di soggettività indefinita, e se la paragoniamo ad una pianticella, essa sembra essere per molti aspetti meno vulnerabile della pianta che rappresenta i soggetti dotati di libertà di pensiero. Non solo: se consideriamo le condizioni ambientali, climatiche, atmosferiche, la soggettività indefinita o distratta consente una lunga persistenza anche in ambienti mefitici, mentre la libertà di pensiero ne soffre profondamente. Fuor di metafora, se la libertà di pensiero implica anche una attività di giudizio rivolta non solo ai contenuti ideativi ed affettivi che provengono dal preconscio e, via questo, dall'inconscio, ma anche un costante atteggiamento critico nei confronti della realtà esterna, il soggetto che esercita questa libertà non si trova – da un punto di vista "darwiniano" – in condizioni molto favorite, rispetto a chi, invece, struttura (beninteso involontariamente) il suo pensiero nell'ottica della soggettività indefinita.

Secondo Georges Devereux (1965), "c'è una differenza minima, tanto sul piano etico che su quello psichiatrico, tra un sistema totalitario che riduce l'uomo allo stato di adulto stupido e un sistema democratico difettoso che lo riduce allo stato di bambino precoce". In entrambi i casi, infatti, il messaggio importante è quello della insufficienza dell'adulto. La soggettività indefinita è, a mio avviso, una situazione differente sia dallo stato di "adulto stupido" sia da quello di "bambino precoce". Ma, se si considera l'individuo come un sistema in continuo dinamico equilibrio tra l'ambiente esterno e quello interno, tra relazioni e corpo, non sembra inutile porsi almeno l'interrogativo circa le dinamiche sociali che possono, embricandosi con quelle inconsce, aver favorito lo sviluppo di situazioni psichiche di questo tipo.

Dico "sociali" e non relazionali per indicare l'ampio spettro della cosa e per far riflettere sul fatto che questo tipo di soggetti, proprio per la relativa minor rilevanza che attribuiscono al sistema logico-razionale, è relativamente estraneo alla logica democratica, che implica la discussione nell'agorà. E poiché la quantità fa la qualità, mi sembra lecito chiedersi che cosa potrebbe accadere se, quantitativamente, questo tipo di soggettività divenisse maggioritario.

Ma, al di là di queste preoccupazioni per così dire politiche, nel senso alto del termine, vorrei dire che un soggetto indefinito che rappresenta il desiderio in mille modi diversi e che se ne sente vivificato, non è a dirla propriamente un soggetto malato. Ci sono mille modi con cui l'Io può realizzare le proprie finalità di mediazione e di unificazione e verosimilmente in ogni epoca storica sono incentivate alcune forme piuttosto che altre. E forse questa non è così male, dal punto di vista della ricerca della felicità.

Tuttavia, mentre possiamo permetterci di osservare queste variazioni sul tema dell'Io, non possiamo però non chiederci — magari con un autoironico pensiero al nostro piccolo dio logos — quale potrebbe essere il destino della parola e delle sue rappresentazioni in un'umanità che cercasse motivi di felicità nella riduzione di importanza della coscienza.

Ritorno così al mio paziente, le cui illuminazioni erano proverbiali tra gli amici e la cui "creatività" ha affascinato anche me, per un certo tempo. Per tutto il tempo necessario, cioè, ad accorgermi che si trattava di un terribile e meraviglioso gioco nel quale il paziente era totalmente imbrigliato, mentre io ero appunto "deliziato" dal costituirsi — dentro di me — di costrutti, ipotesi, pensieri, affetti relativi a lui. A lui che però arrivava nel frattempo in seduta sempre più angosciato, forse proprio per il timore del proprio desiderio che anche con me null'altro accadesse se non la ripetizione del giochetto del figlio unico, seduttore e sedotto, costretto ad una sorta di funambolismo continuo, di continua esibizione di capacità psichiche attraenti.

Ora, il rafforzamento della misteriosa frontiera tra preconscio e conscio ed il premio di piacere ottenuto dalla continua attività di seduzione-fascinazione dei circostanti possono, da soli e in combutta con favorevoli circostanze esterne, giustificare il mantenimento di un equilibrio psichico sano, a scapito di soddisfazioni più precise e certamente anche più concrete? In linea di massima, sarei portato a pensare di no e quindi mi verrebbe da accostare una configurazione personologica di questo tipo ad alcuni tipi di perversione che sono stati studiati da Janine Chasseguet-Smirgel.

E tuttavia questo accostamento teorico non può essere una sorta di vendetta teoretica a fronte della disillusione controtransferale conseguente all'accorgersi di essere stato preda del transfert del paziente?

Quel che posso affermare certamente, infatti, è molto più limitato: posso solo dire che davvero il paziente riusciva a pensare in modo creativo quando era con altre persone e spesso perfino riusciva a risolvere problemi anche pratici altrui, un po' come quei personaggi dei romanzi polizieschi che conducono le indagini per diletto e che invariabilmente (nei romanzi) risolvono il caso prima della polizia. Quel che non poteva fare — e che anzi all'inizio non gli interessava neppure coscientemente di fare — era risolvere problemi che avessero un versante pratico per se stesso oppure, più semplicemente, non poteva pensare "sul serio", per usare una sua espressione.

Ma perché mi sono soffermato proprio su questo paziente, quando ho pensato a questa relazione? Forse perché, benché il paziente non si fosse mai posto il problema cosciente di essere soggetto della propria storia, e neppure il problema di pensare davvero e di fare la fatica di pensare (tipicamente era uno che non aveva mai studiato, anche se però aveva letto molto) in altro senso era costretto a cercare di essere continuamente l'oggetto del desiderio altrui. Rendersi desiderabile e desiderato, in mille forme. Ma poi, il problema diventava quello di poter dire davvero "io". E' un ben strano "io" quello che si configura come oggetto del desiderio altrui. Perché, sì, è vero che possiamo ipotizzare che il desiderio altrui fosse all'origine quello di una precisa persona, ma è anche vero che, adesso, doveva modularsi attraverso moltissime persone.

 

*Relazione presentata a Milano il 12 Giugno 1999 al convegno "IO E L'INCONSCIO" organizzato dall'Istituto Milanese di Psicoanalis

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