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Le nuove impostazioni che mi pare si siano venute sviluppando negli anni della mia pratica analitica, possono, per brevità, essere definite così:
- – prevalenza dell'hic et nunc sulla ricostruzione "storica" del passato;
- – limitato rilievo dato alla attendibilità storica, in senso stretto, della ricostruzione e maggiore rilevanza di ciò che si muove nella relazione, con una ricostruzione del passato che nasce dalla relazione ed è in funzione di essa;
- – prevalente attenzione a una funzione mitopoietica, che scaturisce dal legame transferale, inteso non solo come riedizione, ma come produzione nuova.
Più che descrivere le modalità tecniche che stanno alla base di queste impostazioni farò un cenno alle considerazioni teoriche che possono sottenderle. Un riferimento teorico può partire dal lavoro di Spence (1984). La tesi, in verità anticonformista di Spence, considera non percorribile e non rilevante la validazione storica, e quindi il processo analitico deve basarsi sulla verità narrativa: lanarrative truth (the fit, l'esperienza di soddisfacimento estetico che l'interpretazione produce), viene qui distinta dalla historical truth (la convalida o la validità del dato storico portato dall'interpretazione). Il nostro interesse è più nell'effetto che essa produce che nelle sue credenziali passate. Il passato, in realtà, non si ricostruisce. L'analista introduce nel suo operare delle fictions e potrebbe essere considerato più come una sorta di poeta che come una sorta di archeologo.
In analisi si costruisce la verità in funzione della coerenza interna, ma non si fornisce nessuna visuale veritiera del passato. Il passato che crea l'analista è nell'hic et nunc, allo stesso modo come quello del narratore e dello storico, e deve essere considerato una invenzione adeguata al presente. "Ogni interpretazione è vera solo all'interno del suo spazio analitico". Una volta che si mette in risalto il versante sincronico fiction, innovativo e narrativo, più che quello storico e diacronico e quindi psicobiologico, si ottiene uno strumento clinico più libero, riferibile al modello della narrativa o del teatro, ma si sposta la psicoanalisi da un piano scientifico a un piano ermeneutico. Per esempio, le risposte transferali alle stimolazioni dell'analista diventano fondamentali, e viene privilegiata, come la psicoanalisi clinica sa da tempo, l'eloquenza artistica contenuta nel linguaggio usuale e diretto, nel senso appunto del "teatro", con qualità emotive immediate. Forse la proposta di non ricostruire affatto il passato genetico, e di lasciare il rapporto in una dimensione prevalentemente estetica, o ermeneutica, è eccessiva: ma rimane il fatto che è esperienza comune che nell'hic et nunc aspetti estetici (linguaggio diretto, metafora esplicativa,réveries) siano integrati nel tessuto dell'interpretazione, che rimane soprattutto un organizzatore psicologico nell'attuale. La mitopoiesi analitica viene considerata come un metodo di organizzazione del materiale inconscio, così come per il poeta (di cui T.S. Eliot potrebbe essere un paradigma) la mitopoiesi può essere organizzazione del materiale, oltre che interno, emozionale, anche culturale e sociale. Si tratta dunque dell'uso sincrono di modelli culturali e schemi mitici, per dar vita a un linguaggio assieme individuato e multiplo o aspecifico, attuale e, nello stesso tempo, storicizzato. La tragedia (il modello drammatico o di teatro), è l'ulteriore elaborazione in un contesto diverso dalla mitopoiesi, nella relazione in atto, come dire l'interpretazione, l'atto terapeutico, quale che esso sia.
Ma qui devo precisare alcuni concetti che ho già avuto occasione di sottolineare n precedenza, e riportare una ipotesi. L'ipotesi vede la possibilità di riferire il momento dell'interpretazione alla tragedia e la narrativa psicoanalitica (o la costruzione, se si preferisce il termine) al mito, talché la stretta connessione del mito nell'azione drammatica della tragedia attica ci fornisce una metafora coerente del problema. Così con la narrativa psicoanalitica (storia o fiction), gli eventi sono messi entro una scena mitica, in uno svolgersi valido per l'uomo in modo generale: con l'interpretazione l'evento mitico si fa drammatico, cioè rappresentazione teatrale, reale nella relazione in atto. Il mito viene costruito su elementi diversi, di cui parte importante hanno esperienze narrate da altri, non vissute, "i sentiti dire" (D. e A. Anzieu, 1985). Per esemplificare un tipico linguaggio mitico, una lingua familiare che costituisce il mito, mi ero già riferito (Rossi 1985) al romanzo di Natalia Ginzburg, Lessico familiare. Si licet maxima componere minimis, come il tragico Greco, l'analista immette gli elementi mitici in una scena presente. Il mito (J.P. Vernant & P. Vidal.Naquet, 1973) si distingue dalla tragedia, perché il suo linguaggio, come organizzatore di elementi interiori e culturali, è tanto generalmente valido che, non fa presa nella realtà politica della polis. E' la tragedia che, mettendo in azione il mito, produce un doppio riferimento al mito da un lato come elemento decantato del passato, dall'altro, come elemento presente, nei valori attuali della società e della polis e, nel nostro caso, del mondo interno. Il mito è una teoria generale, e nessuno ne ha l'esclusiva o è l'autore di una tradizione orale e scritta, mentre la tragedia si individua nel tempo e nello spazio, ed è una, come l'interpretazione, conservando come l'interpretazione la voluta e necessaria ambiguità della storia antica. Così dunque è possibile inserire il passato, in quanto memoria o fiction, mito dunque, nel presente, ancorandolo all'hic et nunc, come concretezza emotiva, secondo il modo della tragedia, che diventa concreta nel momento dell'interazione tra attore, coro, pubblico. Si può supporre che la mitopoiesi, inserita nell'azione tragica per quanto possibile, sia un momento fondante della teoria della tecnica del trattamento della crisi e delle situazioni di emergenza, dove una storia (intesa qui in tutta la sua ambiguità tra storia e fiction) può ridare al paziente materiale su cui lavorare, per rompere l'isolamento interno della crisi, e ricostituire una continuità, ristoricizzando la vita mentale e ridando una comprensibilità globale a quel momento di esperienza che, come tranche isolata, è incomprensibile e non si può affrontare.
Alle sue origini, come precisa F. Kermode (1985), sulla scia delle scienze naturali del XIX secolo, e sulle orme delle posizioni lamarkiane, il principio psicoanalitico era che le cose si potessero meglio comprendere chiedendosi in che modo son diventate così come si trovano al presente. Ma, a partire soprattutto dalla linguistica, e a partire da De Saussure, il criterio diacronico (che studia le cose nel loro diventare come sono oggi) viene sostituito dal criterio sincronico (per cui le cose si comprendono da come sono, indipendentemente dalla realtà del loro divenire storico). Nella costruzione storica rimane un problema la relazione tra fatto storico e finzione, problema cui Freud si era già dedicato in Konstruktionen in der Analyse. "Come lui – dice Kermode – anche noi abbiamo un turbato residuo di coscienza di questo, nonostante sia passato molto tempo dall'osservazione di S. Agostino che "non tutto ciò che è inventato è menzogna": una finzione può essere figura veritatis. Allora, più che la scienza, la fiction può essere la via metodologica della psicoanalisi. Psicoanalisi dunque come ermeneutica, propria, con Dilthey, delleGeisteswissenschaften. In tutte le discipline interpretative, è avvenuto ciò che i teologi chiamano "fuga dalla storia".
Mi pare che questi riferimenti concettuali possano rappresentare una convincente base su cui poggiare alcune delle modificazioni tecniche del mio operare in analisi, a cui ho fatto cenno all'inizio.
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