Storicamente la teoria dell'attaccamento si è sviluppata a partire dalla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali, ed ha molto in comune specialmente con le idee di Winnicott, Fairbairn e Guntrip. Essa porta avanti queste idee in due aree principali:
a) il ruolo privilegiato attribuito ai legami emotivi significativi tra gli individui;
b) l'influenza di differenti modalità di interazione familiare nel determinare lo sviluppo del bambino.
Principi di psicopatologia e di sviluppo della personalità
La teoria dell'attaccamento considera la capacità di instaurare forti legami emotivi con particolari individui come una componente di base della natura umana, già presente in nuce nel neonato e che continua attraverso la vita adulta fino alla vecchiaia. Durante l'infanzia e la fanciullezza i legami sono verso i genitori (o con sostituti genitoriali), ai quali il bambino si rivolge per cercare protezione, aiuto e assistenza. Durante lo sviluppo normale dell'adolescenza e della vita adulta questi legami permangono, ma hanno come complemento nuovi legami, comunemente di natura eterosessuale. Sebbene lo stimolo della fame e quello sessuale a volte giochino un ruolo importante in tali relazioni, il legame esiste di per se stesso ed ha una sua propria funzione di sopravvivenza, e precisamente di tipo protettivo. Così secondo la teoria dell'attaccamento, i legami sono considerati non subordinati né derivanti dallo stimolo della fame e da quello sessuale. Ugualmente, il pressante desiderio di assistenza e di sicurezza in situazioni di avversità non viene visto come infantile, come implica invece la teoria della dipendenza. Invece, la capacità di instaurare legami con altri, a volte nel ruolo di colui che cerca assistenza, e a volte nel ruolo di chi la offre, viene considerata una importante caratteristica della salute mentale e di un efficiente funzionamento della personalità.
Di regola, il comportamento caratterizzato dalla ricerca di assistenza viene mostrato da un individuo più debole e meno esperto nei confronti di un altro considerato più forte e/o più saggio. Un bambino, o un adulto nel ruolo di colui che cerca assistenza, si mantiene nel raggio di azione di colui che offre assistenza, e il grado di vicinanza dipende dalle circostanze: onde il concetto di comportamento di attaccamento. L'offrire assistenza, che è il principale ruolo dei genitori e che è complementare al comportamento di attaccamento, viene considerato alla stessa stregua del cercare assistenza come una componente di base della natura umana (Bowlby, 1984).
L'esplorazione dell'ambiente, incluso il gioco, viene vista come una terza componente di base della natura umana, e precisamente come una componente opposta a quella del comportamento di attaccamento. Quando un individuo (di qualunque età) si sente sicuro, è probabile che egli esplori l'ambiente circostante e si allontani dalla sua figura di attaccamento. Quando invece egli è allarmato, ansioso, stanco o a disagio, egli sente un forte bisogno di avvicinarsi alla sua figura di attaccamento. Così noi osserviamo la tipica modalità di interazione tra il bambino e il genitore, conosciuta come esplorazione da una base sicura. Posto che egli sappia che il genitore è disponibile e che gli risponderà in caso di bisogno, un bambino normale si sente abbastanza sicuro per esplorare e, mano a mano che cresce, per aumentare la distanza sia nello spazio che nel tempo – da ore, a giorni, a settimane o mesi.
La seconda area alla quale la teoria dell'attaccamento presta particolare attenzione è il ruolo dei genitori nel determinare lo sviluppo del bambino. Esistono oggi sempre maggiori e convincenti prove che la modalità di attaccamento sviluppata da un individuo durante gli anni dello sviluppo – infanzia, fanciullezza e adolescenza – è profondamente influenzata dal modo col quale i suoi genitori (o altre figure genitoriali) lo trattano. Queste prove derivano da un grande numero di studi sistematici, molti dei quali longitudinali: per esempio gli studi sullo sviluppo sociale ed emotivo durante i primi cinque anni di vita, iniziati da Ainsworth (in corso di stampa), e notevolmente ampliati da Main e Sroufe; gli studi sugli effetti del lutto nei bambini, per esempio di Raphael (1983) e di Brown e Harris (1978); gli studi catamnestici sui bambini allevati nelle istituzioni; e così via. Tra le pubblicazioni più recenti vanno ricordate quelle di Bretherton e Waters (in corso di stampa) Emde e Harmon (1984), Stern (1985), Rutter (1981), e Bowlby (1982, 1984, 1985).
Oggi siamo riusciti a identificare in modo attendibile tre principali modalità di attaccamento, e con esse le condizioni delle famiglie che le promuovono. Una prima modalità è la modalità di attaccamento sicuro, nella quale l'individuo è fiducioso che il suo genitore (o figura genitoriale), sarà disponibile, sensibile e di aiuto nel caso egli andasse incontro a situazioni avverse o terrorizzanti. Con questo tipo di rassicurazione, il bambino si sente coraggioso nelle sue esplorazioni del mondo circostante. Questa modalità è promossa da un genitore, nei primi anni in particolare dalla madre, con l'essere prontamente disponibile, sensibile ai segnali del suo bambino e capace di rispondergli amorevolmente quando egli cerca protezione e/o sicurezza.
Una seconda modalità è quella dell'attaccamento ansioso-ambivalente, nella quale l'individuo non è sicuro che il genitore sarà disponibile, o sensibile, o di aiuto in caso di bisogno. A causa di questa insicurezza, egli è soggetto a manifestare angoscia di separazione, tende ad essere sempre avvinghiato alla madre (clinging), ed è ansioso nelle sue esplorazioni del mondo. Questa modalità è causata da un genitore che è disponibile e di aiuto in certe occasioni, ma non in altre, nonché da separazioni e specialmente da minacce di abbandono usate a scopo di controllo.
Una terza modalità è quella dell'attaccamento ansioso-evitante, in cui l'individuo non si aspetta, quando cerca assistenza, di essere aiutato, ma al contrario si aspetta di essere respinto. Tale individuo cerca di vivere la sua vita senza l'amore e il supporto degli altri. Egli cerca di diventare emotivamente autosufficiente, e può essere diagnosticato come «narcisista», o come dotato di un «falso sé». Questa modalità è il risultato di un costante atteggiamento di rifiuto da parte della madre quando egli le si avvicina per ottenere protezione o conforto. I casi più gravi sono il risultato di rifiuti ripetuti, di maltrattamenti o di una prolungata istituzionalizzazione.
Gli studi longitudinali hanno dimostrato che queste modalità di attaccamento, una volta instauratesi, tendono a permanere nel tempo.
Questo è perché il modo con cui un genitore tratta un bambino, nel bene o nel male, tende a continuare immodificato, e anche perché ogni modalità tende a perpetuarsi. Così un bambino sicuro di sé è un bambino più felice e più gratificante quando ci si prende cura di lui, e anche meno esigente di uno ansioso. Un bambino ansioso-ambivalente invece tende ad essere piagnucoloso e appiccicoso; mentre un bambino ansioso-evitante si tiene a distanza e tende a tiranneggiare gli altri bambini. In ciascuno di questi casi il comportamento del bambino ha buone probabilità di stimolare una risposta sfavorevole dal genitore, cosicché si instaurano dei circoli viziosi.
Sebbene per queste ragioni le modalità di attaccamento, una volta formate, tendano a permanere nel tempo, non è necessariamente così in tutti i casi. L'evidenza mostra che durante i primi due o tre anni di vita la modalità di attaccamento è una proprietà della relazione, per esempio quella verso la madre può essere diversa da quella verso il padre, e mostra anche che se il genitore cambia il suo modo di trattare il bambino, cambierà anche, conseguentemente, la modalità di attaccamento.
Più passa il tempo, comunque, più la modalità di attaccamento diventa una caratteristica del bambino stesso, il che significa che questi tenderà ad imporla nelle nuove relazioni, quali quelle con un insegnante o con una madre adottiva.
Durante il corso dello sviluppo noi costruiamo nella nostra mente dei modelli di rappresentazione del nostro ambiente ed anche di noi stessi come figure agenti all'interno di esso. Tra i vari elementi di questo ambiente sia fisico che sociale del bambino, nulla è più importante per lui dei suoi genitori e del modo come essi di solito lo trattano. Il modello mentale che rappresenta la madre e il suo modo di comportarsi verso di lui, e l'analogo modello del padre, vengono costruiti dal bambino durante i primi due anni di vita sulla base delle sue concrete esperienze di vita. Allo stesso modo, egli costruisce un modello di se stesso riguardo sia alle sue capacità fisiche di azione che alle sue capacità sociali di interazione.
Questi modelli poi regolano il modo con cui egli si sente nei confronti dei genitori e di se stesso, con cui egli si aspetta che ciascuno di loro lo tratti, e con cui egli si comporterà verso di loro. L'esperienza mostra che questi modelli dei genitori e di sé nella interazione, una volta costruiti, hanno un'alta probabilità di essere presi per veri, e le modalità di interazione a cui portano diventano abituali e in gran parte inconsce. Essi così tendono a permanere invariati persino quando l'individuo si trova di fronte a circostanze del tutto differenti. Una cosa che influenza fortemente la loro persistenza è il comportamento di un genitore il quale, non avendo fornito per qualunque motivo al figlio una assistenza adeguata e sicura, distorca la realtà affermando che la causa di tutti gli attriti tra lui e il figlio risiede nelle deficienze del figlio stesso, e che i genitori di per se stessi non hanno alcuna colpa. Quando questo messaggio viene dato a un bambino con tutta l'autorità di un genitore e ripetutamente durante gli anni dell'infanzia, inevitabilmente il bambino cresce con una immagine di se stesso falsamente negativa. Portati avanti nella vita adulta, questi falsi modelli possono condurre a interazioni con potenziali amici o amanti, le quali, siccome sono basate su assunzioni inconsce ed errate, con tutta probabilità provocano fraintendimenti, fallimenti e sofferenze.
Principi di psicoterapia
La teoria della psicopatologia e dello sviluppo della personalità appena descritta può essere usata per guidare ciascuna delle tre principali forme di psicoterapia analitica oggi esistenti: la terapia individuale, familiare e di gruppo. In questa sede io parlerò solo della prima.
L'analista che applica la teoria dell'attaccamento vede come suo compito quello di fornire le condizioni in cui il suo paziente possa esplorare i modelli di rappresentazione di se stesso e delle sue figure di attaccamento in modo che possa rivederle alla luce di nuove esperienze e nuove evidenze. Il ruolo dell'analista può essere descritto elencando sinteticamente quattro compiti principali. Il primo è quello di fornire al paziente una base sicura dalla quale egli possa esplorare i vari aspetti infelici o dolorosi, della sua vita, passata e presente, molti dei quali per lui sono difficili persino da pensare senza la presenza di un compagno fidato che gli fornisca supporto ed incoraggiamento.
Il secondo è quello di assistere il paziente nelle sue esplorazioni incoraggiandolo a prendere in considerazione i modi con i quali egli instaura relazioni con le figure significative della sua vita, quali sono le sue aspettative verso i sentimenti e i comportamenti propri e altrui, quali pregiudizi lo possono portare a scegliere una determinata persona con la quale egli spera di instaurare una relazione intima, e a creare situazioni a lui sfavorevoli.
Il terzo compito dell'analista è quello di incoraggiare il paziente ad esaminare una relazione particolare, quella tra loro due, e cioè la relazione di transfert, nella quale quasi certamente il paziente trasferisce tutte quelle percezioni e aspettative derivate dai modelli di rappresentazione dei genitori e di se stesso, ovvero dalle sue precedenti modalità di attaccamento.
Il quarto compito è quello di incoraggiare il paziente a considerare come le sue attuali percezioni ed aspettative possono essere prodotte da situazioni incontrate durante l'infanzia e l'adolescenza, specialmente nel rapporto con i suoi genitori.
Sebbene durante il trattamento vi sia un rapido passaggio tra un compito e l'altro e si facciano collegamenti tra di essi, può essere utile considerarli uno alla volta. Il ruolo dell'analista nel fornire al paziente una base sicura è analogo a quello di una madre che fornisce al suo bambino una base sicura. L'analista cerca di essere attendibile, sensibile e attento e, per quanto gli è possibile, di vedere il mondo attraverso gli occhi del paziente, cioè di essere empatico. Nello stesso tempo egli è consapevole che il paziente, a causa delle sue avverse esperienze passate, può credere che l'analista non sia degno di fiducia, ma invece fraintendere o equivocare quello che l'analista dice o fa. Tra le molte difficoltà che un paziente può avere nel collaborare al trattamento vi è l'aspettativa che l'analista lo respingerà, lo umilierà, lo punirà o lo abbandonerà o che lo sfrutterà.
Non solo, ma se i genitori hanno più volte detto al paziente di non parlare mai con nessuno delle sofferenze vissute all'interno della famiglia, egli avrà molta difficoltà a parlarne con l'analista, o persino a ricordarle. Inoltre, se in passato il paziente si è trovato di fronte a costanti rifiuti da parte di una figura di attaccamento alla quale egli si era rivolto per ottenere aiuto quand'era in difficoltà, egli, consciamente o inconsciamente, anticiperà un rifiuto da parte dell'analista se per caso si dovesse trovare in difficoltà e avere bisogno di aiuto. L'analista, soltanto quando è consapevole della profonda e radicata paura del paziente di essere respinto o umiliato, può capire perché questi inibisce le lacrime e tutte le espressioni di sofferenza quando ricorda gli eventi e le situazioni che gli dovevano aver causato in quel momento il più grande dolore e terrore.
In questa breve esposizione che ho fatto, vari analisti riconosceranno aspetti che sono a loro molto familiari, anche se spesso chiamati con nomi diversi. L'alleanza terapeutica è equivalente a una base sicura, un oggetto interno è un modello rappresentazionale di una figura di attaccamento, la ricostruzione è l'esplorazione dei ricordi del passato, la resistenza (a volte) è la profonda riluttanza a disobbedire ad antiche ingiunzioni a non parlare, provenienti dai genitori. Tra le differenze vi è l'enfasi posta sul ruolo dell'analista come compagno per il proprio paziente nella esplorazione di se stesso e delle sue esperienze, e meno sull'analista che fornisce interpretazioni al paziente. Il paziente viene incoraggiato a vedere che, con aiuto e supporto, può scoprire da solo la vera natura dei modelli che guidano i suoi pensieri, sentimenti e azioni e che, esaminando la natura delle sue esperienze precedenti con i genitori o con i sostituti genitoriali, egli capirà cosa lo ha portato a costruire quei modelli ora attivi all'interno di lui. Un compito ulteriore per il paziente è quello di riconsiderare l'adeguatezza di quei modelli per le situazioni nelle quali al presente si trova e per le esperienze che egli ora può avere, e di modificare i modelli nei modi che egli ritiene ora i più appropriati.
Una parte del lavoro dell'analista è quella di permettere al paziente di avere pensieri che gli erano stati in precedenza proibiti dai suoi genitori, di provare sentimenti in precedenza disprezzati e di considerare la possibilità di compiere azioni in precedenza giudicate imperdonabili. Un'altra parte del lavoro dell'analista è di assistere il suo paziente nel ricordare terrorizzanti o disturbanti eventi dei suoi primi anni di vita, aprendo nuove possibilità alla luce della sua conoscenza dei comportamenti dei genitori che egli ora sa che contribuirono a creare i problemi per i quali soffre. Per essere a conoscenza di tutte quelle nuove informazioni che stanno rendendosi disponibili, grazie a sistematici studi longitudinali. Sfortunatamente, molti analisti oggi non solo ignorano i risultati di queste ricerche, ma non sono neanche a conoscenza della loro esistenza. Inoltre, a causa della lunga tradizione psicoanalitica secondo la quale viene data molta enfasi al ruolo della fantasia, fino alla virtuale esclusione dei fatti reali della vita, molti analisti sono prevenuti dall'accettarli quando ne vengono a conoscenza.
In questa breve esposizione ho messo a fuoco (usando un linguaggio tecnico) i principi che credo dovrebbero guidare un analista e poco ho detto sulle modalità con cui questi principi dovrebbero essere applicati nella pratica (usando il linguaggio della vita di tutti i giorni).
Questa, io credo, è un'arte che ogni analista deve acquisire a modo suo, in parte imparando da chi ha più esperienza, ma imparando ancora di più, forse, dalle esplorazioni che egli intraprende con i suoi pazienti.
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