RIASSUNTO
L’articolo si propone di delineare alcuni aspetti della relazione intercorrente tra osservazione e teorizzazione in ambito scientifico in merito al concetto del cosiddetto ‘fatto scientifico’, ovvero del dato che lo scienziato ricava dalle proprie osservazioni, e del ruolo dello scienziato assume rispetto all’emergere di tale ‘fatto’.
PAROLE CHIAVE
epistemologia; psicologia; scienza
SUMMARY
The article aims to outline some aspects of the relationship between observation and theory in science with regard to the concept of the so-called ' scientific fact ', or as the scientist obtained from their observations, and the role of the scientist takes over the emergence of this ' fact '.
KEY WORDS
epistemology; psychology; science
Il presente contributo si propone di tratteggiare alcuni aspetti del cambiamento avvenuto nell’epistemologia della scienza attraverso il passaggio dal metodo ‘induttivo’ baconiano al metodo ‘ipotetico-deduttivo’ popperiano, in merito alla configurazione del cosiddetto ‘fatto scientifico’, ovvero del dato che lo scienziato ricava dalle proprie osservazioni, e del ruolo dello scienziato assume rispetto all’emergere di tale ‘fatto’.
Al tal fine, si ritiene necessario considerare che l’epistemologia concerne il discorso generale sulla conoscenza, in quanto si occupa del ‘fondamento’, ovvero dell’apparato conoscitivo utilizzato per fondare un discorso stabilendone i criteri di validità scientifica; con il termine ‘epistemologia’, dunque, si fa riferimento al discorso sul fondamento dell’atto conoscitivo, ossia all’orizzonte paradigmatico entro il quale si situa la conoscenza[1].
In tal senso, pertanto, si rileva come l’epistemologia non entra nel merito dei contenuti che vengono riferiti agli oggetti di conoscenza, bensì riguarda le modalità attraverso le quali essi vengono conosciuti[2], consentendo di delineare i confini entro cui un atto conoscitivo può essere considerato scientifico.
A fronte di tale premessa si rende possibile rilevare come, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, l’atteggiamento epistemologico dominante nella comunità scientifica abbracciava la concezione baconiana di metodo scientifico.
Secondo F. Bacon la condizione necessaria per un’osservazione fattuale dei fenomeni è l’esclusione programmatica di qualunque “pregiudizio” e di qualsiasi idea “pre-concetta”, ovvero di conoscenze precedenti tali da inficiare l’osservazione e, di conseguenza, l’obiettività della descrizione del fenomeno oggetto di indagine scientifica.
In tal senso, la concezione baconiana di ‘tabula rasa’, consistente nel proporre allo scienziato di ‘purgare’ la mente da tutte le idee preconcette, era concepita come l’unico modo rigoroso per accostarsi al mondo naturale. Quest’ultimo si sarebbe quindi offerto alla mente ‘sgombera’ dello scienziato come un libro aperto, ed egli avrebbe potuto descriverne le caratteristiche nei minimi dettagli (Turchi G.P., Perno A., 2002).
Entro tale ottica, spiccatamente anti-teoreticista, l’osservazione del fenomeno doveva consistere in una sorta di ‘fotografia’, di ‘registrazione’ dei fatti, priva delle idee e delle argomentazioni razionali dello scienziato.
In conseguenza di tale posizione, a livello metodologico, si riteneva che nel suo lavoro lo scienziato partisse sempre dall’esperienza diretta per arrivare poi, attraverso una logica induttiva, alla formulazione di asserti a carattere generale, coerentemente ai dettami del metodo ‘induttivo’ baconiano.
A fronte di quanto delineato relativamente alla concezione baconiana di metodo scientifico, si rende ora possibile presentare alcuni aspetti del cambiamento avvenuto nell’epistemologia della scienza.
A tal fine si rileva come dai primi decenni del 1900, nell’ambito del movimento filosofico neopositivista, il ‘fatto scientifico’, che fino ad allora era stato considerato intuitivo (ovvero autoevidente), fu indagato con maggiore attenzione, sollevando una riflessione epistemologica sulla natura stessa di tale ‘fatto scientifico’.
In tale direzione, negli anni ’60 il filosofo viennese K. Popper si contrappose all’atteggiamento metodologico sopra delineato e, rendendosi conto dell’impossibilità da parte dell’osservatore di effettuare descrizioni fattuali dei fenomeni in assenza di riferimenti teorici, ovvero in assenza di conoscenze precedenti al momento dell’osservazione, propose un metodo differente da quello induttivo baconiano, definito ‘ipotetico-deduttivo’ (Popper K.R., 1969).
Si verificò dunque ciò che T. S. Kuhn definisce “rivoluzione scientifica”.
Nel celebre saggio “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”(1969), divenuto una pietra miliare nella riflessione epistemologica moderna, Kuhn pone in luce come la scienza non progredisce secondo un andamento lineare, bensì attraverso ‘scarti’ tra paradigmi diversi.
Per ‘paradigma’ Kuhn intende un ‘modo di conoscere’, il quale fornisce “gli elementi di cornice per mezzo dei quali si può produrre conoscenza: gli elementi, le categorie e i punti di riferimento entro i quali si conosce”(Kuhn T.S., 1969).
Un paradigma, dunque, fornisce le assunzioni su cui si basa e si costruisce la conoscenza relativa all’oggetto di indagine, ovvero comporta una configurazione della realtà ed una definizione delle metodologie utilizzate per conoscerla.
In virtù di ciò, scegliere di fare riferimento ad un paradigma piuttosto che ad un altro implica individuare un peculiare sistema di riferimento attraverso cui organizzare la conoscenza, ossia “individuare un ‘mondo’ anziché un altro”.
Nell’opera sopra citata, Kuhn evidenzia come quando il paradigma egemone non riesce a dare risposte adeguate a problemi che restano insoluti (ovvero a ciò che l’autore definisce “anomalie”), si manifesta una fase di ‘crisi del paradigma’, a cui segue la costruzione di paradigmi diversi, alternativi al paradigma dominante, la cui validità sarà valutata dalla comunità scientifica.
In tal senso, l’autore rileva come lo sviluppo storico della scienza avviene attraverso il susseguirsi di periodi di “scienza normale”, contrapposti ad altri di “scienza straordinaria”.
A fronte di quanto testé considerato, dunque, emerge come nella nuova prospettiva di K. Popper ciò che muta profondamente rispetto alla concezione baconiana è il ruolo dello scienziato, il quale, inevitabilmente, si colloca in una posizione ‘disincantata’ e attiva nel momento dell’osservazione del fenomeno.
In tal senso, dunque, si rileva come secondo Popper una mente purgata da ogni pregiudizio non è una mente pura né tantomeno una mente che può accostarsi allo studio della natura, viceversa una mente sgombera da ogni aspettativa o pregiudizio non sarà altro che una mente vuota, incapace di intraprendere qualsivoglia osservazione (Turchi G.P., Perno A., 2002).
Nella riflessione popperiana, quindi, la ricerca non può partire da una mente completamente ‘svuotata’, ovvero “l’osservazione non è più considerata il ‘primum movens’ di ogni indagine, proprio perché l’occhio ingenuo non vede nulla”(ibidem).
A fronte di tali presupposti, si evidenzia come il metodo ipotetico-deduttivo capovolge la sequenza in base a cui lo scienziato è primariamente coinvolto nell’osservazione, in virtù della quale, soltanto successivamente ed attraverso un processo induttivo, egli perviene alla formulazione di asserti generali costituiti dalle leggi e dalle teorie.
Alla luce di quanto testé esposto, ed in riferimento a quanto avviene a livello metodologico in ambito medico, si ritiene importante considerare che nella clinica medica è ben conosciuto lo stato di ‘impasse’ in cui si trova il diagnosta privo di un’ipotesi per organizzare gli elementi sintomatologici presentati dal paziente, in quanto in assenza di un’ipotesi (ovvero di una preconoscenza teorica) tali elementi non esprimono alcun significato.
In merito a ciò, assume rilevanza evidenziare che se il medico si avvicinasse al paziente senza ipotesi per organizzare e interpretare le informazioni semeiologiche, egli non potrebbe attribuire loro alcun tipo di significato e, quindi, non sarebbe in grado di formulare alcuna diagnosi; in conseguenza di ciò, pertanto, non si renderebbe possibile mettere in atto gli interventi finalizzati alla guarigione. Quindi il medico, come lo scienziato, non si avvicina al paziente con la mente ‘vuota’, ossia sprovvista di ipotesi, bensì “la mente del medico è una mente da medico”(Antiseri, Federspil, Scandellari, 2003).
Sulla base di quanto evidenziato, quindi, si evince come il ‘fatto scientifico’ (ossia le rilevazioni semeiologiche) che emerge dall’osservazione del clinico non può essere considerato un ‘dato grezzo’, un ente naturale fotografato in maniera neutrale e oggettiva dallo sguardo ingenuo dell’osservatore, proprio in virtù del fatto che l’‘osservazione’ di un fenomeno risulta necessariamente inseparabile e interdipendente dall’‘interpretazione’ del fenomeno stesso[3].
Viceversa, il ‘fatto scientifico’ risulta essere un ‘ente teorico’, il quale “occupa un preciso posto all’interno di un altrettanto preciso discorso, ed è inoltre tutt’altro che imperituro, tutt’altro che definitivo […] esso è qualcosa di cui si predicano attributi e relazioni ma questi attributi e relazioni sono predicati, cioè concetti, che figurano entro precise teorie […] le teorie mutano, alcune scompaiono, altre vengono modificate, altre ancora vengono all’esistenza; ecco per quale motivo i fatti mutano, in un costante processo di costruzione, di parziale o totale ri-costruzione, di eliminazione”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
In termini metaforici, dunque, la ‘mappa’, ovvero la teoria prodotta dallo scienziato, non coincide con il ‘territorio’, con la cosiddetta realtà; inoltre, a prescindere che tale ‘territorio’, inteso come “realtà prima o senza le nostre menti interpretanti”(Antiseri D., 1999), venga dagli scienziati considerato come realmente esistente, esso comunque non sarà mai conoscibile al di fuori delle categorie impiegate per costruirlo ed interpretarlo[4].
In tale prospettiva, quindi, si rende possibile sostenere che “se è adeguato affermare che nessuna teoria è luogo di certezza definitiva, allora è necessario riconsiderare il fatto che possano esistere descrizioni fattuali, neutrali e oggettive che rappresentano le prove indiscutibili delle nostre teorie”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
A fronte di quanto esposto nel presente contributo, pertanto, emerge come l’analisi epistemologica contemporanea ha rifiutato la visione osservatista della scienza ottocentesca ed ha riconosciuto la necessità e l’ineliminabilità del ruolo della teorizzazione nella conoscenza scientifica.
Emerge infatti come il ‘dato’, il ‘fatto scientifico’, non è separabile dalla teoria che lo costruisce e lo interpreta, viceversa si configura come costruzione e ri-costruzione teorica, culturale, ossia esso è inteso come “necessariamente imbrattato di teoria”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
In tal senso, i ‘fatti’ non sono più definiti come se fossero ‘enti’, bensì vengono considerati ‘artefatti’, ovvero “concetti che di continuo sono ripensati e quindi ri-fatti attraverso demolizioni e ricostruzioni concettuali”(ibidem).
Parallelamente a ciò, la teoria, lontano dall’essere una ‘fotografia’ della natura, si configura come una modalità attraverso la quale il ‘fatto’ viene visto e interpretato, attraverso il linguaggio metaforico della medesima teoria.
Si rende rilevante considerare, inoltre, come attualmente, in ambito medico, l’analisi epistemologica ha ridefinito in maniera coerente alla prospettiva presentata anche il concetto di ‘malattia’, sostenendo che “le malattie sono concetti che non discendono, come tali, immediatamente dalla nostra esperienza. Sono modelli esplicativi della realtà più che elementi costitutivi di essa”(Grmek M., 1993).
Attualmente, infine, il concetto di ‘diagnosi’, come precedentemente esplicitato, viene concettualizzato come ‘riconoscimento’, ovvero come messa in evidenza di ciò che si è già conosciuto, dove per conosciuto si deve quindi intendere ciò che è stato socialmente costruito; in tale ottica, quindi, si ritiene che la prassi diagnostica, lontano dall’essere frutto di mera induzione, si fonda su una preconoscenza teorica, dunque “rispecchia in ogni tempo lo stato delle nostre conoscenze di patologia”(Debenedetti E., 2001).
L’articolo si propone di delineare alcuni aspetti della relazione intercorrente tra osservazione e teorizzazione in ambito scientifico in merito al concetto del cosiddetto ‘fatto scientifico’, ovvero del dato che lo scienziato ricava dalle proprie osservazioni, e del ruolo dello scienziato assume rispetto all’emergere di tale ‘fatto’.
PAROLE CHIAVE
epistemologia; psicologia; scienza
SUMMARY
The article aims to outline some aspects of the relationship between observation and theory in science with regard to the concept of the so-called ' scientific fact ', or as the scientist obtained from their observations, and the role of the scientist takes over the emergence of this ' fact '.
KEY WORDS
epistemology; psychology; science
Il presente contributo si propone di tratteggiare alcuni aspetti del cambiamento avvenuto nell’epistemologia della scienza attraverso il passaggio dal metodo ‘induttivo’ baconiano al metodo ‘ipotetico-deduttivo’ popperiano, in merito alla configurazione del cosiddetto ‘fatto scientifico’, ovvero del dato che lo scienziato ricava dalle proprie osservazioni, e del ruolo dello scienziato assume rispetto all’emergere di tale ‘fatto’.
Al tal fine, si ritiene necessario considerare che l’epistemologia concerne il discorso generale sulla conoscenza, in quanto si occupa del ‘fondamento’, ovvero dell’apparato conoscitivo utilizzato per fondare un discorso stabilendone i criteri di validità scientifica; con il termine ‘epistemologia’, dunque, si fa riferimento al discorso sul fondamento dell’atto conoscitivo, ossia all’orizzonte paradigmatico entro il quale si situa la conoscenza[1].
In tal senso, pertanto, si rileva come l’epistemologia non entra nel merito dei contenuti che vengono riferiti agli oggetti di conoscenza, bensì riguarda le modalità attraverso le quali essi vengono conosciuti[2], consentendo di delineare i confini entro cui un atto conoscitivo può essere considerato scientifico.
A fronte di tale premessa si rende possibile rilevare come, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, l’atteggiamento epistemologico dominante nella comunità scientifica abbracciava la concezione baconiana di metodo scientifico.
Secondo F. Bacon la condizione necessaria per un’osservazione fattuale dei fenomeni è l’esclusione programmatica di qualunque “pregiudizio” e di qualsiasi idea “pre-concetta”, ovvero di conoscenze precedenti tali da inficiare l’osservazione e, di conseguenza, l’obiettività della descrizione del fenomeno oggetto di indagine scientifica.
In tal senso, la concezione baconiana di ‘tabula rasa’, consistente nel proporre allo scienziato di ‘purgare’ la mente da tutte le idee preconcette, era concepita come l’unico modo rigoroso per accostarsi al mondo naturale. Quest’ultimo si sarebbe quindi offerto alla mente ‘sgombera’ dello scienziato come un libro aperto, ed egli avrebbe potuto descriverne le caratteristiche nei minimi dettagli (Turchi G.P., Perno A., 2002).
Entro tale ottica, spiccatamente anti-teoreticista, l’osservazione del fenomeno doveva consistere in una sorta di ‘fotografia’, di ‘registrazione’ dei fatti, priva delle idee e delle argomentazioni razionali dello scienziato.
In conseguenza di tale posizione, a livello metodologico, si riteneva che nel suo lavoro lo scienziato partisse sempre dall’esperienza diretta per arrivare poi, attraverso una logica induttiva, alla formulazione di asserti a carattere generale, coerentemente ai dettami del metodo ‘induttivo’ baconiano.
A fronte di quanto delineato relativamente alla concezione baconiana di metodo scientifico, si rende ora possibile presentare alcuni aspetti del cambiamento avvenuto nell’epistemologia della scienza.
A tal fine si rileva come dai primi decenni del 1900, nell’ambito del movimento filosofico neopositivista, il ‘fatto scientifico’, che fino ad allora era stato considerato intuitivo (ovvero autoevidente), fu indagato con maggiore attenzione, sollevando una riflessione epistemologica sulla natura stessa di tale ‘fatto scientifico’.
In tale direzione, negli anni ’60 il filosofo viennese K. Popper si contrappose all’atteggiamento metodologico sopra delineato e, rendendosi conto dell’impossibilità da parte dell’osservatore di effettuare descrizioni fattuali dei fenomeni in assenza di riferimenti teorici, ovvero in assenza di conoscenze precedenti al momento dell’osservazione, propose un metodo differente da quello induttivo baconiano, definito ‘ipotetico-deduttivo’ (Popper K.R., 1969).
Si verificò dunque ciò che T. S. Kuhn definisce “rivoluzione scientifica”.
Nel celebre saggio “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”(1969), divenuto una pietra miliare nella riflessione epistemologica moderna, Kuhn pone in luce come la scienza non progredisce secondo un andamento lineare, bensì attraverso ‘scarti’ tra paradigmi diversi.
Per ‘paradigma’ Kuhn intende un ‘modo di conoscere’, il quale fornisce “gli elementi di cornice per mezzo dei quali si può produrre conoscenza: gli elementi, le categorie e i punti di riferimento entro i quali si conosce”(Kuhn T.S., 1969).
Un paradigma, dunque, fornisce le assunzioni su cui si basa e si costruisce la conoscenza relativa all’oggetto di indagine, ovvero comporta una configurazione della realtà ed una definizione delle metodologie utilizzate per conoscerla.
In virtù di ciò, scegliere di fare riferimento ad un paradigma piuttosto che ad un altro implica individuare un peculiare sistema di riferimento attraverso cui organizzare la conoscenza, ossia “individuare un ‘mondo’ anziché un altro”.
Nell’opera sopra citata, Kuhn evidenzia come quando il paradigma egemone non riesce a dare risposte adeguate a problemi che restano insoluti (ovvero a ciò che l’autore definisce “anomalie”), si manifesta una fase di ‘crisi del paradigma’, a cui segue la costruzione di paradigmi diversi, alternativi al paradigma dominante, la cui validità sarà valutata dalla comunità scientifica.
In tal senso, l’autore rileva come lo sviluppo storico della scienza avviene attraverso il susseguirsi di periodi di “scienza normale”, contrapposti ad altri di “scienza straordinaria”.
A fronte di quanto testé considerato, dunque, emerge come nella nuova prospettiva di K. Popper ciò che muta profondamente rispetto alla concezione baconiana è il ruolo dello scienziato, il quale, inevitabilmente, si colloca in una posizione ‘disincantata’ e attiva nel momento dell’osservazione del fenomeno.
In tal senso, dunque, si rileva come secondo Popper una mente purgata da ogni pregiudizio non è una mente pura né tantomeno una mente che può accostarsi allo studio della natura, viceversa una mente sgombera da ogni aspettativa o pregiudizio non sarà altro che una mente vuota, incapace di intraprendere qualsivoglia osservazione (Turchi G.P., Perno A., 2002).
Nella riflessione popperiana, quindi, la ricerca non può partire da una mente completamente ‘svuotata’, ovvero “l’osservazione non è più considerata il ‘primum movens’ di ogni indagine, proprio perché l’occhio ingenuo non vede nulla”(ibidem).
A fronte di tali presupposti, si evidenzia come il metodo ipotetico-deduttivo capovolge la sequenza in base a cui lo scienziato è primariamente coinvolto nell’osservazione, in virtù della quale, soltanto successivamente ed attraverso un processo induttivo, egli perviene alla formulazione di asserti generali costituiti dalle leggi e dalle teorie.
Alla luce di quanto testé esposto, ed in riferimento a quanto avviene a livello metodologico in ambito medico, si ritiene importante considerare che nella clinica medica è ben conosciuto lo stato di ‘impasse’ in cui si trova il diagnosta privo di un’ipotesi per organizzare gli elementi sintomatologici presentati dal paziente, in quanto in assenza di un’ipotesi (ovvero di una preconoscenza teorica) tali elementi non esprimono alcun significato.
In merito a ciò, assume rilevanza evidenziare che se il medico si avvicinasse al paziente senza ipotesi per organizzare e interpretare le informazioni semeiologiche, egli non potrebbe attribuire loro alcun tipo di significato e, quindi, non sarebbe in grado di formulare alcuna diagnosi; in conseguenza di ciò, pertanto, non si renderebbe possibile mettere in atto gli interventi finalizzati alla guarigione. Quindi il medico, come lo scienziato, non si avvicina al paziente con la mente ‘vuota’, ossia sprovvista di ipotesi, bensì “la mente del medico è una mente da medico”(Antiseri, Federspil, Scandellari, 2003).
Sulla base di quanto evidenziato, quindi, si evince come il ‘fatto scientifico’ (ossia le rilevazioni semeiologiche) che emerge dall’osservazione del clinico non può essere considerato un ‘dato grezzo’, un ente naturale fotografato in maniera neutrale e oggettiva dallo sguardo ingenuo dell’osservatore, proprio in virtù del fatto che l’‘osservazione’ di un fenomeno risulta necessariamente inseparabile e interdipendente dall’‘interpretazione’ del fenomeno stesso[3].
Viceversa, il ‘fatto scientifico’ risulta essere un ‘ente teorico’, il quale “occupa un preciso posto all’interno di un altrettanto preciso discorso, ed è inoltre tutt’altro che imperituro, tutt’altro che definitivo […] esso è qualcosa di cui si predicano attributi e relazioni ma questi attributi e relazioni sono predicati, cioè concetti, che figurano entro precise teorie […] le teorie mutano, alcune scompaiono, altre vengono modificate, altre ancora vengono all’esistenza; ecco per quale motivo i fatti mutano, in un costante processo di costruzione, di parziale o totale ri-costruzione, di eliminazione”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
In termini metaforici, dunque, la ‘mappa’, ovvero la teoria prodotta dallo scienziato, non coincide con il ‘territorio’, con la cosiddetta realtà; inoltre, a prescindere che tale ‘territorio’, inteso come “realtà prima o senza le nostre menti interpretanti”(Antiseri D., 1999), venga dagli scienziati considerato come realmente esistente, esso comunque non sarà mai conoscibile al di fuori delle categorie impiegate per costruirlo ed interpretarlo[4].
In tale prospettiva, quindi, si rende possibile sostenere che “se è adeguato affermare che nessuna teoria è luogo di certezza definitiva, allora è necessario riconsiderare il fatto che possano esistere descrizioni fattuali, neutrali e oggettive che rappresentano le prove indiscutibili delle nostre teorie”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
A fronte di quanto esposto nel presente contributo, pertanto, emerge come l’analisi epistemologica contemporanea ha rifiutato la visione osservatista della scienza ottocentesca ed ha riconosciuto la necessità e l’ineliminabilità del ruolo della teorizzazione nella conoscenza scientifica.
Emerge infatti come il ‘dato’, il ‘fatto scientifico’, non è separabile dalla teoria che lo costruisce e lo interpreta, viceversa si configura come costruzione e ri-costruzione teorica, culturale, ossia esso è inteso come “necessariamente imbrattato di teoria”(Turchi G.P., Perno A., 2002).
In tal senso, i ‘fatti’ non sono più definiti come se fossero ‘enti’, bensì vengono considerati ‘artefatti’, ovvero “concetti che di continuo sono ripensati e quindi ri-fatti attraverso demolizioni e ricostruzioni concettuali”(ibidem).
Parallelamente a ciò, la teoria, lontano dall’essere una ‘fotografia’ della natura, si configura come una modalità attraverso la quale il ‘fatto’ viene visto e interpretato, attraverso il linguaggio metaforico della medesima teoria.
Si rende rilevante considerare, inoltre, come attualmente, in ambito medico, l’analisi epistemologica ha ridefinito in maniera coerente alla prospettiva presentata anche il concetto di ‘malattia’, sostenendo che “le malattie sono concetti che non discendono, come tali, immediatamente dalla nostra esperienza. Sono modelli esplicativi della realtà più che elementi costitutivi di essa”(Grmek M., 1993).
Attualmente, infine, il concetto di ‘diagnosi’, come precedentemente esplicitato, viene concettualizzato come ‘riconoscimento’, ovvero come messa in evidenza di ciò che si è già conosciuto, dove per conosciuto si deve quindi intendere ciò che è stato socialmente costruito; in tale ottica, quindi, si ritiene che la prassi diagnostica, lontano dall’essere frutto di mera induzione, si fonda su una preconoscenza teorica, dunque “rispecchia in ogni tempo lo stato delle nostre conoscenze di patologia”(Debenedetti E., 2001).
[1] Il termine ‘epistemologia’, derivante dal greco ‘epistéme’, conoscenza, e ‘logos’, discorso, può essere definito come “la branca della teoria generale della conoscenza che si occupa di problemi quali i fondamenti, i limiti, la natura e le condizioni di validità del sapere scientifico […]; è lo studio dei criteri generali che permettono di distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione tipici delle costruzioni metafisiche e religiose, delle valutazioni etiche”(Enciclopedia Garzanti di filosofia, 1981).
[2]Conoscere un ‘oggetto di conoscenza’ equivale a generarlo, in quanto è attraverso la conoscenza che si configura la realtà: “il come si conosce stabilisce il cosa si conosce”(Salvini A., 1998).
[3]Come evidenzia Baldini (1975), “il medico di fronte al paziente non effettua tutte le osservazioni possibili, bensì solo quelle che ritiene rilevanti alla luce delle conoscenze mediche che già possiede, e delle ipotesi diagnostiche che in quel momento formula” (Baldini M., Epistemologia contemporanea e clinica medica, Città di Vita, 1975).
In tal senso, quindi, lontano dall’essere frutto di mera induzione, ovvero prodotto di una descrizione fattuale, oggettiva, priva dei riferimenti teorici e dell’influenza della soggettività del medico, il 'fatto scientifico' nella diagnosi risulta al contrario 'fatto' dal medico e dalle teorie, dalle conoscenze che egli già possiede e che costruiscono il fatto scientifico, predicandone attributi e relazioni.
In tal senso, quindi, lontano dall’essere frutto di mera induzione, ovvero prodotto di una descrizione fattuale, oggettiva, priva dei riferimenti teorici e dell’influenza della soggettività del medico, il 'fatto scientifico' nella diagnosi risulta al contrario 'fatto' dal medico e dalle teorie, dalle conoscenze che egli già possiede e che costruiscono il fatto scientifico, predicandone attributi e relazioni.
[4]In termini metaforici, quindi, sottratte le ‘mappe’ conoscitive della ragione non rimane alcun ‘territorio’ conoscibile, in quanto “la costruzione di una mappa fa sì che il territorio perda il suo carattere di insieme incoerente di fenomeni o di cose, entrando nei domini della ragione: tuttavia, pur essendo postulato come realtà esso rimane inaccessibile. Per il realista interno (o ipotetico) la realtà del territorio è legata alle regole di traduzione, selettive e parziali, che una mappa porta con sé” (Salvini A., 1998).
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