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L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTA – PRIMO SAGGIO, 1938 (Traduzione di Antonello Sciacchitano)

22 Feb 21

Di Sigmund-Freud

Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 107. (Traduzione di Antonello Sciacchitano)

 

 

Primo saggio

Mosè, un egizio

 

Contestare a un popolo l’uomo celebrato come il più grande dei suoi figli non è impresa né gradevole né facile, tanto più appartenendo a quel popolo. Ma non c’è caso per quanto esemplare che possa portare a subordinare la verità a presunti interessi nazionali; solo chiarendo un dato di fatto, possiamo attenderci qualche profitto per il nostro modo di vedere.

L'uomo Mosè, liberatore, legislatore e fondatore religioso del popolo ebraico, appartiene a tempi tanto remoti che non è lecito aggirare la questione preliminare se sia personalità storica o creazione leggendaria. Se visse realmente, fu nel XIII o forse nel XIV secolo prima del nostro computo del tempo; di lui non abbiamo altre notizie, se non quelle provenienti dai libri sacri e dalle tradizioni trascritte dagli Ebrei. Pur non raggiungendo la certezza ultima e decisiva, la stragrande maggioranza degli storici ammette che Mosè sia realmente esistito e che l’esodo dall’Egitto, a lui connesso, si sia effettivamente verificato. A buon diritto si afferma che, non ammettendo tale presupposto, la storia successiva del popolo di Israele sarebbe incomprensibile. La scienza odierna è diventata più prudente; tratta le tradizioni con molto più riguardo della critica storica iniziale.

La prima cosa ad attirare il nostro interesse per la persona di Mosè è il nome, che in ebraico suona Mosheh.1 Ci si può chiedere da dove venga e cosa significhi. Come è noto, già il racconto dell’Esodo (2, 10) dà una risposta. Racconta che la principessa egizia, salvatrice del fanciullino esposto al Nilo, gli dette questo nome su base etimologica: “Perché l’ho tratto dall’acqua”. La spiegazione è chiaramente insufficiente. Secondo un autore del Jüdisches Lexikon,2 “l’interpretazione biblica del nome, ‘colui che è stato tratto dall’acqua’, è un'etimologia popolare, che non si accorda con la forma attiva del verbo ebraico (Mosheh può al massimo significare ‘colui che trae fuori’)”. Si può confermare il rifiuto con due altri argomenti; anzitutto, non ha senso attribuire a una principessa egizia la derivazione del nome dall’ebraico; poi, molto verosimilmente l’acqua da cui il bimbo fu tratto non fu del Nilo.

Per contro, da molto tempo e da diverse parti si è congetturato che il suo nome di condottiero, “Mosè”, derivi dal lessico egizio. Invece di citare tutti gli autori che si sono espressi in questo senso, mi limiterò a inserire il passo dedicato all’argomento nel recente libro di J. H. Breasted,3 autore di una History of Egypt (1906), giudicata fondamentale. “È importante osservare che il suo nome di condottiero, Mosè, era egizio. È semplicemente la parola egizia mose, che vuol dire ‘bambino’; è l’abbreviazione di forme nominali più estese come Amen-mose, che significa ‘Amon-bambino’, o Ptah-mose, che vuol dire ‘Ptah-bambino’, nomi a loro volta abbreviazioni della forma completa ‘Amon (ha dato) un bambino’ o 'Ptah (ha dato) un bambino’. Ben presto l’abbreviazione ‘bambino' divenne una forma rapida, più comoda dell’ingombrante nome intero; il nome Mose, ‘bambino’, non è raro nei monumenti egizi. Il padre di Mosè senza dubbio prepose al nome del figlio quello di un dio egizio come Amon o Ptah; nella vita quotidiana il nome divino andò man mano perso, finché il bambino fu semplicemente chiamato Mose (la s finale dell’inglese ‘Moses’ proviene dalla traduzione greca dell’antico Testamento; non appartiene all’ebraico, che ha Mosheh)”.

Ho citato il luogo alla lettera ma non sono affatto disposto a condividere la responsabilità delle singole affermazioni. Mi meraviglia anche un po’ che nella sua enumerazione Breasted abbia trascurato proprio gli analoghi nomi teofori delle liste dei re egizi, come Ah-mose, Tuht-mose e Ramses (Ra-mose).

Ora ci aspetteremmo che qualcuno dei molti studiosi che hanno riconosciuto in Mosè un nome egizio avesse tratto anche la conclusione, o almeno valutato la possibilità, che il portatore del nome egizio fosse egizio. Per i tempi moderni ci permettiamo senza esitare conclusioni del genere, anche se oggi le persone non portano un solo nome, ma due, cognome e nome, e non sono escluse variazioni del nome o il passaggio ad altri nomi simili in nuove circostanze. Perciò non ci sorprende trovare confermato che lo scrittore Chamisso fosse di origine francese, Napoleone Bonaparte italiana, e che Benjamin Disraeli fosse in realtà un ebreo italiano, come ci si attende dal nome. E quanto ai tempi antichi e remoti, dedurre la popolazione di appartenenza dal nome dovrebbe apparire ancora più lecito, anzi necessario. Eppure, a mia conoscenza, nel caso di Mosè nessuno storico ha tratto tale conclusione, neppure chi, come lo stesso Breasted, è disposto a supporre che Mosè avesse familiarità “con tutta la sapienza degli Egizi”.4

Non si indovina di sicuro quale sia stato l’ostacolo. Forse fu l’insuperabile rispetto per la tradizione biblica. Forse sembrò mostruoso affermare che Mosè fosse altro che ebreo. In ogni caso, per giudicare l’origine di Mosè, vien fuori che non si ritiene decisivo riconoscere il nome egizio e non se ne deduce altro. Considerata rilevante la questione della nazionalità di questo grand’uomo, sarebbe del tutto augurabile apportare nuovo materiale per darvi risposta.

È quanto si propone il mio breve saggio, che pretende trovar ospitalità nella rivista Imago, perché il suo contributo contiene un’applicazione della psicanalisi. Di certo l’argomentazione così acquisita impressionerà solo la minoranza di lettori già familiari con il pensiero analitico e in grado di apprezzarne i risultati. A loro si spera che appaia significativa.

Nel 1909 Otto Rank, ai tempi ancora sotto la mia influenza, stimolato da me pubblicava uno scritto dal titolo Il mito della nascita dell’eroe.5 Tratta del fatto che “nella preistoria … quasi tutti i principali popoli civili abbiano celebrato in poesia e leggende i loro eroi, re e principi mitici, fondatori di religioni, dinastie, regni, città, in breve i loro eroi nazionali”. “In particolare la storia della nascita e della giovinezza di tali personaggi è corredata da tratti fantastici, la cui stupefacente similarità, a volte l’accordo letterale, in popoli diversi, separati da grandi distanze e totalmente indipendenti tra loro, è da tempo nota e ha colpito molti studiosi”. Se, seguendo Rank, con una tecnica all’incirca simile a quella [fotografica] di Galton, ricostruiamo la “leggenda media”, che metta in risalto i tratti essenziali di tutti questi racconti, ne ricaviamo il seguente quadro:

L’eroe è figlio di genitori di alti natali, per lo più di re. Precedono la sua nascita difficoltà come astinenza, lunga sterilità o relazione segreta dei genitori, a causa di divieti o ostacoli esterni. Durante la gravidanza o già prima, un annunzio premonitore (sogno, oracolo), di solito una minaccia per il padre, mette in guardia contro la sua nascita. Per tal ragione, in genere per volontà del padre o di chi lo rappresenta, appena nato il bimbo è condannato o a morte o a essere esposto; di regola è abbandonato in acqua in un cestino.

È allora salvato da animali o da persone umili (pastori) e allattato da un animale femmina o da un’umile nutrice.

Una volta cresciuto, dopo molte traversie ritrova i nobili genitori; da un lato si vendica del padre e dall’altro è riconosciuto e diventa grande e famoso.”

Il personaggio storico più antico cui si collega questo mito della nascita è Sargon di Agade, fondatore di Babilonia (circa 2800 a.C.). Per noi, non è senza interesse riferire il racconto attribuitogli:

Sargon, il re potente, il re di Agade, io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non lo conobbi, il fratello di mio padre abitava sulle montagne. Nella mia città Azupirani, che giace sulle rive dell’Eufrate, mia madre, la vestale, mi concepì. In segreto mi partorì. Mi pose in un recipiente di canne di stiancia, chiuse con asfalto il coperchio e mi lasciò andare giù per il grande fiume, che non mi affogò. La corrente mi portò dov’era Akki, creatore dell’acqua. Akki, che crea l’acqua, nella bontà del suo cuore mi trasse fuori. Akki, creatore dell'acqua, mi allevò come suo figlio. Akki, creatore dell’acqua, fece di me il suo giardiniere. Mentre ero giardiniere, [la dea] Jshtar si scaldò per me, divenni re e per quarantacinque anni esercitai la sovranità regale.”

I nomi a noi più familiari della serie, che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre a loro, tuttavia, Rank raccolse un gran numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui è attribuita, per intero o in frammenti ben riconoscibili, la stessa storia giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione, Zeto e altri.

Grazie alle sue ricerche, Rank ci rese note fonte e ispirazione di tale mito. Mi basta farvi riferimento con brevi accenni. Eroe è chi ha il coraggio di levarsi contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo salva nonostante le sue cattive intenzioni. L’esposizione nella cesta è l’inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cesta è il grembo materno, l’acqua è quella del parto. In moltissimi sogni il rapporto genitori-figlio è rappresentato dall’immagine di trarre o salvare dalle acque. Quando la fantasia popolare attribuisce il mito della nascita qui svolto a una personalità eminente, intende riconoscere così in quella figura un eroe, annunciando che ha realizzato lo schema della vita eroica. La fonte di tutta la creazione poetica è il cosiddetto “romanzo familiare” del fanciullo, in cui il figlio reagisce al mutamento delle sue relazioni emotive con i genitori, specialmente con il padre. La fantastica sopravvalutazione paterna domina gli anni dell’infanzia; nei sogni e nelle favole re e regine significano sempre solo i genitori, mentre più tardi, sotto la spinta della rivalità e della delusione reale, subentra il distacco dai genitori e l’atteggiamento critico verso il padre. Le due famiglie mitiche, la nobile e l’umile, sono perciò riflessi della famiglia autentica, come appare al bambino in momenti successivi della vita.

Si può dire che queste spiegazioni rendano del tutto comprensibili la diffusione e l’uniformità del mito della nascita dell’eroe. Tanto più merita il nostro interesse che la leggenda della nascita e dell’esposizione di Mosè assuma una posizione speciale che contraddice le altre in un punto essenziale.

Partiamo dalle due famiglie tra cui la leggenda fa giocare il destino del bambino. Dall’interpretazione analitica sappiamo che coincidono, differenziandosi l’una dall’altra solo per cronologia. Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta, come del resto corrisponde alle circostanze [del “romanzo familiare”] cui l’interpretazione si rifà. Solo nella leggenda di Edipo la differenza scompare: il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale. Ci si dice che non sia un caso che proprio in questo esempio l’originaria identità delle due famiglie traspaia anche nella leggenda. Il contrasto sociale tra le due famiglie assegna al mito che, come sappiamo, deve confermare la natura eroica del grande uomo, una seconda funzione, particolarmente significativa nel caso di personalità storiche. Infatti, il mito può essere usato per conferire all’eroe una patente di nobiltà, elevandolo socialmente. Per i Medi, Ciro è un conquistatore straniero, ma la leggenda dell’esposizione ne fa un nipote del re dei Medi. Analogamente Romolo, se mai esistito, fu un avventuriero di origini oscure, un parvenu; grazie alla leggenda divenne discendente ed erede della casa regale di Alba Longa.

Nel caso di Mosè è tutto diverso. Qui la prima famiglia, altrove aristocratica, è piuttosto modesta. È figlio di Leviti ebrei. Ma la seconda famiglia, quella umile, in cui in altre leggende l’eroe cresce, è qui sostituita dalla casa reale d’Egitto: la principessa lo alleva come proprio figlio. Lo scostamento dal modello standard ha avuto su molti effetti devastanti. Eduard Meyer, e altri dopo di lui, hanno supposto che all’origine la leggenda fosse un’altra: il faraone sarebbe stato avvertito, da un sogno profetico,6 che un figlio della figlia avrebbe minacciato lui e il suo regno. Perciò dopo la nascita, avrebbe fatto esporre al Nilo il bimbo, che sarebbe stato salvato da certi Ebrei e allevato come figlio loro. Poi, per “motivi nazionali”, per dirla con Rank,7 la leggenda sarebbe stata rimaneggiata nella forma a noi nota.

Ma, come la seguente riflessione insegna, una simile leggenda mosaica originaria, non più diversa dalle altre, non sta in piedi. Infatti, la leggenda è di origine o egizia o ebraica. Il primo caso si esclude: gli Egizi non avevano motivi per glorificare Mosè, non essendo per loro un eroe. Allora la leggenda dovette essere forgiata dal popolo ebraico, cioè nella sua forma nota connessa alla persona del condottiero. Solo che era del tutto inadeguata allo scopo; infatti, cosa avrebbe fruttato al popolo una leggenda che faceva del suo grande uomo uno straniero al popolo?

Nella forma in cui oggi ci si presenta, la leggenda mosaica resta di gran lunga indietro rispetto alla sua intenzione segreta. Se Mosè non è di stirpe regale, la leggenda non può convalidarlo come eroe; se rimane figlio di Ebrei, non fa nulla per innalzarlo. Di tutto il mito, solo un pezzetto rimane effettivo, ossia l’assicurazione che il bimbo sopravvisse nonostante l’intervento di potenti forze esterne; il punto ricorre anche nella storia dell’infanzia di Gesù, in cui il re Erode assume la parte del faraone. In realtà siamo liberi di supporre che un tardo e maldestro revisore del materiale leggendario si sia trovato predisposto a introdurre nella storia del proprio eroe, Mosè, qualcosa di simile alla classica leggenda dell’esposizione che contrassegna l’eroe, cosa che, per le speciali circostanze del caso, non poteva adattarsi a Mosè.

La nostra indagine dovrebbe accontentarsi di questo risultato insoddisfacente e per giunta incerto; non avrebbe fornito alcun elemento per rispondere al quesito se Mosè fosse egizio. Ma c’è ancora un altro accesso forse più promettente per valorizzare la leggenda dell’esposizione.

Torniamo alle due famiglie del mito. A livello d’interpretazione analitica sappiamo che sono identiche, mentre a livello mitico si differenziano in aristocratica e umile. Se però si tratta di un personaggio storico, cui il mito è connesso, allora c’è un terzo livello, quello della realtà (Realität). Una famiglia è quella reale, dove il personaggio, il grande uomo, è effettivamente nato e cresciuto; l’altra è quella fittizia, inventata dal mito per i suoi intenti. Di regola la famiglia reale coincide con l’umile, quella inventata con l’aristocratica. Nel caso di Mosè sembrava esserci qualcosa di diverso. E ora forse il nuovo punto di vista ci porta a chiarire che la prima famiglia, quella che espone il bimbo, è, in tutti i casi che ci servono), la fittizia, mentre la successiva, in cui il bimbo è accolto e cresce, è la reale. Avendo il coraggio di riconoscere questa tesi come una generalità, cui assoggettiamo anche la leggenda mosaica, di colpo vediamo le cose in modo chiaro: Mosè è un Egizio, verosimilmente aristocratico, che grazie alla leggenda viene fatto (o “deve”) diventare ebreo. Sarebbe questo il nostro risultato! L’esposizione all’acqua era al posto giusto, ma, per adattarsi al nuovo proposito, l’intenzione dovette non senza violenza essere piegata: da abbandono del bambino divenne mezzo per salvarlo.

D’altronde il divario tra la leggenda mosaica e tutte le altre del suo genere poteva essere riportato a una particolarità della storia di Mosè. Mentre di solito un eroe nel corso della sua vita si eleva sopra le sue umili origini, la vita eroica dell’uomo Mosè iniziò discendendo dalle altezze in cui si trovava e si calò giù sino ai figli di Israele.

Abbiamo intrapreso questa piccola ricerca sperando di trarne un secondo, nuovo argomento a favore della congettura che Mosè fosse egizio. Abbiamo sentito che il primo argomento, tratto dal nome, non ha convinto molti.8 Dobbiamo perciò essere preparati al fatto che il nuovo argomento, proveniente dall’analisi della leggenda dell’esposizione, non trovi migliore fortuna. Certo si obietterà che le circostanze della formazione e trasformazione delle leggende sono troppo poco trasparenti per giustificare una conclusione come la nostra, e che le tradizioni circa la figura eroica di Mosè, confuse e contraddittorie presentano inequivocabili indizi della secolare opera di inesausta, tendenziosa rielaborazione e sovrapposizione, quindi sventeranno ogni tentativo di portare alla luce il retrostante nucleo di verità storica. Io stesso, che non condivido l’atteggiamento di rifiuto, non sono nemmeno in grado di confutarlo.

Se non si può arrivare a maggiore certezza, perché avrei portato a pubblica conoscenza questa ricerca? Mi spiace che anche la mia giustificazione non possa andare oltre alcuni accenni. In effetti, se ci lasciamo attrarre dai due argomenti qui addotti e proviamo a prendere sul serio l’ipotesi che Mosè fosse un aristocratico egizio, si aprono prospettive ampie e molto interessanti. Grazie a ipotesi non particolarmente remote, credo che riusciremmo a capire i motivi che hanno portato Mosè alla sua singolare impresa. In stretta connessione con questo, è possibile cogliere il fondamento di numerose caratteristiche e peculiarità della legge e della religione che diede al popolo ebraico, ricavandone persino idee significative sull’origine delle religioni monoteistiche in generale.

Tuttavia conclusioni di tale importanza non possono fondarsi solo su verosimiglianze psicologiche. Se come sostegno storico si fa valere l’origine egizia di Mosè, allora avremmo come minimo bisogno di almeno un secondo punto fermo, per proteggere la marea di possibilità emergenti, dalle critiche di essere prodotti di fantasia, troppo lontane dalla realtà (Wirklichkeit). Forse sarebbe sufficiente allo scopo una prova obiettiva sul tempo in cui Mosè visse e avvenne l’esodo dall’Egitto. Ma tale prova non fu mai trovata, e quindi faremmo meglio a non parlare di tutte le ulteriori deduzioni derivanti dal punto di vista che Mosè sia stato egizio.

1 [Per la traslitterazione dei nomi ebraici, egizi ecc. si sono seguiti i criteri delle pubblicazioni dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana.]

2 Jüdisches Lexikon, fondato da G. Herlitz e B. Kirschner, vol. 4, Berlino 1930, p. 303.

3 J. M. Breasted, The Dawn of Conscience, Londra 1934, p. 350.

4 lvi, p. 334. Nondimeno, dall’antichità a oggi, il sospetto che Mosè fosse egizio fu avanzato più volte, pur senza riferimento al nome.

5 O. Rank, Der Mythus von der Geburt des Helden, nella collana Schriften zur angewandten Seelenkunde”, Franz Deuticke, Vienna 1909. Sono lontano dallo sminuire il valore degli originali contributi di Rank alla questione.

6 Menzionato nel racconto di Flavio Giuseppe [Antichità giudaiche, lb. 2, 205]

7 Ivi, osservazione, p. 80.

8 Così per esempio E. Meyer in Die Mosessagen und die Leviten, Sitzber. B. Akad. (Phil. – Hist. Kl.), vol. 31, 640 (1905): “Il nome Mosè è probabilmente egizio e il nome Pinchas della stirpe sacerdotale in Silo … è senza dubbio egizio. Ciò non dimostra naturalmente che queste stirpi fossero di origine egizia, ma che avevano certo relazioni con l’Egitto”. Possiamo allora chiederci: a che tipo di relazioni qui occorre pensare?

 

 

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