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L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTA – SECONDO SAGGIO, 1938 (Traduzione di Antonello Sciacchitano)

7 Mar 21

Di Sigmund-Freud

Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion, in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 114.(Traduzione di Antonello Sciacchitano)

 

Secondo saggio

Se Mosè fosse egizio…

 

In un precedente contributo a questa rivista1 ho tentato di corroborare con un nuovo argomento la congettura che Mosè, il liberatore e il legislatore del popolo ebraico, non fosse ebreo ma egizio. Da tempo si era notato, ma senza adeguato apprezzamento, che il nome Mosè proveniva dal lessico egizio; io vi aggiunsi che interpretare il mito dell’esposizione di Mosè portava alla necessaria conclusione che Mosè fosse egizio, e che il bisogno popolare pretese di farne un ebreo. Alla fine del mio saggio dicevo che dall’ipotesi di Mosè egizio derivavano conseguenze importanti e di ampia portata, ma che non ero pronto a sostenerle pubblicamente, essendo fondate solo su verosimiglianze psicologiche senza prove obiettive. Quanto più significative sono le cognizioni in tal modo acquisite, tanto più si sente il bisogno di cautela, per non esporle prive di solida base all’attacco delle critiche dell’ambiente, come una scultura di ferro dai piedi d’argilla. Nessuna verosimiglianza per quanto seducente ci protegge dall’errore; anche se tutte le parti di un problema sembrano adattarsi l’una all’altra, come pezzi di un puzzle, si deve pensare che il verosimile non è necessariamente vero e che la verità non è sempre verosimile. E infine non è allettante vedersi catalogare tra gli scolastici e i talmudisti, che si accontentano di far giocare la loro sottigliezza, indifferenti a quanto le loro affermazioni possano essere estranee alla realtà effettuale.

Senza tener conto di tali esitazioni, che pesano oggi come allora, il risultato del conflitto tra i miei opposti motivi è stato decidere di dar seguito a quella prima comunicazione con questa continuazione che, di nuovo, non è tutto né la parte più importante del tutto.

 

1

Se dunque Mosè fu egizio, il primo punto a favore di quest’ipotesi è un nuovo indovinello cui è difficile rispondere. Se un popolo o una stirpe2 si accinge a una grande impresa, non c’è da attendersi altro che uno dei suoi membri si eriga o sia eletto suo condottiero. Ma non è facile indovinare che cosa dovesse indurre un egizio di alti natali, forse principe, sacerdote, alto funzionario, a mettersi a capo di una folla di stranieri immigrati, culturalmente arretrati, e a lasciare con loro il paese. Il ben noto disprezzo degli egizi per lo straniero rende un simile processo particolarmente inverosimile. Anzi, direi, proprio per questa ragione persino gli storici che hanno riconosciuto come egizio il nome di Mosè, attribuendogli tutta la sapienza dell’Egitto, non hanno voluto ammettere l’ovvia possibilità che Mosè fosse egizio.

A questa prima difficoltà ne segue subito una seconda. Non possiamo dimenticare che Mosè non fu solo il capo politico degli ebrei insediati in Egitto, ma anche il loro legislatore ed educatore, colui che li asservì a una nuova religione, ancora oggi detta dal suo nome mosaica. Ma è così facile per un singolo uomo creare una nuova religione? E se uno pretende influire sulla religione di un altro, la cosa più naturale non è convertirlo alla propria? Il popolo ebraico in Egitto non era certamente privo di una qualche religione, e se Mosè, che gliene diede una nuova, era egizio, non va respinta la congettura che l’altra religione, la nuova, fosse l’egizia.

Questa possibilità urta un ostacolo: il dato di fatto del netto contrasto tra la religione ebraica, risalente a Mosè, e l’egizia. La prima è un rigorosissimo monoteismo: c’è un solo Dio, unico, onnipotente, inavvicinabile; la sua vista è insopportabile all’occhio umano; non è lecito farsene un’immagine e neppure pronunciare il suo nome. Nella religione egizia c’è invece uno stuolo incalcolabile di divinità di diversa importanza e origine: alcune sono personificazioni di grandi forze naturali come il cielo e la terra, il sole e la luna; altre astrazioni come Maat (verità, giustizia), o brutte facce come Bes il nano; la maggior parte, però, erano divinità locali del tempo in cui il paese era diviso in numerosi distretti; erano di forma animale, come se non avessero ancora compiuto l’evoluzione dagli antichi animali totemici, difficili da distinguere gli uni dagli altri, visto che a nessuno di loro erano attribuite funzioni particolari. Gli inni in onore di questi dei dicono di ciascuno di loro pressappoco le stesse cose; li identificano gli uni con gli altri senza andar troppo per il sottile, con il risultato di una confusione per noi inestricabile. I nomi degli dei si combinano gli uni con gli altri in modo che il nome di uno può divenire il semplice epiteto di un altro; così, nel periodo aureo del “Nuovo Regno”, il dio principale della città di Tebe era chiamato Amon-Ra, nome composto dove la prima parte designa il dio della città, dalla testa di ariete, mentre Ra è il nome del dio del sole di On [Eliopoli], dalla testa di falcone. Operazioni magiche e cerimoniali, incantesimi e amuleti dominavano il servizio di questi dei, così come la vita quotidiana degli egizi.

Alcune di queste differenze sono facilmente deducibili dall’opposizione di principio tra rigido monoteismo e politeismo illimitato; altre sono chiare conseguenze del diverso livello spirituale, poiché una delle due religioni era rimasta assai vicina alle fasi primitive, mentre l’altra si era elevata alle vette di un’astrazione sublime. Sono forse questi i due fattori per cui si ha talvolta l’impressione che la contrapposizione tra religione mosaica ed egizia sia intenzionalmente voluta e acuita: per esempio, perché l’una condanna nel modo più severo ogni forma di magia e stregoneria, che invece nell’altra fioriscono con il massimo rigoglio? O come quando all’insaziabile smania degli egizi di dar corpo ai loro dei con creta, pietra e metallo (cui i nostri musei devono esser tanto grati) si contrappone il ruvido divieto di dare immagine a qualsiasi essere vivo o immaginario.

Ma tra le due religioni vi è un’altra contrapposizione, con cui i nostri tentativi di spiegazione non si sono ancora cimentati. Nessun altro popolo dell’antichità [come l’egizio] fece tanto per rinnegare la morte, e tanto meticolosamente provvide a rendere possibile un’esistenza nell’aldilà; così Osiride, dio dei morti, signore dell’altro mondo, fu il più popolare e il più incontestato degli dei egizi. Per contro l’antica religione giudaica rinunciò del tutto all’immortalità; della possibile continuazione dell’esistenza dopo la morte non è mai fatto cenno in nessun luogo. Ciò è tanto più notevole avendo esperienze successive dimostrato che credere all’esistenza nell’aldilà è ben conciliabile con la religione monoteistica.

Avevamo sperato che l’ipotesi di Mosè egizio si sarebbe dimostrata fruttuosa e illuminante in diverse direzioni. Tuttavia, la nostra prima deduzione da questa ipotesi, cioè che la nuova religione data da Mosè agli ebrei fosse stata la propria, l’egizia, è naufragata costatando la diversità, anzi l’opposizione, tra le due religioni.

 

2

Un notevole dato di fatto nella storia religiosa egizia, solo tardi riconosciuto e apprezzato, ci apre un’altra prospettiva. Resta la possibilità che la religione, data da Mosè al suo popolo ebraico, fosse proprio la sua: una religione egizia, anche se non la religione egizia.

Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l’Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, intorno all’anno 1.375 a.C. salì al trono un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi IV come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo il nome. Questo re tentò di imporre ai suoi egizi una nuova religione, in contrasto con le loro tradizioni millenarie e con tutte le consuetudini di vita loro familiari. Fu un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto riusciamo a saperne; con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, rimasta ignota all’antichità prima di allora e ancora molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo 17 anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via e la memoria del re eretico proscritta. II poco che sappiamo di lui proviene dalle rovine della nuova capitale che costruì e dedicò al suo dio, e dalle iscrizioni sulle adiacenti tombe rupestri. Tutto ciò che possiamo sapere di questo personaggio eccezionale, anzi unico, è degno del massimo interesse.3

Ogni novità deve trovare in precedenza la sua preparazione e condizione. Le origini del monoteismo egizio sono rintracciabili con notevole sicurezza facendo ancora qualche passo indietro.4 Nella scuola sacerdotale del tempio del sole a On (Eliopoli) era da tempo attiva, fra le altre, la tendenza a sviluppare la rappresentazione di un dio universale, accentuando il lato etico della sua essenza. Maàt, la dea della verità, dell’ordine, della giustizia, era figlia del dio del sole, Ra. Già sotto Amenofi III, padre e predecessore del riformatore, la venerazione del dio solare aveva riguadagnato slancio, verosimilmente in opposizione ad Amon di Tebe, divenuto troppo potente. Fu ripreso un nome preistorico del dio solare, Aton o Atum, e nella religione di Aton il giovane re trovò un movimento che non doveva neppure destare ex novo, cui poteva associarsi.

A quei tempi le condizioni politiche dell’Egitto avevano cominciato a influire in modo persistente sulla religione egizia. Grazie alle gesta guerresche del grande conquistatore Tutmosi III, l’Egitto era diventato una potenza mondiale: al sud la Nubia, al nord la Palestina, la Siria e parte della Mesopotamia erano state annesse all’impero. Questo imperialismo si rifletteva ora sulla religione come universalismo e monoteismo. Poiché l’attenzione del faraone ora si rivolgeva, oltre che all’Egitto, alla Nubia e alla Siria, anche la divinità doveva abbandonare la limitazione nazionale e, come il faraone era l’unico e assoluto signore del mondo noto agli egizi, così doveva essere anche per la nuova divinità degli egizi. Inoltre era naturale che, ampliandosi i confini dell’impero, l’Egitto fosse esposto a influssi stranieri; alcune mogli del re5 erano principesse asiatiche, ed è persino possibile che spinte dirette al monoteismo provenissero dalla Siria.

Amenofi non rinnegò mai la propria adesione al culto solare di On. In due inni ad Aton, conservati nelle iscrizioni sulle tombe rupestri e verosimilmente composti da lui stesso, il sole è celebrato come creatore e conservatore di tutti gli esseri viventi dentro e fuori l’Egitto, con un fervore che si ritrova solo molti secoli più tardi nei Salmi in onore del dio ebraico Yahweh. Non gli bastò tuttavia anticipare sorprendentemente la scoperta scientifica dell’effetto della radiazione solare. Non c’è dubbio che fece un passo avanti, onorando il sole non come oggetto materiale, bensì come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi solari.6

Non renderemmo giustizia al re, trattandolo solo da seguace e promotore di una religione di Aton a lui preesistente. La sua attività incise molto di più. Apportò quel qualcosa di nuovo per cui per la prima volta la dottrina del dio universale divenne monoteismo, cioè il fattore dell’esclusività. In uno dei suoi inni si enuncia espressamente: “O tu, unico Dio, accanto al quale non ce n’è altri”.7 E non vogliamo dimenticare che per apprezzare la nuova dottrina non basta conoscere solo il suo contenuto positivo; quasi altrettanto importante è il suo lato negativo, cioè conoscere ciò che respinge. Sarebbe anche errato presupporre che la nuova religione prenda vita all’improvviso, perfetta e armata di tutto punto come Atena uscita dalla testa di Zeus. Anzi, tutto depone per il suo graduale rafforzamento durante il regno di Amenofi, progredendo verso una sempre maggiore chiarezza, coerenza, durezza e intolleranza. Verosimilmente questo sviluppo si compì per influenza della violenta opposizione che tra i sacerdoti di Amon si levò contro la riforma del re. Nel sesto anno del regno di Amenofi, l’ostilità era cresciuta al punto che il re cambiò il proprio nome, formato in parte con il nome proibito del dio Amon. Si chiamò, allora, Akhenaton invece di Amenofi.8 Cancellò il dio odiato non solo dal proprio nome, ma anche da tutte le iscrizioni, comprese quelle dove ricorreva nel nome del padre, Amenofi III. Poco dopo il cambiamento di nome, Akhenaton lasciò Tebe, dominata da Amon, e si costruì più a valle una nuova capitale, che denominò Akhetaton (Orizzonte di Aton). Il luogo in cui si trovano le sue rovine si chiama oggi Tell-el-Amarna.9

La persecuzione del re colpì nel modo più duro Amon, ma non solo lui. Ovunque nel regno i luoghi di culto furono chiusi, il servizio divino proibito, i beni dei templi confiscati. Lo zelo del re si spinse al punto da ordinare l’esame degli antichi monumenti per cassarvi la parola “dio” dove fosse usata al plurale.10 Non desta meraviglia che queste misure di Akhenaton provocassero nel clero represso e nel popolo insoddisfatto un risentimento e una fanatica sete di vendetta, che poterono scatenarsi dopo la morte del re. La religione di Aton non divenne popolare; verosimilmente rimase ristretta a una piccola cerchia attorno alla persona del re. La fine di Akhenaton resta per noi avvolta nell’oscurità. Abbiamo notizia di alcuni successori della sua famiglia, figure sbiadite che non vissero a lungo. Già suo genero, Tutankhaton, fu costretto a tornare a Tebe e a sostituire nel suo nome il dio Aton con Amon. Seguì poi un periodo di anarchia, finché nel 1350 il generale Haremhab riuscì a ristabilire l’ordine. La gloriosa diciottesima dinastia si estinse; contemporaneamente andarono perse le sue conquiste in Nubia e in Asia. In questo torbido tempo intermedio furono restaurate le antiche religioni egizie. La religione di Aton fu abolita, la residenza di Akhenaton distrutta e saccheggiata, il suo ricordo stimato meno di un criminale.

Ci serve ora, a un fine ben preciso, mettere in rilievo alcuni punti negativi caratteristici della religione di Aton. Anzitutto, era esclusa ogni forma di mito, di magia, di sortilegio.11

Inoltre era cambiato il modo di raffigurare il dio solare: non più come prima con una piccola piramide e un falco, ma, diremmo, quasi prosaicamente, con un disco rotondo da cui si dipartono raggi che terminano con mani umane. Nonostante l’amore per l’arte proprio del periodo di Amarna, non è stata trovata un’altra raffigurazione del dio solare, un’immagine personale di Aton, e possiamo tranquillamente dire che non si troverà.12

Infine, silenzio assoluto sul dio dei morti, Osiride, e sul regno dei morti. Né gli inni, né le iscrizioni sepolcrali fanno menzione di ciò che forse stava più a cuore agli egizi. Il contrasto con la religione popolare non si potrebbe illustrare in modo più chiaro.13

 

3

Ora potremmo osare concludere: se Mosè fu egizio e trasmise agli ebrei la propria religione, allora fu la religione di Aton, quella di Akhenaton.

Poco fa abbiamo confrontato la religione ebraica con quella popolare egizia e stabilito la loro contrapposizione. Dobbiamo ora confrontare la religione ebraica con quella di Aton, aspettando di provare la loro originaria identità. Sappiamo che non è un compito facile. Della religione di Aton, proprio perché vittima della sete di vendetta dei sacerdoti di Amon, forse sappiamo troppo poco. La religione mosaica la conosciamo solo nella forma definitiva, fissata dai sacerdoti ebrei circa ottocento anni più tardi, in epoca successiva all’esilio. Se, nonostante l’esiguità del materiale, dovessimo trovare singoli indizi favorevoli alla nostra ipotesi, li terremo in gran conto.

La via più breve per dimostrare la nostra tesi che la religione mosaica non fu altro che quella di Aton, sarebbe una confessione, una proclamazione. Ma temo di sentirmi dire che tale via è preclusa. La professione di fede ebraica suona, com’è noto: “Shemà Israelshemà Israel Adonai Elohenu Adonai Ehad”. Se l’assonanza tra il nome egizio Aton (o Atum), la parola ebraica Adonai [mio signore] e il nome divino siriaco Adon non fosse fortuita, ma dipendesse dalla comunanza primordiale di lingua e significato, potremmo tradurre così la formula ebraica: “Ascolta Israele, il nostro dio Aton (Adonai) è l’unico dio”. Purtroppo sono del tutto incompetente per risolvere la questione e in letteratura ho potuto trovare poco al riguardo,14 ma forse non è lecito liquidare il problema con tanta facilità. D’altra parte dovremo ancora ritornare sui problemi del nome di Dio.

Nelle due religioni sono facilmente evidenziabili tanto somiglianze quanto diversità, che non ci illuminano molto. Entrambe sono forme di monoteismo rigido; sin dall’inizio si è inclini a ricondurre a questo carattere di fondo quanto hanno di comune. In molti punti il monoteismo ebraico si rivela ancora più ruvido di quello egizio, come nel proibire in generale le rappresentazioni in immagini. La differenza essenziale – a parte il nome di Dio – consiste nel fatto che la religione ebraica prescinde totalmente dalla venerazione solare, a cui l’egizia ancora si appoggiava. Nel confronto con la religione popolare egizia abbiamo avuto l’impressione che nella diversità tra le due religioni, a parte la contrapposizione di principio, intervenisse un motivo di contraddizione intenzionale. L’impressione appare ora giustificata se nel confronto sostituiamo alla religione ebraica quella di Aton, che Akhenaton, come sappiamo, sviluppò con intenzionale ostilità alla religione popolare. A ragione ci ha stupito che la religione ebraica non volesse saperne di aldilà e di vita dopo la morte, perché una dottrina simile sarebbe stata compatibile con il più rigoroso monoteismo. La sorpresa svanisce tornando indietro dalla religione ebraica a quella di Aton e supponendo che da lì sia stato ripreso questo rifiuto, di cui Akhenaton aveva bisogno per combattere la religione popolare, in cui il dio dei morti, Osiride, aveva forse una parte maggiore di qualsiasi altro dio del mondo superiore. La coincidenza tra la religione ebraica e quella di Aton su questo punto importante è il primo argomento forte a favore della nostra tesi. Vedremo che non è l’unico.

Mosè non ha dato solo una nuova religione agli ebrei; si può anche affermare con la stessa determinazione che abbia introdotto tra loro l’uso della circoncisione. Questo dato di fatto ha un significato decisivo per il nostro problema e finora non è stato quasi mai considerato. A dire il vero, il racconto biblico lo contraddice più volte; da un lato fa risalire la circoncisione all’epoca patriarcale come segno del patto tra Dio e Abramo; dall’altro, in un passo particolarmente oscuro, narra che Dio si infuriò con Mosè, che aveva trascurato l’usanza divenuta sacra, e intendesse perciò farlo morire, ma la moglie, una madianita, salvò il marito, minacciato dall’ira divina, eseguendo prontamente l’operazione.

Tuttavia, queste sono deformazioni che non ci possono confondere; più avanti ne scopriremo i motivi. Resta che alla domanda da dove fosse giunta agli ebrei l’usanza della circoncisione c’è una sola risposta: dall’Egitto. Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che in Egitto l’uso della circoncisione era da lungo tempo familiare (heimisch); le sue informazioni sono state confermate sia dai reperti sulle mummie sia da raffigurazioni sulle pareti delle tombe. A nostra conoscenza, nessun altro popolo del Mediterraneo orientale ebbe tale uso; di Semiti, Babilonesi, Sumeri si può con certezza presumere che non fossero circoncisi. Degli abitanti di Canaan lo dice la stessa storia biblica; è la premessa per l’esito dell’avventura della figlia di Giacobbe con il principe di Sichem.15 Scarteremmo come del tutto infondata la possibilità che, soggiornando in Egitto, gli ebrei abbiano adottato la pratica di circoncidere per altra via non connessa all’istituzione religiosa di Mosè. Ora, tenuto conto che la circoncisione fu un costume popolare generalmente praticato in Egitto, aggiungendo per un momento la supposizione comune che Mosè fosse un Ebreo che volle liberare i suoi connazionali dalla servitù egizia e condurli in un altro paese a realizzare un’esistenza nazionale indipendente e consapevole, come realmente avvenne, allora che senso avrebbe che egli imponesse loro al tempo stesso una consuetudine gravosa, che li rendeva in certa misura degli egizi, perpetuando la loro memoria dell’Egitto, mentre ogni suo sforzo poteva al contrario esser volto soltanto a rendere estraneo il suo popolo alla terra della schiavitù e a superare la nostalgia per le “marmitte d’Egitto”? No, il dato di fatto di partenza e la supposizione da noi aggiunta sono tra loro così incompatibili che si trova il coraggio di concludere che, se Mosè diede agli ebrei non solo una nuova religione, ma anche il precetto della circoncisione, fu perché non era ebreo, ma egizio; allora la religione mosaica fu verosimilmente egizia e, in verità, a causa del contrasto con la religione popolare, fu la religione di Aton, con cui anche la posteriore religione ebraica concorda su alcuni punti degni di nota.

Abbiamo notato che la nostra ipotesi, che Mosè non fosse ebreo ma egizio, crea un nuovo enigma. La modalità della sua azione, che a un ebreo appariva facilmente comprensibile, era per l’egizio incomprensibile. Se però spostiamo Mosè all’epoca di Akhenaton e lo poniamo in relazione con questo faraone, allora l’enigma svanisce e si scopre un motivo possibile che risponde a tutte le nostre questioni. Partiamo dal presupposto che Mosè fosse nobile e altolocato, forse realmente un membro della casa reale, come sostiene la leggenda. Ambizioso ed energico, era certo conscio delle sue grandi capacità; forse accarezzava l’idea di guidare un giorno il popolo, di reggere l’impero. Essendo vicino al faraone, era anche un convinto seguace della nuova religione, di cui aveva fatto propri i principi fondamentali. Alla morte del re e instaurata la reazione, vide distrutte tutte le sue speranze e le sue prospettive; poiché non voleva rinnegare le convinzioni a lui più care, l’Egitto non aveva più nulla da offrirgli: aveva perso la patria. In questa emergenza trovò una via d’uscita non comune.

II sognatore Akhenaton si era estraniato dal suo popolo; aveva lasciato che il suo impero mondiale si sgretolasse. Alla natura più energica di Mosè si addiceva il piano di fondare un nuovo regno, di trovare un nuovo popolo, alla cui venerazione offrire la religione che l’Egitto disdegnava. Come si vede, era il tentativo eroico di contestare il destino e di risarcirsi in due direzioni delle perdite inflitte dalla catastrofe di Akhenaton.

Forse a quel tempo Mosè era governatore della provincia di confine (Goshen) dove si erano insediate (già dal tempo degli Hyksos?) certe tribù semite. Egli le scelse perché fossero il suo nuovo popolo. Decisione storica mondiale!16 Si accordò con loro, si pose alla loro testa, guidò il loro esodo “con mano potente”. In totale contrasto con la tradizione biblica si dovrebbe supporre che questo esodo si compisse pacificamente e senza persecuzioni. L’autorità di Mosè lo rese possibile; a quel tempo non c’era un’amministrazione centrale in grado d’impedirlo.

Secondo la nostra ricostruzione, l’esodo dall’Egitto sarebbe avvenuto tra il 1358 e il 1350, cioè dopo la morte di Akhenaton e prima della restaurazione dell’autorità statale a opera di Haremhab.17 Meta della migrazione poteva essere solo la terra di Canaan. Qui, dopo il crollo del dominio egizio, avevano fatto irruzione, conquistando e saccheggiando, orde di bellicosi Aramei che avevano così mostrato come un popolo intraprendente potesse impossessarsi di nuove terre. Conosciamo questi guerrieri dalle lettere trovate nel 1887 nell’archivio delle rovine della città di Amarna. Là vengono chiamati Habiru e il nome fu trasferito, non sappiamo come, ai successivi invasori giudei, gli ebrei, che non possono essere quelli menzionati nelle lettere di Amarna. Nel sud della Palestina, in Canaan, abitavano anche le tribù più strettamente apparentate con gli ebrei che stavano appunto lasciando l’Egitto.

La motivazione, che abbiamo tirato a indovinare per l’esodo in toto, riguarda anche l’istituzione della circoncisione. Si sa come gli uomini, tanto i popoli quanto i singoli, reagiscono a questa preistorica usanza, oggi quasi non più compresa. A coloro che non la praticano, sembra assai sconcertante e un po’ ne inorridiscono; mentre gli altri che l’hanno adottata ne vanno orgogliosi. Si sentono da essa innalzati, in certo qual modo nobilitati, e guardano con disprezzo agli altri, considerati impuri. Ancor oggi il turco insulta il cristiano “cane incirconciso”. È credibile che Mosè, da egizio circonciso, condividesse tale atteggiamento. Gli ebrei, con i quali abbandonò la patria, dovevano essere per lui un sostituto migliore degli egizi lasciati in patria. In nessun caso potevano essere inferiori. Voleva farne un “popolo santo”, come esplicitamente dice ancora il testo biblico; come segno di tale consacrazione introdusse anche tra loro l’usanza che li rendeva almeno pari agli egizi. Poi poteva solo gradire che grazie a quel segno rimanessero isolati, lungi dal mescolarsi con i popoli stranieri tra cui la migrazione doveva portarli, così come gli stessi egizi erano rimasti separati da tutti gli stranieri.18

La tradizione giudaica si comportò più tardi come se temesse le conseguenze che abbiamo poco fa dedotto. Ammettere che la circoncisione fosse un’usanza egizia, introdotta da Mosè, sarebbe stato per loro quasi come riconoscere che la religione loro trasmessa da Mosè fosse anch’essa egizia. Ma c’erano buone ragioni per rinnegare questo dato di fatto; di conseguenza bisognava contraddire anche lo stato di cose riguardante la circoncisione.

 

4

A questo punto mi attendo il rimprovero per la mia costruzione che colloca Mosè, l’egizio, all’epoca di Akhenaton, fa discendere dalle condizioni politiche del tempo nel paese la sua decisione di interessarsi al popolo ebraico e individua la religione da dare o imporre ai suoi protetti in quella di Aton, che in Egitto era crollata; intendo il rimprovero per aver montato un castello di congetture con eccessiva determinazione, materialmente infondata. Credo che il rimprovero sia ingiustificato. Nell’introduzione ho già sottolineato il fattore di dubbio, messo per così dire fuori parentesi, per risparmiare la fatica di ripetermi ogni volta dentro parentesi.

Alcune tra le mie osservazioni critiche possono far proseguire la discussione. Il nucleo della mia esposizione, la dipendenza del monoteismo giudaico dall’episodio monoteistico della storia d’Egitto, è stato intuito e accennato da differenti autori. Mi dispenso dal riportare qui quanto hanno detto, visto che nessuno ha saputo stabilire come tale influsso abbia potuto effettivamente esercitarsi. Se per noi tutto ciò rimane legato alla persona di Mosè, vanno citate anche altre possibilità, oltre quella da noi preferita. Non è ammissibile che il crollo della religione ufficiale di Aton abbia posto del tutto fine alla corrente monoteistica in Egitto. La scuola sacerdotale di On, dalla quale era scaturita, sopravvisse alla catastrofe e poté attrarre nella sua orbita intellettuale ancora altre generazioni dopo Akhenaton. Pertanto il fatto di Mosè è concepibile anche se Mosè non visse al tempo di Akhenaton e non ne subì l’influsso personale, ma era solo un seguace o un membro della scuola di On. Questa possibilità sposterebbe la data dell’esodo, avvicinandola a quella comunemente ammessa (cioè nel tredicesimo secolo), ma non c’è altro che la raccomandi. Perderemmo la comprensione dei motivi di Mosè e decadrebbe [l’ipotesi] che l’anarchia imperante nel paese abbia facilitato l’esodo. I successivi re della diciannovesima dinastia stabilirono un governo forte. La convergenza di tutte le condizioni esterne e interne favorevoli all’esodo si ebbe solo nel periodo immediatamente posteriore alla morte del re eretico.

Gli ebrei possiedono un’abbondante letteratura extrabiblica, dove si trovano leggende e miti nati nel corso dei secoli attorno alla grandiosa figura del loro primo condottiero e fondatore religioso, trasfigurandola e oscurandola. In tale materiale possono essere dispersi frammenti di una buona tradizione, che non trovarono spazio nel Pentateuco. Una leggenda del genere illustra in modo piacevole come l’ambizione di Mosè si manifestasse sin dall’infanzia. Una volta il faraone lo prese in braccio e per gioco lo innalzò; allora il bimbo di tre anni gli strappò la corona dalla testa e la mise sulla sua. Il re si allarmò per il presagio e non tralasciò di consultare i suoi saggi in merito.19 Un’altra volta si racconta di sue vittoriose imprese guerresche, ottenute come generale egizio in Etiopia, e contestualmente della sua fuga dall’Egitto perché aveva da temere l’invidia di un partito di corte o del faraone stesso. La stessa descrizione biblica aggiunge a Mosè certi attributi plausibili. È descritto irascibile, collerico, come quando sdegnato ammazza il brutale sorvegliante che maltratta un operaio ebreo, o quando, amareggiato per l’apostasia del popolo, spezza le Tavole della Legge portate con sé dal monte di Dio; persino Dio lo punisce alla fine per un gesto di impazienza, non è detto quale. Poiché una qualità del genere non serve a glorificarlo, potrebbe corrispondere alla verità storica. Non si può neppure scartare la possibilità che certi tratti di carattere che gli ebrei ascrissero all’immagine primitiva del loro Dio, dicendolo geloso, severo e implacabile, provenissero in fondo dal ricordo di Mosè, dato che in realtà a guidarli fuori dall’Egitto non fu un Dio invisibile ma l’uomo Mosè.

Un altro tratto a lui attribuito merita il nostro particolare interesse. Sembra che abbia avuto “difficoltà di linguaggio”, forse un’inibizione a parlare o un difetto di parola, tanto da aver bisogno dell’aiuto di Aronne, detto suo fratello, nelle supposte trattative con il faraone. Questa potrebbe essere di nuovo una verità storica, un desiderabile contributo che vivifica la fisionomia del grande uomo. Può però avere un altro e più importante significato. Leggermente deformato, il racconto può riferirsi al fatto che Mosè parlasse un’altra lingua [l’egizia], e non potesse comunicare con i suoi semiti neo-egizi senza interprete, almeno all’inizio dei loro rapporti. Dunque, una nuova conferma alla tesi che Mosè fosse egizio.

Ora, però, per il momento il nostro lavoro sembra giunto alla fine. Dimostrata o no, dalla nostra ipotesi che Mosè fosse egizio, per ora non possiamo dedurre altro. Nessuno storico può ritenere il racconto biblico di Mosè e l’esodo nient’altro che una pia fantasia che ha rielaborato una remota tradizione a servizio delle sue intenzioni. Non ci è noto come si articolava la tradizione originaria; ci piacerebbe scoprire quali fossero le tendenze deformanti, che la nostra ignoranza degli eventi storici mantiene nell’oscurità. Che nella nostra ricostruzione non vi sia spazio per taluni pezzi forti della narrazione biblica, come le dieci piaghe, il passaggio del Mar Rosso, la solenne consegna della legge sul Monte Sinai, è un contrasto che non ci può sconcertare. Invece non ci può lasciare indifferenti scoprire di essere finiti in contraddizione con i risultati della sobria ricerca storica dei nostri giorni.

Gli storici moderni, preso come loro rappresentante Eduard Meyer,20 aderiscono al racconto biblico in un punto decisivo. Anche loro ritengono che le tribù ebraiche, dalle quali più tardi originò il popolo d’Israele, a un certo momento adottarono una nuova religione. Ma l’evento non avvenne in Egitto, e neppure ai piedi di un monte della penisola del Sinai, bensì in una località denominata Meribath-Qadesh, oasi contraddistinta da abbondanti sorgenti e pozzi, sita nel tratto di terra a sud della Palestina tra l’estremità orientale della penisola del Sinai e il margine occidentale arabico. Qui presero a venerare un dio, Yahweh, verosimilmente della contigua tribù araba dei madianiti, seguito presumibilmente anche da altre tribù vicine.

Yahweh fu certamente un dio vulcanico. Ora, l’Egitto è notoriamente privo di vulcani e anche i monti della penisola del Sinai non furono mai vulcanici; invece si trovano vulcani, che possono essere stati attivi sino a tempi recenti, lungo il margine occidentale dell’Arabia. Una di queste montagne dovette essere il Sinai (o Oreb), ritenuto residenza di Yahweh.21 Nonostante tutte le rielaborazioni subite dal testo biblico, l’immagine primitiva del carattere del dio può cosi essere ricostruita secondo Eduard Meyer: era un demone sinistro e sanguinario, che si aggirava di notte e aborriva la luce del giorno.22

II mediatore tra Dio e popolo nel fondare la religione fu chiamato Mosè. Era genero del sacerdote madianita Ietro; ne custodiva il gregge, quando sperimentò la chiamata divina. Ancora a Qadesh ricevette la visita di Ietro, che lo istruì.

Eduard Meyer dice di non aver mai dubitato che il racconto del soggiorno in Egitto e della catastrofe degli egizi contenga un qualche nucleo storico,23 ma non sa evidentemente né sistemare né valutare il dato di fatto riconosciuto. È pronto a derivare dagli egizi solo l’uso della circoncisione e arricchisce la nostra precedente argomentazione con due importanti indicazioni. La prima è di Giosuè che ingiunge al popolo la circoncisione per “togliersi di dosso lo scherno degli egizi”; la seconda è una citazione da Erodoto: “Gli stessi fenici (certo gli ebrei) e i siri di Palestina ammettono d’aver appreso la circoncisione dagli egizi”.24 Ma su Mosè egizio ha poco da aggiungere: “II Mosè che conosciamo è l’antenato dei sacerdoti di Qadesh, dunque una figura della leggenda genealogica in relazione a un culto, non un personaggio storico”. Infatti, a parte chi accetta in “blocco la tradizione come verità storica, ancora nessuno di chi lo tratta come figura storica ha saputo dargli un qualche contenuto, descrivendolo come individualità concreta o indicando cosa abbia fatto e quale sia stata la sua opera storica.”25

Per contro Meyer non si stanca di ribadire la relazione di Mosè con Qadesh e Madian: “La figura di Mosè, che è strettamente congiunta a Madian e ai luoghi di culto nel deserto …26 Questa figura di Mosè è ora inseparabilmente collegata con Qadesh (Massa e Meriba); imparentarsi con il sacerdote madianita completa il quadro. Al contrario, il collegamento con l’esodo e tutta la vicenda giovanile sono assolutamente secondari e solo conseguenze dell’inserimento di Mosè in una connessa storia leggendaria che continuava”.27 Meyer mostra anche come i temi contenuti nella storia giovanile di Mosè siano in seguito interamente lasciati cadere. “Mosè a Madian non è più egizio e nipote del faraone, ma un pastore cui Yahweh si rivela. Nei racconti delle piaghe non si parla più delle sue antiche relazioni, che pure sarebbe stato facile sfruttare a effetto; l’ordine di uccidere i [primogeniti] maschi degli Israeliti è completamente dimenticato. Nell’esodo e nella rovina degli egizi Mosè non ha alcun ruolo, non è neppure menzionato. Il carattere eroico, che la leggenda della sua infanzia presuppone, è assente nel Mosè posteriore, che è solo l’uomo di Dio, il taumaturgo dotato da Yahweh di poteri soprannaturali”.28

Non possiamo contestare l’impressione che questo Mosè di Qadesh e Madian, cui la tradizione poté persino attribuire l’erezione di un serpente di bronzo come dio salvatore, sia tutt’altro dal presunto gran signore egizio che dischiuse al popolo una religione che con la massima severità proibiva magie e incantesimi. Forse il nostro Mosè egizio non è meno diverso dal Mosè madianita di quanto lo sia il dio universale Aton dal demone Yahweh, misero abitante della montagna divina. Ammessa la credibilità delle recenti scoperte storiche, come non confessare che il filo, dipanato partendo dalla supposizione che Mosè fosse egizio, si è ora rotto per la seconda volta? Stavolta, sembra, senza speranza di riannodarlo.

 

5

Anche qui si trova un’inattesa via d’uscita. Gli sforzi per riconoscere in Mosè una figura che vada oltre il sacerdote di Qadesh, e per confermare la magnificenza che la tradizione esalta in lui, non sono cessati con Eduard Meyer (vedi Gressmann et al.). Nel 1922, Ernst Sellin fece una scoperta che influisce in modo decisivo sul nostro problema.29 Trovò nel profeta Osea (seconda metà dell’ottavo secolo) tracce inconfondibili di una tradizione secondo cui il fondatore religioso Mosè perì di morte violenta in una sommossa del suo popolo recalcitrante e duro di cervice. Nello stesso tempo la religione da lui introdotta fu ripudiata. Questa tradizione non si limita però a Osea, ma ricorre nella maggior parte dei profeti successivi, e anzi, secondo Sellin, fu il fondamento di tutte le attese messianiche posteriori. All’uscita dall’esilio babilonese si sviluppò nel popolo ebraico la speranza che l’uomo ignobilmente trucidato sarebbe tornato dai morti e avrebbe guidato il suo popolo pentito, e forse non solo quello, nel regno dell’eterna beatitudine. Gli evidenti rapporti con il destino di un successivo fondatore religioso non ci riguardano.

Naturalmente, non sono di nuovo in grado di giudicare se Sellin abbia interpretato correttamente i passi dei profeti. Ma, se ha ragione, possiamo attribuire credibilità storica alla tradizione da lui riconosciuta, poiché cose simili non s’inventano facilmente. Manca un motivo tangibile per inventarle e per contro, se sono realmente accadute, si capisce facilmente che si voglia dimenticarle. Non occorre accettare tutti i particolari della tradizione. Sellin pensa che Shittim, nel territorio a est del Giordano, possa esser stato lo scenario dell’assassinio di Mosè. Riconosceremo subito che tale località è per noi inaccettabile.

Riprendiamo da Sellin l’ipotesi che il Mosè egizio sia stato ucciso dagli ebrei e la religione da lui introdotta abbandonata. Essa ci permette di continuare a filare il nostro filo, senza contraddire i risultati credibili della ricerca storica. Ma per altro osiamo restare indipendenti dagli autori, procedendo in modo autonomo “sulla nostra traccia”.

L’esodo dall’Egitto rimane il nostro punto di partenza. Dovette essere un notevole numero di persone a lasciare il paese con Mosè; una piccola massa non avrebbe meritato gli sforzi di un uomo ambizioso con grandi mire. Verosimilmente i migranti avevano dimorato abbastanza a lungo in Egitto da formare un bel numero di persone. Ma non sbaglieremmo certo supponendo, con la maggior parte degli autori, che solo una frazione del futuro popolo ebraico avesse partecipato alle vicende dell’Egitto. In altre parole, la tribù tornata dall’Egitto si unì più tardi, nel tratto di terra tra Egitto e Canaan, con altre tribù affini che già da tempo si erano là stabilite. Espressione di tale unione, da cui provenne il popolo d’Israele, fu accettare una nuova religione comune a tutte le tribù, quella di Yahweh, accettazione che, secondo Eduard Meyer, si compì a Qadesh per influsso madianita. Da allora il popolo si sentì abbastanza forte da far irruzione nella terra di Canaan. Con tale svolgimento non s’accorda la scelta del territorio a est del Giordano come luogo della catastrofe di Mosè e della sua religione, che deve essersi verificata molto prima dell’unione.

È certo che elementi molto diversi contribuirono a creare il popolo ebraico, ma la differenza maggiore tra quelle tribù dovette farla l’avere o no condiviso il soggiorno in Egitto, con quanto ne seguì. Su questo punto, si può dire che la nazione risultò dall’unione di due componenti; quadra con questo dato di fatto il suo spezzarsi dopo un breve periodo di unità politica in due parti: il regno d’Israele e il regno di Giuda. La storia ama questi ricorsi in cui fusioni tardive si dissolvono e riemergono antiche separazioni. Com’è noto, l’esempio più impressionante lo produsse la Riforma che, dopo un intervallo di più di un millennio, rimise in evidenza il confine tra la Germania un tempo romana e quella rimasta indipendente. Nel caso del popolo ebraico non possiamo provare una così fedele riproduzione dell’antico stato di cose; la nostra conoscenza di quei tempi è troppo incerta per permetterci di affermare che nel regno settentrionale confluirono le genti già insediate e nel meridionale le reduci dall’Egitto, ma anche qui la successiva scissione non poteva non esser stata in qualche modo connessa con la saldatura precedente. Verosimilmente gli egizi di prima erano in numero inferiore agli altri, ma si dimostrarono più forti per civiltà, ed esercitarono un influsso più potente sulla successiva evoluzione del popolo, portando con sé una tradizione mancante agli altri.

Forse ci fu ancora qualcos’altro di più concreto di una tradizione. Fra i maggiori enigmi della preistoria ebraica c’è l’origine dei Leviti. Si fanno derivare da una delle dodici tribù di Israele, la tribù di Levi, ma nessuna tradizione è giunta a dire dove tale tribù in origine risiedesse o quale parte del paese conquistato, Canaan, le fosse assegnata. Occupavano i più importanti uffici sacerdotali, ma erano tuttavia distinti dai sacerdoti; un Levita non era necessariamente sacerdote; Levita non è il nome una casta. Il nostro presupposto sulla persona di Mosè suggerisce una spiegazione. Non è attendibile che un gran signore come l’egizio Mosè si esponesse senza compagni a un popolo a lui straniero. Portò certo con sé il suo seguito, i suoi seguaci più stretti, i suoi scribi, i suoi servi. Questi furono in origine i Leviti. L’affermazione della tradizione, che Mosè fosse un Levita, pare una trasparente deformazione dello stato delle cose: i Leviti erano la gente di Mosè. Questa soluzione si basa sul fatto già citato nel mio saggio precedente, che più tardi solo tra i Leviti ricorressero ancora nomi egizi.30 Va ammesso che un buon numero di questa “gente di Mosè” sfuggisse alla catastrofe toccata a Mosè stesso e alla religione da lui fondata. Essi aumentarono di generazione in generazione; si fusero con il popolo in cui vivevano, ma rimasero fedeli al loro signore, ne preservarono la memoria e curarono la tradizione del suo insegnamento. All’epoca dell’unione con i credenti in Yahweh formarono una minoranza influente, di civiltà superiore agli altri.

Butto lì provvisoriamente l’ipotesi che fra il tramonto di Mosè e la fondazione della religione a Qadesh siano trascorse due generazioni, forse anche un secolo. Non vedo mezzi per decidere se i neo-egizi, come vorrei chiamarli per distinguerli, ovvero i reduci dall’Egitto, si incontrarono con le tribù loro affini dopo che queste avevano accolto la religione di Yahweh o già prima. Si potrebbe ritenere più verosimile l’ultima ipotesi. Per il risultato finale non fa differenza. Ciò che accadde a Qadesh fu un compromesso, in cui la parte avuta dalle tribù mosaiche è inconfondibile.

Qui possiamo di nuovo richiamarci alla testimonianza della circoncisione che, come fossile guida, per così dire, ci ha ripetutamente reso i più importanti servigi. Quest’uso divenne precetto anche nella religione di Yahweh, ed essendo indissolubilmente connesso all’Egitto, la sua accoglienza può essere stata solo una concessione alla gente di Mosè, la quale – con i Leviti tra loro – non voleva rinunciare a tale segno di consacrazione. Tanto volevano salvare della loro antica religione che in cambio erano disposti ad accettare la nuova divinità e quanto ne andavano predicando i sacerdoti di Madian. È possibile che avessero ottenuto altre concessioni. Abbiamo già visto che il rituale giudaico prescriveva certe limitazioni nell’uso del nome di Dio. Invece di Yahweh si doveva dire Adonai. Sarebbe ovvio introdurre questo precetto nel nostro contesto, ma sarebbe una congettura senza ulteriore appoggio. Il divieto sul nome di Dio è notoriamente un tabù preistorico. Non si capisce perché fosse rinnovato proprio nella legislazione giudaica; non è escluso che sia accaduto per influsso di un nuovo motivo. Non è necessario supporre che il divieto fosse rigorosamente osservato; rimase la libertà di usare il nome del dio Yahweh per formare nomi personali teofori, come nelle combinazioni Iochanan, Yehu, Yeshua). Ma c’è un motivo particolare per questo nome. È noto che la critica biblica ammette due fonti scritte dell’Esateuco, designate con J e con E, perché una usa il nome di Dio Jahvè (Yahweh), l’altra Elohim. Elohim, è vero, non Adonai, ma può bastare l’osservazione di uno dei nostri autori: “I nomi differenti sono chiaro contrassegno di divinità originariamente differenti”.31

Abbiamo fatto valere la circoncisione come prova del compromesso raggiunto con la fondazione della religione a Qadesh. Il suo contenuto risulta dalle relazioni concordi che ne danno J ed E, perciò risalenti a una fonte comune (tradizione scritta o orale). La tendenza principale era dimostrare la grandezza e la potenza del nuovo dio Yahweh. Poiché la gente di Mosè dava tanto valore all’esperienza dell’esodo dall’Egitto, Yahweh doveva essere riconosciuto autore di tale atto di liberazione; l’evento fu arricchito di abbellimenti, che manifestavano la terribile maestà del dio vulcanico, come la colonna di fumo che di notte si mutava in colonna di fuoco o il turbine che prosciugò temporaneamente il mare, così che gli inseguitori annegarono al ritorno della massa d’acqua. Allora l’esodo e la fondazione della religione furono accostati, misconoscendo il lungo intervallo di tempo tra i due eventi; anche l’istituzione della legge non si compì a Qadesh, ma ai piedi della montagna di Dio nel segno di un’eruzione vulcanica. Ma questa presentazione dei fatti faceva un grave torto alla memoria dell’uomo Mosè; era stato lui, non il dio vulcanico, a liberare il popolo dall’Egitto. Così gli era dovuta una compensazione che fu trovata trasferendo Mosè a Qadesh o al Sinai-Oreb e mettendolo al posto dei sacerdoti madianiti.

Discuteremo più avanti come questa soluzione soddisfacesse a una seconda, innegabilmente urgente tendenza. In questo modo si giunse in un certo senso a un accomodamento: a Yahweh, che sedeva su una montagna a Madian, fu concesso di estendersi fino all’Egitto, e viceversa l’esistenza e l’attività di Mosè giunsero fino a Qadesh e al territorio a est del Giordano. Furono così fuse la sua persona e quella dell’altro, successivo fondatore religioso, il genero del madianita Ietro, cui egli prestò il suo nome, Mosè. Ma di quest’altro Mosè non abbiamo nulla da dire di personale, tanto è oscurato dal primo, il Mosè egizio. A meno di non cogliere le contraddizioni nel modo di caratterizzare Mosè, che si trovano nel testo biblico, dove Mosè è dipinto spesso come autoritario, collerico e persino violento, ma talvolta come il più mansueto e il più paziente degli uomini. È chiaro che queste ultime qualità sarebbero servite a poco al Mosè egizio, che con il suo popolo si proponeva di compiere così grandi e ardue imprese; forse appartenevano all’altro, al madianita. Credo sia giustificato separare di nuovo le due figure, e supporre che il Mosè egizio non sia mai stato a Qadesh né abbia mai udito il nome di Yahweh e che il Mosè madianita non abbia mai messo piede in Egitto né saputo nulla di Aton. Per saldare le due persone, la tradizione o la leggenda si trovò costretta a portare il Mosè egizio a Madian, e abbiamo visto che in proposito circolava più di una spiegazione.

 

6.

Con ciò siamo pronti a sentirci di nuovo rimproverare d’aver esposto la nostra ricostruzione della preistoria del popolo d’Israele con eccessiva, ingiustificata sicurezza. La critica non ci pesa troppo, trovando eco nel nostro stesso giudizio. Noi stessi sappiamo che il nostro edificio ha i suoi punti deboli, ma anche i suoi lati forti. Nel complesso prevale l’impressione che valga la pena continuare il lavoro nella direzione presa. Il racconto biblico che ci sta davanti contiene indicazioni storiche preziose, anzi inestimabili, però deformate dall’influsso di potenti tendenze e decorate dai prodotti dell’invenzione poetica. Finora, nel corso dei nostri sforzi abbiamo potuto individuare una di queste tendenze deformanti. Ciò che abbiamo trovato ci mostra la via da percorrere. Dobbiamo scoprire altre tendenze simili. Con punti d’appoggio per riconoscere le deformazioni da esse prodotte, porteremo alla luce dietro di esse nuovi frammenti del vero stato delle cose.

Anzitutto, facciamoci raccontare dalla critica biblica quanto ci sa dire sulla storia delle origini nell’Esateuco (i cinque libri di Mosè e il libro di Giosuè, i soli che qui ci interessano).32 Come fonte scritta più antica, c’è J, cioè il Yahwista, di recente identificato nel sacerdote Ebiatar, contemporaneo di re Davide. Un po’ dopo, non si sa quanto, si colloca il cosiddetto Elohista, che appartiene al regno settentrionale.33 Dopo la caduta del regno settentrionale nel 722 un sacerdote ebreo riunì sezioni di J e di E, aggiungendovi contributi personali. La sua compilazione si designa con JE. Nel settimo secolo fu aggiunto il Deuteronomio, il quinto libro, ritrovato – a quanto si dice – intero nel Tempio. All’epoca successiva alla distruzione del Tempio (586), durante l’esilio e dopo il ritorno, fu compilato il rimaneggiamento noto come “Codice sacerdotale”; nel quinto secolo l’opera fu sottoposta all’ultima redazione, da allora non più sostanzialmente modificata.34

Molto verosimilmente la storia di re Davide e del suo tempo è opera di un contemporaneo. È un vero e proprio scritto storico, cinquecento anni prima di Erodoto, “padre della storia”. Ci si avvicina a comprendere quest’opera ammettendo un’influenza egizia, nel senso della nostra ipotesi.35 È emersa persino la congettura che gli Israeliti del periodo più antico, cioè gli scribi di Mosè, non fossero estranei all’invenzione del primo alfabeto.36 Naturalmente, sfugge alla nostra conoscenza in che misura le storie dei tempi remoti si rifacciano a documenti precedenti o a tradizioni orali, e quali intervalli di tempo intercorrano nei singoli casi tra un avvenimento e la sua fissazione [per iscritto]. Però il testo che oggi ci sta davanti racconta abbastanza anche il proprio destino. Due trattamenti tra loro opposti vi hanno lasciato tracce. Da un lato se ne sono impadronite delle rielaborazioni che lo hanno falsificato, mutilato e ampliato in funzione di loro intenzioni segrete, sino a capovolgerne il senso; dall’altro è stato avvolto da una devozione piena di riguardi, che ha voluto mantenere tutto così come l’aveva trovato, senza badare se fosse coerente o si smentisse da sé. Così quasi in ogni parte si sono realizzate vistose omissioni, fastidiose ripetizioni, evidenti contraddizioni, indizi che tradiscono cose che non si intendeva comunicare. La deformazione di un testo è simile a un delitto. La difficoltà non sta nell’eseguire l’atto, ma nell’eliminare le tracce. Alla parola Entstellung (deformazione) si potrebbe dare il doppio senso che le spetta, anche se oggi non lo si usa più. Non dovrebbe significare solo modificare nella forma, ma anche portare in altro luogo, spostare altrove. Così in molti casi di deformazione testuale possiamo contare di trovare nascosto altrove, sia pure modificato e avulso dal contesto, il materiale soppresso e ripudiato. Solo che non è sempre facile riconoscerlo.

Le tendenze deformanti, che pretendiamo di acciuffare, dovettero aver avuto effetto sulle tradizioni già prima di ogni trascrizione. Una di esse, forse la più forte di tutte, l’abbiamo già scoperta. Abbiamo detto che, introdotto il nuovo dio Yahweh a Qadesh, bisognava far qualcosa per glorificarlo. Sarebbe più giusto dire che occorreva installarlo, dargli spazio, cancellare le tracce di precedenti religioni. Sembra che ciò sia riuscito del tutto per la religione delle tribù già insediate, di cui non sentiamo più nulla. Non era così facile con i reduci, che non si lasciavano derubare dell’esodo dall’Egitto, dell’uomo Mosè e della circoncisione. Dunque, erano stati in Egitto, ma lo avevano di nuovo lasciato, e da allora in poi ogni traccia dell’influsso egizio doveva essere misconosciuta. L’uomo Mosè fu tolto di mezzo spostandolo a Madian e a Qadesh e fondendolo con il sacerdote di Yahweh, promotore della religione. La circoncisione, l’indizio più grave di dipendenza dall’Egitto, dovette essere mantenuta, ma a dispetto di ogni evidenza non si tralasciò il tentativo di distaccarla dall’Egitto. Si può intendere solo come intento di contrastare lo stato di cose rivelatore l’enigmatico passo dell’Esodo [4, 24-26], schematizzato in modo incomprensibile, secondo cui un giorno Yahweh si adirò con Mosè per aver trascurato la circoncisione, ma la moglie madianita gli salvò la vita procedendo in fretta all’operazione! Incontreremo presto un’altra invenzione intesa a rendere innocua una prova scomoda.

Non si può indicarla come nuova tendenza emergente; piuttosto continua la precedente, mostrando gli sforzi di contestare che Yahweh fosse un dio nuovo, estraneo agli ebrei. A tal fine furono introdotte le leggende dei progenitori del popolo: Abramo, Isacco e Giacobbe. Yahweh assicura di essere già stato il Dio di questi padri; certo, ma egli stesso dovrebbe ammettere che non lo adoravano sotto questo suo nome.37

Non aggiunge neppure sotto quale altro. Sta qui l’occasione per il colpo decisivo all’origine egizia dell’uso della circoncisione: Yahweh la pretese già da Abramo, posta come segno del patto tra sé e la posterità di Abramo. Ma fu un’invenzione particolarmente maldestra. Se si vuole distinguere con un contrassegno qualcuno dagli altri e prediligerlo rispetto a loro, si sceglie qualcosa che non si trovi già negli altri, non qualcosa che milioni di altri potrebbero ugualmente esibire. Invece, l’Israelita trasferito in Egitto avrebbe dovuto riconoscere in tutti gli egizi come fratelli nel patto, fratelli in Yahweh. Non è possibile che gli Israeliti che composero il testo biblico ignorassero il dato di fatto che in Egitto la circoncisione era di casa. Il passo da Giosuè citato da Eduard Meyer lo ammette senza dubbi, ma appunto per questo doveva essere misconosciuto ad ogni costo.

Dalle costruzioni religiose dei miti non si può pretendere che abbiano molti riguardi per la consistenza logica. Altrimenti il sentimento popolare si sarebbe giustamente scandalizzato per il comportamento di una divinità che conclude con gli antenati un patto con obbligazioni reciproche, e poi per secoli non si cura dei partner umani, finché improvvisamente non le viene in mente di manifestarsi di nuovo ai loro discendenti. Ancora più sconcertante è l’idea che a un tratto un dio “scelga” un popolo, dichiarandolo suo popolo e dichiarando sé stesso suo dio. Credo che sia l’unico caso del genere nella storia delle religioni umane. Altrove dio e popolo sono inseparabilmente connessi, sin dall’inizio una cosa sola; certo, talvolta si sente che un popolo si prenda un altro dio, mai però che un dio si cerchi un altro popolo. Forse ci avviciniamo a comprendere questo evento unico, pensando alle relazioni tra Mosè e il popolo ebraico. Mosè si era abbassato fino agli ebrei, ne aveva fatto il suo popolo; erano loro il suo “popolo eletto”.38

Introdurre i progenitori serviva anche a un altro intento. Erano vissuti in Canaan; la loro memoria era legata a determinati luoghi del paese. Chissà che all’origine non fossero essi stessi eroi cananei o figure divine locali, che gli immigrati Israeliti sequestrarono per la loro preistoria. Appellandosi a loro, in certo qual modo gli Israeliti affermavano la loro origine autoctona e si premunivano contro l’odio che attira il conquistatore straniero. Fu una svolta abile che il dio Yahweh restituisse loro ciò che un tempo i loro avi avevano posseduto.

Nelle successive aggiunte al testo biblico si impose l’intenzione di evitare di citare Qadesh. Il luogo in cui la religione era stata fondata fu fissato per sempre nella montagna divina Sinai-Oreb. Il motivo non è del tutto evidente; forse non si voleva richiamare l’influsso di Madian. Ma tutte le deformazioni posteriori, specie quelle del periodo del cosiddetto Codice sacerdotale, servivano a un’altra intenzione. Non era più necessario modificare racconti di avvenimenti in base ai propri desideri, dato che era stato fatto già da tempo. Ci si sforzò invece di spostare all’indietro nel tempo comandamenti e istituzioni del presente, fondandoli di regola sulla legislazione mosaica, per far derivare da essa la loro pretesa di sacralità e obbligatorietà. Per quanto falso fosse il quadro del passato così risultante, questo modo di procedere non mancava di una certa giustificazione psicologica. Rifletteva il dato di fatto che in tutto quel tempo – circa ottocento anni dall’esodo dall’Egitto alla fissazione del testo biblico sotto Esdra e Nehemia – la religione di Yahweh si era ridotta a coincidere, forse fino a identificarsi, con la religione originaria di Mosè.

Questo è il risultato essenziale, il contenuto carico di destino della storia religiosa ebraica.

 

7

Fra tutti i fatti preistorici che i successivi scrittori, sacerdoti e storici presero a rielaborare, ne spiccava uno che i migliori e più ovvi motivi umani prescrivevano di sopprimere. Fu l’assassinio del gran condottiero e liberatore Mosè, che Sellin indovinò dalle allusioni dei Profeti. Il prospetto di Sellin non si può dire fantastico, anzi è abbastanza verosimile. Provenendo dalla scuola di Akhenaton, Mosè non usava metodi diversi da quelli del re: dava ordini, imponeva al popolo la sua fede.39 Forse la dottrina di Mosè era ancora più ruvida di quella del suo maestro; non aveva bisogno di continuare ad appoggiarla al dio solare, perché la scuola di On non significava nulla per il suo popolo straniero. Mosè e Akhenaton andarono incontro al medesimo destino, che attende tutti i despoti illuminati. Il popolo ebraico di Mosè era tanto poco in grado di reggere una religione così altamente spiritualizzata, quanto gli egizi della diciottesima dinastia, non trovando nelle sue rappresentazioni una soddisfazione ai propri bisogni. In entrambi i casi accadde la stessa cosa: messi sotto tutela e sminuiti, si sollevarono e rigettarono il fardello della religione loro imposta. Ma, mentre i docili egizi attesero finché il destino non tolse di mezzo la persona sacra del faraone, i selvaggi semiti presero in mano il loro destino e si sbarazzarono del tiranno.40

Non si può nemmeno dire che il testo biblico giunto sino a noi non ci prepari a un esito simile riguardo a Mosè. Il racconto della “peregrinazione nel deserto”, che potrebbe corrispondere al tempo del dominio di Mosè, descrive una catena di gravi agitazioni contro la sua autorità che, per ordine di Yahweh, furono anche punite e soffocate nel sangue. È facile immaginare che una di tali rivolte abbia avuto un esito diverso da quello che il testo pretende. Anche l’apostasia del popolo dalla nuova religione è narrata nel testo, sia pure come episodio. È la storia del vitello d’oro, in cui con abile inversione la rottura delle Tavole della Legge (da intendersi simbolicamente: “Ha infranto la legge") è attribuita a Mosè e motivata con il suo adirato sdegno.

Venne il tempo in cui si compianse l’uccisione di Mosè e si cercò di dimenticarla. Fu certo al tempo dell’incontro di Qadesh. Ma, avvicinando la data dell’esodo a quella della fondazione religiosa nell’oasi e facendovi partecipare Mosè invece dell’altro personaggio, non solo si appagarono le pretese della gente di Mosè, ma si smentì anche con successo il fatto penoso della sua fine violenta. In realtà è molto inverosimile che Mosè potesse prender parte alla fondazione svoltasi a Qadesh, anche ammettendo che la sua vita non fosse stata stroncata prima.

Ora dobbiamo tentare di chiarire i rapporti cronologici fra questi fatti. Abbiamo collocato l’esodo dall’Egitto nel periodo successivo all’estinzione della diciottesima dinastia (1350). Avvenne o allora o poco dopo, dato che i cronisti egizi hanno calcolato gli anni successivi di anarchia nel regno di Haremhab, che vi pose fine e regnò sino al 1315. Il più vicino, ma anche unico, punto di riferimento cronologico è dato dalla stele del faraone Meneptah (1225-1215 a.C.), che si vanta della vittoria su lsiraal (Israele) e della distruzione del suo seme (?). Purtroppo l’uso che si può fare di questa iscrizione è dubbio, valendo come dimostrazione che a quel tempo tribù israelitiche si erano già insediate a Canaan.41 Giustamente Eduard Meyer deduce da questa stele che Meneptah non poté essere il faraone dell’esodo, come si presumeva prima senza difficoltà. L’esodo deve essere stato precedente. La questione circa il faraone dell’esodo ci pare del tutto oziosa. Non vi fu un faraone dell’esodo che cadde in un interregno. Ma la scoperta della stele di Meneptah non fa luce neanche sulla possibile data dell’unione e dell’accettazione della nuova religione a Qadesh. Tutto ciò che possiamo dire con certezza è che fu in un momento qualunque tra il 1350 e il 1215 a.C.. In questi cent’anni, supponiamo che l’esodo sia molto vicino all’inizio e che i fatti di Qadesh non siano lontani dalla fine. La maggior parte di questo periodo preferiamo riservarla all’intervallo tra i due eventi. Infatti, abbiamo bisogno di un periodo di tempo abbastanza lungo affinché, dopo l’assassinio di Mosè, le passioni tra i reduci si acquietino e l’influsso della gente di Mosè, i Leviti, aumentino sino al punto presupposto dal compromesso di Qadesh. Due generazioni, sessant’anni all’incirca, potrebbero bastare a malapena. Ciò che si deduce dalla stele di Meneptah ci lascia troppo poco tempo, e poiché riconosco che nel nostro montaggio una supposizione si fonda unicamente sull’altra, concedo che questa discussione rivela un lato debole della nostra costruzione. Purtroppo tutto ciò che concerne l’insediamento del popolo ebraico a Canaan è così oscuro e confuso! Ci rimane forse una via d’uscita: supporre che il nome d’Israele sulla stele non si riferisca alle tribù le cui vicende ci sforziamo di seguire e che più tardi si unirono nel popolo d’Israele. D’altronde anche il nome di habiru = ebrei fu trasferito a questo popolo, ma proviene dal periodo di Amarna.

In qualsiasi momento sia avvenuta l’unificazione delle tribù in nazione grazie all’accettazione di una religione comune, per la storia del mondo avrebbe potuto facilmente dimostrarsi un atto del tutto indifferente. La nuova religione poteva essere travolta dal fluire degli eventi; Yahweh avrebbe potuto prender posto nella processione degli dei passati, vista dallo scrittore Flaubert; avrebbero potuto andar “perdute” tutte e dodici le tribù del suo popolo, e non solo le dieci cercate così a lungo dagli Anglosassoni. Il dio Yahweh, al quale il Mosè madianita portava allora un nuovo popolo, non era verosimilmente un essere preminente sotto nessun aspetto. Era piuttosto un rozzo dio locale, di animo meschino, violento e assetato di sangue; aveva promesso ai suoi fedeli un paese “stillante latte e miele” e li aveva incitati a scacciare i suoi attuali abitanti e a “passarli a fil di spada". C’è da meravigliarsi che, nonostante tutte le rielaborazioni delle narrazioni bibliche, sia rimasto così tanto da riconoscerne l’essenza originaria. Non è neppure sicuro che la sua religione fosse un vero monoteismo, che contestasse la natura divina degli dei di altri popoli. Verosimilmente bastava che il proprio dio fosse più potente di tutti gli altri dei stranieri. Se tuttavia in seguito tutto andò diversamente da come questi inizi lasciavano prevedere, si può rintracciare la causa in un unico dato di fatto. A una parte del popolo il Mosè egizio aveva fornito un’altra rappresentazione di dio, più altamente spiritualizzata, l’idea di una divinità unica che abbracciasse tutto il mondo, non meno amante di tutto che onnipotente, avversa a ogni cerimoniale e magia, che agli uomini proponeva come meta suprema una vita in verità e giustizia. Per quanto incomplete possano essere le narrazioni sul lato etico della religione di Aton, non può essere senza valore rilevare che nelle sue iscrizioni Akhenaton si autodesignasse come “vivente in Maat” (verità, giustizia).42 A lungo andare, verosimilmente dopo breve tempo, non importò più che il popolo avesse rigettato l’insegnamento di Mosè e si fosse sbarazzato di lui. La sua tradizione rimase e la sua influenza riuscì, sia pure solo gradualmente nel corso dei secoli, là dove Mosè stesso aveva fallito. Il dio Yahweh ottenne un onore immeritato quando, da Qadesh in poi, gli fu attribuita l’impresa della liberazione, compiuta da Mosè, ma l’usurpazione gli costò cara. L’ombra del dio di cui aveva preso il posto, divenne più forte di lui; alla fine dell’evoluzione, dietro la sua essenza venne alla luce quella del dio mosaico dimenticato. Nessuno dubita che solo l’idea di quest’altro dio abbia permesso al popolo d’Israele di sopravvivere a tutti i colpi del destino e l’abbia mantenuto in vita sino a oggi.

Non è più possibile accertare quale parte i Leviti abbiano avuto nella vittoria finale del dio mosaico su Yahweh. In passato, quando fu stipulato il compromesso di Qadesh e il ricordo del signore di cui erano seguaci e conterranei era ancora vivo, i Leviti si schierarono dalla parte di Mosè. Nei secoli seguenti si erano fusi con il popolo o con il clero; ufficio principale dei sacerdoti era divenuto quello di sviluppare e sorvegliare i riti e preservare le sacre scritture rielaborandole. Ma i sacrifici e tutto il cerimoniale non erano in fondo solo magia e stregoneria, già incondizionatamente condannate dall’antica dottrina di Mosè? Sorse allora in mezzo al popolo una successione ininterrotta di uomini, non legati a Mosè per discendenza, ma presi dalla grande e potente tradizione gradualmente cresciuta nell’oscurità; questi uomini, i profeti, annunciarono instancabilmente l’antica dottrina mosaica, secondo cui la divinità disdegna i sacrifici e le cerimonie e chiede solamente fede e una vita vissuta secondo verità e giustizia (Maat). Gli sforzi dei profeti ebbero durevole successo; gli insegnamenti con cui ristabilivano l’antica fede divennero contenuto permanente della religione ebraica. Va a onore del popolo ebraico aver conservato tale tradizione e avere espresso uomini che se ne fecero banditori, anche se lo stimolo venne dall’esterno, da un grande straniero.

Non mi sentirei sicuro su questa esposizione, se non potessi rifarmi al giudizio di altri ricercatori competenti in materia, che attribuiscono a Mosè la stessa importanza nella storia religiosa ebraica, pur non riconoscendo la sua origine egizia. Per esempio, afferma Sellin:43 “Pertanto abbiamo dovuto rappresentarci l’autentica religione di Mosè – la fede nell’unico Dio morale da lui annunciato – fin da principio come patrimonio di una ristretta cerchia del popolo. Fin da principio, è inutile aspettarci di ritrovarla nel culto ufficiale, nella religione dei sacerdoti, nella fede del popolo. Fin da principio possiamo solo contare sul fatto che, ora qui ora là, una scintilla si levi di nuovo dal fuoco spirituale che un giorno egli accese e che le sue idee non si siano estinte, ma che qua e là silenziosamente abbiano avuto effetto sulle credenze e i costumi, finché presto o tardi, in virtù di particolari esperienze o di personalità particolarmente penetrate dal suo spirito, non tornino ancora una volta alla luce con forza accresciuta e guadagnino la fiducia delle masse popolari. È da tale angolo visuale che va sin da principio considerata la storia dell’antica religione israelitica. Chi volesse ricostruire la religione mosaica lasciandosi guidare dalla religione com’era, secondo i documenti storici, nella vita popolare dei primi cinque secoli in Canaan, commetterebbe il più grave errore di metodo.” E ancora più chiaramente Volz44 pensa che “l’opera altissima di Mosè fu dapprima capita e messa in pratica solo debolmente e scarsamente, finché nel corso dei secoli toccò sempre più i cuori e infine trovò nei grandi profeti quell’affinità spirituale che permise di continuare l’opera del Solitario”.

Sarei così giunto al termine del mio lavoro, che doveva servire solo a inserire la figura di un Mosè egizio nella storia ebraica. Per esprimere nella formula più breve le nostre conclusioni, alle ben note dualità di questa storia – due masse popolari che concorrono a formare la nazione, due regni in cui si scinde questa nazione, due nomi divini nelle fonti scritte della Bibbia – ne aggiungiamo altre due nuove: due fondazioni religiose, la prima rimossa dalla seconda e tuttavia poi riapparsa vittoriosamente alle sue spalle, e due fondatori religiosi, che portavano entrambi lo stesso nome, Mosè, le cui personalità occorre distinguere l’una dall’altra. E tutte queste dualità sono conseguenze necessarie della prima, cioè che una parte del popolo ebbe un’esperienza da considerare traumatica, da cui l’altra restò lontana.

Oltre a ciò, vi sarebbero ancora molte cose da discutere, spiegare e stabilire. Solo allora si giustificherebbe l’interesse per il nostro studio puramente storico. In cosa consista la vera natura di una tradizione, su cosa poggi il suo particolare potere, come sia impossibile negare l’influsso personale di alcuni grandi uomini sulla storia mondiale, che delitto contro la grandiosa multiformità della vita umana commetta chi pretende riconoscere solo i fattori dei bisogni materiali, da quali sorgenti alcune idee, in particolare le idee religiose, traggano forza per soggiogare gli individui e i popoli – studiare tutto ciò nel caso particolare della storia ebraica, sarebbe impresa affascinante. Il mio lavoro, così sviluppato, andrebbe a ricongiungersi con le tesi che ho messo per iscritto, or sono venticinque anni, in Totem e tabù (1912-13). Ma non confido di avere più la forza per simile impresa.

 

 

1 “Imago”, voI. 23, I, 1937.

2 Non abbiamo idea del numero dei partecipanti all’esodo.

3 J.H. Breasted lo chiama “il primo individuo della storia umana”. [A History of Egypt, London 1906 p. 116].

4 Quanto segue proviene principalmente dalle descrizioni di Breasted nella sua History of Egypt e in The Dawn ot Conscience, Londra 1934, e dalle pagine sullo stesso argomento nella Cambridge Ancient History, vol. 2 [Cambridge 1924; i capitoli di storia egizia sono di J.H. Breasted].

5 Forse anche la stessa Nefertiti, amata sposa di Amenofi.

6 Breasted, History of Egypt, cit., p. 360: “Ma, per quanto evidente possa essere la provenienza della nuova religione di Stato da Eliopoli, essa non era semplicemente adorazione del sole; la parola Aton era usata al posto dell’antica per ‘dio’ (nuter), e il dio è chiaramente distinto dal sole materiale”. “È evidente che il re stava deificando la forza che con il sole si faceva sentire sulla terra. Dawn of Conscience, cit., p. 279. Analogo il giudizio di A. Erman su una formula in onore del dio: “Sono parole il più possibile astratte che non rendono onore all’astro in sé, ma all’essenza che in esso si manifesta.” (La religione egizia, 1905).

7 Breasted, History of Egypt, cit., p. 374.

8 Il nuovo nome del re significa pressappoco la stessa cosa del precedente: “Il dio è contento”. Confronta i nomi germanici Gotthold [Dio propizio], Gottfried [Dio placato].

9 Là fu trovata nel 1887 la corrispondenza, così importante per la conoscenza storica, tra i re egizi e i loro amici e vassalli d’Asia.

10 V. History of Egypt, p. 363.

11 Secondo A. Weigall, The Life and Times of Akhnaton (Londra 1922, p. 120 sg.), Akhenaton non voleva sentir parlare dell’inferno, con i suoi terrori contro cui occorreva difendersi con innumerevoli formule magiche: “Akhenaton gettò nel fuoco tutte queste formule. Geni, spettri, spiriti, mostri, semidei, demoni e lo stesso Osiride con tutta la sua corte furono dati alle fiamme e ridotti in cenere”. [Freud cita in inglese].

12 “Akhenaton non permise di scolpire alcuna immagine di Aton. Il vero Dio, diceva il re, non aveva forma; e mantenne questa opinione per tutta la vita.” (ivi, p. 103).

13 “Non si fece più parola di Osiride e del suo regno”. (Erman, cit., p. 70). “Osiride è completamente ignorato. Non è mai menzionato in alcun documento di Akhenaton o nelle tombe di Amarna”. (Breasted, Down, cit., p. 291). [Freud cita in inglese].

14 Solo pochi passi in Weigall: “Il dio Atum, che designava Ra come sole al tramonto, aveva forse la stessa origine di Aton, generalmente adorato nella Siria settentrionale”; e “una regina straniera con il suo seguito poté pertanto sentirsi più attratta da Eliopoli che da Tebe” (cit., pp. 12 e 19).

15 Procedendo con la tradizione in modo così libero e arbitrario, utilizzandola per confermare, quando ci serve, e rigettandola senza esitazione, quando ci contraddice, sappiamo bene di esporci a severe critiche di metodo e d’indebolire la forza probante della nostra esposizione. Ma è l’unico modo di trattare un materiale la cui attendibilità – lo si sa con precisione – è stata gravemente compromessa da tendenze deformanti. Si spera di trovare qualche giustificazione più avanti, quando se ne rintracceranno i motivi segreti. In ogni caso non è possibile giungere alla certezza e del resto possiamo dire che tutti gli altri autori hanno proceduto allo stesso modo.

 

16 Se Mosè fu un alto ufficiale, è ancor più facile per noi capire il ruolo di condottiero che assunse per gli ebrei; se fu un sacerdote, era ovvio presentarsi come fondatore di religione. In entrambi i casi avrebbe continuato la professione precedente. Un principe di casa reale poteva essere facilmente sia governatore sia sacerdote. Nel racconto di Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche [lb. 2, 238 sg.]), che accetta la leggenda dell’esposizione ma sembra conoscere altre tradizioni oltre la biblica, Mosè condusse, come comandante egizio, una vittoriosa campagna militare in Etiopia.

17 Ciò sarebbe avvenuto un secolo prima di quanto ammesso dalla maggior parte degli storici, che lo spostano nella diciannovesima dinastia sotto Meneptah o forse un po’ dopo, perché le cronache ufficiali sembrano includere l’interregno nel regno di Haremhab.

18 Erodoto, che visitò l’Egitto intorno al 450 a.C., nel racconto del suo viaggio attribuisce al popolo egizio una caratteristica che mostra sorprendente somiglianza con aspetti ben noti del tardo giudaismo: “Sono in ogni rispetto più religiosi di tutti gli altri uomini, da cui si distinguono anche per parecchie costumanze. Così per la circoncisione, che furono i primi a introdurre per ragioni di pulizia; inoltre per il loro onore per i maiali, che certo è connesso con il fatto che Seth, sotto forma di nero verro, ferì Oro; e infine e soprattutto per il rispetto per le vacche, che essi mai mangerebbero o sacrificherebbero, perché ciò offenderebbe Iside dalle corna di vacca. Per questo nessun egizio e nessuna egizia bacerebbe un Greco o userebbe il suo coltello, il suo spiedo o il suo paiolo o mangerebbe carne di bue, per sé puro, che fosse stata tagliata con un coltello greco … guardano dall’alto in basso con ristretta arroganza gli altri popoli, che non sono puliti e non sono come loro vicini agli dei” (da Erman, cit., p. 181).

Non vanno naturalmente dimenticati i paralleli che si riscontrano nella vita del popolo indiano. Infine, che cosa ha suggerito al poeta ebreo Heine, nel diciannovesimo secolo, di lamentarsi della propria religione come della “piaga che ci siamo trascinata dietro dalla valle del Nilo, l’insana credenza veteroegizia”?

19 In Giuseppe Flavio lo stesso aneddoto in forma leggermente diversa.

20 Ed. Meyer, “Die Israeliten und ihre Nachbarstämme” (Gli Israeliti e i loro discendenti), 1906, pp. 60 sg.

21 In alcuni passi del testo biblico si parla ancora di Yahweh disceso dal Sinai a Meribah-Qadesh.

22 Ivi, pp. 38, 58

23 Ivi, p. 49.

24 Ivi, p. 449.

25 Ivi, p. 451.

26 Ivi, p. 49.

27 Ivi, p. 72.

28 Ivi, p. 47.

29 E. Sellin, “Mose und seine Bedeutung für die israelitisch-jüdische

Religionsgeschichte” (Mosè e la sua importanza per la religione giudeo-israelitica), Lipsia 1922.

30 Questa supposizione ben s’accorda con quanto dice Yahuda a proposito delI’influsso egizio sulla letteratura ebraica primitiva. Vedi A.S. Yahuda, “Die Sprache des Pentateuch in ihren Beziehungen zum Ägyptischen” (Il linguaggio del Pentateuco in riferimento all’egizio), Berlino 1929.

31 Gressmann, cit., p. 54.

32 Encyclopaedia Britannica, 11 ed. (1910) vol. 3, voce: “Bible”.

33 Yahwista e Elohista furono per la prima volta distinti nel 1753 da Astruc.

34 È storicamente sicuro che la fissazione definitiva del tipo ebraico fu il risultato della riforma di Esdra e Nehemia nel V secolo prima della nascita di Cristo, quindi dopo l’esilio sotto il dominio persiano tanto ben disposto verso gli ebrei. Secondo i nostri calcoli erano trascorsi circa 900 anni dalla comparsa di Mosè. In questa riforma furono presi seri provvedimenti per assicurare la santità del popolo intero; la separazione dai popoli vicini fu resa effettiva vietando i matrimoni misti; il Pentateuco, il vero libro della legge, fu portato in forma definitiva e fu compiuto il rimaneggiamento noto come “Codice sacerdotale”. Pare sicuro tuttavia che la riforma non introdusse nuove finalità, ma accolse e consolidò sollecitazioni preesistenti.

35 Cfr. Yahuda, cit..

36 Sottoposti al divieto delle immagini, avevano un motivo in più per abbandonare la scrittura ideografica dei geroglifici, adattando la scrittura dei suoi segni a esprimere una nuova lingua.

37 Le restrizioni nell’uso di questo nome non diventano così più comprensibili ma ben più sospette.

38 Yahweh fu indubbiamente un dio vulcanico. Per gli abitanti dell’Egitto non c’era motivo di adorarlo. Non sono certo il primo a essere colpito dalla consonanza del nome Yahweh con la radice dell’altro nome divino lu-piter (lo-vis). Il nome Iehohanan, all’incirca [come il tedesco] Gotthold e Annibale, l’equivalente punico, composto usando l’abbreviazione di Yahweh ebraico, è divenuto, nelle forme Johann, John, Jean, Juan, il nome preferito della cristianità europea. Gli Italiani, che lo rendono con “Giovanni” e chiamano “giovedì” un giorno della settimana, riportano alla luce una somiglianza che eventualmente non significa nulla o forse moltissimo. Si aprono qui ampie prospettive, anche molto incerte. Sembra che, in quei secoli oscuri e difficilmente accessibili alla ricerca storica, i paesi del bacino orientale del Mediterraneo siano stati teatro di frequenti e violente eruzioni vulcaniche, che dovettero suscitare una fortissima impressione sugli abitanti. Evans suppone che anche la distruzione definitiva del palazzo di Minosse a Cnosso conseguì a un terremoto. A Creta, come verosimilmente in tutto il mondo dell’Egeo, si venerava allora la grande divinità materna. Accorgersi che non era in grado di proteggere la propria casa dagli attacchi di una potenza più forte fu forse una delle cause per cui dovette cedere il posto a una divinità maschile, e in tal caso il dio vulcanico aveva il primo titolo per sostituirla. Zeus è in fondo da sempre lo “scuotitore della terra”. È meno dubbio che in quei tempi oscuri le divinità materne fossero sostituite da dei maschili (forse originariamente figli?). Particolarmente impressionante fu la sorte di Pallade Atena, che certamente era la forma locale di divinità materna, ridotta a figlia dal rivolgimento religioso, privata della propria madre ed esclusa per sempre dalla maternità, perché costretta a rimanere vergine.

 

39 A quei tempi un altro modo d’influire era quasi impossibile.

40 È davvero notevole quanto poco si senta parlare, nel corso della plurimillenaria storia egizia, di cacciate violente o uccisioni di faraoni. Il confronto con la storia assira, per esempio, non fa che accrescere la meraviglia. Naturalmente ciò può dipendere dal fatto che la storia scritta dagli egizi serviva esclusivamente a intenti ufficiali.

41 E. Meyer, Die Israeliten, cit., pp. 222 sg.

42 I suoi inni mettono l’accento non solo sull’universalità e unicità di Dio, ma anche sulla sua amorevole sollecitudine per tutte le creature; essi invitano a gioire della natura e a goderne la bellezza. Vedi Breasted, Dawn of Conscience, cit., pp. 281-302.

 

43 Sellin, cit., p. 52.

44 Paul Volz, “Mose: ein Beitrag zur Untersuchung über die Ursprünge der Israelitischen Religion” (Mosè: un contributo alla ricerca sulle origini della religione israelitica), Tübingen 1907, p. 64.

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