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L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTA – TERZO SAGGIO, 1938 (Traduzione di Antonello Sciacchitano)

1 Apr 21

Di Sigmund-Freud
Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 156.

(Traduzione di Antonello Sciacchitano)

 

Terzo saggio

Mosè, il suo popolo e la religione monoteista

 

Prima avvertenza

([Vienna] prima del marzo 1938)

Con l’audacia di chi ha poco o nulla da perdere, per la seconda volta rompo un ben fondato proposito e a ai due saggi su Mosè in “Imago”1 faccio seguire la parte finale che ho tenuto per me. Avevo concluso assicurando di sapere che le mie forze non sarebbero bastate; naturalmente intendevo riferirmi all’indebolirsi delle facoltà creative che accompagna l’età avanzata,2 ma pensavo anche a un altro ostacolo.

Viviamo in un’epoca particolarmente strana. Stupiti vediamo il progresso allearsi alla barbarie. La Russia sovietica ha intrapreso a elevare a migliori forme di vita circa cento milioni di uomini mantenuti repressi, abbastanza audace da sottrarre loro la “droga” della religione e altrettanto saggia da concedere una giudiziosa misura di libertà sessuale, ma sottomettendoli al tempo stesso alla più brutale coercizione e privandoli di ogni possibilità di libertà di pensiero. Con pari violenza il popolo italiano viene educato all’ordine e al senso del dovere. Si percepisce come alleggerimento da un pensiero opprimente vedere nel caso del popolo tedesco che la ricaduta in una barbarie quasi preistorica può andare da sé anche senza attenersi ad alcuna sua idea progressiva. Comunque sia, le cose hanno preso una piega tale che oggi le democrazie conservatrici sono diventate le custodi del progresso civile e, stranamente, proprio l’istituzione della Chiesa cattolica oppone una potente difesa contro la diffusione di un simile pericolo per la civiltà. Proprio la Chiesa, fino ad oggi nemica spietata della libertà di pensiero e del progresso nella conoscenza della verità!

Qui viviamo in un paese cattolico, protetti da questa Chiesa, incerti su quanto durerà. Ma, finché dura, avremmo naturalmente scrupolo di fare qualsiasi cosa che desti l’inimicizia della Chiesa. Non è viltà ma prudenza; il nuovo nemico, al cui servizio vogliamo evitare di cadere, è più pericoloso del vecchio, con cui abbiamo già imparato a trattare. La ricerca psicanalitica, che coltiviamo, è ad ogni modo l’oggetto di diffidente attenzione da parte del cattolicesimo. Non diciamo che non sia senza ragione. Se il nostro lavoro ci porta al risultato che la religione si riduce a una nevrosi dell’umanità e che il suo formidabile potere si chiarisce come la coazione nevrotica dei nostri pazienti, singolarmente considerati, siamo certi di attirare su di noi il più forte risentimento dei poteri qui da noi dominanti. Non che non abbiamo qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che già da un quarto di secolo abbiamo detto in modo abbastanza chiaro; ma da allora è stato dimenticato, e non può restar senza effetto ripeterlo oggi e spiegarlo con un esempio determinante per tutte le fondazioni religiose. Verosimilmente ciò porterebbe a vietarci l’esercizio della psicanalisi. Tali metodi violenti di repressione non sono certo estranei alla Chiesa che, piuttosto, sente come attentato ai suoi privilegi che anche altri vi facciano ricorso. Ma la psicanalisi, che nel corso della mia lunga vita è arrivata dappertutto, continua a non aver dimora per lei più preziosa proprio della città dove è nata e cresciuta.

Non solo credo, ma so che, a causa di quest’altro ostacolo, il pericolo esterno, mi lascerò trattenere dal pubblicare l’ultima parte del mio studio su Mosè. Ho fatto ancora un tentativo per togliermi di mezzo la difficoltà; mi sono detto che il mio timore si fondava sulla sopravvalutazione della mia persona e della sua importanza. Verosimilmente nelle sedi che contano sarebbe risultato del tutto irrilevante quel che volevo scrivere su Mosè e sull’origine delle religioni monoteistiche. Ma sul punto non mi sento sicuro del mio giudizio. Piuttosto mi sembra molto più probabile che cattiveria e gusto del sensazionale compenseranno ciò che nel giudizio dei contemporanei a me manca. Non renderò dunque noto questo lavoro, ma non per questo mi tratterrò dallo scriverlo, anche perché l’ho già buttato giù due anni or sono e devo solo rielaborarlo e aggiungerlo ai due saggi precedenti. Dovrà poi rimanere accuratamente celato fino al giorno in cui potrà avventurarsi alla luce del sole senza pericolo, o finché qualcuno, giunto alle stesse conclusioni e opinioni, possa dire: “In tempi più bui c’è già stato qualcuno che pensava proprio le stesse cose”.

 

Seconda avvertenza

([Londra] giugno 1938)

Le molto particolari difficoltà che hanno gravato su di me durante la stesura di questo studio sulla persona di Mosè – perplessità interne e ostacoli esterni – fanno sì che questo terzo e conclusivo saggio sia preceduto da due preamboli diversi, che si contraddicono, anzi si escludono a vicenda. Infatti, nel breve intervallo temporale fra le due sono radicalmente mutate le circostanze esterne all’autore. Allora vivevo protetto dalla Chiesa cattolica e temevo, pubblicando il mio saggio, di perderne la protezione e di provocare il divieto di lavorare ai seguaci e agli allievi della psicanalisi in Austria. Poi all’improvviso è arrivata l’invasione tedesca e il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una “canna al vento”. Certo di essere ora perseguitato non solo per il mio modo di pensare ma anche per la mia “razza”, insieme a molti amici ho abbandonato la città che fin dalla prima infanzia, per settantotto anni, è stata per me la patria.

Ho trovato l’accoglienza più amichevole nella bella, libera, magnanima Inghilterra. Qui vivo ora come ospite ben accetto, traendo un sospiro di sollievo perché mi è stato tolto di dosso quel peso e perché posso nuovamente parlare e scrivere – stavo per dire: pensare – come voglio o devo. Oso rendere di dominio pubblico l’ultima parte del mio lavoro.

Non più ostacoli esterni o almeno tali da potersi tirare indietro. Nelle poche settimane da quando soggiorno qui, ho ricevuto innumerevoli manifestazioni di benvenuto da parte di amici che si rallegrano della mia presenza, da sconosciuti e anche da estranei che vogliono solamente esprimere la loro soddisfazione per aver qui trovato libertà e sicurezza. E sono persino arrivate, con una frequenza sorprendente per uno straniero, lettere di altra natura preoccupate per la salvezza della mia anima, che volevano indicarmi la via di Cristo e illuminarmi circa il futuro di Israele.

La brava gente che mi scriveva così non poteva sapere molto di me; ma mi attendo, quando questo lavoro su Mosè, tradotto, sarà conosciuto dai miei nuovi connazionali, di perdere tra un buon numero di loro non poche delle simpatie che ora mi dimostrano.

Quanto alle difficoltà interne, svolta politica e cambiamento di residenza non potevano cambiare nulla. Come prima, mi sento insicuro di fronte al mio stesso lavoro; mi è venuta a mancare la coscienza dell’unità e dell’affinità che devono esistere tra l’autore e la sua opera. Non che mi manchi la convinzione dell’esattezza del risultato cui sono giunto, acquisito già un quarto di secolo fa, quando nel 1912 scrissi il libro su Totem e tabù e che da allora si è solo rinforzata. Da allora non ho più dubitato che i fenomeni religiosi siano comprensibili solo nello schema dei sintomi nevrotici individuali a noi familiari, come ritorno di processi significativi della preistoria della famiglia umana da lungo tempo dimenticati, che devono il loro carattere coatto a tale origine, e quindi agiscono sugli uomini in forza del loro contenuto di verità storica. La mia insicurezza entra in gioco solo quando mi chiedo se sia riuscito a dimostrare queste affermazioni nell’esempio qui prescelto del monoteismo ebraico. Questo lavoro, che parte dall’uomo Mosè, sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulle punte. Se non avessi trovato sostegno nell’interpretazione analitica del mito dell’esposizione e non mi fossi potuto ricollegare da lì alla congettura di Sellin sulla fine di Mosè, il tutto non avrebbe potuto essere scritto.

Comunque, il dado è tratto.

 

A. La premessa storica3

Lo sfondo storico degli eventi che hanno avvinto il nostro interesse è dunque il seguente. Grazie alle conquiste della diciottesima dinastia l’Egitto è diventato un impero mondiale. Il nuovo imperialismo si riflette nello sviluppo delle rappresentazioni religiose, anche se non dell’intero popolo, almeno della sua classe dominante e intellettualmente attiva. Per influsso dei sacerdoti del dio del Sole a On (Eliopoli), forse rinforzato da sollecitazioni provenienti dall’Asia, sorge l’idea di un dio universale, Aton, non più ristretto a un paese e a un popolo. Con il giovane Amenofi IV sale al trono un faraone che non nutre altro interesse se non quello di sviluppare questa idea di dio. Eleva la religione di Aton a religione di Stato; grazie a lui il dio universale diventa l’unico dio; tutto ciò che si racconta di altri dei è inganno e menzogna. Con inaudita inflessibilità resiste a ogni seduzione di pensiero magico; respinge l’illusione, cara agli Egizi in modo speciale, della vita dopo la morte. Presentendo in maniera sorprendente la successiva intuizione scientifica, riconosce nell’energia della radiazione solare la fonte di ogni vita sulla terra e la venera come simbolo della potenza del suo dio. Si vanta di gioire della creazione e di vivere in verità e giustizia (Maat)

È il primo e forse più puro caso di religione monoteistica nella storia dell’umanità; sarebbe di valore inestimabile riuscire a gettare uno sguardo più profondo nelle condizioni storiche e psicologiche della sua genesi. Ma si badò a non far arrivare fino a noi troppe informazioni sulla religione di Aton. Già sotto i suoi deboli successori, tutto ciò che Akhenaton aveva creato crollò. La vendetta del clero da lui represso si accanì contro la sua memoria: la religione di Aton fu abolita; distrutta e saccheggiata la capitale del faraone, ora bollato come malfattore. Intorno al 1350 a.C. la diciottesima dinastia si estinse; dopo un periodo di anarchia, il generale Haremhab, che regnò fino al 1315, ristabilì l’ordine. La riforma di Akhenaton sembrò un episodio destinato a essere dimenticato.

Fin qui ciò che è storicamente accertato; ora inizia la nostra ipotetica continuazione. Fra le persone vicine ad Akhenaton c’era un uomo, forse chiamato Tutmosi, come allora molti altri.4 Il nome non importa molto, se non per la sua seconda componente che doveva essere –mose. Aveva una posizione elevata, era convinto seguace della religione di Aton ma, all’opposto del re assorto nei suoi pensieri, era energico e appassionato. Per lui l’uscita di scena di Akhenaton e l’abolizione della sua religione significarono la fine di ogni speranza. Poteva rimanere a vivere in Egitto solo come proscritto o rinnegato. Come governatore della provincia di frontiera era forse venuto in contatto con una tribù semitica, là immigrata da alcune generazioni. Nel travaglio della delusione e dell’isolamento, si rivolse a questi stranieri, cercando in loro il risarcimento per la sua perdita. Li scelse come suo popolo e tentò di realizzare in loro il suo ideale. Dopo aver lasciato l’Egitto con costoro, accompagnato dai suoi seguaci, li consacrò con il segno della circoncisione; diede loro leggi; li introdusse alle dottrine della religione di Aton, dagli egizi appena respinta. Forse i precetti che l’uomo Mosè diede ai suoi ebrei erano ancora più aspri di quelli del suo signore e maestro Akhenaton; forse rinunciò anche alla protezione del dio solare di On, cui si era ancora attenuto.

Per l’esodo dall’Egitto dobbiamo fissare l’epoca dell’interregno dopo il 1350. I tempi successivi fino al compimento dell’occupazione della terra di Canaan sono particolarmente oscuri. Dal buio qui lasciato o piuttosto creato dal racconto biblico, la ricerca storica dei nostri giorni ha potuto estrarre due dati di fatto.

Il primo dato, scoperto da Ernst Sellin, è che gli ebrei, anche secondo la dichiarazione della Bibbia, caparbi e recalcitranti verso il loro legislatore e capo, un giorno gli si ribellarono, lo uccisero, e, come già gli egizi, respinsero la religione di Aton loro imposta.

Il secondo dato, dimostrato da Eduard Meyer, è che questi ebrei tornati dall’Egitto si unirono successivamente ad altre tribù loro affini nel territorio fra la Palestina, la penisola del Sinai e l’Arabia, e che ivi, nell’irrigua località detta Qadesh, assunsero sotto l’influsso degli arabi Madianiti una nuova religione, l’adorazione del dio vulcanico Yahweh. Subito dopo furono pronti a irrompere in Canaan da conquistatori.

I rapporti cronologici tra questi due eventi e con l’esodo dall’Egitto sono assai incerti. Il punto di riferimento storico più vicino è dato da una stele del faraone Merneptah (regnante fino al 1215), che nel racconto delle campagne di guerra in Siria e Palestina cita “Israele” tra i vinti. Assumendo la data di questa stele come terminus ad quem, per tutto il tempo decorso dall’esodo in poi resta circa un secolo: dal 1350 al 1215. È però possibile che il nome di “Israele” non si riferisca ancora alle tribù di cui stiamo seguendo le vicende e che, in verità, resti a nostra disposizione un intervallo di tempo più lungo. Lo stabilirsi di quello che sarà il popolo ebraico in Canaan non fu una conquista rapida, ma un processo compiuto a più riprese ed esteso su tempi più lunghi. Liberandoci dalla limitazione imposta dalla stele di Merneptah, possiamo facilmente assegnare una generazione (trent’anni) al periodo di Mosè,5 e poi lasciar passare almeno due generazioni, ma verosimilmente di più, fino all’unione di Qadesh; ora occorre che l’intervallo fra Qadesh e l’irruzione in Canaan sia breve. La tradizione ebraica, come mostra il saggio precedente, aveva le sue buone ragioni per accorciare l’intervallo fra l’esodo e la religione fondata a Qadesh, mentre la nostra descrizione ha l’interesse opposto.

Ma tutto ciò è ancora racconto storico, tentativo di colmare le lacune della nostra conoscenza storica, in parte ripetizione del secondo saggio su “Imago”. A noi interessa seguire i destini di Mosè e della sua dottrina, cui la ribellione degli ebrei aveva solo in apparenza posto fine. Dal racconto dello Yahwista, scritto intorno all’anno 1000 ma certo basato su attestati precedenti, abbiamo riconosciuto che con l’unione e la fondazione religiosa di Qadesh si concluse un compromesso, in cui le due parti contraenti si possono ancora facilmente distinguere. L’una si preoccupò soltanto di rinnegare la novità e l’estraneità del dio Yahweh e di rinvigorire la sua pretesa di essere venerato dal popolo; l’altra non volle sacrificargli cari ricordi concernenti la liberazione dall’Egitto e la figura grandiosa del capo, Mosè. E quest’altra riuscì effettivamente a introdurre quel fatto e l’uomo nella nuova narrazione della preistoria, a mantenere almeno il segno esteriore della religione mosaica, la circoncisione, e forse a far adottare alcune restrizioni nell’uso del nome del nuovo dio.

Abbiamo detto che a rappresentare queste pretese furono i discendenti della gente di Mosè, i Leviti, che solo da poche generazioni si erano separati dai contemporanei e connazionali di Mosè ed erano ancora legati da vividi ricordi alla sua memoria. Le narrazioni poeticamente abbellite, attribuite allo Yahwista e al suo successivo concorrente, l’Elohista, furono come mausolei al disotto dei quali la vera notizia di quelle antiche cose – ossia la natura della religione mosaica e la fine violenta del grand’uomo – era in un certo senso destinata a trovare la pace eterna, restando sottratta alla conoscenza delle generazioni successive. E, se abbiamo correttamente indovinato lo svolgimento dei fatti, non resta altro di enigmatico; avrebbero però potuto significare una volta per tutte la fine dell’episodio di Mosè nella storia del popolo ebraico.

Ora il fatto notevole è che le cose non andarono così; gli effetti più forti di quella vicenda vissuta dal popolo dovevano venire alla luce solo più tardi, spingendo nel corso di molti secoli per farsi gradatamente strada nella realtà effettuale. Non è verosimile che Yahweh si distinguesse molto per carattere dagli dei di popoli e tribù circostanti. A dire il vero, fu in lotta con questi, come i popoli stessi si combattevano tra loro, ma è anche presumibile che a un adoratore di Yahweh di allora venisse tanto poco in mente di negare l’esistenza degli dei di Canaan, Moab, Amalek eccetera, quanto quella dei popoli che ci credevano.

L’idea monoteistica, balenata con Akhenaton, si oscurò di nuovo; doveva restare nell’ombra ancora per molto. Reperti nell’isola di Elefantina, proprio davanti alla prima cateratta del Nilo, hanno fornito la sorprendente notizia che là si era da secoli insediata una colonia militare ebraica, nel cui tempio si adoravano, oltre al dio principale Yahu, due divinità femminili, di cui una chiamata Anat-Yahu. Questi ebrei erano di fatto tagliati fuori dalla madre patria e non avevano preso parte al suo sviluppo religioso; il governo imperiale persiano (V secolo a.C.) trasmise loro la notizia dei nuovi precetti di culto di Gerusalemme.6

Tornando a tempi più antichi, possiamo dire che il dio Yahweh non somigliava certo al dio mosaico. Aton fu pacifista come il suo rappresentante in terra, o meglio il suo modello, il faraone Akhenaton, che assistette inattivo alla disgregazione dell’impero mondiale conquistato dai suoi avi. Yahweh era sicuramente più adatto a un popolo che stava per occupare nuove terre con la violenza. E tutto ciò che nel dio mosaico era degno di venerazione sfuggiva del tutto alla comprensione della massa primitiva.

Rifacendomi volentieri alla concordanza con altri autori, ho già detto che il fatto centrale dell’evoluzione religiosa ebraica fu che il dio Yahweh nel corso del tempo perse i propri connotati, assomigliando sempre più all’antico dio di Mosè, Aton. Rimasero certe differenze, cui a prima vista si sarebbe portati a dare molta importanza, che però si spiegano facilmente. Aton aveva cominciato a predominare in Egitto in un’epoca felice di sicurezza del possesso; anche quando l’impero cominciò a vacillare, i suoi adoratori avevano potuto restare distaccati dalle perturbazioni e continuare a magnificare le sue creazioni e a goderne.

Al popolo ebraico, invece, il destino arrecò una serie di dure prove e di esperienze dolorose; il suo dio divenne rigido e severo, quasi offuscato. Mantenne il carattere di dio universale, dominatore di tutti i paesi e tutti i popoli, ma quando la sua adorazione si trasmise dagli egizi agli ebrei si verificò un eloquente progresso, grazie al quale gli ebrei diventarono il suo popolo eletto, le cui particolari obbligazioni alla fine sarebbero state premiate. È possibile che il popolo non trovasse facile conciliare la credenza di essere privilegiato dal suo dio onnipotente con le tristi esperienze del suo infelice destino. Ma il popolo non si lasciò sviare, accrebbe il proprio senso di colpa per soffocare i dubbi su Dio, e forse da ultimo fece ricorso agli “imperscrutabili decreti divini”, come i devoti fanno ancor oggi. Se era tentato di meravigliarsi che Dio permettesse il susseguirsi di aggressori, assiri, babilonesi, persiani, che lo sottomettevano e maltrattavano, riconobbe però il potere di Dio, vedendo che a loro volta tutti questi malvagi nemici venivano a loro volta sconfitti e i loro imperi dissolti.

In tre punti importanti il tardo dio ebraico divenne simile al vecchio dio mosaico. Il primo e decisivo è che fu davvero riconosciuto come l’unico dio, accanto al quale era impensabile ogni altro dio. Un intero popolo prese sul serio Il monoteismo di Akhenaton; anzi, il popolo si attaccò tanto a questa idea che divenne il contenuto principale della sua vita spirituale e non gli restò interesse per altro. Il popolo e il clero, divenuto su di lui dominante, furono su questo punto unanimi; ma ogni volta che i sacerdoti esaurivano la loro attività nel perfezionare il cerimoniale del culto, finivano per contrastare forti correnti popolari, che cercavano di far rivivere due altre dottrine di Mosè sul suo dio. Le voci dei profeti non si stancavano di proclamare che Dio disdegnava il cerimoniale e i sacrifici ed esigeva soltanto di credere in lui e di condurre una vita in verità e giustizia. Quando esaltavano la semplicità e la santità della vita nel deserto, erano sicuramente influenzati dall’ideale mosaico.

È tempo di porre la questione se sia proprio necessario invocare l’influsso di Mosè sulla configurazione finale della rappresentazione ebraica di Dio, o se non basti supporre l’evoluzione spontanea verso una spiritualità superiore di una civiltà vissuta per secoli. Su questa possibile spiegazione, che porrebbe fine a tutti i nostri enigmi, ci sono due cose da dire. In primo luogo, non spiega nulla. Le stesse circostanze non hanno condotto il popolo greco, certo altamente dotato, al monoteismo, bensì all’allentamento della religione politeistica e all’inizio del pensiero filosofico. Per quanto ci è dato capire, in Egitto il monoteismo sorse come effetto secondario dell’imperialismo: Dio fu l’effetto collaterale del faraone, signore assoluto di un grande impero mondiale. Presso gli Ebrei le condizioni politiche impedivano che dall’idea del dio esclusivo del popolo si passasse a quella del dio sovrano universale del mondo; e donde venne a questa minuscola e impotente nazione la temerarietà di spacciarsi per la figlia preferita ed eletta del grande Signore? Così il problema dell’origine del monoteismo nel popolo ebraico rimarrebbe irrisolto, a meno di accontentarsi della risposta corrente, che si tratti cioè semplicemente dell’espressione del particolare genio religioso di questo popolo. Il genio è notoriamente incomprensibile e irresponsabile, e perciò non si dovrebbe invocarlo come spiegazione, salvo il fallimento di ogni altra soluzione.7

Poi ci s’imbatte nel dato di fatto che la stessa cronaca e storia scritta ebraica ci indica la strada, asserendo con la massima risolutezza, questa volta senza contraddirsi, che l’idea di un dio unico fu portata al popolo da Mosè. Se c’è da obiettare alla credibilità di quanto ci si assicura, è che la rielaborazione sacerdotale del testo che abbiamo di fronte fa palesemente risalire a Mosè troppe cose. Istituti come i precetti del rito, che indubbiamente appartengono a epoche più tarde, sono spacciati come comandamenti mosaici, con il chiaro intento di conferire loro autorità. Ciò è per noi ragione di sospetto, ma non basta per un rifiuto. Infatti, il motivo più profondo dell’esagerazione è evidente. La rappresentazione sacerdotale pretende di stabilire una continuità tra il suo presente e il passato mosaico; pretende di rinnegare proprio ciò che abbiamo designato come il fatto più vistoso della storia religiosa ebraica, cioè che tra la legislazione di Mosè e la successiva religione ebraica si spalanca una lacuna, riempita dapprima dal servizio di Yahweh e colmata solo più tardi per gradi. Essa contesta questo processo con ogni mezzo, benché non sussista alcun dubbio sulla sua esattezza storica, dato che nel particolare trattamento subito dal testo biblico sono rimasti sovrabbondanti elementi che lo provano. La rielaborazione sacerdotale ha qui tentato qualcosa di simile alla tendenza deformante che fece del nuovo dio Yahweh il dio dei padri. Tenuto conto di questo motivo del Codice sacerdotale, ci resta difficile non dar credito all’affermazione che davvero lo stesso Mosè diede ai suoi ebrei l’idea monoteistica. Ci è tanto più facile consentire, perché siamo in grado di dire da dove Mosè trasse quell’idea, mentre i sacerdoti ebrei non lo sapevano certamente più.

Qui qualcuno potrebbe domandarci quale sia il vantaggio di derivare il monoteismo ebraico da quello egizio, perché così il problema viene solo spostato di un po’, senza che sulla genesi dell’idea monoteistica ne sappiamo di più. La risposta all’obiezione è che non si tratta di utilità, ma d’indagine. E forse abbiamo qualcosa da imparare scoprendo l’andamento reale dei fatti.

 

B. Tempo di latenza e tradizione

Dunque ci dichiariamo a favore della credenza che tanto l’idea di un dio unico, quanto il rifiuto del cerimoniale che agisce magicamente, nonché l’accento sulla pretesa etica, avanzata in suo nome, furono effettivamente dottrine mosaiche, che all’inizio non trovarono ascolto, ma dopo un lungo intervallo di tempo andarono a effetto e infine si imposero durevolmente. Come si deve spiegare l’effetto ritardato e dove s’incontrano fenomeni simili?

La prima idea che viene in mente dice che non si trovano raramente in campi molto diversi e che verosimilmente si realizzano in molteplici modi più o meno facili da comprendere. Prendiamo per esempio il destino di una nuova teoria scientifica come la dottrina evoluzionistica di Darwin. Dapprima incontra un accanito rifiuto; per decenni è violentemente avversata, ma basta non più di una generazione perché sia riconosciuta come grande progresso verso la verità. Darwin stesso ottiene l’onore di una tomba in Westminster.

Un caso del genere non è difficile da decifrare. La nuova verità ha risvegliato resistenze affettive, che si fanno rappresentare da argomenti con cui si dovrebbero contestare le prove a favore della dottrina sgradita; la controversia delle opinioni richiede un certo tempo; fin dall’inizio vi sono sostenitori e oppositori; il numero e il peso dei primi aumenta sempre più finché non prendono il sopravvento; per tutta la durata della disputa non si è mai dimenticato di che cosa si tratta. Quasi non ci meravigliamo che l’intero svolgimento abbia richiesto un certo tempo, e forse non valutiamo abbastanza di avere a che fare con un processo di psicologia delle masse.

Non è difficile trovare un’analogia corrispondente in pieno a questo processo nella vita psichica del singolo. Sarebbe il caso di chi viene a sapere qualcosa di nuovo, che in base a prove certe dovrebbe riconoscere come vero, ma che contraddice qualche suo desiderio e offende certe sue preziose convinzioni. Allora esiterà, cercherà ragioni per mettere in dubbio la novità, e per un po’ combatterà con sé stesso, finché alla fine confesserà: “È proprio così, sebbene non sia facile da ammettere e mi sia penoso doverlo credere”. Da questo esempio apprendiamo solo che ci vuole del tempo perché il lavoro intellettuale dell’Io superi obiezioni sostenute da forti [pre]occupazioni (Besetzungen) affettive. La somiglianza tra questo caso e quello che ci stiamo sforzando di capire non è molta.

L’esempio successivo cui ci rivolgiamo ha apparentemente ancor meno in comune con il nostro problema. Succede che un uomo lasci in apparenza indenne il luogo in cui ha vissuto un pauroso incidente, ad esempio uno scontro di treni. Però nelle settimane seguenti sviluppa una serie di gravi sintomi psichici e motori, che si possono far derivare solo dal suo shock, da quella scossa o da qualcosa accaduto allora. Ora ha una “nevrosi traumatica”. È un fatto del tutto incomprensibile, quindi nuovo. Il tempo intercorso tra l’incidente e il primo apparire dei sintomi è detto “periodo d’incubazione”, con trasparente allusione alla patologia delle malattie infettive. A posteriori dobbiamo renderci conto che, nonostante la fondamentale differenza dei due casi, tuttavia il problema della nevrosi traumatica e del monoteismo ebraico coincidono in un punto, precisamente nel carattere che si potrebbe chiamare latenza. Secondo la nostra accertata ipotesi, dopo il distacco dalla religione di Mosè, nella storia della religione ebraica vi è appunto un lungo periodo in cui non c’è traccia né dell’idea monoteistica, né del disprezzo per il cerimoniale, né di una particolare sottolineatura per tutto ciò che è etico. Allora siamo pronti ad ammettere la possibilità che la soluzione del nostro problema vada cercata in una particolare situazione psicologica.

Abbiamo già ripetutamente descritto cosa avvenne a Qadesh, quando le due parti del futuro popolo ebraico si radunarono per adottare una nuova religione. Da parte di chi era stato in Egitto, i ricordi dell’esodo e della figura di Mosè erano ancora così forti e vividi da richiedere di essere inclusi nel racconto sulla preistoria. Erano forse i nipoti di persone che avevano conosciuto lo stesso Mosè, e alcuni di loro si sentivano ancora egizi e portavano nomi egizi. Avevano però buoni motivi per rimuovere il ricordo del destino procurato al loro capo e legislatore. Per gli altri fu determinante l’intenzione di glorificare il nuovo dio e contestare la sua estraneità. Le due parti avevano lo stesso interesse a disconoscere che tra loro vi era stata una precedente religione e qual era il suo contenuto. Si realizzò così un primo compromesso che verosimilmente fu ben presto messo per iscritto. La gente d’Egitto aveva portato con sé la scrittura e il piacere della storiografia, ma doveva passare ancora molto tempo prima che la storiografia riconoscesse l’obbligo dell’inflessibile veridicità. All’inizio non si fece scrupolo di conformare i suoi racconti ai bisogni e alle tendenze del momento, come se il concetto di alterazione dei fatti non fosse ancora sorto in lei. In conseguenza di tali circostanze poté formarsi la contrapposizione fra fissazione scritta e trasmissione orale dello stesso materiale, la tradizione. Ciò che fu omesso o alterato nella redazione scritta poté molto facilmente rimanere conservato intatto nella tradizione. La tradizione completava e al tempo stesso contraddiceva la storiografia. Era meno soggetta all’influsso delle tendenze deformanti, forse in alcuni parti vi si sottraeva del tutto, e per questo poté essere più veritiera del racconto fissato nello scritto. Però la sua attendibilità soffriva perché meno stabile e meno determinata della redazione scritta, ma esposta comunque a numerose alterazioni e deformazioni, visto che si tramandava per comunicazione orale da una generazione all’altra. A una simile tradizione potevano toccare sorti di diverso tipo. Per prima cosa ci aspetteremmo che fosse stata sopraffatta dalla redazione scritta, che non fosse stata in grado di affermarsi accanto ad essa, che fosse diventata sempre più vaga e infine che fosse caduta in oblio. Ma altri destini sono ugualmente possibili; uno è che la tradizione stessa si fissi infine per iscritto, e via via che procederemo tratteremo ancora di altre possibilità.

Del fenomeno di cui ci stiamo occupando, della latenza nella storia religiosa ebraica, si offre ora la spiegazione che le circostanze e i contenuti rinnegati intenzionalmente dalla storiografia, per così dire, ufficiale, in realtà non andarono mai persi. Ne rimase viva la notizia in tradizioni conservate nel popolo. A quanto ci assicura Sellin, proprio sulla fine di Mosè c’era una tradizione in netto contrasto con la presentazione ufficiale e molto più vicina alla verità. Possiamo supporre che lo stesso sia accaduto anche per altro che apparentemente scomparve con Mosè, per certi contenuti della religione mosaica inaccettabili dalla maggioranza dei suoi contemporanei.

Lo strano dato di fatto che qui s’incontra è, tuttavia, che queste tradizioni, invece di affievolirsi nel tempo, divennero nel corso dei secoli sempre più importanti; si fecero strada nelle successive rielaborazioni della cronaca ufficiale, e infine si mostrarono talmente forti da influire in modo decisivo sul pensiero e sull’azione del popolo. Per ora le condizioni che resero possibile questo sbocco della vicenda ci restano ignote.

Il dato è così curioso che ci sentiamo giustificati a tenerlo ancora davanti a noi, perché racchiude il nostro problema. Il popolo ebraico aveva abbandonato la religione di Aton, recata da Mosè, e si era rivolto al culto di un altro dio, poco diverso dai Baalim dei popoli vicini. Nessuno sforzo delle tendenze successive riuscì a occultare questo vergognoso stato di cose. Tuttavia, la religione di Mosè non era scomparsa senza lasciar tracce; se ne era conservato una specie di ricordo, forse una tradizione oscurata e deformata. Fu così che questa tradizione di un grande passato continuò a essere efficace come di sfondo; gradualmente acquistò sempre maggior potere sugli spiriti e alla fine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio mosaico e a richiamare in vita la religione di Mosè, introdotta molti secoli prima e poi abbandonata. L’idea che una tradizione scomparsa debba esercitare un effetto così potente sulla vita spirituale di un popolo non ci è familiare. Ci troviamo qui in un campo della psicologia delle masse dove non ci sentiamo a casa (heimisch). Teniamo d’occhio analogie, fatti di natura almeno simile, sebbene in altri campi. Pensiamo che sia possibile trovarli.

Ai tempi in cui tra gli ebrei si preparava il ritorno della religione mosaica, il popolo greco si trovava in possesso di un tesoro oltremodo ricco di leggende sulla stirpe e di miti eroici. Nel nono e nell’ottavo secolo, si ritiene, ebbero origine le due epopee omeriche, che trassero la loro materia da questo ciclo di leggende. Con le nostre odierne vedute psicologiche avremmo potuto assai prima di Schliemann ed Evans porci la domanda da dove i Greci avessero preso tutto il materiale leggendario che Omero e i grandi drammaturghi attici elaborarono nei loro capolavori. La risposta sarebbe stata che, verosimilmente, nella sua preistoria quel popolo aveva vissuto un periodo di splendore esteriore di fioritura civile; una catastrofe storica aveva posto fine a questo periodo, di cui si era però conservata un’oscura tradizione in quelle leggende. La ricerca archeologica dei giorni nostri ha poi confermato questa congettura, che in passato sicuramente sarebbe apparsa troppo azzardata. Gli scavi hanno scoperto le testimonianze della grandiosa civiltà minoico-micenea, che nel continente greco si era probabilmente estinta già prima del 1250 a.C. Negli storici greci di epoca successiva se ne trova appena un cenno; tutt’al più il nome del re Minosse e del suo palazzo, il Labirinto, e l’osservazione che ci fu un tempo in cui i Cretesi avevano avuto il dominio dei mari; questo è tutto, per il resto non è rimasto nulla se non le tradizioni riprese dai poeti.

Sono state scoperte epopee popolari anche presso altri popoli, come i tedeschi, gli indiani, i finnici. Tocca agli storici della letteratura controllare se la loro origine faccia supporre le stesse condizioni del caso dei greci. Credo che la ricerca darà un risultato positivo. La condizione che riconosciamo è che un pezzo di preistoria, che immediatamente dopo dovette apparire ricco di contenuto, importante, grandioso e forse sempre eroico, ma situato tanto lontano, appartenne a tempi così remoti che solo un’oscura e incompiuta tradizione ne diede notizia alle generazioni successive. Ha stupito che il genere artistico epico si sia estinto in tempi più tardi. Forse la spiegazione è che non si produssero più le condizioni necessarie. L’antico materiale era ormai rivisto criticamente e per tutti gli avvenimenti successivi la storiografia era subentrata alla tradizione. Le più grandi imprese eroiche dei nostri giorni non sono state in grado di ispirare un’epica; già Alessandro Magno a ragione si rammaricava che non avrebbe trovato un Omero.

Epoche remote esercitano una grande, spesso enigmatica, attrazione sulla fantasia degli uomini. Ogni volta che sono scontenti del loro presente – e lo sono abbastanza spesso – si volgono indietro al passato, sperando di trovarvi finalmente avverato il sogno mai estinto di un’età dell’oro.8 Verosimilmente sottostanno sempre all’incantesimo della loro infanzia, in loro riflessa dal ricordo non imparziale come tempo d’indisturbata beatitudine. Quando del passato non rimane altro che ricordi incompiuti e confusi, che chiamiamo tradizione, essi costituiscono un particolare stimolo per l’artista, che così è libero di colmare i vuoti del ricordo come vuole la sua fantasia, e di formare a modo suo il quadro dell’epoca che vuole riprodurre. Si potrebbe quasi dire che quanto più indeterminata diventa la tradizione, tanto più utile sarà per il poeta. Quindi non ci dobbiamo stupire dell’importanza della tradizione per la poesia, e l’analogia con ciò che condiziona l’epica ci renderà meno strana l’ipotesi che, presso gli ebrei, la tradizione mosaica fu quella che trasformò il servizio di Yahweh nell’antica religione mosaica. Ma per un altro verso i due casi sono ancora molto diversi. Là il risultato è un poema, qui una religione; e di quest’ultima abbiamo supposto che fosse riprodotta, sotto la spinta della tradizione, con una fedeltà che, com’è naturale, non trova analogo corrispettivo nel caso dell’epica. Pertanto il nostro problema resta aperto quanto basta a giustificare il bisogno di trovare analogie più calzanti.

 

C. L’analogia

L’unica soddisfacente analogia con il notevole processo individuato nella storia religiosa ebraica si trova in un campo apparentemente assai distante; ma è un’analogia assai completa, che si avvicina all’identità. Vi incontriamo di nuovo il fenomeno della latenza, l’emergenza di manifestazioni incomprensibili, che esigono una spiegazione, e la condizione dell’esperienza precedente in seguito dimenticata. E troviamo pure il carattere della coazione, che s’impone alla psiche, sopraffacendo il pensiero logico in un modo che, per esempio nella genesi dell'epica, non si era presentato.

L’analogia s’incontra in psicopatologia nella genesi della nevrosi umana, cioè in un campo che riguarda la psicologia del singolo, mentre i fenomeni religiosi appartengono naturalmente alla psicologia delle masse. Si mostrerà che l’analogia non è così sorprendente come si potrebbe a prima vista pensare, anzi corrisponde piuttosto a un postulato.

Chiamiamo traumi le impressioni precocemente vissute e poi dimenticate, cui attribuiamo grande importanza per l’eziologia delle nevrosi. Può restare in sospeso se l’eziologia delle nevrosi possa in genere considerarsi traumatica. L’ovvia obiezione a questa tesi è che non in tutti i casi si riesce a scovare un trauma palese nella preistoria dell’individuo nevrotico. Spesso dobbiamo accontentarci di dire che non c’è altro che una reazione inconsueta, abnorme, a esperienze e richieste che riguardano tutti gli individui, che le rielaborano e le liquidano in altro modo, da definire normale. Dove non disponiamo di altre spiegazioni che le predisposizioni ereditarie e costituzionali, siamo naturalmente portati a dire che la nevrosi non è ereditata ma sviluppata.

In questo contesto, però, si mettono in evidenza due punti. Il primo è che la genesi della nevrosi risale sempre e comunque a impressioni infantili molto precoci.9 In secondo luogo, è giusto che ci siano casi designati come “traumatici”, perché i loro effetti risalgono inequivocabilmente a una o più forti impressioni di un’epoca precoce, che si sono sottratte alla normale liquidazione, tanto da poter ritenere che, se non fossero accadute, anche la nevrosi non si sarebbe instaurata. Ora, per i nostri intenti, basterebbe limitare l’analogia ricercata a questi casi traumatici. Ma la frattura tra i due gruppi non sembra insuperabile. È senz’altro possibile unificare le due condizioni eziologiche in un’unica concezione; dipende solo da ciò che si definisce come “traumatico”. Una volta ammesso che I’esperienza acquisti carattere traumatico solo a seguito di un fattore quantitativo (ossia, se l'esperienza provoca reazioni patologiche insolite, la colpa è sempre della richiesta eccessiva) allora si può arrivare facilmente a dire che in una certa costituzione agisce come trauma qualcosa che in un’altra non avrebbe lo stesso effetto. Ne risulta così la rappresentazione di una cosiddetta serie complementare mobile, in cui due fattori concorrono a completare l’eziologia: un meno dell’uno è compensato da un più dell’altro; in generale si ha un effetto congiunto dei due e solo ai due estremi della serie si può parlare di motivazione semplice. Dopo questa considerazione, la distinzione tra eziologia traumatica e non si può mettere da parte come inessenziale per l’analogia da noi cercata.

Forse, nonostante il rischio di ripeterci, serve al nostro scopo riassumere i dati di fatto contenenti l’analogia per noi significativa. Sono i seguenti. Dalla nostra ricerca risulta che quelli che chiamiamo fenomeni (sintomi) di una nevrosi sono conseguenze di certe esperienze e impressioni, che proprio per questo riconosciamo come traumi eziologici. Ci si presentano due compiti: in primo luogo, ricercare i caratteri comuni di queste esperienze e, in secondo luogo, i caratteri dei sintomi nevrotici; così facendo non potremo evitare certe schematizzazioni.

a) Tutti questi traumi appartengono alla prima infanzia, fino all'età di cinque anni circa. Le impressioni al tempo dell’incipiente capacità di parola risaltano come particolarmente interessanti; il periodo tra i due e i quattro anni appare il più importante; non è possibile stabilire con precisione quando dopo la nascita inizi quest’epoca di recettività.

b) Le relative esperienze sono di regola del tutto dimenticate; inaccessibili al ricordo, ricadono nel periodo dell’amnesia infantile, interrotta al più da singoli residui mnestici, i cosiddetti ricordi di copertura.

c) Questi si riferiscono a impressioni di natura sessuale e aggressiva e certo anche a offese remote che l’Io ha subito (offese narcisistiche). Va al riguardo osservato che bambini così piccoli non distinguono nettamente, come fanno dopo, tra azioni sessuali e puramente aggressive (fraintendimento sadico dell’atto sessuale). Il prevalere del fattore sessuale balza naturalmente agli occhi ed esige un riconoscimento teorico.

I tre punti – presenza precoce entro i primi cinque anni, dimenticanza, contenuto sessuale-aggressivo – sono strettamente associati. I traumi sono o esperienze nel proprio corpo o percezioni sensoriali, soprattutto visive e uditive; sono cioè o esperienze o impressioni. La connessione tra questi tre punti è stabilita da una teoria, a sua volta risultato del lavoro analitico, il quale soltanto è capace di procurare una conoscenza delle esperienze dimenticate o, per esprimerci in modo più vivido ma anche più scorretto, di riportarle nel ricordo. Secondo la teoria analitica, contrariamente all’opinione popolare, la vita sessuale dell’uomo – o ciò che le corrisponde più tardi – mostra per tempo una fioritura che termina a circa cinque anni, cui segue la cosiddetta epoca di latenza – fino alla pubertà – in cui non c’è alcun progresso nello sviluppo della sessualità, anzi quel che è stato raggiunto regredisce. Questa dottrina è confermata dalla ricerca anatomica sulla crescita dei genitali interni; conduce alla congettura che l’uomo discenda da una specie animale che raggiungeva la maturità sessuale a cinque anni, e desta il sospetto che il differimento e l’inizio in due tempi della vita sessuale siano intimamente connessi con la storia del diventare uomo. L’uomo sembra l’unico essere animale con simile latenza e ritardo sessuale. Ricerche sui primati (che non mi risulta ci siano) sarebbero indispensabili per provare la teoria. Psicologicamente non può essere indifferente che il periodo dell’amnesia infantile coincida con questa preistoria della sessualità. Forse questo stato di cose determina la vera condizione che rende possibile la nevrosi, che in un certo senso è un privilegio umano e appare in questa prospettiva come un resto (survival) di epoche remote, allo stesso modo di certe componenti dell’anatomia del nostro corpo.

In secondo luogo, sulle comuni caratteristiche o sulle peculiarità dei fenomeni nevrotici, vanno sottolineati due punti.

a) Gli effetti del trauma sono di due tipi, positivi e negativi. I primi sono sforzi di riattivare il trauma, quindi di ricordare l’esperienza dimenticata, o ancora meglio di renderla reale, vivendone una ripetizione ex novo, anche se si tratta solo di una relazione affettiva del passato, rivivendo la stessa in un’analoga relazione con un’altra persona. Questi sforzi si considerano insieme come fissazione al trauma e coazione a ripetere. Possono essere assunti nel cosiddetto Io normale, conferendogli come sue tendenze stabili tratti immutabili di carattere, benché o, molto meglio, proprio perché il loro effettivo fondamento, la loro origine storica è stata dimenticata. Così un uomo che ha trascorso l’infanzia attaccato in maniera eccessiva e oggi dimenticata alla madre, può per tutta la vita cercare una donna da cui dipendere, farsi nutrire e mantenere. Una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili. È facile indovinare che, grazie a tali vedute sul problema della nevrosi, ci inoltriamo nella comprensione del carattere in generale.

Le reazioni negative perseguono lo scopo opposto, cioè non ricordare né ripetere alcunché dei traumi dimenticati. Possiamo considerarle insieme come reazioni di difesa. Loro espressione principale sono i cosiddetti evitamenti, che possono crescere fino a inibizioni e fobie. Le reazioni negative danno i contributi più forti alla formazione del carattere. Di base sono fissazioni al trauma, proprio come il loro opposto, solo che sono fissazioni con tendenza opposta. I sintomi della nevrosi in senso stretto sono formazioni di compromesso, cui partecipano entrambe le tendenze derivanti dai traumi, in modo che in essi trovi espressione preponderante l’apporto ora dell’una ora dell’altra direzione. Grazie al contrasto tra le reazioni si producono conflitti, che di regola non possono arrivare ad alcuna conclusione.

b) Tutti questi fenomeni, dai sintomi alle restrizioni dell'Io e alle alterazioni stabili del carattere, hanno carattere di coazione, cioè accanto a grande intensità psichica mostrano un’ampia indipendenza dall’organizzazione degli altri processi psichici, adattati alle richieste del mondo esterno reale e corrispondenti alle leggi del pensiero logico. Questi fenomeni non sono o non sono abbastanza influenzati dalla realtà esterna; non si curano né di essa né del suo rappresentante psichico, incorrendo così facilmente nell’opposizione attiva ad ambedue. Sono per così dire uno Stato nello Stato, un partito inaccessibile, inutilizzabile per la cooperazione, che può però riuscire a prevalere sull’altro, il cosiddetto “normale”, costringendolo al suo servizio. Quando ciò accade, vuol dire che si è raggiunto il predominio di una realtà psichica interna sulla realtà del mondo esterno e si apre la via alla psicosi. Anche se non si arriva a tanto, l’importanza pratica di questi comportamenti non va sottovalutata. L’inibizione e l’incapacità a vivere delle persone dominate da una nevrosi sono un fattore molto importante nella società umana, ed è lecito riconoscervi l’espressione diretta della loro fissazione a un primo pezzo del loro passato.

Chiediamoci ora cosa ne sia della latenza che, riguardo all’analogia, ci deve interessare in modo particolare. Al trauma infantile può immediatamente seguire l’esplosione nevrotica, una nevrosi infantile, piena di sforzi difensivi e accompagnata da formazione di sintomi. Può durare piuttosto a lungo, causare vistosi disturbi, ma anche decorrere latente e passare inosservata. Di regola nella nevrosi la difesa prende il sopravvento; in ogni caso permangono alterazioni dell’Io paragonabili a cicatrici. Solo di rado la nevrosi infantile si prolunga senza interruzioni in quella dell’adulto. Molto più spesso le dà il cambio una fase di sviluppo apparentemente indisturbato, processo sostenuto o reso possibile dal sovrapporsi del periodo fisiologico di latenza. Solo più tardi subentra il mutamento con cui la nevrosi definitiva si manifesta come effetto ritardato del trauma. Ciò accade o con l’irruzione della pubertà o un poco più tardi. Nel primo caso, ciò avviene perché le pulsioni, rinforzate dalla maturazione fisica, possono ora riprendere il combattimento, in cui prima erano state sconfitte dalla difesa; nel secondo, perché le reazioni e le alterazioni dell’Io prodotte dalla difesa si mostrano ora di impedimento per fronteggiare i nuovi doveri imposti dalla vita, tanto che si arriva ad acuti conflitti tra le richieste del mondo esterno reale e l’Io, che vuole preservare la propria organizzazione faticosamente acquisita nella battaglia difensiva. Nella nevrosi il fenomeno del tempo di latenza, compreso tra le prime reazioni al trauma e il successivo scoppio della malattia, va considerato tipico. È anche possibile vedere in questo modo di ammalarsi un tentativo di guarigione, lo sforzo di conciliare con il resto le parti dell’Io scisse a causa del trauma, riunendole in un tutto potente a fronte del mondo esterno. Ma il tentativo riesce solo di rado, quando non venga in soccorso il lavoro analitico, e anche allora non riesce sempre e termina abbastanza spesso nella piena devastazione e frammentazione dell'Io, o nella sua sopraffazione a opera della parte precocemente scissa e dominata dal trauma.

Per convincere il lettore, sarebbe necessario comunicare nei dettagli molte storie di vite nevrotiche. Ma, data l’ampiezza e la difficoltà dell’argomento, ciò distruggerebbe il carattere di questo lavoro, che si trasformerebbe in un trattato di teoria delle nevrosi; ma anche così finirebbe forse per avere un valore solo per la minoranza di persone che hanno fatto dello studio e dell’esercizio della psicanalisi lo scopo della loro vita. Rivolgendomi qui a una cerchia più vasta, non posso far altro che invitare il lettore a concedere una certa provvisoria credibilità alle tesi già brevemente esposte, al che si accompagna da parte mia l’ammissione che dovrà accettare le conseguenze verso le quali Io conduco solo se le teorie che ne sono il presupposto si dimostreranno giuste.

Posso tuttavia cercare di narrare un singolo caso che permette di riconoscere in modo particolarmente chiaro alcune delle menzionate peculiarità della nevrosi. Naturalmente non ci si può aspettare da un singolo caso che mostri tutto, e non si deve restare delusi se nel contenuto disti molto da ciò per cui cerchiamo un’analogia.

Un ragazzino che, come avviene molto spesso nelle famiglie piccolo-borghesi, condivideva da piccolo la camera da letto con i genitori, ebbe ripetute, anzi regolari occasioni, all’età dell’appena acquisita capacità di parola, di osservare le faccende sessuali tra i genitori, di vedere qualcosa e di udire ancora di più. Nella successiva nevrosi, scoppiata immediatamente dopo la prima polluzione spontanea, il primo e più fastidioso sintomo fu l’insonnia. Divenne sensibile in modo straordinario ai rumori notturni e, una volta sveglio, non riusciva a riprendere sonno. Il disturbo del sonno era un vero sintomo di compromesso, da un lato espressione della sua difesa contro le percezioni notturne, dall’altro il tentativo di ristabilire Io stato di veglia, in cui poteva origliare quelle impressioni.

Precocemente stimolato da quelle osservazioni a un’aggressiva virilità, il bambino cominciò a eccitare con le mani il suo piccolo pene e a intraprendere diverse aggressioni sessuali verso la madre, identificandosi con il padre, al cui posto così si poneva. Le cose continuarono così finché si buscò dalla madre la proibizione di toccarsi il membro, e anzi la sentì minacciare che Io avrebbe detto al padre, che per punizione gli avrebbe portato via il membro peccaminoso. La minaccia di castrazione ebbe sul ragazzino un effetto traumatico straordinariamente forte. Cessò la sua attività sessuale e cambiò carattere. Invece di identificarsi con il padre, ora Io temeva, si atteggiava passivamente verso di lui e Io provocava con occasionali marachelle a castighi corporali, che per lui avevano un significato sessuale, in modo che così poteva identificarsi con la madre maltrattata. Alla madre poi si aggrappava sempre più angosciosamente, come se non potesse fare a meno per un solo momento del suo amore, in cui vedeva uno scudo contro il pericolo di castrazione, minacciata dal padre. In questa modificazione del complesso edipico trascorse l’epoca di latenza durante la quale non si presentarono disturbi appariscenti. Divenne un ragazzo modello, ebbe successo a scuola.

Fin qui abbiamo seguito l’effetto immediato del trauma e confermato il dato di fatto della latenza.

L’ingresso della pubertà coincise con la nevrosi manifesta e ne rivelò il secondo sintomo fondamentale, l’impotenza sessuale. Aveva perso la sensibilità del pene, non cercava di toccarlo, non osava avvicinare una donna con mire sessuali. La sua attività sessuale rimase limitata all’onanismo psichico con fantasie sado-masochistiche, in cui non è difficile riconoscere gli esiti delle sue primitive osservazioni del coito dei genitori. L’irrobustita virilità, con l’inizio della pubertà, fu impiegata per alimentare un odio furioso contro il padre e un atteggiamento insubordinato verso di lui. Il rapporto estremo con il padre, esacerbato fino all’autodistruzione, fu anche causa del suo insuccesso nella vita e dei suoi conflitti con il mondo esterno. Non poteva certo riuscire nella professione, perché a quella professione l’aveva spinto il padre. Non riusciva a farsi degli amici né era mai in buoni rapporti con i superiori.

Quando, affetto da questi sintomi e incapacità, ebbe finalmente trovato moglie dopo la morte del padre, vennero alla luce, quasi fossero il nucleo del suo essere, qualità di carattere che rendevano difficile il rapporto con lui a tutti coloro che gli stavano vicino. Sviluppò una personalità assolutamente egoistica, dispotica e brutale, che palesemente aveva bisogno di reprimere e ferire gli altri. Era la copia fedele del padre, così come se ne era formato l’immagine nel ricordo, dunque una reviviscenza dell’identificazione paterna in cui a suo tempo si era collocato il ragazzino per motivi sessuali. Qui in particolare riconosciamo il ritorno del rimosso, da noi descritto come uno dei tratti essenziali della nevrosi, insieme agli effetti immediati del trauma e al fenomeno della latenza.

 

D. Applicazione

Trauma precoce – difesa – latenza – scoppio della malattia nevrotica – parziale ritorno del rimosso: è la nostra formula dello sviluppo di una nevrosi. Ora il lettore è invitato a fare un altro passo, ossia a supporre che nella vita del genere umano sia accaduto qualcosa di simile a ciò che accade in quella dell’individuo, quindi che anche qui si siano verificati eventi di contenuto sessuale-aggressivo, i quali hanno lasciato conseguenze stabili, ma il più delle volte siano stati respinti e dimenticati, e più tardi, dopo lunga latenza, siano giunti a effetto creando fenomeni simili ai sintomi per struttura e tendenza.

Crediamo di poter indovinare questi eventi e vogliamo mostrare che i fenomeni religiosi sono loro conseguenze simili a sintomi [nevrotici]. Non potendo più mettere in dubbio, dopo l’emergere dell’idea di evoluzione, che il genere umano abbia una preistoria, ed essendo questa sconosciuta, cioè dimenticata, tale conclusione ha quasi il peso di un postulato. Quando apprendiamo che i traumi efficaci e dimenticati si riferiscono, qui come là, alla vita della famiglia umana, salutiamo questo fatto come gradita e imprevista novità, non srichiesta dalla discussione finora svolta.

Ho già esposto queste affermazioni un quarto di secolo fa nel mio libro Totem e tabù (1912-13) e mi basta qui solo richiamarle. La costruzione parte da un’indicazione di Charles Darwin e include una congettura di Atkinson. Dice che nella preistoria l’uomo primitivo viveva in piccole orde, ciascuna dominata da un forte stallone (ein starkes Männchen). Non è possibile stabilire l’epoca e ci sfugge il collegamento con ere geologiche a noi note; è verosimile che quell’essere umano non avesse un uso della parola molto sviluppato. Una parte essenziale della costruzione è la supposizione che il destino che sto per descrivere riguardasse tutti gli uomini primitivi, e quindi tutti i nostri antenati.

La storia è narrata in forma estremamente condensata, come se fosse accaduto una volta sola ciò che di fatto si è esteso per un periodo di millenni e che in questo lungo tempo si è ripetuto innumerevoli volte. Il forte stallone era padre e padrone di tutta l’orda; il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutti gli esseri femminili erano sua proprietà, sia le donne che le figlie della sua orda, sia forse anche quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando suscitavano la gelosia del padre, erano trucidati o castrati o espulsi. Erano costretti a vivere insieme in piccole comunità, procurandosi le donne mediante il ratto e, quando uno di loro ci riusciva, cercava di raggiungere una posizione simile a quella del padre nell’orda primitiva. Per ragioni naturali, i figli più piccoli si trovavano in una situazione eccezionale: protetti dall’amore della madre, traevano vantaggio dall’età del padre e potevano succedergli dopo la sua scomparsa. Nelle leggende e nelle favole sembra di avvertire echi sia dell’espulsione dei figli maggiori, sia della preferenza accordata ai più piccoli.

Il successivo e decisivo passo verso la modificazione di questa prima forma di organizzazione “sociale” dovette essere che i fratelli scacciati, che vivevano in comunità si riunirono, sopraffecero il padre e, secondo il costume dei tempi, lo divorarono crudo. Non deve scandalizzare questo cannibalismo, che si estende a lungo in epoche più tarde. Essenziale è invece attribuire a questi uomini primitivi gli stessi atteggiamenti emotivi che possiamo stabilire mediante l’indagine analitica nei primitivi del presente, i nostri bambini. E cioè che non solo odiassero e temessero il padre, ma anche che lo venerassero come modello e che ognuno in realtà volesse mettersi al suo posto. L’atto cannibalesco diviene allora comprensibile come tentativo per assicurarsi l’identificazione con lui incorporandone un pezzo.

Si deve supporre che al parricidio seguisse un lungo periodo in cui i fratelli lottarono tra loro per l’eredità paterna, che ciascuno voleva ottenere solo per sé. Visti i pericoli e l’infruttuosità di queste lotte, il ricordo dell’atto liberatorio compiuto in comune e i legami emotivi reciproci nati fin dai tempi della cacciata, finirono per portare a un’unione tra loro, a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Ogni singolo rinunciò all’ideale di ereditare per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Da qui fu stabilito il tabù dell’incesto e l’ordine dell’esogamia. Buona parte del potere assoluto reso disponibile dalla soppressione del padre passò alle donne, venne il tempo del matriarcato. In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto, che forse all’inizio era sempre anche temuto. Una scelta del genere può sembrare strana, ma l’abisso che l’uomo stabilì in seguito tra sé e l’animale era ignoto ai primitivi, e non esiste nemmeno per i nostri bambini, le cui fobie per gli animali sono state da noi spiegate come timore del padre. Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente l’originaria contraddittorietà della relazione emotiva con il padre (ambivalenza). Da un lato il totem valeva come progenitore carnale e genio tutelare del clan, e doveva dunque essere venerato e protetto; dall’altro fu istituita una solennità in cui gli era riservato il destino toccato al padre primigenio. Esso veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme (pasto totemico, secondo Robertson Smith). Questo grande giorno di festa era in realtà la celebrazione trionfale della vittoria dei figli alleati sul padre.

Dove si colloca la religione in questo contesto? Ritengo che abbiamo pieno diritto di riconoscere nel totemismo, con la sua venerazione di un sostituto paterno, con l’ambivalenza testimoniata dal pasto totemico, con l’istituzione di celebrazioni commemorative, di divieti la cui trasgressione era punita con la morte, nel totemismo, dicevo, ci è lecito riconoscere la prima forma di apparizione della religione nella storia umana e confermare fin da principio il suo nesso con gli ordinamenti sociali e gli obblighi morali. Possiamo qui passare solo in rapidissima rassegna gli sviluppi successivi della religione. Essi procedono senza dubbio parallelamente al progresso civile del genere umano e alle modificazioni nella struttura delle comunità umane.

Il passo successivo al totemismo è l’umanizzazione dell’essere venerato. Al posto degli animali subentrano divinità umane, la cui origine dal totem non è velata. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio, da cui è inseparabile, oppure ancora la leggenda fa sì che il dio uccida proprio questo animale, che era solo un suo stadio preliminare. A un certo punto difficilmente determinabile di questa evoluzione fanno la loro comparsa grandi divinità materne, verosimilmente anche prima degli dei maschili, con i quali coesistettero poi a lungo. Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primitivo; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali. È verosimile che le divinità materne abbiano avuto origine al tempo della restrizione del matriarcato, per risarcire le madri messe da parte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero in modo netto i tratti di figure paterne. Gli dei maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo sovrastante. Il passo successivo, però, porta al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un unico dio-padre, dominante senza limiti.

Va detto che questa panoramica storica è lacunosa e in alcuni punti incerta. Ma chi pretendesse spiegare la nostra ricostruzione della preistoria come pura fantasia, sottovaluterebbe di molto la ricchezza e la forza dimostrativa del materiale ivi incluso. Vaste porzioni del passato, qui collegate in un tutto, sono storicamente documentate, come il totemismo e le associazioni maschili. Altro si è conservato in ottime repliche. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico. Numerose reminiscenze dei dimenticati primordi sono conservate nelle leggende e nelle favole dei popoli, e lo studio analitico della vita psichica del bambino ha fornito con inaspettata ricchezza il materiale per supplire ai difetti della nostra conoscenza di quei tempi. Come contributi alla miglior conoscenza dei rapporti così importanti con il padre, mi basti citare le zoofobie, la paura, che ci sembra così stravagante, di essere divorati dal padre, la mostruosa intensità dell’angoscia di castrazione. Nella nostra costruzione non vi è nulla di liberamente inventato, non sostenibile su buone basi.

Ammessa come complessivamente credibile la nostra presentazione della preistoria, si riconosceranno nelle dottrine e nei riti religiosi due elementi: da un lato il fissarsi all’antica storia familiare con le sue reminiscenze, dall’altro il rinnovarsi del passato, i ritorni del dimenticato dopo lunghi intervalli. L’ultimo aspetto soprattutto, finora trascurato e per questo non compreso, va qui dimostrato almeno su un esempio efficace.

Merita particolare risalto il fatto che ogni parte del passato che ritorna dall’oblio s’impone con particolare forza, esercita un potere incomparabile sulle masse umane e pretende irresistibilmente d’esser ritenuta vera, mentre l’obiezione logica resta impotente, al modo del Credo quia absurdum. Questo carattere notevole si può comprendere solo secondo il modello del delirio degli psicotici. Da tempo abbiamo compreso che nell’idea delirante si immette una parte di verità dimenticata, che al suo ritorno ha dovuto farsi piacere una serie di deformazioni e fraintendimenti; abbiamo compreso inoltre che la convinzione coatta relativa al delirio origina da questo nucleo di verità e si estende agli errori che lo avvolgono. Dobbiamo concedere un simile contenuto di verità, da chiamare storica, anche ai dogmi di fede delle religioni, che portano in sé il carattere dei sintomi psicotici ma, come i fenomeni di massa, si sottraggono alla maledizione dell’isolamento.

Nessun altro brano della storia delle religioni ci è diventato così trasparente come l’inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall’evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano con il suo immancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito). Considerando provvisoriamente valida l'ipotesi secondo cui l’impero mondiale dei faraoni fu la causa dell’emergere dell’idea monoteistica, vediamo che questa idea, lasciato il suo terreno e trasferita a un altro popolo, è fatta propria da quest’ultimo dopo un lungo periodo di latenza, è custodita come un possesso prezioso e a sua volta mantiene il popolo vivo, regalandogli l’orgoglio d’essere prescelto. Alla religione del padre primitivo si lega la speranza della ricompensa, della distinzione, e infine del dominio mondiale. Quest’ultima fantasia di desiderio, da molto tempo abbandonata dal popolo ebraico, sopravvive ancor oggi tra i suoi nemici, che credono alla cospirazione dei “Saggi di Sion”. In una sezione successiva ci riserviamo di presentare come le particolari proprietà della religione monoteistica tratta dall’Egitto agirono sul popolo ebraico e ne plasmarono durevolmente il carattere, sia mediante il rifiuto della magia e del misticismo, sia incitandolo a progredire sulla via della spiritualità e sollecitandolo alla sublimazione; lo descriveremmo come il popolo beato per il possesso della verità, soggiogato dalla coscienza della predilezione, giunse a sopravvalutare l’intellettuale e ad accentuare il lato etico, e come i tristi destini, le delusioni reali di questo popolo poterono rafforzare tutte queste tendenze. Per ora vogliamo seguire lo sviluppo in un’altra direzione.

La reintegrazione del padre primitivo nei suoi diritti storici fu un gran progresso, ma non poteva essere la fine. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento. Non è facile indovinare cosa mise in moto il processo. Sembra che un crescente senso di colpa si sia impadronito del popolo ebraico e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del contenuto rimosso. Finché un uomo venuto da questo popolo ebraico, giustificando un agitatore politico-religioso, trovò l’occasione per distaccare una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, riprese questo senso di colpa, riconducendolo correttamente alla sua prima fonte preistorica. La chiamò “peccato originale”: era un delitto contro Dio, che si poteva espiare solo con la morte. Con il peccato originale la morte era venuta al mondo. In effetti, questo delitto meritevole di morte era l’uccisione del padre primitivo, successivamente deificato. Ma non si ricordava l'assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questa fantasia poteva essere salutata come messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stato assassinato il padre. Verosimilmente tradizioni orientali e misteri greci avevano influenzato la costruzione della fantasia di redenzione. Essenziale in essa sembra sia stato il contributo personale di Paolo, uomo dotato di un vero e proprio talento religioso, nella cui anima stavano in agguato oscure tracce del passato, pronte a irrompere in regioni più coscienti.

Fu chiaramente una deformazione tendenziosa, che procurava difficoltà alla comprensione logica, che il redentore si fosse sacrificato senza colpa; infatti, come può un innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini facendosi uccidere? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il principale colpevole, il capo della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre. A mio giudizio bisogna lasciare indecisa la questione se ci fu o no questo principale ribelle e capo. È certamente possibile, ma in alternativa bisogna considerare che nella banda dei fratelli ciascuno aveva certamente il desiderio di commettere solo lui il misfatto, creando così a sé stesso una posizione eccezionale e un compenso per l’identificazione paterna che si stemperava nella collettività e alla quale perciò bisognava rinunciare. Pertanto, se tale capo non vi fu, Cristo eredita una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, è questo il punto in cui ritrovare l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide.10 Qui sta anche il vero fondamento della “tragica colpa” dell’eroe nel dramma. È fuor di dubbio che l’eroe e il coro della tragedia greca raffigurino questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli; non è senza significato che nel Medioevo il teatro ricominci rappresentando la storia della Passione.

Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell’antico pasto totemico, solo nel suo senso di tenerezza, esprimendo la venerazione e non l’aggressione. Tuttavia l’ambivalenza dominante il rapporto con il padre si mostrò chiaramente nel risultato finale dell’innovazione religiosa. Volta presumibilmente a riconciliarsi con Dio Padre, finì per detronizzarlo ed eliminarlo. Il giudaismo fu una religione del Padre, il cristianesimo divenne la religione del Figlio. Il vecchio Dio Padre passò in secondo piano e al suo posto venne Cristo, il figlio, proprio come in quella preistoria ogni figlio aveva agognato. Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore. Il suo successo fu certo dovuto innanzitutto al dato di fatto di aver messo il peso del senso di colpa sulle spalle di tutta l’umanità grazie all’idea di redenzione; oltre a ciò, grazie alla circostanza di aver rinunciato all’elezione del suo popolo e al suo segno visibile, la circoncisione, la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini. Può darsi che al passo di Paolo abbia in parte contribuito il suo personale desiderio di vendetta per l’opposizione che la sua innovazione aveva incontrato nei circoli ebraici, ma in ogni caso si ristabiliva così un carattere dell’antica religione di Aton, una volta tolta la strettoia passando a un nuovo portatore dopo il popolo ebraico.

Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto alla più antica, l’ebraica, come regolarmente è il caso con l’irruzione o l’ammissione di nuove masse umane di livello inferiore. La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui era asceso il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica; assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici; ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure divine del politeismo, appena dissimulate. Soprattutto non escluse, come la religione di Aton e quella mosaica che venne subito dopo, l’introduzione di elementi superstiziosi, magici e mistici, che dovevano inibire pesantemente l’evoluzione spirituale dei due millenni successivi.

Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Amon sul dio di Akhenaton dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta. Eppure, per ciò che attiene la storia della religione, cioè riguardo al ritorno del rimosso, il cristianesimo fu un progresso, e da allora in poi la religione ebraica fu in certa misura un fossile.

Varrebbe la pena capire come avvenne che l’idea monoteistica abbia fatto così profonda impressione proprio sul popolo ebraico, che poté mantenerla tanto tenacemente. Credo che si possa rispondere a questa domanda. Il destino avvicinò il popolo ebraico al grande fatto e misfatto della preistoria, l’uccisione del padre, ripetuto nella persona di Mosè, eminente figura paterna. Fu un caso di “agire” invece di ricordare, come tanto spesso avviene con il nevrotico durante il lavoro analitico. Allo stimolo a ricordare, che la dottrina di Mosè dava loro, reagirono invece rinnegando il loro atto; si bloccarono sul riconoscimento del grande Padre e si preclusero l’accesso al punto in cui più tardi Paolo doveva riprendere la continuazione della storia primitiva. Non è affatto indifferente o casuale che l’uccisione violenta di un altro grand’uomo diventasse il punto di partenza della nuova creazione religiosa di Paolo. Si trattava di un uomo che un piccolo numero di seguaci in Giudea riteneva figlio di Dio e l’annunciato Messia, al quale poi fu anche attribuito qualcosa della storia infantile inventata a proposito di Mosè, ma sul conto del quale in realtà non sappiamo quasi nulla di più che sul conto di Mosè. Non sappiamo neppure se davvero fu il grande maestro che i Vangeli dipingono, o se piuttosto i fatti e le circostanze della sua morte furono decisivi per il significato assunto dalla sua figura. Paolo, divenuto suo apostolo, neppure Io conobbe di persona.

L’uccisione di Mosè da parte del suo popolo ebraico,11 riscoperta da Sellin dalle tracce rimaste nella tradizione e curiosamente supposta anche dal giovane Goethe senza alcuna prova, diviene così un pezzo indispensabile della nostra costruzione, un importante anello di congiunzione tra l’evento dimenticato dei primordi e il suo più tardo riapparire in forma di religione monoteistica.12 È attraente supporre che il pentimento per l’assassinio di Mosè desse impulso alla fantasia di desiderio di un ritorno del Messia che portasse al suo popolo la redenzione e il promesso dominio mondiale. Se Mosè fu questo primo Messia, allora Cristo divenne il suo sostituto e successore; anche Paolo poté con una certa giustificazione storica proclamare ai popoli: “Vedete, il Messia è davvero venuto, ed è stato ucciso sotto i vostri occhi”. Allora, anche nella resurrezione di Cristo c’è un pezzo di verità storica; infatti, era il padre primigenio dell’orda primitiva che tornava trasfigurato e come figlio spostato al posto del padre.

Il povero popolo ebraico, che con la solita dura cervice continuò a rinnegare l’uccisione del padre, nel corso dei secoli l’ha espiata duramente. Gli si è sempre di nuovo rinfacciato: “Avete ucciso il nostro Dio”. Rimprovero corretto, se tradotto in modo corretto. Riferito alla storia delle religioni suona: “Non avete voluto ammettere di aver ucciso Dio (l’immagine originaria di Dio, il padre primitivo e le sue successive reincarnazioni)”. Ci sarebbe da aggiungere una dichiarazione: “Certo, noi abbiamo fatto Io stesso, ma Io abbiamo ammesso e da allora siamo stati assolti”. Non tutti i rimproveri con cui l’antisemitismo perseguita i discendenti del popolo ebraico possono appellarsi a una giustificazione analoga.

Un fenomeno di tale intensità e durata come l’odio dei popoli per gli ebrei deve naturalmente avere più di un fondamento. Si può indovinare tutta una serie di ragioni; alcune dedotte palesemente dalla realtà, che non richiedono alcuna interpretazione, altre, più profonde, derivanti da fonti occulte, si potrebbe dire che ne siano i motivi specifici. Fra le prime, il rimprovero di essere stranieri al paese è certo il più debole, poiché in molti luoghi, oggi dominati dall’antisemitismo, gli ebrei appartengono alle parti più antiche della popolazione o addirittura si erano insediati prima degli attuali abitanti. Vale, per esempio, per la città di Colonia, dove gli ebrei giunsero con i romani, prima ancora che fosse occupata dai germani. Altre ragioni di odio per gli ebrei sono più forti, come la circostanza che essi vivono perlopiù come minoranze tra gli altri popoli, poiché il senso comunitario delle masse ha bisogno, per essere compiuto, dell’ostilità contro una minoranza estranea, e la debolezza numerica di questi esclusi invita alla repressione.

Assolutamente imperdonabili appaiono però altre due particolarità degli ebrei. In primo luogo il fatto che per certi aspetti sono diversi dai loro “popoli albergatori”. Non fondamentalmente diversi, poiché non sono asiatici di strane razze, come i nemici asseriscono, ma perlopiù un misto di resti di popoli mediterranei ed eredi della civiltà mediterranea. Eppure sono altri, spesso indefinibilmente altri, soprattutto rispetto ai popoli nordici; l’intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole differenze che contro differenze fondamentali. Ancora più forte è l’effetto del secondo punto, ed è il loro tener testa a ogni oppressione; si aggiunga che alle più crudeli persecuzioni non sia riuscito di sterminarli, anzi mostrano di avere la capacità di affermarsi nel commercio e, dove sia loro consentito, di dare validi contributi in ogni campo della civiltà.

I motivi più profondi di odio per gli ebrei si radicano nel passato più remoto, agiscono dall’inconscio dei popoli, e mi sorprende che sulle prime appaiano incredibili. Arrischio l’affermazione che la gelosia per il popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino non sia stata tuttora superata dagli altri popoli, quasi avessero prestato fede a tale pretesa. Inoltre uno dei costumi distintivi degli ebrei, la circoncisione, fa un’impressione sgradevole e inquietante, che si spiega facilmente con il richiamo alla temuta castrazione e, pertanto, riguarda qualcosa da dimenticare, appartenente al passato preistorico. Infine, l’ultimo motivo: non dimentichiamo che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odiare gli ebrei sono diventati cristiani solo in epoca storica tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Ha facilitato lo spostamento il fatto che i Vangeli narrino una storia svolta tra ebrei e tratti propriamente solo di ebrei. Il loro odio per gli ebrei è al fondo odio per i cristiani, e non stupisce se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteiste trovi così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a entrambe.

 

 

E. Difficoltà

Forse quanto precede è riuscito a completare l’analogia tra processi nevrotici ed eventi religiosi, dimostrando così l’origine inaspettata dei secondi. Nel passare dalla psicologia individuale a quella delle masse emergono due difficoltà di diversa natura e importanza, cui dobbiamo ora dedicarci. La prima è che qui abbiamo trattato solo un caso della ricca fenomenologia delle religioni e non abbiamo gettato nessuna luce sugli altri. L’autore deve confessare con rincrescimento di non poter fornire altro che questo saggio e che la sua conoscenza specialistica non basta a completare l’indagine. In base alle sue limitate conoscenze, può aggiungere forse ancora che il caso della fondazione della religione maomettana gli pare quasi una ripetizione abbreviata di quella ebraica, imitando la quale entrò in scena. Sembra anzi che il Profeta avesse originariamente l’intenzione di accettare pienamente per sé e per il suo popolo il giudaismo. L’aver ritrovato l’unico grande padre primitivo conferì agli arabi una sicurezza straordinariamente elevata di sé, che li condusse a grandi successi terreni, nei quali però tale sicurezza si esaurì. Allah si mostrò molto più grato al suo popolo eletto che in altri tempi Yahweh al suo. Ma l’evoluzione interna della nuova religione si arrestò presto, forse perché mancò l’approfondimento prodotto, nel caso degli ebrei, dall’aver ucciso il fondatore della loro religione. Le religioni apparentemente razionalistiche degli orientali sono, nel loro nocciolo, culto degli antenati e si arrestano così anch’esse a uno dei primi gradini della ricostruzione del passato. Se è vero che presso i popoli primitivi di oggi troviamo, come unico contenuto della religione, il riconoscimento di un essere supremo, possiamo considerare ciò soltanto come un’atrofia dello sviluppo religioso e metterlo in relazione con gli innumerevoli casi di nevrosi rudimentali che constatiamo in altro campo. Perché, sia qui che là, non si sia andati avanti, non abbiamo modo di capirlo in nessuno dei due casi. Non ci resta che attribuirne la responsabilità al talento individuale di questi popoli, alla direzione presa dalla loro attività e al loro assetto sociale generale. Del resto, è buona regola del lavoro analitico accontentarsi di spiegare ciò che ci sta dinanzi, senza affannarsi a spiegare ciò che non è avvenuto.

Passando alla psicologia delle masse, la seconda difficoltà è molto più importante, perché solleva un problema nuovo di principio. Si pone la questione circa la forma in cui è presente la tradizione che opera nella vita dei popoli; tale questione non si pone nell’individuo, essendo in questo caso risolta dall’esistenza nell’inconscio delle tracce mnestiche del passato. Torniamo al nostro esempio storico. Abbiamo attribuito il compromesso di Qadesh alla persistenza di una poderosa tradizione nei reduci dall'Egitto. Questo caso non cela alcun problema. Secondo la nostra congettura una simile tradizione si sosteneva sul ricordo cosciente delle comunicazioni orali che gli allora viventi avevano ricevuto dai loro antenati di solo due o tre generazioni addietro, i quali erano stati partecipi e testimoni oculari degli avvenimenti che qui importano. Ma possiamo pensare Io stesso per i secoli successivi? cioè che la tradizione avesse sempre a fondamento un sapere comunicato in maniera normale, che si trasmetteva da nonno a nipote? Non è più possibile precisare, come nel caso precedente, chi fossero le persone che custodivano un simile sapere e Io propagavano oralmente. Secondo Sellin la tradizione dell’uccisione di Mosè fu sempre presente nelle cerchie sacerdotali, finché trovò la sua espressione scritta, la sola che rese possibile a Sellin arguirla. Ma essa può essere stata nota solo a pochi, non era patrimonio popolare. Basta questo a spiegare la sua efficacia? Si può attribuire a simile sapere di pochi, quando veniva a conoscenza delle masse, il potere di catturarle in modo così duraturo? Sembra piuttosto che anche nella massa ignara ci dovesse essere qualcosa in qualche modo imparentato al sapere dei pochi e che gli venne incontro quando si manifestò.

Rivolgendosi all’analogo caso preistorico, il giudizio è ancora più difficile. L’esistenza di un padre primitivo con le note proprietà, e il destino al quale andò incontro furono certamente dimenticati nel corso dei secoli, e non si può nemmeno supporre qualche tradizione orale come nel caso di Mosè. In che senso allora possiamo parlare di tradizione? In che forma può essere stata presente?

Per agevolare i lettori che non desiderano o non sono disposti a immergersi in un complicato stato di cose psicologico, presenterò il risultato della seguente ricerca. Penso che la concordanza tra individuo e massa sia in questo punto quasi perfetta: anche nelle masse l’impressione del passato si conserva in tracce mnestiche inconsce.

Nell’individuo crediamo di vederci chiaro. La traccia mnestica di ciò che ha provato da bambino piccolo si è conservata in lui, solo in uno stato psichico particolare. Si può dire che l’individuo lo ha sempre saputo, proprio come ognuno sa qualcosa del rimosso. In proposito mi sono fatto certe idee, non difficili da corroborare con l’analisi, secondo cui certe cose si possono dimenticare e dopo un po’ di tempo possono ricomparire. Il dimenticato non è estinto ma solo “rimosso”; le sue tracce mnestiche sono presenti in tutta la loro freschezza, per quanto isolate da “contro-occupazioni “. Non possono entrare in circolazione con gli altri processi intellettuali, sono inconsce, inaccessibili alla coscienza. Può anche darsi che certe parti del rimosso si siano sottratte al processo, restino accessibili al ricordo, ed emergano occasionalmente alla coscienza, ma anche allora sono isolate, come corpi estranei non connessi al resto. Ciò può accadere, ma non necessariamente; la rimozione può anche essere totale e in seguito ci atterremo a questo caso.

Tale rimosso mantiene la sua spinta ascensionale, continua a sforzarsi di penetrare nella coscienza. Raggiunge lo scopo a tre condizioni: 1) se la forza della contro-occupazione è ridotta o da processi morbosi che colpiscono l’altro, il cosiddetto Io, o da una diversa distribuzione delle energie d’occupazione in questo lo, come avviene di regola nello stato di sonno; 2) se le componenti pulsionali legate al rimosso sperimentarono un particolare rinforzamento (il migliore esempio è dato dai processi che accompagnano la pubertà); 3) se nel vivere una certa esperienza a un certo momento si producono impressioni ed esperienze così simili al rimosso da ridestarlo. Allora il recente si rinforza mediante l’energia latente del rimosso, e il rimosso giunge a effetto dietro al recente con il suo aiuto. In nessuno di questi tre casi il materiale fino allora rimosso giunge alla coscienza in modo piano senza alterazioni; al contrario deve sempre rassegnarsi a deformazioni che testimoniano l’influsso della resistenza (non del tutta superata) che nasce dalla contro-occupazione, o l’influsso modificatore dell’esperienza recente, o di entrambi. 202

Come criterio e punto di orientamento è servita la distinzione tra processo psichico conscio e inconscio. Il rimosso è inconscio. Ora sarebbe una fortunata semplificazione se questa tesi ammettesse anche di essere rovesciata, se cioè la differenza tra le qualità del conscio (c) e dell’inconscio (inc) coincidesse con la divisione: appartenente all’Io o al rimosso. Già il fatto che nella nostra vita psichica ci siano cose come queste, isolate e inconsce, sarebbe nuovo e abbastanza importante. Ma la realtà non è così semplice. È giusto che ogni rimosso è inconscio, ma non che tutto ciò che appartiene all’Io è conscio. Ci rendiamo conto che la coscienza è una qualità fugace, che accompagna il processo psichico solo in via transitoria. Ai nostri fini dobbiamo pertanto sostituire “conscio” con “capace di diventare cosciente” e chiamare questa qualità “preconscio” (prec). Diremo allora più correttamente che l’Io è essenzialmente preconscio (virtualmente conscio), ma che parti dell’Io sono inconsce.

Quest’ultima constatazione ci insegna che le qualità cui fin qui ci siamo attenuti non bastano per orientarci nel buio della vita psichica. Dobbiamo introdurre un’altra distinzione, che non è più qualitativa, ma topica, e al tempo stesso genetica, cosa che le conferisce particolare valore.

Nella nostra vita psichica, intesa come apparato composto da parecchie istanze, distretti e province, separiamo una regione che chiamiamo il vero e proprio Io, dall’altra che chiamiamo Es. L’Es è la più antica, da cui l’Io si è sviluppato come strato corticale per influsso del mondo esterno. All’Es toccano le nostre pulsioni originarie; nell’Es tutti i processi decorrono inconsci. Come abbiamo già menzionato, l’Io coincide con l’area del preconscio; contiene parti che normalmente restano inconsce. Per i processi psichici nell’Es valgono leggi di decorso e di reciproca interazione del tutto diverse da quelle dominanti nell’Io. Invero, proprio la scoperta di queste differenze ci ha permesso di giungere alla nostra nuova concezione, conferendole legittimità.

Il rimosso va attribuito all’Es e soggiace anche ai suoi meccanismi, distinguendosi solo per la genesi. La differenziazione si compie all’epoca della prima infanzia, quando l’Io si sviluppa dall’Es. Allora una parte del contenuto dell’Es è assunta dall’Io ed elevata allo stato preconscio, mentre un’altra parte non subisce questa trasposizione e resta indietro nell’Es come inconscio vero e proprio. Nel corso della successiva formazione dell’Io, certe impressioni e processi psichici nell’Io vengono tuttavia da esso esclusi a opera di un procedimento di difesa; il carattere preconscio è loro sottratto, in modo da essere riabbassati a costituenti dell’Es. Questo è il “rimosso” nell’Es. Per quanto riguarda la circolazione tra le due province psichiche, noi supponiamo da un lato che il processo inconscio nell’Es sia elevato al livello di preconscio e incorporato nell’Io, dall’altro che il preconscio nell’Io possa seguire il cammino inverso ed essere spostato di nuovo nell’Es. Per ora resta fuori dal nostro interesse il fatto che nell’Io si delimiti successivamente un distretto particolare, quello del “Super-Io”.

È possibile che tutto ciò appaia tutt’altro che semplice, ma, una volta acquisita una certa familiarità con la concezione spaziale dell’apparato psichico, a cui non siamo abituati, ciò può non offrire particolari difficoltà di rappresentazione. Aggiungo ancora l’osservazione che la topica psichica qui sviluppata non ha nulla a che fare con l’anatomia cerebrale o, se vogliamo, la sfiora solo in un punto. L’insoddisfacente in questa rappresentazione – io lo avverto chiaramente come chiunque altro – deriva dalla nostra totale ignoranza sulla natura dinamica dei processi psichici. Ci diciamo che ciò che distingue una rappresentazione conscia da una preconscia, e questa da un’inconscia, non può essere altro che una modificazione, forse anche una diversa distribuzione dell’energia psichica. Parliamo di occupazioni e sovra-occupazioni, ma oltre a questo manchiamo di ogni conoscenza e persino di ogni avvio a un’ipotesi di lavoro praticabile. Sul fenomeno della coscienza possiamo aggiungere che essa originariamente dipende dalla percezione. Tutte le sensazioni che nascono dalla percezione di stimolazioni dolorose, tattili, uditive o visive sono a tutta prima consce. I processi di pensiero e ciò che di analogo può esserci nell’Es sono in sé inconsci e si guadagnano l’accesso alla coscienza tramite il nesso con i residui mnestici di percezioni visive e uditive passando per la funzione linguistica. Nell’animale, cui manca la parola, questi rapporti devono essere più semplici.

Le impressioni dei traumi precoci, da cui siamo partiti, o non sono trasportate nel preconscio, o sono presto trasferite dalla rimozione nello stato di Es. I loro residui mnestici sono allora inconsci e operano dall’Es. Non è difficile, crediamo, seguirne le vicende finché si tratta di esperienze individuali. Sopraggiunge però una nuova complicazione se riflettiamo sull’attendibilità che nella vita psichica dell’individuo operino non solo esperienze personali, ma anche contenuti congeniti fin dalla nascita, elementi di provenienza filogenetica, un’eredità arcaica. Sorgono allora le domande: in cosa consiste, cosa contiene, quali ne sono le prove?

La prima risposta e la più sicura è che l’eredità arcaica consista in determinate predisposizioni, proprie di tutti gli esseri viventi. Vale a dire nella capacità e inclinazione a imboccare determinate direzioni di sviluppo e a reagire in modo particolare a certi eccitamenti, impressioni e stimoli. Poiché l’esperienza mostra che nei singoli esseri del genere umano ci sono a questo riguardo delle differenze, l’eredità arcaica le include: esse configurano, cioè, quello che noi riconosciamo come fattore costituzionale dell’individuo. Ora, poiché gli uomini, almeno nell’infanzia, sperimentano tutti pressappoco le stesse cose e vi reagiscono anche in modo simile, potrebbe sorgere il dubbio se non si debbano attribuire queste reazioni all’eredità arcaica insieme con le loro differenze individuali. Il dubbio va respinto; il dato di queste similarità non arricchisce la nostra conoscenza dell’eredità arcaica.

Nondimeno la ricerca analitica ha portato alcuni risultati che fanno pensare. C’è innanzitutto la generalità del simbolismo linguistico. La rappresentazione simbolica di un oggetto mediante un altro – lo stesso vale nelle esecuzioni – è comune ovviamente a tutti i nostri bambini. Non possiamo dimostrare come l’abbiano appresa, e in molti casi dobbiamo riconoscere che l’apprendimento è impossibile. Si tratta di un sapere originario, che l’adulto ha poi dimenticato. È vero che adopera gli stessi simboli nei sogni, ma non li capisce se non quando l’analista glieli interpreta, e anche allora presta fede malvolentieri alla traduzione. Se ha fatto uso di una delle così frequenti locuzioni in cui questo simbolismo si trova fissato, deve riconoscere che il loro senso proprio gli è interamente sfuggito. II simbolismo inoltre passa sopra le differenze tra lingue; le ricerche mostrerebbero verosimilmente che ha il dono dell’ubiquità ed è lo stesso in tutti i popoli. Sembra un caso assodato di eredità arcaica che data dall’epoca dello sviluppo linguistico, ma si potrebbe anche cercare un’altra spiegazione. Si potrebbe dire che si tratta di relazioni mentali tra rappresentazioni, instauratesi durante la storia dello sviluppo linguistico e che ora devono essere ripetute ogni volta che uno sviluppo linguistico è compiuto individualmente. Questo sarebbe dunque un caso di ereditarietà di una disposizione mentale, analogo a quella di una disposizione pulsionale, e, di nuovo, non darebbe alcun contributo al nostro problema.

II lavoro analitico, tuttavia, ha portato alla luce anche dell’altro, la cui portata supera quanto detto finora. Studiando le reazioni ai traumi precoci, abbastanza spesso ci sorprende trovare che non si attengono strettamente all’esperienza effettiva, ma se ne allontanano in un modo che s’adatta assai meglio al modello di un evento filogenetico e che, in modo del tutto generale, si riesce a spiegare solo con il suo influsso. II comportamento del bambino nevrotico verso i genitori nel complesso edipico e di castrazione abbonda di tali reazioni, che individualmente sembrano ingiustificabili e divengono comprensibili solo filogeneticamente, poste in relazione con le esperienze di generazioni precedenti. Varrebbe la pena presentare al pubblico nel suo complesso il materiale a cui posso qui far riferimento. La sua forza probante mi sembra sufficiente per rischiare ancora un passo avanti e proporre la tesi che l’eredità arcaica dell’uomo non comprende solo predisposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche dell’esperienza delle generazioni precedenti. Con ciò sia l’estensione che l’importanza dell’eredità arcaica sarebbero significativamente accresciute.

Riflettendo più da vicino, dobbiamo confessare che da tempo ci siamo comportati come se fosse fuori discussione che l’ereditarietà delle tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori non dipendesse dalla comunicazione diretta e dall’influsso che l’educazione esercita mediante l’esempio. Quando parlavo del persistere dell’antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata, non una tradizione propagata per comunicazione. O almeno non abbiamo fatto distinzione tra le due, non avendo chiaro quanto c’era di temerario in questa trascuratezza. Tuttavia la nostra situazione è aggravata dall’attuale impostazione della scienza biologica, che non vuol saperne di eredità nei discendenti di proprietà acquisite [dagli ascendenti]. Ma ciononostante in tutta modestia confessiamo di non poter fare a meno di questo fattore nello sviluppo biologico. Certo, nei due casi non si tratta della stessa cosa ma, nell’uno di proprietà acquisite difficili da cogliere, nell’altro di tracce mnestiche di impressioni esterne, per così dire concrete. Ma può darsi che fondamentalmente non possiamo rappresentarci un caso senza l’altro.

Ammettendo la permanenza di queste tracce mnestiche nell’eredità arcaica, gettiamo un ponte sull’abisso che separa la psicologia individuale dalla psicologia delle masse e possiamo trattare i popoli come i singoli nevrotici. Ammesso che per le tracce mnestiche nell'eredità arcaica non abbiamo per ora alcuna prova più valida di quei fenomeni residui del lavoro analitico che esigono di essere derivati dalla filogenesi, ciò non pertanto questa prova ci sembra abbastanza valida per postulare tale stato di cose. Se non è così, non procediamo d'un passo sulla via che abbiamo battuto, né nell’analisi né nella psicologia delle masse. È una temerarietà inevitabile.

Così facciamo anche qualcosa d’altro. Riduciamo la frattura che i vecchi tempi dell’umana arroganza hanno eccessivamente allargato tra uomo e animale. Se i cosiddetti istinti degli animali, che consentono loro di comportarsi fin dall’inizio in una nuova situazione vitale come se fosse antica e da tempo familiare, se mai questa vita istintiva degli animali ammette una spiegazione, non può essere altro che gli animali portino con sé nella loro nuova esistenza le esperienze della loro specie, ossia abbiano conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell'animale umano le cose in fondo non sarebbero diverse. Agli istinti degli animali corrisponde l’eredità arcaica a loro propria, benché di altra estensione e contenuto.

Dopo queste discussioni non ho scrupoli a dichiarare che gli uomini hanno sempre saputo – in quel loro particolare modo – di aver una volta posseduto un padre primitivo e di averlo ucciso.

Due ulteriori domande aspettano risposta. La prima è a quali condizioni un simile ricordo penetri nell’eredità arcaica; la seconda, in quali circostanze possa divenire attivo, cioè spingersi dal suo stato inconscio nell’Es alla coscienza, seppure alterato e deformato. La risposta alla prima domanda è facile. Diremo: quando l’evento era abbastanza importante, o quando si ripeté abbastanza spesso, o le due cose insieme. Nel caso dell’uccisione del padre entrambe le condizioni sono soddisfatte. Alla seconda domanda va osservato che possono entrare in gioco una serie di influssi, non necessariamente tutti noti, ed è anche concepibile un decorso spontaneo che rassomiglia al processo di certe nevrosi. Di sicuro però ha importanza decisiva il risvegliarsi della traccia mnestica dimenticata a causa di una recente ripetizione reale dell'evento. Tale ripetizione fu l’uccisione di Mosè; più tardi, la presunta condanna di Cristo innocente, di modo che questi avvenimenti si imposero su ogni altra delle possibili cause. Si direbbe che la genesi del monoteismo non potesse farne a meno. Si ricorderà il detto del poeta:

Ciò che deve vivere immortale nel canto,

Deve perire neIla vita.13

Infine un’osservazione che apporta un argomento psicologico. Una tradizione fondata solo sulla comunicazione non potrebbe produrre il carattere coatto tipico dei fenomeni religiosi. Sarebbe ascoltata, criticata, forse anche respinta come ogni altra notizia proveniente dall’esterno, ma non otterrebbe mai il privilegio di sfuggire alla costrizione del pensiero logico. Essa deve aver sperimentato il destino della rimozione, la condizione d’indugio nell’inconscio, prima di poter sviluppare al suo ritorno effetti così potenti, prima di poter incantare le masse, come accade alla tradizione religiosa con nostro stupore e senza essere finora riusciti a spiegarcelo. Questa considerazione ha un gran peso nel farci credere che le cose si siano svolte effettivamente così come ci siamo sforzati di descriverle, o almeno in modo simile.

 

1 Vol. XXIII, 1 e 3.

2 Non condivido l’opinione del mio coetaneo Bernard Shaw, che gli uomini farebbero qualcosa di buono soltanto potendo vivere trecento anni. Prolungando la durata della vita non si otterrebbe nulla; si dovrebbero cambiare dalle fondamenta molte altre cose nelle condizioni della vita umana.

3 Inizio riassumendo i risultati del mio secondo saggio, puramente storico, su Mosè, che non saranno qui sottoposti a nessuna nuova critica, perché formano la premessa delle discussioni psicologiche che ne derivano e continuano a farvi ritorno.

4 Si chiamava così, per esempio, anche lo scultore il cui laboratorio fu trovato a Tell-el-Amarna.

5 Ciò corrisponderebbe alla quarantennale peregrinazione nel deserto secondo il testo biblico [Numeri, 14, 8].

6 E. Auerbach, “Wüste und Gelobtes Land” (Deserto e terra amata), Berlino, 2 vol., 1932 e 1936.

7 La stessa considerazione vale per il caso ben strano di William Shakespeare da Stratford.

8 Questa è la situazione drammatica da cui parte Macaulay nei suoi “Lays of Ancient Rome” [Canti di Roma antica, 1842]. Assume le vesti di un cantore che, afflitto per le torbide lotte intestine tra partiti nel suo tempo, rinfaccia ai suoi ascoltatori lo spirito di sacrificio, l’unità e il patriottismo dei loro antenati.

9 Quindi è assurdo affermare che si esercita la psicoanalisi, se si escludono dalla propria indagine e considerazione proprio queste epoche remote, come capita da certe parti.

10 Ernst Jones fa notare in proposito che il dio Mitra che uccide il toro potrebbe raffigurare questo capo che si vanta della sua impresa. È noto che il culto di Mitra contese a lungo la vittoria finale al giovane cristianesimo.

 

11 Goethe, lsrael in der Wiiste [Israele nel deserto], edizione di Weimar, vol. 7, p. 170.

12 Si vedano in proposito le note pagine di Frazer nel Ramo d'oro, parte terza.

13 Schiller, Die Götter Griechenlands [Gli dei della Grecia].

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