La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Art. 13 della Costituzione
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso vigilare i limiti imposti dal rispetto della persona umana
Art. 32 della Costituzione
Suono il citofono, risponde una voce di donna, mi identifico, si apre la porta[1] ed entro.
La chiudo quindi alle mie spalle.
Non ho ancora un camice, lo prenderò di lì a qualche ora.
L'odore acre di urine e metaboliti di farmaci sembra bruciarmi l'olfatto.
Sono in ospedale, nel reparto di psichiatria, la guardia psichiatrica.
Percorro il corridoio fermandomi a salutare gli infermieri che "montano".
Mi presento, sono il nuovo medico, il "triestino".
Loro sono nell'infermeria, i "malati" nelle loro stanze.
Mi dicono che la collega che "smonta il turno di notte" mi sta aspettando per le "consegne" nella stanza del medico.
Infermieri nell'infermeria, Malati nelle stanze dei malati, Medico nella stanza del medico.
Mi renderò presto conto che in questo posto ogni stanza ha una funzione precisa, e la maggior parte delle stanze sono chiuse a chiave[2]: la stanza del malato (due per le donne e due per gli uomini), la sala dove si consumano i pasti e si guarda la televisione, la stanza dei medici (ce ne sono due, una dove si dorme e ci si cambia, l'altra per i colloqui e per isolarsi con le cartelle cliniche), la stanza dell'assistente sociale, una per il Primario (che in questo luogo coincide con una figura apicale quasi mitologica), una per il caposala (che aspira ad essere figura mitologica come il Primario), la sala fumatori, una dove sono ospitati gli armadietti degli infermieri – pochi infermieri di cui alcuni perennemente critici e incazzati – la stanza del bagno per i disabili dove staziona anche un sollevatore per sollevare i "malati".
L'attribuzione di un ruolo specifico alle stanze è accompagnato dall'impossibilità di attraversamento della gran parte delle stesse da parte dei "malati": soggetti "pazienti" che costantemente sopportano di esser fatti uscire dai luoghi dove tentano continuamente di entrare per stabilire un contatto, una relazione, un dialogo: "qua non puoi stare", "là non puoi stare", "qua non puoi entrare", "ora non posso, parliamo dopo", "non lo vedi che ho da fare?", "devo andare in Pronto Soccorso a fare una consulenza, parliamo più tardi"; "dopo", "dopo", "dopo". "Dopo" è il termine che anticipa ogni possibile incontro mettendolo sovente e rapidamente in scacco[3].
Arrivo nella stanza delle "consegne"; nessun confronto la mattina con gli altri operatori dell'equipe: gli infermieri passano le loro "consegne" agli infermieri (farcite di lamentele varie) e i medici passano le "consegne" ai medici, mantenendo così il potere di decidere e disporre senza che alcuna scelta possa essere influenzata dai punti di vista degli altri operatori e generalmente, comunque, decide tutto il Primario.
La collega mi elenca diverse informazioni, passando in rassegna tutti i pazienti ricoverati nel reparto di psichiatria, spostandosi a mente da un letto all'altro: una serie di informazioni operative, non emerge alcunché di soggettivo, tantomeno una storia, a volte la linearità dell'asettico viene interrotta da un giudizio, o da un pregiudizio, sostenuto dallo sguardo, dal potere del medico psichiatra, che dal dentro del suo camice ha opinioni insindacabili, autoritarie.
A un tratto delle urla di donna provenire dal corridoio interrompono il nostro dialogare, faccio per alzarmi ma la collega mi ferma, "non preoccuparti, durante le consegne siamo esonerati dall'andare, se serve gli infermieri ci chiamano al telefono", mi dice, mi fermo.
Le urla continuano a turbare la mia capacità di ascolto, non riesco a credere che il doversi trasmettere informazioni asettiche che non sembrano avere alcunché di fondamentale in quel preciso momento possano essere più importanti dall'uscire da quella stanza, dal rendersi rapidamente disponibili a entrare in situazione con gli altri operatori, dal fare gruppo nella gestione della rabbia e dell'angoscia di una povera donna chiusa nel servizio, che ha trovato, mi dico, questo unico modo, in questo preciso momento, per comunicare qualcosa.
Dopo poco il telefono della stanza dei medici squilla, la collega risponde, non riesco ad ascoltare cosa la voce dice dall'altra parte, ma la risposta della collega, secca, sicura, non sindacabile è "legatela"[4], e la cornetta, quindi, viene riabbassata.
Non so dire con precisione il vissuto di quel momento, so con certezza però che in qualche modo mi sono sentito complice, questo è stato il mio primo incontro con la restrizione, con le fasce, con la contenzione meccanica e con la sua superficialità di applicazione.
Passano nemmeno due ore, il Primario nel frattempo è arrivato in reparto, mi ha spiegato una serie di cose tecniche, ho indossato il mio primo camice da specialista – l'ultima volta lo avevo indossato quando al Policlinico Umberto I di Roma da studente attraversavamo in massa i reparti per le attività didattiche pratiche sui pazienti – e sto partecipando al regolare rituale del "giro visite", passando come corteo funebre da letto a letto, i "malati" seduti sul materasso attendono le parole del Primario e assistono, in silenzio e in attesa, alle interazioni del "Primo uomo" con gli altri malati, compagni di stanza – quando chiamano dal Pronto Soccorso per una consulenza.
Mi offro per andare io, la mia prima consulenza partendo da un reparto restraint, in un ospedale restraint.
Quando arrivo nella stanza del codice rosso, mi presento al collega medico che ha richiesto la consulenza e, considerando la situazione che mi si presenta davanti agli occhi, evidentemente un intervento, rapido.
Una donna sui 38 anni, treccine bionde, si agita su un lettino, è visibilmente intossicata, sicuramente da alcool, sento l'odore, probabilmente da sostanze, forse cocaina, forse eroina.
Si agita copiosamente sul letto, attorno a lei gli infermieri che tentano di spogliarla per posizionare un catetere vescicale, da dove prelevare, anche, un campione di urine per esami tossicologici.
La prendo per le braccia, la fermo con forza ma al tempo stesso con delicatezza, la guardo negli occhi, lei non mi guarda, non mi vede, è completamente animata da agitazione, afinalistici i suoi movimenti: mi ricorda l'immagine delle tarantolate del Salento, di quella terra del rimorso studiata anni fa da Ernesto de Martino, antropologo, e dallo psichiatra Giovanni Jervis, prima di Gorizia, prima della Comunità Terapeutica, prima del movimento di deistituzionalizzazione italiano, prima di conoscere Franco Basaglia.
"Che cosa hai fatto?", le chiedo e lei non risponde, parla solo con il corpo, cerca di alzarsi, contrasta il nostro tentativo di mantenerla sdraiata nel letto, si urina addosso, il tentativo di posizionargli un catetere sta fallendo, chiedo ai colleghi di aiutarmi, ci mettiamo attorno a lei, la teniamo sdraiata, le parliamo, cerchiamo di convincerla a farsi aiutare, a farsi praticare un prelievo, ogni volta che si alza la riporto in posizione sdraiata, la tengo forte, anche lei mi contrasta, con forza, è una specie di danza che durerà ore, forse tre ore, le somministrerò dei liquidi, alcuni farmaci, con attenzione, ma soprattutto sarò là tutto il tempo con lei, non la mollerò un attimo, fino a che non si tranquillizzerà.
Sono andato in Pronto Soccorso con una collega, non ero solo, lei incardinata da più tempo nello stesso SPDC, precaria; mentre stiamo andando si rivolge a me e mi dice "dobbiamo portare con noi le fasce?", ed io le rispondo "Io non lego" e lei di nuovo, agganciandosi alla mia risposta, "se tu non leghi non lego nemmeno io", aggiunge.
Durante tutto l'intervento di tanto in tanto il Responsabile, il "Primario", è passato in sala rossa, a osservare; più volte ha affermato "la dobbiamo legare", ma ha lasciato fare.
La ragazza alla fine si è tranquillizzata, quella mattina portavo una camicia indossata appositamente per il primo giorno di lavoro nel reparto restraint; nell'incontro con la ragazza la camicia si è strappata, sono quindi tornato a casa con una camicia in meno, ma contento.
La mattina dopo entrando in reparto ho incontrato nuovamente la ragazza, "lucida, orientata, collaborante" come iniziano gran parte delle consulenze o degli status psicopatologici.
Mi ha ringraziato per aver insistito, per essere stato tutto quel tempo con lei, per la mia presenza al suo fianco, per aver rischiato con lei, per essermi messo in gioco con lei, per aver assistito alla sua angoscia, per essermi angosciato con lei; mi ha ringraziato per aver accettato che il tempo della crisi fosse il suo tempo e non il tempo di una consulenza, il tempo della disposizione di una contenzione meccanica, il piccolo tempo che un incontro non può strutturare ma solo mantenere una distanza.
Ho ricordato alcune parole che avevo letto su un articolo prodotto a Trieste sulla questione delle buone pratiche, credo; in questo articolo si affermava che una delle funzioni dell'operatore della Salute Mentale è "fare di più". Ho ricordato, e dimostrato, che si produce Salute Mentale solo se l'operatore, medico, infermiere, è indifferente il ruolo che incarna, è disposto a fare di più rispetto alle istanze dell'istituzione, e fare di più significa stare con l'altro, accompagnarlo, ascoltarlo, incontrarlo, affiancarlo, non solo valutarlo, diagnosticarlo, e disporre soluzioni rapide che mantengono una distanza e difendono l'operatore da cosa?
Fare di più significa, credo, accorciarla quella distanza, essere disposti a gestire la prossimità nel rispetto dell'Altro, dei suoi confini, dei suoi modi, del suo mondo vissuto e, come ho affermato altrove, "Abdicare alla propria temporalità per la temporalità dell'Altro (…) per una buona pratica (…)"[5] radicalmente libera da iatrogenesi e totalmente rispettosa della dignità della persona.
Art. 13 della Costituzione
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso vigilare i limiti imposti dal rispetto della persona umana
Art. 32 della Costituzione
Suono il citofono, risponde una voce di donna, mi identifico, si apre la porta[1] ed entro.
La chiudo quindi alle mie spalle.
Non ho ancora un camice, lo prenderò di lì a qualche ora.
L'odore acre di urine e metaboliti di farmaci sembra bruciarmi l'olfatto.
Sono in ospedale, nel reparto di psichiatria, la guardia psichiatrica.
Percorro il corridoio fermandomi a salutare gli infermieri che "montano".
Mi presento, sono il nuovo medico, il "triestino".
Loro sono nell'infermeria, i "malati" nelle loro stanze.
Mi dicono che la collega che "smonta il turno di notte" mi sta aspettando per le "consegne" nella stanza del medico.
Infermieri nell'infermeria, Malati nelle stanze dei malati, Medico nella stanza del medico.
Mi renderò presto conto che in questo posto ogni stanza ha una funzione precisa, e la maggior parte delle stanze sono chiuse a chiave[2]: la stanza del malato (due per le donne e due per gli uomini), la sala dove si consumano i pasti e si guarda la televisione, la stanza dei medici (ce ne sono due, una dove si dorme e ci si cambia, l'altra per i colloqui e per isolarsi con le cartelle cliniche), la stanza dell'assistente sociale, una per il Primario (che in questo luogo coincide con una figura apicale quasi mitologica), una per il caposala (che aspira ad essere figura mitologica come il Primario), la sala fumatori, una dove sono ospitati gli armadietti degli infermieri – pochi infermieri di cui alcuni perennemente critici e incazzati – la stanza del bagno per i disabili dove staziona anche un sollevatore per sollevare i "malati".
L'attribuzione di un ruolo specifico alle stanze è accompagnato dall'impossibilità di attraversamento della gran parte delle stesse da parte dei "malati": soggetti "pazienti" che costantemente sopportano di esser fatti uscire dai luoghi dove tentano continuamente di entrare per stabilire un contatto, una relazione, un dialogo: "qua non puoi stare", "là non puoi stare", "qua non puoi entrare", "ora non posso, parliamo dopo", "non lo vedi che ho da fare?", "devo andare in Pronto Soccorso a fare una consulenza, parliamo più tardi"; "dopo", "dopo", "dopo". "Dopo" è il termine che anticipa ogni possibile incontro mettendolo sovente e rapidamente in scacco[3].
Arrivo nella stanza delle "consegne"; nessun confronto la mattina con gli altri operatori dell'equipe: gli infermieri passano le loro "consegne" agli infermieri (farcite di lamentele varie) e i medici passano le "consegne" ai medici, mantenendo così il potere di decidere e disporre senza che alcuna scelta possa essere influenzata dai punti di vista degli altri operatori e generalmente, comunque, decide tutto il Primario.
La collega mi elenca diverse informazioni, passando in rassegna tutti i pazienti ricoverati nel reparto di psichiatria, spostandosi a mente da un letto all'altro: una serie di informazioni operative, non emerge alcunché di soggettivo, tantomeno una storia, a volte la linearità dell'asettico viene interrotta da un giudizio, o da un pregiudizio, sostenuto dallo sguardo, dal potere del medico psichiatra, che dal dentro del suo camice ha opinioni insindacabili, autoritarie.
A un tratto delle urla di donna provenire dal corridoio interrompono il nostro dialogare, faccio per alzarmi ma la collega mi ferma, "non preoccuparti, durante le consegne siamo esonerati dall'andare, se serve gli infermieri ci chiamano al telefono", mi dice, mi fermo.
Le urla continuano a turbare la mia capacità di ascolto, non riesco a credere che il doversi trasmettere informazioni asettiche che non sembrano avere alcunché di fondamentale in quel preciso momento possano essere più importanti dall'uscire da quella stanza, dal rendersi rapidamente disponibili a entrare in situazione con gli altri operatori, dal fare gruppo nella gestione della rabbia e dell'angoscia di una povera donna chiusa nel servizio, che ha trovato, mi dico, questo unico modo, in questo preciso momento, per comunicare qualcosa.
Dopo poco il telefono della stanza dei medici squilla, la collega risponde, non riesco ad ascoltare cosa la voce dice dall'altra parte, ma la risposta della collega, secca, sicura, non sindacabile è "legatela"[4], e la cornetta, quindi, viene riabbassata.
Non so dire con precisione il vissuto di quel momento, so con certezza però che in qualche modo mi sono sentito complice, questo è stato il mio primo incontro con la restrizione, con le fasce, con la contenzione meccanica e con la sua superficialità di applicazione.
Passano nemmeno due ore, il Primario nel frattempo è arrivato in reparto, mi ha spiegato una serie di cose tecniche, ho indossato il mio primo camice da specialista – l'ultima volta lo avevo indossato quando al Policlinico Umberto I di Roma da studente attraversavamo in massa i reparti per le attività didattiche pratiche sui pazienti – e sto partecipando al regolare rituale del "giro visite", passando come corteo funebre da letto a letto, i "malati" seduti sul materasso attendono le parole del Primario e assistono, in silenzio e in attesa, alle interazioni del "Primo uomo" con gli altri malati, compagni di stanza – quando chiamano dal Pronto Soccorso per una consulenza.
Mi offro per andare io, la mia prima consulenza partendo da un reparto restraint, in un ospedale restraint.
Quando arrivo nella stanza del codice rosso, mi presento al collega medico che ha richiesto la consulenza e, considerando la situazione che mi si presenta davanti agli occhi, evidentemente un intervento, rapido.
Una donna sui 38 anni, treccine bionde, si agita su un lettino, è visibilmente intossicata, sicuramente da alcool, sento l'odore, probabilmente da sostanze, forse cocaina, forse eroina.
Si agita copiosamente sul letto, attorno a lei gli infermieri che tentano di spogliarla per posizionare un catetere vescicale, da dove prelevare, anche, un campione di urine per esami tossicologici.
La prendo per le braccia, la fermo con forza ma al tempo stesso con delicatezza, la guardo negli occhi, lei non mi guarda, non mi vede, è completamente animata da agitazione, afinalistici i suoi movimenti: mi ricorda l'immagine delle tarantolate del Salento, di quella terra del rimorso studiata anni fa da Ernesto de Martino, antropologo, e dallo psichiatra Giovanni Jervis, prima di Gorizia, prima della Comunità Terapeutica, prima del movimento di deistituzionalizzazione italiano, prima di conoscere Franco Basaglia.
"Che cosa hai fatto?", le chiedo e lei non risponde, parla solo con il corpo, cerca di alzarsi, contrasta il nostro tentativo di mantenerla sdraiata nel letto, si urina addosso, il tentativo di posizionargli un catetere sta fallendo, chiedo ai colleghi di aiutarmi, ci mettiamo attorno a lei, la teniamo sdraiata, le parliamo, cerchiamo di convincerla a farsi aiutare, a farsi praticare un prelievo, ogni volta che si alza la riporto in posizione sdraiata, la tengo forte, anche lei mi contrasta, con forza, è una specie di danza che durerà ore, forse tre ore, le somministrerò dei liquidi, alcuni farmaci, con attenzione, ma soprattutto sarò là tutto il tempo con lei, non la mollerò un attimo, fino a che non si tranquillizzerà.
Sono andato in Pronto Soccorso con una collega, non ero solo, lei incardinata da più tempo nello stesso SPDC, precaria; mentre stiamo andando si rivolge a me e mi dice "dobbiamo portare con noi le fasce?", ed io le rispondo "Io non lego" e lei di nuovo, agganciandosi alla mia risposta, "se tu non leghi non lego nemmeno io", aggiunge.
Durante tutto l'intervento di tanto in tanto il Responsabile, il "Primario", è passato in sala rossa, a osservare; più volte ha affermato "la dobbiamo legare", ma ha lasciato fare.
La ragazza alla fine si è tranquillizzata, quella mattina portavo una camicia indossata appositamente per il primo giorno di lavoro nel reparto restraint; nell'incontro con la ragazza la camicia si è strappata, sono quindi tornato a casa con una camicia in meno, ma contento.
La mattina dopo entrando in reparto ho incontrato nuovamente la ragazza, "lucida, orientata, collaborante" come iniziano gran parte delle consulenze o degli status psicopatologici.
Mi ha ringraziato per aver insistito, per essere stato tutto quel tempo con lei, per la mia presenza al suo fianco, per aver rischiato con lei, per essermi messo in gioco con lei, per aver assistito alla sua angoscia, per essermi angosciato con lei; mi ha ringraziato per aver accettato che il tempo della crisi fosse il suo tempo e non il tempo di una consulenza, il tempo della disposizione di una contenzione meccanica, il piccolo tempo che un incontro non può strutturare ma solo mantenere una distanza.
Ho ricordato alcune parole che avevo letto su un articolo prodotto a Trieste sulla questione delle buone pratiche, credo; in questo articolo si affermava che una delle funzioni dell'operatore della Salute Mentale è "fare di più". Ho ricordato, e dimostrato, che si produce Salute Mentale solo se l'operatore, medico, infermiere, è indifferente il ruolo che incarna, è disposto a fare di più rispetto alle istanze dell'istituzione, e fare di più significa stare con l'altro, accompagnarlo, ascoltarlo, incontrarlo, affiancarlo, non solo valutarlo, diagnosticarlo, e disporre soluzioni rapide che mantengono una distanza e difendono l'operatore da cosa?
Fare di più significa, credo, accorciarla quella distanza, essere disposti a gestire la prossimità nel rispetto dell'Altro, dei suoi confini, dei suoi modi, del suo mondo vissuto e, come ho affermato altrove, "Abdicare alla propria temporalità per la temporalità dell'Altro (…) per una buona pratica (…)"[5] radicalmente libera da iatrogenesi e totalmente rispettosa della dignità della persona.
[1] "In molti SPDC è chiusa la porta del reparto verso l'esterno e sono anche chiuse una serie di porte all'interno del reparto, veri e propri sbarramenti tra i vari blocchi: tra gli ambulatori medici e il 'reparto degenza' (…) É chiusa pure la porta della cucina, dell'infermeria, degli ambulatori medici, della stanza del caposala (…) La porta di un SPDC chiusa verso l'esterno, verso il resto dell'ospedale, sancisce lo 'statuto speciale' di quel servizio dove continuamente è a rischio la sospensione del diritto per i ricoverati e la cura rischia di confondersi con in controllo, quando non con la custodia. La porta chiusa sostituisce la presenza dell'operatore e la necessaria assistenza ravvicinata, che in alcune situazioni non possono essere disattese. Molte volte le persone hanno bisogno di una tutela temporanea per garantire la cura, l'incolumità, il rischio di non allontanamento, ma la tutela non può determinare la diminuzione o l'abolizione del diritto. Una porta chiusa finisce per sostituire una presenza umana oltre che professionale che deve essere ravvicinata, attenta e rassicurante". Giovanna del Giudice in "… e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria", Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2015, pp. 274-275
[2] "La porta chiusa tra gli ambulatori medici e il reparto degenza – se non la divisione totale tra la zona di degenza e gli ambulatori medici (…) – sancisce in maniera evidente la distanza dei medici dalla quotidianità dei ricoverati, dalle loro richieste, dai conflitti. A dover gestire le persone rimangono spesso solo gli infermieri, ai quali spesso non è stata data la possibilità di avere la consapevolezza dell'importanza della loro presenza nella cura. La vicinanza non esercitata dai medici diventa per gli infermieri incomprensibile è insopportabile e il distanziamento dai ricoverati è la conseguenza più evidente. Gli infermieri si attardano per tempi inutilmente lunghi nella medicheria, nella cucina o in spazi interdetti ai ricoverati. Nei reparti degli ospedali psichiatrici avevamo colto analoghi comportamenti che definimmo segni inequivocabili dell'istituzionalizzazione (…) La porta chiusa è impossibilità e divieto per tutti di muoversi liberamente, tanto per chi si trova ricoverato in Trattamento Sanitario obbligatorio, tanto per chi si trova in Trattamento Sanitario volontario. Accade che paradossalmente persone che volontariamente si sono rivolte al servizio subiscano restrizioni già dubbie per chi si trova in Trattamento Sanitario obbligatorio. La porta chiusa o qualsiasi altro impedimento per questi può configurarsi perfino come un reato di sequestro di persona". Giovanna del Giudice in "… e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria", Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2015, p. 275
[3] "Raggiungere un medico cui chiedere aiuto o raggiungere un operatore cui chiedere di tornare a casa, di voler sospendere il trattamento farmacologico, di voler telefonare ai propri familiari, di fatto è impedito. Le persone, dopo vani tentativi, sono costrette o a introiettare il divieto è rinchiudersi nel mutismo e coltivare silenziosamente la loro paura, oppure non possono che protestare, chiedere a gran voce, rivendicare il proprio diritto. Accade allora che le persone danno corpo alla loro protesta con azioni di rottura, acting-out, e per esempio danneggiano la suppellettile, urlano la loro disperazione prendendo talvolta a pugni e calci le pareti e le porte chiuse. Questi comportamenti convincono il personale e le organizzazioni della pericolosità e della violenza dei ricoverati. Confermano scelte di arredi minimi e resistenti. Convincono che la contenzione e la sedazione farmacologica siano irrinunciabili". Giovanna del Giudice in "… e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria", Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2015, p. 276
[4] "Le ragioni dichiarate da parte di chi mette in atto trattamento contenitivo fanno sempre riferimento a comportamenti. Questi vengono descritti o definiti con assoluta oggettività, come se quell'attributo fosse di fatto intrinseco alla persona o la comprendesse. La contenzione connessa ad un comportamento porta con sé conseguenze tutt'altro che lievi: non si procede a una pur minima valutazione dello stato generale, non si presta attenzione al particolare vissuto di quella persona, non si valuta in nessun modo l'integrazione tra ambiente, operatori, la persona". Giovanna del Giudice in "… e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria", Edizioni alpha beta Verlag, Merano, 2015, p. 266
[5] "Abdicare alla propria temporalità per la temporalità dell'altro. Sostare nell'Esser-ci per una buona pratica radicale" Antonio Luchetti (inedito)
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