« Aucune de nos impressions cliniques, même les plus communément admises et le plus
solidement évidentes n’existent pas sans de multiples implications théoriques qui seules
leur donnent leur sens » (Georges Lanteri-Laura, 1968)
I. Chiarimento semantico
Il sostantivo psicopatologia, o il monema psicopatologia come avrebbe detto il coltissimo amico e maestro Lanteri-Laura in quanto cultore di de Saussure1, compare nella psichiatria con significati così diversi da invitare ad un chiarimento. Il quale, ridotto all’essenziale, consiste nel sapere due cose: da un lato se la psicopatologia sia parte costitutiva della psichiatria o se ne sia solo un prestito filosofico più o meno ornamentale e, dall’altro, per quali ragioni essa abbia nella psichiatria un presenza per così dire carsica che la fa apparire a volte in esplicita evidenza e altre volte invece nell’ombra di un sottinteso pur tuttavia surrettiziamente operante.
In effetti, al di là di codeste ambiguità, uno sguardo epistemico minimamente attento rivela, e qui troviamo il primo chiarimento, la presenza di una psicopatologia come costante ineludibile della psichiatria; e rivela anche che una psichiatria senza una psicopatologia è un oggetto impossibile da pensare. Cosa che in linea di massima è confermata dal fare terapeutico in cui ogni psichiatria per definizione si declina e che deve ben riferirsi ad una “teoria della psiche” se vuole accreditarsi come fare di specialisti ed evitare di scadere, come diceva Lanteri-Laura, a pratica di guaritori. Il fare terapeutico della psicoanalisi che si può citare in proposito si sa che è stato considerato stravagante, o infondato, da quei colleghi viennesi di Freud che ne ignoravano, o ne rifiutavano, il paradigma psicopatologico di riferimento; e questo benché tale paradigma fosse dichiarato. Ma ci sono molte varietà di psichiatria, da quelle organiciste a quelle relate alla teoria della comunicazione o della relazione sociale e a quant’altre si voglia che il paradigma psicopatologico non lo dichiarano, oppure lo ignorano o addirittura lo rifiutano come è il caso del DSM, ma che funzionano come scienze del fare terapeutico, garantite cioè da una psicopatologia di riferimento. Il problema è quindi di sapere in quali panni si travesta codesto paradigma psicopatologico, il che arrivando a sapere avremo trovato il nostro secondo chiarimento.
Una risposta la si potrebbe compendiare nella battuta che un direttore di Manicomio del secolo scorso famoso e ovviamente organicista indirizzò ad uno dei suoi assistenti che aveva virato alla psicoanalisi : “Badalo, quello dell’inconscio … avresti a occuparti sì, ma del circuito di Papez”. Un circuito che almeno per un tempo parve la chiave dei misteri delle emozioni e dei correlati avvitamenti della memoria.
Si potrebbe obiettare che anche codesto circuito è il prodotto di una cultura allo stesso titolo dell’inconscio freudiano; ma, rispetto all’inconscio, ente puramente verbale, ha il vantaggio dell’evidenza immediata del suo supporto cerebrale e di poter così dare l’impressione che la funzione che esplica e le alterazioni di essa sono una realtà che non abbisogna di teorie per essere còlta e capita. Per cui le sue alterazioni, al di là di ogni più o meno opinabile teoria appaiono, come diceva sinteticamente Lanteri-Laura, l’evidenza stessa della natura.
Correlativamente si potrebbe citare Callieri2 per la riflessione che gli fece il suo maestro Cerletti: “Tu sei un ragazzo molto intelligente ma per le sciocchezze (la fenomenologia) dietro alle quali ti perdi, in cattedra non ci andrai mai”. E così fu fatto. Cerletti, ovviamente grande organicista, che non a caso ha legato il suo nome all’ESK, forse la più famosa delle terapie somatiche.
Questi due aneddoti ci dicono con chiara semplicità le vesti che prende la psicopatologia di una data psichiatria quando venga misconosciuta come teoria di riferimento: le vesti appunto di un’evidenza stessa della natura . La quale si potrebbe anche accettare per la sua seducente semplicità se non avesse due grossi inconvenienti: da un lato, di essere del tutto immaginaria visto che il cervello è sì un oggetto naturale, ma è tutt’altro che auto evidente dato che la conoscenza che ne abbiamo è di natura storica e culturale; e, dall’altro che, in codeste vesti, la psicopatologia diventa un dogma e perde i tratti della sua relatività storica e epistemica che la caratterizzano come autentico sapere, in osmosi ogni volta con la cultura dell’epoca3.
Tutti questi aspetti cercheremo di vederli nella breve disamina storica sul significato della psicopatologia alla quale ci apprestiamo dopo però che avremo ricordato rapidamente la natura del sapere psicopatologico specie per differenza in rapporto al sapere della semeiotica. E questo, tanto per mettere in chiaro l’oggetto di cui si parla, fuori dalle brume di un dilettantismo “intuizionista” che spesse volte lo avvolgono e confondono.
II. Psicopatologia e semeiotica: la diversità fondante della psichiatria.
Vediamo di ricordarli una volta di più con l’idea che repetita juvant.
Il primo tratto differenziale della psicopatologia è che, per quanto strano possa sembrare, non si impara dai malati mentali, dall’osservarli o frequentarli. Lo si vedeva nei vecchi colleghi che avevan passato una vita in manicomio e che ne uscivano con ancora in testa il paradigma organo-meccanicista imparato a scuola e col quale c’erano entrati trenta o quarant’anni prima. La frequentazione dei malati ti fa conoscere le espressioni della follia, cioè la semeiotica, purché tu impari a distinguerle come differenze rispetto alle espressioni della vita sana; ma non ti insegnerà mai nulla sul significato della follia e quindi sul modo di situarti rispetto ai malati e sul modo di curarli. Il significato della follia è una questione filosofica e antropologica ed è a quel genere di sapere che devi attingere se vuoi capirne qualcosa, possibilmente con la guida di un buon maestro che sia anche, o soprattutto, psichiatra4. La psicopatologia è dunque un sapere estrinseco alla clinica, e nella clinica lo si importa, a differenza della semeiotica che è un sapere intrinseco alla clinica e che nella clinica si costituisce e impara..
Il secondo tratto del sapere psicopatologico è la discontinuità e lo si può capire pensando per esempio alla Aliénation mentale di Pinel5 e alla Dégénéréscence di Morel che si succedono nel tempo a dar senso alla psichiatria ma che niente han da vedere l’una con l’altra, la prima essendo figlia dell’ottimismo illuminista, l’altra di un pessimismo catto-sentimentale da Restaurazione. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare a proposito dell’organo-meccanicismo rispetto alla Dégénérescence che lo precede e alla fenomenologia che lo segue, confronto dove affiorano anche le connotazioni valoriali che spesso coloriscono codeste tenzoni di scuola. Comunque, questi esempi ci dicono che la differenza fra due teorie psicopatologiche è quella delle matrici culturali a cui esse rispettivamente si richiamano, con cui si connettono in una specie di osmosi e da cui traggono il loro carattere di relatività storica e culturale.
Questo rapporto con la cultura dell’epoca aiuta a capire un loro tratto ulteriore e cioè la loro natura conflittuale. In effetti, ognuna di codeste teorie mira ad egemonizzare il campo del patologico mentale e a scacciarne le altre come resti d’un pensiero ormai tramontato; anche se poi,di fatto, non ci riesca e debba rassegnarsi ad una coabitazione. La quale conserva però una marcata conflittualità, facilmente constatabile negli agoni in cui due psicopatologie diverse vengano a misurarsi6.
Da queste considerazioni storiche appare infine evidente che la nozione di progresso non è pertinente al succedersi della varie psicopatologie e sarebbe gratuito dire per esempio che la psicoanalisi è un progresso rispetto all’organo meccanicismo. Sono due modi diversi di pensare l’uomo e la sua follia, relativi a due filosofie diverse e di queste seguiranno il destino. La nozione di progresso vale invece per la semeiotica che mostra, accogliendo nuovi segni, il progressivo arricchirsi del suo patrimonio.
Venendo appunto alla semeiotica, si può dire che oltre che per questo rapporto col progresso, essa si distingue anche per altri tratti dalla psicopatologia. Ho già ricordato quello di essere un saper intrinseco alla clinica e che si impara dal contatto con i malati mentali. E’ poi un sapere continuo e cumulativo perché risulta dai contributi di diverse epoche, da Ippocrate e anche da molto prima fino ai giorni nostri; e dal fatto che i segni di cui è composta convivono pacificamente fra di loro, l’arrivo di ogni nuovo segno essendo salutato come un arricchimento del comune thesaurus semeiologicus. La conflittualità della teorie psicopatologiche qui è sconosciuta. Da dire infine che la semeiotica ha un suo valore per così dire assoluto, cioè del tutto indipendente dalla cultura di un’epoca: le allucinazioni sono un segno differenziale nella Atene di Pericle come nella Firenze del Granduca Medici.
Per completare questo capitolo, ricordo due delle accezioni correnti del termine psicopatologia –la psicopatologia descrittiva e la psicopatologia p.d. – che solo abusivamente possono passare per due versioni dello stesso concetto ma che in realtà, al di là dell’identità del loro significante, rimandano a due significati molto distanti fra loro.
La psicopatologia descrittiva consiste nel sussumere il diverso aneddotico della semeiotica nell’unità concettuale di una funzione psichica, cosa che facciamo quando sintetizziamo per esempio come “disturbo depressivo dell’umore” le varie manifestazioni del melanconico che abbiamo visto a proposito dell’abbigliamento, della cura della persona, delle funzioni vegetative, della mimica, del gestire, del suo modo di parlare e dei deliri che più o meno facilmente ci ha raccontati, e quant’altro. E’ questa una sintesi che snellisce la comunicazione mettendola al riparo di una diffluenza prolissa che fortemente la intralcerebbe ma che a proposito del significato della follia non ci insegna nulla, nemmeno nell’ambito del meccanicismo a cui rimanda e dove ci aspetteremmo semmai un accenno al “meccanismo generatore”. Per questo, diceva Lanteri-Laura, codesta psicopatologia non è affatto una psicopatologia generale come a volte la si sente indicare ma rappresenta al massimo delle generalità di psicopatologia, più o meno sinonimo della clinica stessa.
Invece la psicopatologia intesa come –“logia”, come teoria della follia, mira a cogliere il senso del patologico mentale sia in relazione al funzionamento dell’individuo che, e questo oggi sempre si più, in rapporto alla sua dimensione relazionale e sociale. Nella sua versione organo-meccanicista, di cui ci guarderemmo bene dal contestare la legittimità, si trova confrontata per esempio al problema del determinismo e alla libertà dell’individuo e in proposito si può ricordare il celebre assunto di Henri Ey che qualificava la follia come “patologia della libertà”. La psicopatologia descrittiva che pur ragiona come s’è visto nell’ambito del meccanicismo questo problema nemmeno lo sfiora; appunto perché non è una psicopatologia , una “logia” della psiche, ma solo una parafrasi (utile parafrasi) della clinica.
III. Una presentazione del nostro discorso
Dopo questi chiarimenti preliminari, faremo un rapido excursus nella psichiatria moderna (dalla fine del ‘700 a oggi) per capire quale paradigma psicopatologico l’abbia via via animata e le ricadute di esso sul fare terapeutico e sulle istituzioni che di volta in volta la psichiatria si è date.
Con Lanteri-Laura avevamo convenuto di dividere questo arco di tempo in tre periodi, caratterizzati ciascuno da un paradigma psicopatologico diverso e dalla diversa cultura a cui si è ispirato.
Nel primo periodo abbiamo individuato il paradigma della psicosi unica nella versione di Aliènation mentale di Pinel prima e in quella di Dégénérescence di Morel dopo che illustra in modo evidente il noto “effetto paradigma” col mostrare come un materiale semiologico qualitativamente identico può prendere per codesto effetto due significati che più diversi non si potrebbe, con le relative ricadute sul fare terapeutico e sulla istituzione psichiatrica.
Abbiamo individuato il secondo periodo col paradigma delle Malattie mentali e, come terzo periodo, quello delle Grandi strutture; e qui si fermava la nostra ricerca di allora (1994). Ma la psicopatologia avendo nel frattempo mostrato la inquieta ricerca di nuovi paradigmi, cercheremo di cogliere il senso del suo cambiamento anche se solo a titolo di impressioni e di illazioni essendo noto che il fare storia del presente è solo un ossimoro.
IV. Il periodo della psicosi unica: da Pinel a Morel.
Da Pinel7 a Morel8 passa più di mezzo secolo di psichiatria che presenta l‘aspetto sorprendente di continuare all’insegna della psicosi unica ma conferendole due significati così diversi fra loro da illustrare in maniera emblematica l’effetto del paradigma psicopatologico. E questo per il semplice fatto che si tratta di due psichiatrie figlie di due culture diverse e incompatibili fra loro.
IV a) La “psicosi unica” di Pinel, la nota Aliénation mentale, è figlia di una cultura illuminista declinata in particolare nel sensismo di Locke e di Condillac e con riferimenti ai Rapports du physique et du moral de l’homme di Cabanis. I suoi tratti distintivi sono interessanti sia per capire la psicopatologia di Pinel che per apprezzare la modernità di questo “padre fondatore” del nostro sapere/fare.
La sua psichiatria si capisce come stacco dal somatismo fin allora (e anche dopo) dominante che fa della follia l’espressione psichica di un danno della macchina cerebrale che della vita psichica è la base. Nessuno, meglio del Chiarugi9 di Firenze, questo somatismo esprime quando dice10 che i deragliamenti dell’anima (sic!), espressi dalla pazzia come assurdità o perversioni, non possono essere imputati all’anima stessa in quanto per sua natura incorruttibile, ma a un guasto del suo strumento cerebrale che la fuorvia con informazioni errate; un guasto che egli situa nel centro ovale dell’encefalo in quanto centro di elaborazioni degli impulsi afferenti e efferenti11 che vi fanno capo. Secondo questo modo di vedere, l’uomo è “affetto” dalla pazzia come può esserlo da una polmonite o anche da una encefalite, è “portatore” passivo della malattia che prende il suo corpo e per guarirne deve contare sulle risorse “animali” di esso. La follia appare così un fenomeno estrinseco al suo essere psichico.
Del tutto diversa la posizione di Pinel che fa della pazzia un disturbo intrinseco all’essere somatopsichico dell’uomo12, inerente a codesto essere in quanto estremizzazione passionale di quella dialettica passione-ragione che lo costitutisce; e con l’idea quindi che la pazzia, lungi dall’essere qualcosa di estraneo alla psiche umana, vi è al contrario contenuta come possibilità. Il malato mentale cessa così di essere portatore di un disturbo che gli è psichicamente estraneo ma si trova ad essere coinvolto in codesto disturbo a titolo psicologico e anche etico; con l’idea insomma che si è in qualche modo responsabili della propria pazzia e tanto più responsabili quanto più si indulge a quell’atteggiamento passionale che la genera e la alimenta13.
Con queste premesse, si apre dal lato terapeutico l’orizzonte del tutto inedito della psicoterapia sia individuale che istituzionale, e che tecnicamente consiste nell’inserirsi con la parola, sia essa quella del medico o quella della regola istituzionale14, nella dialettica psichica del malato e cercare di ricondurla verso un sano equilibrio15.
Ma la novità più interessante (e moderna, se si vuole) della psicopatologia di Pinel è la continuità che egli asserisce fra la vita normale e la vita alienata, l’idea che la pazzia è del tutto priva di quella differenza esistenziale qualitativa che gli attribuirà poi Morel col suo postulato demenzialista o, dopo, Jaspers col suo processo.16 Per Pinel, le forme della pazzia sono modi di declinarsi dell’esistere umano17 della stessa pasta di esso e che possono esprimersi in una parentesi destinata più o meno all’oblio, o in un momento di geniale intuizione che segnerà la memoria e la vita o nella ripetitività di un delirio cronicizzato che inaridirà l’esistenza a tautologia tematica.
Ma con questo accenno alla temporalità, segnaliamo un altro aspetto originale della psicopatologia di Pinel, l’assenza cioè di un criterio nosodromico che ipotechi la acuzie o la cronicità di una forma clinica al suo primo apparire. Questo succederà col paradigma della malattie mentali che segnerà alcune di queste forme, tipo la schizofrenia o la paranoia, come croniche e altre come la mania e la depressione come acute giudizio che rimarrà come una loro verità di fondo malgrado i numerosi distinguo della casistica, tési questa verità a relativizzare. Per Pinel la follia può durare tanto o poco, dall’episodio al destino, ma niente nel suo primo apparire può far pregiudicare della sua durata. Essa si manifesta nelle quattro forme di mania, melanconia, idiozia e demenza che stanno fra loro in un rapporto molto fluido potendo sostituirsi l’una all’altra o anche succedersi ma non secondo un ordine prestabilito. La loro temporalità è di tipo circolare o può far pensare ad una spirale qualora evolvano i verso la cronicità.
Sulla quale cronicità c’è anche da dire che nella concezione di Pinel essa non prende la connotazione di esistenza fallita18 come lo sarà in seguito e fin nella psicopatologia daseinsanalitica , ma sarà un discorso che rimane aperto sul futuro del paziente essendo impregiudicabile la libertà che il paziente costituisce come persona. Questo inusitato e forte riferimento alla libertà della persona anche quando sia alienata, risente certo dell’ideologia del rivoluzionario del 1789 ma c’è da chiedersi se egli non lo consideri anche un tratto irriducibilmente costitutivo di codesta persona, tratto che la psichiatria successiva ci ha fatto perdere di vista col suo normativismo più o meno a rinforzo manicomiale. Tratto che si può leggere più chiaramente se lasciamo il pensiero libero di andare ai tanti clochards che hanno arrangiato la loro schizofrenia nella forma di libertà che essi vivono e che a molti di loro pare di una qualità superiore, ma lasciarlo andare in particolare alla legge italiana 180 che mette il cittadino con i suoi diritti come riferimento ineludibile di ogni ortopedia psichiatrica e così inserendolo in una dialettica relazionale e sociale un po’ meno semplice di quella del “taper la cloche” seppure di un genere analogo.
Qui chiudiamo il discorso sulla psichiatria di Pinel e sulle sue belle aperture fra realtà e utopia ma certo ancora ricche di forza per una futura psichiatria a misura della libertà del dialogo con l’insensato19 e andiamo a vedere da vicino la versione che dell’unicismo da la Dégénérescence di Morel.20
IVb) Nell’unicismo di Morel la psicopatologia come teoria della follia è ancora più esplicita che nella psichiatria di Pinel. L’uomo, dice Morel , degenera decadendo progressivamente sia dal lato fisico che da quello intellettuale e morale21 verso la vecchiaia e la morte perché tarato dal peccato originale; e le malattie mentali sono il risvolto psichico di codesto decadimento in cui si esprimono sia la forza intrinseca del processo degenerativo che una sua accentuazione per stimoli esterni fra cui spiccano i sovreccitamenti del sistema nervoso tanto viziosi quanto anche virtuosi22. Il riferimento biblico di codesto modo di pensare è dichiarato e ci induce intanto a mettere Morel al riparo di un’accusa di razzismo che sarebbe ingiusta dato che il peccato originale su cui si impernia il suo ragionamento pende sulla testa di tutti ed ognuno.
La sua Dégénérecence è un criterio psicopatologico che ricalca sì l’unicismo di Pinel ma portandolo per un percorso semantico molto diverso e con ricadute altrettanto diverse sul senso della follia, sulla organizzazione nosografica, sul fare terapeutico e sul senso e l’organizzazione del manicomio. Vediamo con ordine.
– Il senso della follia.
Se teniamo come riferimento l’idea di Pinel della follia come declinazione dell’esistenza umana e della stessa pasta di codesta esistenza, meglio si capisce la mossa di Morel che fa della follia un sinonimo di demenza, di un vissuto cioè che prende non solo altri contenuti ma soprattutto tutt’altra struttura del normale vissuto e che finisce così col rivelarsi di altro genere e non a caso incomprensibile23. Da notare che il termine di demenza prende qui non solo il significato di deterioramento del giudizio ma anche quello, più sottolineato, di incapacità a contenere gli impulsi bestiali del fondo nascosto dell’animo umano24.
Certo, il ricondurre alla demenza specialmente quella notevole parte della patologia che noi chiamiamo nevrotica non è impresa di poco conto ma Morel ne viene a capo prendendo due riferimenti: da un lato l’appena ricordato potere inibente della ragione e, dall’altro, il parametro della nosodromia intrecciato col criterio della eredità progressiva. Così riesce ad annettere alla patologia maggiore anche un banale tic nervoso (verbale, mimico, gestuale …) o perché suscettibile di evolvere in una stereotipia schizofrenica in quello stesso paziente o per evolvere nella patologia sempre più grave dei discendenti del paziente stesso, psicopatia o perversione o, infine, delirio, che mostra quale fosse la vera essenza di quel disturbo di prima generazione, innocuo in apparenza.
Questa dimostrazione del demenzialismo può risultare più o meno convincente ma è certo che l’idea di Morel ha trovato una profonda risonanza nella psichiatria dell’800 e un seguito mai estinto in quella successiva dove riappare sotto le mentite spoglie del processo di Jaspers o del defekt di Bleuler e financo nel DSM americano in consonanza con la versione sociologistica che gli è connaturale e che si chiede quanto abbia reso il paziente sul piano lavorativo negli ultimi sei mesi.
– l’organizzazione nosografica.
Anche per questo verso l’unicismo di Morel porta una vera e propria rivoluzione e continuiamo a seguirla in relazione differenziale con la clinica di Pinel. Questa si caratterizza come s’è visto per un rapporto orizzontale fra le quattro declinazioni della sua psicosi unica mentre le forme della Dégénérescence di Morel si ordinano in senso verticale secondo una gravità crescente che va dai tics ricordati fino alla finale demenza vesanica passando per le psicopatie, le perversioni e i deliri più o meno duraturi; cosa che di solito succede sull’arco di più generazioni, perché la Dégénérescence è una malattia della stirpe e i singoli individui ne esprimono con la loro malattia solo una fase ma. Salvo il caso emblematico del demente precoce che questo percorso esprime e compendia nello torno di tempo della sua esistenza e anzi nella fase adolescenziale-giovanile di essa. E non è un caso che sia stato proprio Morel a individuare e a così nominare25 codesto paziente.
C’è da ricordare che la clinica di Morel si costruisce su di un materiale semeiotico molto più ricco di quello di Pinel, risultato di prolungate osservazioni manicomiali sempre più organizzate (le legge francese del manicomio è del 1838) e beneficiando in particolare del contributo di Esquirol e delle sue monomanie oltre che delle osservazioni di Lasègue26 e di Falret27 intorno agli anni ’50 sui deliri cronici che evolvono dalla persecuzione alla grandezza. Ma è un materiale della stessa natura di quello di Pinel rispetto al quale segna una differenza quantitativa ma non qualitativa: anche per Morel, i sintomi rimangono i modi di declinarsi della psicosi unica28.
. Per concludere sulla ricaduta struttural-nosografica del paradigma di Morel, segnaliamo la comparsa del criterio nosodromico come tratto caratterizzante e istitutivo della patologia mentale; tratto che sarà Kraepelin a consacrare a fondamento della clinica nella opposizione costitutiva della temporalità lineare di demenza precoce e paranoia versus la temporalità circolare della maniaco-depressiva; e a lasciarlo come eredità alla psichiatria successiva.
– il fare terapeutico.
Qui siamo agli antipodi del traitement moral di Pinel ispirato come s’è detto da un sostanziale ottimismo; sulla Dégénérescence di Morel grava invece un’ombra insistita di pessimismo. Il processo degenerativo minaccia la fragilità umana con la sua intrinseca potenza che può esplodere anche in modo apparentemente gratuito, senza la provocazione del vizio o del superlavoro. D’altra parte le risorse terapeutiche per arginarlo sono all’epoca quasi inesistenti e ci si domanda anzi se esista davvero una terapia capace se non di vincerlo almeno di contrastarlo efficacemente. Sarebbe come pretendere di curare con farmaci elementari una malattia genetica, dato che è verso questo significato che va l’idea della degenerazione. E non a caso gli alienisti del tempo si orientano verso l’igiene di vita e la prevenzione. Ulysse Trélat scrive addirittura una specie di manualetto29 ad uso delle famiglie, in particolare di quelle rampanti desiderose di dare un blasone alla ricchezza accumulata fra la rivoluzione e l’impero napoleonico e di quelle aristocratiche che, rovinate dalla Rivoluzione, smaniavano di redorer il loro blasone. Questi matrimoni combinati per interesse e senza tener conto delle tare ereditarie o delle bizzarrie dei coniugandi, potevano sfociare negli incubi, nelle perversioni e a volte anche nelle tragedie che egli illustra con la sua casistica.
– l’istituto manicomiale.
Il Manicomio di Pinel si propone come s’è detto nei termini di una Città del Sole terapeutica al tempo stesso modello della città futura che la Rivoluzione sta edificando (e forse anche come il già ricordato accenno critico agli eccessi giacobini di quegli anni); ed è ispirato dall’ottimismo terapeutico che Pinel illustra col famoso gesto liberatore e anche con un certo numero di dimissioni anche se queste, come illustrazioni della bontà del nuovo metodo, rimangono da discutere.
Il Manicomio di Morel è invece di tutt’altro genere sia nella teoria che nella pratica. Di fatto diventa l’”asilo” di accoglienza e di custodia spesso a vita dei degenerati ; e questo perché il loro male andrà per principio sempre più peggiorando, le sue eventuali remissioni saranno all’insegna della precarietà e i permessi o le dimissioni in prova che a queste remissioni potranno seguire, saranno all’insegna di una vigilante e anche scettica prudenza30. Questi dati di fatto, associati alla quasi impotenza farmaco-terapeutica dell’epoca, fanno capire come questo manicomio prenda nelle mani di quegli alienisti umanitari e non rassegnati l’unica via che gli rimaneva: quella pedagogica articolata nella organizzazione gerarchica dei reparti, nelle colonie del lavoro e nella alfabetizzazione di cui beneficeranno anche molti infermieri.31 Con l’idea che codesta esperienza di ordine, lavoro e gerarchie poteva essere un buon esercizio di educazione civica per un eventuale rientro del malato nella società.
I degenerati pongono infatti alla mentalità dell’epoca un problema analogo a quello dei selvaggi delle colonie e dei bambini in età prescolare: tre tipi di esseri umani che non conoscono bene la società di superiore civiltà dell’occidente, che hanno difficoltà ad adattarvi la loro istintualità e che abbisognano per questo di esempi e insegnamento. Le colonie mirano a civilizzare gli indigeni, e il manicomio è chiamato ad una funzione analoga nei confronti degli alienati che sia degenerazione o sia, come pensava per esempio il Tanzi, atavismo, hanno una mentalità che a quella dei selvaggi molto somiglia. Ai bambini penserà invece la scuola facendo maturare la loro mente, anch’essa primitiva, attraverso l’istruzione.32
Nel tentativo dunque di capire il significato del paradigma psicopatologico nella psichiatria moderna abbiamo intanto esaminato i suoi inizi sette-ottocenteschi che ci hanno mostrato come un modello di psicosi unica che va da Pinel a Morel assuma con questi due autori due significati molto diversi l’uno dall’altro in quanto derivati da due psicopatologie diverse figlie di due culture diverse: il sensismo illuminista nell’un caso, il cattolicesimo della restaurazione nell’altro; psicopatologie che approdano a concezioni della follia, a pratiche terapeutiche e a strutture istituzionali ugualmente molto diverse fra loro. Questa è una prima messa a fuoco dell’idea che la psicopatologia è una dimensione fondante della psichiatria a pari titolo della semeiotica e questa idea la riprenderemo con l’esempio dei due paradigmi ulteriori, quello delle malattie mentali e quello delle grandi strutture.
Ma prima di chiudere questo capitolo è forse utile aggiungere qualche nota sulla successione dei due paradigmi ricordati, la Aliènation mentale e la Dégénérescence di cui abbiamo solo detto essere separati da uno iato di sessant’anni cui conviene aggiungere qualche accenno di contesto.
Il paradigma di Pinel ha avuto una risonanza più che altro ideologico-politica Pinel stesso lasciando capire dal suo testo che il traitement moral dei pazzi doveva confermare, anche a proposito della sub umanità alienata, quella possibilità di creare l’uomo nuovo attraverso sensazioni e emozioni ben dirette su cui era imperniato il programma dei Rivoluzionari. Da un punto di vista pratico è stato un esperimento limitato nel tempo e nel luogo, ovvero un breve esperimento parigino, che non è riuscito a diffondersi e tantomeno a imporsi come modello più o meno nazionale del trattamento degli alienati; anche perché Pinel stesso, con la seconda edizione del suo libro del 1806, ne ha rivista la portata. Più seguito ha avuto codesto libro che infatti accese focolai di traitement moral anche fuori di Francia, uno in particolare a Lucca, dove il metodo sopravvisse fino agli anni ’40 dell’80033 e seppure non tanto all’ombra di una ideologia rivoluzionaria ma al seguito di una più pacifica filantropia, nel caso specifico non senza connotazioni del rispetto calvinista della persona. Comunque, già con l’avvento dell’età imperiale del I Napoeone, le idee di Pinel avevan perso risonanza e saranno quasi dimenticate sotto la Restaurazione quando anche il professore Pinel vedrà scemare il suo prestigio.
Insomma, il trattamento degli alienati era stato solo sfiorato dall’esempio di Pinel e aveva continuato nel vecchio solco somatista a cui si può dire che lo voglia ricondurre anche ufficialmente il figlio di Pinel, Scipion, e non senza polemica col padre, col suo libro del 183334 che fa della follia una cérébrite (cioè una flogosi) dell’encefalo la cui cronicizzazione a cérébrie porta alla demenza. La sola novità di codesto nuovo somatismo è la sua coloritura umanitarista.
Ma è Morel che col suo paradigma di ben altra levatura culturale viene a risollevare la psichiatria da codesta routine disanimata e a rilanciarla nell’universo culturale della discussione filosofica e della riflessione sul destino dell’uomo.
V. Il paradigma delle Malattie mentali.
Il termine di malattie mentali, rimanendo al periodo di cui ci occupiamo, è ufficializzato autorevolmente nel titolo del libro di Esquirol35(1838) ma non certo col significato di entità distinte; questo significato cominceranno ad averlo solo verso la seconda metà dell’’800, garantito da differenze semeiologiche e soprattutto nosodromiche e in attesa della conferma anatomo-patologica e eziologica (anche se il più delle volte non arriverà). Esquirol rimane infatti un unicista come il suo maestro Pinel e ciò che nomina “malattie mentali” sono declinazioni della Aliénation mentale di cui arricchisce semmai la descrizione attraverso in particolare le sue “monomanie”.
Come documentazione, in quel torno di tempo (1822), di malattia mentale individuata, si cita la tesi di Bayle36 che descrive la Paralisi progressiva sulla base dell’osservazione clinica di sei casi corredata dalla documentazione anatomo-patologica della corrispettiva “aracnite”. Ma Bayle pensa in modo molto diverso da questa rilettura tardo ottocentesca della sua tesi e continua a ragionare nell’unicismo della psicopatologia ancora prevalente all’epoca, quella cioè del suo maesto Esquirol, che si richiama ad una spiritualità romantica della natura, all’unità “du physique et du moral de l’homme” e che vede la malattia mentale come coinvolgimento dell’uomo nella sua totalità sulla scia del maestro Pinel.
Semmai Bayle ha l’aria di semplificare codesto unicismo all’insegna dell’ organicismo puro col dire che “la plupart des maladies mentales sont le symptôme d’une phlegmasie chronique primitive des membranes du cerveau”37 Come dire che la sua Paralisi progressiva è una delle tante declinazioni della “malattia mentale” che si associa a quelle di Pinel e di Esquirol, e che rimane unica come lo era per loro. Essa infatti prenderà identità di malattia distinta solo verso la fine dell’800 negli anni ruggenti del paradigma delle malattie mentali; e con la scoperta del suo agente eziologico (Noguchi, Moore, 1913) rinforzerà questa identità fino ad assurgere, al meno per un tempo, a “icona” della patologia mentale, a malattia modello alla cui luce rileggere le grandi sindromi mentali dalla demenza precoce alla maniaco-depressiva, alla paranoia in attesa di ottenere anche per loro la conferma anatomopatologica.
In effetti, il paradigma delle malattie mentali si afferma per vie diverse da quelle dell’organicismo stretto di Bayle, che non troverà del resto molte conferme nel campo della patologia mentale, e passerà soprattutto per la via della nosodromia che come s’è visto prende piede alla metà dell’800 con l’opera di Morel38 . L’effetto profondo di codesto criterio è di fare della patologia mentale un blocco unico e di confermarlo tale con la possibilità di ascrivergli anche i disturbi più lievi come i ricordati tics ìnervosi.39
In questo contesto, J. P. Falret40 è uno degli autori che meglio esprimono i tratti del paradigma debuttante delle malattie mentali combinando il contenutismo del suo maestro Esquirol con la nosodromia di Morel e illustrando la sua tesi, come si richiede ad un clinico, con dei casi concreti, nella fattispecie dei deliri cronici che evolvono dalla persecuzione alla megalomania. In proposito beneficia anche dei casi di Charles Lasègue che un po’ prima (1852) l’aspetto della persecuzione aveva ben descritto. Falret riprende così le monomanie della persecuzione e della grandezza di Esquirol ma non più come significanti in sé secondo il criterio del suo maestro, ma significanti attraverso quella concatenazione dei temi sull’asse temporale che le individua come malattia mentale. Crea così il primo nucleo dello stereotipo ottocentesco della malattia mentale, stereotipo che Magnan svilupperà verso la fine del secolo nel quadro più ampio e più completo del suo Delirio cronico a evoluzione sistematica e progressiva41, consacrando così lo stereotipo di Falret a modello di malattia mentale all’insegna appunto dei contenuti tematici e della loro evoluzione nel tempo.
Ma questi criteri con cui il paradigma delle malattie mentali si vuole accreditare rimangono fragili per la loro natura puramente clinico-semeiologica; ben altra credibilità gli darebbe un riferimento concreto al substrato cerebrale. Riferimento a cui la psichiatria aspira da tempo anche se con convinzione alternante e che comunque non è mai riuscito a sollevarsi dalla genericità di una petizione di principio42 o dalla consistenza ancor più aleatoria della metafora.
Questo substrato lo offrono invece concretamente, sullo scorcio dell’800, le scoperte su i centri del linguaggio (Broca 1861, Wernicke 1874) che si crede consentano di ricondurre a un preciso locus cerebrale almeno due dei disturbi psichici maggiori: l’allucinazione e il delirio in quanto esprimentisi in un discorso.
L’allucinazione acustico-verbale può essere un buon esempio di codesto modo di pensare attraverso la lettura di Tanzi & Tamburini (1883-1885)43 che ne fanno un’epilessia dei centri psico-sensoriali dell’udito con la correlata possibilità di individuare un preciso punto dell’encefalo su cui dirigere un intervento terapeutico che finirà per raggiungerlo o per via farmacologica o per via chirurgica.
Per contro, il centro generatore del delirio rimarrà più indeterminato e non così in “presa diretta” sul sintomo come lo è l’allucinazione sul centro psicosensoriale dell’udito. Magnan parlerà genericamente di “cervello posteriore” – posteriore alla scissura di Rolando – indicato per essere il luogo delle afferenze sensitive e sensoriali e a cavallo sui centri dell’emozione. Il quale, per esteso che sia, è pur sempre una precisazione topogrfafica.
Ci si accorge però ben presto che se si segue la via della semeiotica per individuare i centri nervosi, si finisce per popolare l’encefalo non di indicazioni topografiche reali ma di una quantità di metafore immaginarie atte più a disorientare che a indicare un concreto substrato operativo (centro dell’euforia, centro della depressione, centro delle stereotipie, centro della tricotillomania ecc ecc….). Per cui anche la semeiotica vira per l’effetto del paradigma delle malattie mentali e punta a selezionare i segni più semplici ed obiettivi di esse, decantati in particolare del frastornante vissuto del paziente44, i segni cioè che si pensano più capaci di portarci al centro nervoso sede del “disturbo generatore”, un neologismo col quale si cerca di ricondurre il diverso dispersivo della semeiotica ad una più utilizzabile unità di senso.
L’effetto più vistoso di questo viraggio si coglie nella semeiotica del delirio dove a far testo non è più il contenuto tematico e la sua evoluzione nel tempo ma il cosiddetto meccanismo generatore . I deliri vengono così distinti in base alla interpretazione, passione, allucinazione, immaginazione, automatismo mentale … ciascun meccanismo essendo capace di produrre temi diversi come del resto uno stesso tema potendo essere prodotto da meccanismi diversi. A indicare il delirio sarà comunque il meccanismo prevalente che, inoltre, grazie alla sua semplicità sintetica sarà appunto, a differenza dell’aneddotica polimorfa della semeiologia, suscettibile di essere ricondotto ad un centro nervoso. Correlativamente perde credito il criterio cronodromico del delirio cui subentra l’idea caratterizzante della sua ripetitività correlata ad una temporalità statica. Come diranno emblematicamente Sérieux e Capgras, il delirio “si espande ma non evolve”: un’intuizione ricca di futuro.
D’altra parte, il tema del centro nervoso del disturbo generatore rimarrà una costante interpretativa della patologia mentale e val la pena di segnalarlo in particolare nell’opera di Paul Guiraud degli anni ‘20-‘30 del ‘900 dove appare con un significato originale e “diverso” da dar l’impressione di essere meno una conferma che una critica della teoria dei centri nervosi nel cui ambito esplicitamente tuttavia si situa. Il centro nervoso che propone Guiraud non è infatti in quell’ambito corticale che investigavano di preferenza i suoi predecessori ma nelle pareti del III ventricolo dove si intrecciano la regolazione della vita vegetativa (il sonno, l’appetito, l’omeostasi termica …) e quella delle emozioni. Come dire che la definizione del delirio come errore morboso di giudizio e incorreggibile con la critica e con l’esperienza contraria, che dagli ’60 dell’800 dominava con la indiscussa autorità di Falret, non si poteva ridurre a un collegamento diretto con un centro del lobo frontale in quanto sede del giudizio come l’allucinazione acustico-verbale pareva potersi collegare ad un centro del lobo temporale; e se il delirio restava un errore di giudizio, questo succedeva per vie e in modi molto diversi, molto indiretti, forse come tentativo di esprimere con le parole uno sconvolgimento della sintonia empatica e viscerale con sé stessi e col mondo. Idea che Minkowski tradurrà in quel torno di tempo in un modo più chiaro ispirato alle Grandi strutture della sua psicopatologia col dire che il delirio è piuttosto il tentativo di esprimere un vissuto inedito e spaesante nel linguaggio “d’antan”.
L’idea del centro nervoso del disturbo generatore ha comunque continuato a solcare la psichiatria e la si ritrova anche oggi seppure non più nei termini analitici localizzatori del primo ‘900 ma nei termini di sistemi neuronali e del neuromediatore che li caratterizza.
S’è visto dunque il percorso complesso attraverso il quale il paradigma delle malattie mentali arriva ad affermarsi: attraverso la semeiotica e la nosodromia prima e conquistando infine con la teoria dei centri nervosi e il correlato organo-meccanicismo il suo consolidamento psicopatologico.
La psichiatria che ne risulta si capisce quanto sia lontana dalla soggettività ontologica etica e civica della Aliénation mentale di Pinel e di Morel e se ne possono capire facilmente le ricadute terapeutiche e istituzionali. Per un certo verso, è il ritorno al tradizionale somatismo e all’idea che ad esser malata è la macchina cerebrale; e che raddrizzando questa si raddrizza anche la vita psichica che ne deriva. L’uomo torna ad essere il portatore passivo del suo disturbo psichico, ben lontano dall’attore anche “responsabile” della sua follia che pensava Pinel e, a modo suo, anche Morel.
Ma la psichiatria delle malattie mentali ha anche altri tratti distintivi. Vediamo in breve.
Essa eredita la dimensione della follia come deficit, come defekt, come “demenza”, derivata dalla Dégénérescence , ma la eredita liberata dal pessimismo terapeutico che le era connaturato. La teoria dei centri nervosi ha infatti introdotto nelle terapia un ottimismo almeno di principio a futura memoria di interventi farmacologici o chirurgici.
Correlativamente il Manicomio cambia di senso, anche se di fatto continua a funzionare come sempre. Ma anche qui, seppure sempre in linea di principio, non è più il deposito potenzialmente a vita dei degenerati pericolosi ma un autentico ospedale dove si può, per principio, anche guarire e da cui si può uscire. Non a caso a partire dagli anni ’30 del ‘900 si fregerà in Italia dell’insegna di Ospedale psichiatrico.
D’altra parte questa psichiatria segna un ritorno dalla alienazione narrativa della persona all’impersonale meccanismo cerebrale che dalla persona prescinde, ritorno che però essa consapevolmente accetta come prezzo da pagare per quel suo accreditamento medicale che inseguiva da anni senza successo per le vie del suo psicologismo filantropico di patologia romantica di organismo e che ora, in quanto patologia d’organo, acquisisce a pieno titolo come scienza medica facendosi neuropsichiatria, nel solco della medicina dell’epoca che a patologia d’organo appunto vira.
Il suo paradigma che neuropsichiatrico assume a pieno titolo la teoria dei centri nervosi di riferimento la quale si sposerà poi con naturalezza agli psicofarmaci che arriveranno nel 1953 e il cui effetto ben si potrebbe vagliare in modo sintetico alla luce del disturbo generatore se la pressione dell’industria farmaceutica non portasse una regressione semeiologica nella lettura di questo effetto con la sua idea dei “sintomi bersaglio”. Che questa regressione sia o meno da chiamare in causa, sta di fatto che la terapia farmacologica non riesce a chiudere il manicomio –come la streptomicina ha chiuso i sanatori – ma solo a renderlo, come diceva ironicamente Lanteri-Laura, più silenzioso. E in effetti la chiusura del manicomio passerà per altre vie,in particolare per quella principale della fenomenologia con la riscoperta del paziente come soggettività intenzionate e sulla quale convergono l’esempio francese, quello italiano e quello inglese.
In Italia, il paradigma delle malattie mentali crolla con la istituzione manicomiale che, come una pietra della vergogna attaccata al collo, lo trascina nella propria rovina. Questo risultato non è però connaturato a codesto paradigma in sé di una totale legittimità, ma alla indifferenza – se non ostilità- della neuropsichiatria italiana verso la riflessione storica e epistemica incaricata di via via vagliarlo e rivitalizzarlo e che lo lascia invece irrigidire e impoverire a dogma, capace solo di produrre una pratica stereotipata, anacronistica e squalificata e anche eticamente insostenibile come appunto quella del manicomio. Manca in particolare l’incontro con il paradigma delle Grandi strutture che gli avrebbe infuso nuova linfa – come successe in Francia – e del quale andiamo ora ad occuparci.
VII. Il paradigma delle grandi strutture.
Di una psicopatologia che punti a delle strutture trascendendo il diverso descrittivo della semeiologia si può avvertire un annuncio nella nuova lettura che del delirio da lo stesso meccanicismo della Malattie mentali con lo spostarsi dal vecchio paradigma centrato sui contenuti e la loro evoluzione cronologica sul nuovo concetto di disturbo generatore. La “interpretazione”, la “passione”, l’”automatismo mentale” … che così seleziona sono su di un piano ben diverso dell’aneddotica dei contenuti e anche della nosodromia; e, al di là dei singoli fatti, prospettano una piegatura inedita che ha preso globalmente il senso mondo per l’alienato. L’interpretazione, per esempio, non è tanto il mezzo per stanare i persecutori quanto la trasformazione del mondo nell’incubo della significanza coatta e auto referenziale, in un’atmosfera capace di far apparire, con le sue vibrazioni fisiognomiche, figure di persecutori, di innamorati, di protettori e di quant’altro. …
Tuttavia questa lettura del delirio che io anticipo in termini di mondo non rispecchia la realtà storica; la psicopatologia associazionista infatti può al massimo averla presentita ma non certo esplicitata. Lo si può vedere con l’esempio della sua lettura dell’interpretazione come intreccio della funzione psichica del giudizio (ritenuto corretto, cosa però non esatta45) e della funzione psichica dell’affettività-passione che lo distorce. Il terreno delle “grandi strutture “ su cui va a posizionarsi la psicopatologia a partire dal primo quarto del ‘900 è infatti di tutt’altro genere, codeste strutture non essendo psicologistiche ma eidetiche e antropologiche e si centrano su temi del tutto estranei allo psicologismo associazionista come le dimensioni vissute dello spazio e del tempo, del corpo, del mondo, della soggettività, la morte, l’amore, l’altro … e così di seguito.
Per questa sua natura culturale “diversa” che richiede una buona formazione umanistica, filosofica in particolare, il paradigma delle Grandi strutture ha avuto fin dall’inizio una difficile diffusione nella psichiatria benché fosse favorito dall’usura del paradigma delle malattie mentali che lasciava molti spazi disponibili. Tuttavia, fra il diffondersi delle Grandi strutture e il loro affermarsi corre uno jato, proporzionale in particolare alla resistenza che la versione dogmatica dell’organicismo delle malattie mentali gli oppone, come si vede in particolare in Italia; mentre invece per esempio in Francia il nuovo paradigma troverà un equilibrio dialettico sia con l’organicismo che con la psicoanalisi anche se, rimasto in sospeso su una Aufhebung incompleta, non supererà la contraddizioni di queste tre prospettive e si lascerà dietro la classica conflittualità del rapporto fra psicopatologie diverse.
Il logoramento del paradigma delle malattie mentali deriva secondo Lanteri-Laura da due cause che chiama l’una intrinseca l’altra estrinseca alla psichiatria46.
La causa intrinseca è la moltiplicazione di segni e sindromi a cui si assiste intorno allo scorcio del secolo XIX e inizio XX nel tentativo di agganciare queste manifestazioni ad un centro nervoso che ne incarni il disturbo generatore e su cui incidere per via terapeutica. Ma, commentava Lanteri-Laura, questo modo di fare viola il vecchio principio di Occam “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” portando così ad una pletora un po’ barocca che egli illustrava con l’esempio dell’allucinazione, sezionata, oltre i tre blocchi storici e ben documentati di psicosensoriale, psichica e psicomotoria, nelle mal afferrabili finezze di false allucinazioni, allucinosi, allucinazione ossessiva, ossessione allucinatoria, e così via di seguito. Anche se si può dire che codesta inflazione semeiotica era un esercizio meno di sapere che di potere in quanto via che gli alienisti cercavano di percorrere per raggiungere la loro parte di quella gloria di Arconte eponimo47 che il moltiplicarsi delle malattie ben individuate metteva allora a disposizione di internisti, chirurghi, ortopedici e, soprattutto, infettivologi. Un esercizio tanto più insistito quanto più le sindromi mentali maggiori (la Maniaco-depressiva e la Demenza precoce) sfuggivano a questa presa per l’indeterminatezza della loro eziologia e per la mancanza del reperto anatomo-patologico dirimente.48 Tanto che anche il tentativo di nominare la Demenza precoce “malattia di Kraepelin” non poté andare in porto.
La causa estrinseca, invece, del logoramento del paradigma delle malattie mentali deriva secondo Lanteri dalla trasformazione a cui va incontro il sapere psichiatrico a partire dal secondo decennio del ‘900 col suo differenziarsi in un certo numero di saperi specialistici (neurofisiologia, biochimica specie di certa patologia infantile, elettroencefalografia, genetica …) che non possono più essere considerati come declinazioni della classica psichiatria clinica ma come saperi diversi che con la clinica possono essere solo in una dialettica incentrata sulle rispettive diversità. Per cui il sapere psichiatrico diventa un sapere che una sola persona non può più dominare e Lanteri cita Henri Ey come esempio di chi questa trasformazione della psichiatria l’ha vissuta nella propria biografia come si può anche capire attraverso le sue due opere maggiori, il Manuel e gli Studi psichiatrici49 da un lato, l’Encyclopédie dall’altro.
Lo Ey del Manuel e degli Studi (anni ’40-’60) sembra ancora poter riunire nella sua persona la sintesi del sapere psichiatrico grazie in particolare al potere unificante del suo paradigma psicopatologico organo-dinamista che pare ancora capace di ricondurre i vari aspetti della patologia mentale ad un comune denominatore di senso che, attraverso la sua ottica strutturale, permetta di coglierne il significato. Per lo Ey della Encyclopédie50, codesta sintesi non è più possibile e dagli articoli che nell’Encyclopédie compaiono, si vede la frammentazione del sapere psichiatrico unico in una varietà di saperi che richiedono una conoscenza specifica per decifrare dei pazienti che si rivelano con tratti clinici e patogenetici inattesi se non poco conosciuti.51
Comunque, il sapere globalista che si presenta sulla scena della psichiatria agli inizi del ‘900 anche se mostrerà i suoi limiti ha il merito di restituire alla alienazione il senso di dimensione dell’esistere umano e di portare la psichiatria fuori dal meccanicismo determinista che cancellava il dialogo con l’insensato52 tipico della nostra tradizione culturale53 e semplificava il rapporto con l’insensato a termini custodialisti. Da notare che non è un sapere circoscritto alla psichiatria e lo si ritrova in molti altri campi, dalla neurologia alla filosofia.
Nella neurologia, l’idea della grandi strutture porta, sull’indicazione di Kurt Goldstein 54, a rileggere le afasie e le asimbolie lontano dallo schema atomista della semeiotica classica e dal conseguente misconoscimento del soggetto nella sua totalità, ma di leggerle come rimaneggiamenti della capacità di esprimersi, da decifrare nella loro diversa struttura e sempre in relazione ad un soggetto e ad uno spazio vissuto relazionale. Come esempio viene citato il caso del paziente con una lesione della corteccia calcarina che mostra un’alterazione della funzione categoriale che lo lascia capace di aprire una porta o di praticare un rapporto sessuale ma che lo rende incapace di descrivere la sequenza gestuale di codesti comportamenti e che lo fa cadere in preda ad una “reazione catastrofica” quando di codesta descrizione sia richiesto.
Dal canto loro, le ricerche di Lashley sul cervello del mus albinus norvegicus mostrano che le conseguenze delle ablazioni corticali in questo piccolo roditore dipendono dalla loro estensione e non dalle loro localizzazioni. Il modello funzionale dell’encefalo che si può estrapolare, con le dovute cautele, da queste ricerche non va dunque nel senso del mosaico dei centri nervosi ma di un effetto massa che può costruire per vie diverse e rimaneggiare gli assetti funzionali che gli conosciamo. D’altra parte, il concetto di schema corporeo di Lehrmitte55 e di Schilder 56porta ad una rilettura delle disprassie e dell’arto fantasma degli amputati come diversità di progetti motori e del loro inserimento nello spazio vissuto.
La teoria della Gestalt è una specie di comune denominatore di codesto rimaneggiamento globalista di diversi saperi e lo si vede in particolare a proposito della percezione, da ricordare pel ruolo centrale che viene ad occupare nella psicopatologia fenomenologica. Da un lato viene vista non più come associazione di particelle-sensazioni ma come attività globale che procede per costruzioni di senso del tipo figura su fondo; da un altro lato, prende il ruolo del primo impatto della coscienza (fenomenologica) col mondo fornendo una nuova chiave di lettura del delirio ben lontana dal classico errore morboso che l’associazionismo imputava alla funzione psichica del giudizio.
Ma nella patologia mentale il punto di riferimento del nuovo globalismo strutturalista è la teoria di Freud con le sue due versioni, la prima e la seconda topica, del funzionamento psichico. Al punto che, diceva Lanteri-Laura, il suo paradigma psicopatologico, riscattando la follia dal disumano demenzialismo di Morel che la neuropsichiatria aveva poi fatto proprio, allunga la sua ombra egemonica sulla neuropsichiatria stessa per andare ad occuparne quella dimensione psicopatologica che essa aveva lasciata vuotarsi e inaridire nei termini del suo insoddisfacente organo-meccanicismo. Così, per un periodo degli anni ’50-‘60, è la psicoanalisi a monopolizzare il senso della psichiatria e a inserire le sue interpretazioni in tutti i rami di essa. Ma il suo paradigma evolve ulteriormente verso due nozioni ancor più globalizzanti la struttura nevrotica e la struttura psicotica che permettono di impostare l’atteggiamento terapeutico al di là di un diverso semiologico che può frastornare con la sua molteplicità di segni, della quale si continua tuttavia a tenere un gran conto per calibrare l’azione terapeutica sulla specificità di ciascun caso.
La fenomenologia è anch’essa una delle forme della nuova cultura globalista e per quanto ci concerne mira anche’essa a una diagnosi strutturale di cui si possono così indicare i tratti costitutivi: 1) l’Erlebnis che indica non solo il vissuto del paziente ma anche quello del clinico facendo così del rapporto terapeutico un impegno relazionale. 2) L’Einfühlung che è il sentirsi reciproco del terapeuta e del paziente come nel caso del präcoxgefühl di Rümke. 3) La dimensione chiara soprattutto alla luce della teoria di M. Klein ma che può essere assunta nell’ottica fenomenologica e cioè che l’intenzionalità del terapeuta risente del come ha traversato la sua posizione schizo-paranoide dei tre mesi e quella depressiva degli otto mesi.4) Le strutture eidetiche (tempo, spazio, corpo, mondo, l’altro …) che danno la sintesi di senso dell’aneddotica semeiologica. E qui si ricorda la lezione magistrale dei grandi fondatori della psicopatologia fenomenologica con in testa Minkowski, Binswanger (più sul lato daseinsanalitico) Straus, Von Gebsattel, H. EY e, fra quelli della generazione successiva, Lanteri-Laura e Tatossian ma senza dimenticare il sostegno determinante che a questa psicopatologia danno i modelli di descrizione eidetica che Sartre presenta con L’immaginario, L’immaginazione, La biografia di Flaubert e, soprattutto, con le descrizioni de L’essere e il nulla.
A questo punto, un cenno è forse utile alla psicopatologia fenomenologica in Italia che da un lato ha giustamente sottolineato sulla scia di Jaspers l’importanza centrale del vissuto del paziente ma che, dall’altro, non ha correlativamente sviluppato gli strumenti eidetici per dare di questo vissuto una descrizione strutturale obiettiva. Ha lasciato così aperta la possibilità che questo procedere scientifico della fenomenologia fosse a volte frainteso in termini di un intuizionismo fra tardo romantico e post sessantottesco, come una specie di introspezionismo alla Amiel57 che Sartre58 indicava sarcasticamente come quella discesa nelle profondità dell’anima che pareva una discesa nell’umidiccio gastrico. In effetti, la grande innovazione della fenomenologia eidetica è di descrivere anche i sentimenti e le emozioni più intime attraverso la descrizione del modo di apparire degli oggetti del mondo che ci commuovono o ci turbano. Sartre diceva che per descrivere il suo vissuto di orrore doveva descrivere la maschera giapponese che gli faceva orrore, per descrivere l’amore, descrivere il modo amabile con cui gli appariva la sua donna. Per parte mia, per descrivere il delirio di quel mio paziente di Lucca che si riteneva senatore ho fatto la descrizione noematica di come gli apparivano i personaggi del suo mondo o, più eideticamente, ho descritto il significato che prendevano, con i loro detti e fatti, le persone reali delle quali aveva fatti personaggi e ruoli del suo delirio. Comunque, questo è un tema da approfondire se si vuol salvare molta psicopatologia fenomenologia da una regressione psicologistico-intuizionista capace solo di suscitare l’ilarità degli psichiatri organicisti che almeno nelle loro descrizioni semeiologiche sono di una concretezza da cui i fenomenologi han solo da imparare.
Per concludere sul paradigma delle grandi strutture, è un doveroso piacere ricordare l’organo-dinamismo di Henri Ey che questo paradigma illustra in modo originale.
I due riferimenti fra i quali Ey lo tende sono l’idea di H. Jackson della struttura gerarchica del sistema nervoso e l’idea husserliana della coscienza come intenzionalità di senso imperniata sulla costruzione percettiva del mondo. In questa prospettiva, la grande patologia mentale ma soprattutto le psicosi, si caratterizzano attraverso due movimenti: la destrutturazione della coscienza e la ricostruzione dell’io e della persona alienata.
La destrutturazione della coscienza va notoriamente, in senso di gravità crescente, dagli stati di ansia al coma profondo passando per la destrutturazione maniaco-depressiva (di marca soprattutto temporale), per la destrutturazione oniroide (al tempo stesso temporale e spaziale, descritta in particolare da Jaspers e da Mayer-Gross) e per quella confuso-onirica tipo delirium tremens.
La ricostruzione di un io alienato e di una identità personale è il risultato del lavoro che la coscienza fa sul materiale delle esperienze primarie (come le chiamava Jaspers) e conduce alla costruzione di una identità della quale codeste esperienze rimangono i punti di riferimento insieme ai valori personali e sociali che il paziente abbia più o meno conservati così permettendogli di costruire un mondo dotato di senso e possibile da vivere che è quell’intreccio enigmatico di irrealtà e di realtà che chiamiamo delirio.
In queste dinamiche, Ey riconosce un ruolo all’incoscio freudiano negandogli però ogni valore patogenetico e riservandogli solo un valore patoplastico. La pressione del desiderio rimosso non ha secondo lui il potere di scardinare l’essere psichico ma solo di fornirgli i fantasmi del delirio che, come quelli del sogno, danno la cifra leggibile di tale desiderio. Il disturbo generatore rimane per lui di natura organica e solo questo è in grado di sconvolgere la struttura psichica dell’essere umano, da cui il nome di organo-dinamismo del suo paradigma psicopatologico.
Col sistema di Freud, Ey era entrato in polemica dopo la seconda topica del 1923-1925 che faceva dell’Io un’istanza in gran parte inconscia, cosa inaccettabile per le sua etica di credente cattolico. Per questo consumò anche la rottura dell’amicizia con lo psicoanalista Julien Rouart col quale aveva scritto il libro-manifesto dell’organo-dinamismo59, Rouart avendo scelto di continuare a seguire Freud.
In effetti, la psicopatologia di Ey è centrata sulla coscienza fenomenologica e rimane riservata sul potere dell’inconscio; ed è anche il più importante tentativo di contraltare nei confronti del freudismo anche se nei suoi confronti risulterà tuttavia perdente60 . Ma c’è una sua affermazione che fa capire in cosa consista la sua distanza da Freud, la definizione (anni 30) della follia come patologia della libertà, che indica anche cosa ci si giocava all’epoca pure attraverso la psichiatria sul senso dell’uomo e del suo destino. Se si fa un confronto di massima fra il significato della follia in Ey e in Freud, si vede che per Ey è con la follia che compare il determinismo nella vita psichica dell’essere umano, il suo coatto “non poter essere altrimenti “ come lo chiamava Blankenburg, ovvero la perdita della libertà; nel sistema di Freud invece codesto determinismo fa parte della vita psichica normale – specie dopo la seconda topica che consegna all’inconscio anche gran parte dell’Io – e la libertà di codesto Io diventa una possibilità marginale o piuttosto un’illusione su cui il determinismo allunga la sua ombra sostenuto da un desiderio che è meno indomabile nel suo primitivismo desiderante che incapace di trovare il suo appagamento nell’oggetto reale. In effetti Freud introduce in questo appagamento la dimensione dell’immaginario tornando così a dar corpo all’assunto romantico dell’insoddisfazione del piacere e della vita, tema su cui la fenomenologia della percezione porterà le sue illuminanti precisazioni eidetiche facendo dell’oggetto percepito qualcosa di asintoticamente sfuggente, e su cui Lacan intesserà il suo gioco fuggevole e “glissant” di significante e significato.
Nel suo insieme, la psicopatologia della grandi strutture è un ritorno alla psichiatria come conoscenza dell’uomo attraverso la sua follia e questa follia si cerca di capirla non come guasto della macchina cerebrale ma come declinazione dell’esistenza umana su cui la psichiatria dei medici non può più avanzare le pretese del suo antico monopolio manicomiale.
VIII. Un regard éloigné su una psicopatologia attuale.
Questo excursus sul ruolo della psicopatologia può anche essere un utile chiarimento storico ma ci si può chiedere se sia in grado di dare la chiave di comprensione della psichiatria più recente, quella in particolare del DSM che tanta parte del fare psichiatrico ha monopolizzata. In effetti, il modello euristico che ho richiamato è del 1994 e da allora la psicopatologia ha continuato a fare la sua strada, per cui si tratta di capire se questa strada continui ad andare per luoghi noti o se ci porti in una terra incognita tutta da scoprire.
In effetti, Lanteri-Laura, nei suoi ultimi anni, diceva di ricevere dai suoi studenti, e specie da quelli più giovani, la insistita domanda sul paradigma della psichiatria del terzo millennio incipiente a proposito della quale avvertivano un’incertezza magari solo nella forma di un disagio inquieto ma a cui cercavano di trovare una risposta. E Lanteri rispondeva, in tutta la sua colta onestà, che una risposta in merito gli pareva prematura salvo al ricorrere al ready-made dell’ideologia col solo risultato di complicare l’incertezza con la confusione. Tuttavia, ciò non aveva impedito che nei nostri incontri cercassimo di trovare questa risposta e il DSM61 poteva essere un buon esempio in merito perché forse non era quello che pareva e poteva anche avere a che fare con la risposta che cercavamo.
Ma in proposito io ero più riservato di Lanteri con l’idea che il DSM non andava al di là una combinazione pratica di gusto anglosassone fra la vecchia marginalità inquietante degli alienati da un lato e la novità di farmaci di un potere mai visto prima dall’altro con l’intento di vagliare questa combinazione alla luce dei suoi risultati. Per questa riduzione pratico – empirica della psichiatria non era accettabile per il suo mettere del tutto fra parentesi il senso della follia, fino al rifiuto esplicito della psicopatologia. O almeno tale essendo la posizione teorica che il DSM dichiarava ché dal lato pratico rivelava, con la sua proiezione terapeutica biologica, la ovvia referenza psicopatologica dell’organo-meccanicismo.
Ma Lanteri diceva che per valutare il DSM occorreva decantarlo delle componenti ideologiche di cui era in parte intessuto come del resto ogni lettura della follia; e che a nostro concordante giudizio erano almeno due.
Una poteva essere ritrovata nella scala di valutazione del funzionamento globale (VFG) del paziente col chiedere in particolare quanto egli abbia reso sul piano lavorativo nell’ultimo anno, sottolineatura del lavoro che si può anche dire porti il segno della ideologia calvinista. La quale, come è noto, può lanciare un guizzo di luce sul mistero della predestinazione che grava su ciascuno di noi, seppure non per svelarcelo ma per indicare che solo chi lavora e accumula ricchezza può sperare di essere fra gli eletti, mentre chi si adagia nella passività parassitaria e nell’ozio ha piuttosto l’aria di trescare col diavolo e finire in sua compagnia. E questo vale anche per i malati mentali come mi insegnò il modo di pensare degli infermieri del mio reparto al Manicomio di Lucca mentre la conferma di questa vena calvinista nella mentalità lucchese la trovai nel bel saggio di Marino Berengo62 e anche in degli articoli dove Montanelli spiegava con la sua colta ironia come il gusto sobrio, severo e tutto protestante dei lucchesi per la ricchezza prosperasse all’ombra di centoundici campanili cattolici.
La seconda componente ideologica del DSM si può vedere nella celebrazione che esso fa di quella farmacoterapia che è frutto e vanto di un’industria capitalista mirante per essenza al profitto individuale ma anche, e con ben altro orgoglio, a realizzare la civiltà superiore dell’uomo bianco e della sua società . E’ lo spirito dell’etica protestante come lo illustra Max Weber nella sua classica monografia63, nei suoi intrecci appunto col capitalismo.
Decantata da codeste sovrastrutture, la psichiatria del DSM può mostrare con più chiarezza i suoi tratti caratteristici fra i quali, ricapitolando: il ricordato rifiuto della psicopatologia, la riscrittura della patologia mentale dalle ben costruite malattie a disturbi dai contorni molto meno precisi, e una semeiotica dei disturbi psichici molto più fluida e mutevole di quella classica e non più monopolio dei medici psichiatri ma aperta all’influenza del sociale e anche a influenze ideologiche e corporative64.
Se guardiamo come funzionano questi tre punti di riferimento, ci rendiamo conto che la psichiatria del DSM rappresenta qualcosa di inedito, di molto diverso dalla psichiatria classica con la sua referenza antropologica, col suo asse portante psicopatologico e col suo intento di delimitare con validità scientifica il campo del patologico mentale. La patologia che il DSM propone è una specie di evento post-moderno che trova solo in sé stesso una coerenza di senso, è un apparire rapsodico con la novità di un’apertura fluida e dalle molte possibilità nella direzione sociale e relazionale. I segni dei suoi elenchi non rinviano ad un significato che li trascenda in senso antropologico o valoriale ma si organizzano di volta in volta in una forma autoreferenziale, in una monade di senso che va di volta in volta incontro ad un destino che lungi dall’essere predeterminato, ha piuttosto l’aria di un evento a seguire.
E’ di certo una psichiatria inedita e che direi appunto post-moderna per i ricordati tratti che la individuano; ed è anche una psichiatria che lungi dall’essere compiuta appare piuttosto in via di definizione con l’aria di lasciare un’eredità analoga a quella che il posto-moderno ha lasciata in architettura, la promessa cioè di forme di inedito significato suscettibili di apparire una volta decantato l’eccesso baroccheggiante della bizzarria voluta e prvocatoria.
Per concludere.
Abbiamo dunque messo in evidenza il ruolo della psicopatologia come dimensione costitutiva della psichiatria e la sua natura di sapere estrinseco alla clinica per essere un sapere filosofico. Per questo appare un sapere discontinuo in relazione osmotica via via con la cultura che lo produce. Esso è in sostanza la traduzione che facciamo noi psichiatri del significato che alla follia conferisce un’epoca della cultura. Le sue caratteristiche le abbiamo messe in risalto per confronto con l’altro sapere che fonda la clinica, la semeiotica, che è un saper intrinseco alla clinica, è continuo e cumulativo e per così dire assoluto essendo indipendente dalla cultura di un’epoca.
Con la comparsa di psichiatrie nuove, l’impianto classico centrato sulla dialettica psicopatologia/semeiotica sembra non più render conto della psichiatria e per orientarci in questo campo abbiamo cercato di aiutarci col DSM che di codeste psichiatrie nuove è di certo un buon esempio. Il suo impianto ci ha mostrato una psichiatria dalla struttura post-moderna centrata di volta in volta su di un evento in sé conchiuso dove la psicopatologia pur non facendo più testo non scompare tuttavia ma rimane come un sottinteso. E forse è da codesto sottinteso che c’è da aspettarsi futuri sviluppi del fare psichiatria.
1 F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1962
2 Comunicazione conviviale.
3 Da dire anche che le ricadute di codesto irrigidimento e impoverimento dogmatico della psicopatologia non sono solo a carico del fare terapeutico ma incidono anche pesantemente sulla istituzione psichiatrica e pure incidono, sebbene con più ampio rigiro, sulle leggi per gli alienati.
4 Perché uno psichiatra va oltre la coerenza filosofica della psicopatologia e la vaglia criticamente col suo fare terapeutico.
5 Traité Médico-philisophyque sur l’aliénation mentale ou la manie, Paris, Anno IX, Richard, Caille et Ravier.
6 Senza ricordare i conflitti accesi fra meccanicisti e psicodinamisti, che sono arrivati anche alle note vie legali, molti avranno assistito al cortese imbarazzo dei relatori di questi bordi diversi nei confronti interdisciplinari.
7 1745-1826.
8 1809-1873.
9 Della pazzia in genere e in specie, Firenze, Carlieri, 1792-93. Riediz. a cura di Ferro & Riefolo, Roma, Vecchiarelli, 1991.
10 Nelle pagine introduttive del suo libro.
11 La scoperta della funzione della corteccia è ancora da venire.
12 Gladys Swain, Le sujet de la folie. La naissance de la psychiatrie, Toulouse, Privat, 1977
13 E che anche la cura, come sosteneva Esquirol nella sua tesi del 1804 redatta sotto la guida di Pinel; purché codesto atteggiamento sia ben stimolato o placato da un terapeuta competente.
14 Il Manicomio di Pinel si presenta infatti come una mini Utopia terapeutica, come una specie di Città del Sole dove i rapporti interpersonali quasi ideali aiutino a ricuperare l’equilibrio psichico. Forse allusivamente modello della società che la Rivoluzione è decisa a realizzare all’insegna di liberté, égalité e fraternité ma forse anche critica più o meno involontaria della “società di fuori” che col suo tumulto mette a rischio la stabilità psichica dei cittadini. Espressione questa che fa forse capire perché Pinel pubblicasse il suo libro solo nell’anno IX (il 1800) e non nel 1793 benché, come dice in polemica col Chiarugi, in quell’ano l’avesse già pronto.
15 Da cui la critica anche vibrata di Pinel contro le terapie somatiche dell’Hôtel-Dieu che, centrate sulla pratica del salasso, riuscivano solo –diceva- a sfinire i malati, a renderli incapaci di “assumersi” la propria situazione e avviarli così alla cronicità.
16 Postulato che, notiamolo en passant, la psichiatria non abbandonerà più riproponendolo via via o come il citato processo di Jaspers o come defekt con Bleuler per arrivare fino al DSM che lo propone nei termini sociologistici del rendimento lavorativo del paziente non senza sottintesi riferimenti a quella etica calvinista a cui pare ispirarsi
17 E qui se si pensa alla Daseinsanalyse si capisce perché ho accennato alla modernità di Pinel.
18 Tre forme di esistenza mancata, Milano, Il Saggiatore, 1964
19 G. Swain, Le dialogue avec l’insensé, Paris, Gallimard, 1994
20 I suoi libri fondamentali sono quello del 1857, presso Baillière, Traité des Dégénérescences intellectuelles, physiques et morales de l’espèce humaine e il Traité des maladies mentales del 1860 presso Masson.
21 Il decadimento morale non è però altrettanto universale essendo piuttosto l’appannaggio dei malati mentali e delle loro perversioni sia morali che intellettuali, fra queste ultime spiccando la perversione delirante del giudizio.
22 L’accanimento inconcludente nello studio di un esordio schizofrenico adolescenziale veniva preso per la causa e non per la conseguenza della malattia.
23 E’ da qui che storicamente esce Jaspers.
24 Questo concetto si ritrova a fondamento della legge manicomiale italiana del 1904 che ben illustra le ricadute lontane del paradigma di Morel nel definire il malato come pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo.
25 In Etudes cliniques (1851, pag 275 – 295) e nel Traité des maladies mentales, ( pag 532 e pag 566).
26 Du délire des persécutions, Archives générales de médecine, 1857
27 Délire, in Dictionnaire des études médicales, 1839
28 La differenza è semmai nella prospettiva narratologica di codesto materiale dato che in Pinel si dispiega in una varietà di storie vissute a finale imprevedibile e diverso mentre in Morel ricalca il modello dei romanzi allora di moda a contenuto drammatico e a finale tragico obbligato. Del resto il testo letterario di riferimento della Dégénérescence è la saga dei Rougon-Macquart dove Zola racconta la rovina fatale e progressiva di una famiglia tarata.
29 De la folie lucide, Delahaye, 1861.
30 Qui non racconto di letture ma della mia diretta e annosa esperienza del manicomio.
31 G.B.Giordano illustrò gli effetti di codesto indirizzo sul Manicomio di Lucca e sugli infermieri-contadini che provenivano dalla circostante campagna.
32 In Italia c’è una sincronia che può dire molto fra la legge dei manicomi (1904) e la legge della istruzione obbligatoria (1905). A propositi di quest’ultima occorre però evitare l’abbaglio della legge Coppino del 1877 che fu sì la prima legge organica in materia fatta dall’Italia unita ma che” non fu rispettata né da genitori, né da insegnanti, né da direttori didattici né dai Carabinieri”. La prima legge effettivamente applicata fu quella del Nasi, appunto del 1905.
33 Il suo forte sostenitore fu il direttore Bonaccorsi. Quanto al calvinismo dei lucchesi è istruttivo e anche divertente il libro che gli ha dedicato Marino Berengo (Nobili e mercanti nella Lucca del ‘500, Paperbacks Einaudi) che racconta come i figli dei mercanti avessero contatti con gli ambienti della Riforma per il loro iter formativo che si faceva fra Lione, Parigi, Ginevra, Losanna, Anversa e Londra.
34 Physiologie de l’homme aliéné. E’ Scipion che racconta il destino di una ventina degli alienati dimessi da suo padre in nome del traitement moral e della libertà.
35 J. D. E. Esquirol, Des maladies mentales sous le rapport médical, hygiénique et médico-legal, Paris J B Baillières, 1838
36 Antoine L. J., Bayle, Recherches sur les maladies mentales, 1822.
37 In Pierre Morel, Dictionnaire biographique de la psychiatrie, voce Bayle, Les empêcheurs de penser en rond, 1995.
38 I ricordati Traité des dégénérescences 1857 et Traité des Maladies mentale 1860.
39 Di codesto determinismo nosodromico, Kräpelin farà une degli assi portanti tuttora attuale della clinica opponendo la temporalità ciclica della Maniaco-Depressiva alla temporalità lineare progressiva della Demenza precoce e della Paranoia.
40 Des maladies mentales et des asiles des aliénés, 1864.
41 Con Paul Sérieux, Paris, Gauthiers-Villars et Masson, 1892
42 Tipica in proposito l’asserzione di Griesinger che viene citata come un topos di scuola. In realtà, Griesinger pensava la malattia mentale ancora da seguace di quella filosofia romantica della natura che fa il fascino delle sue descrizioni cliniche.
43 Una sintesi nel Trattato, ediz del 1923, nel capitolo appunto sull’allucinazione.
44 E‘ in polemica con questa semeiotica che si può capire l’esordio di Jaspers col suo richiamo alla priorità del vissuto del paziente.
45 Come mostrò Von Domarus coll’individuare la sua struttura paralogica.
46 Regard historique sur la psychopathologie in D. Widlöcher, Traitè de Psychopathologie, Paris, PUF, 1994. L’articolo è al mio solo nome per un errore dello stampatore.
47 Era il noto funzionario ateniese che dava il nome all’anno in cui esercitava il suo potere.
48 Da cui l’ipervalutazione della Paralisi progressiva come modello di malattia mentale.
49 Paris, Desclée de Brouwer, 3 voll, 1948, 1950, 1954.
50 Encyclopédie Médico-Chirurgicale, section Psychiatrie.
51 Quasi si ripetesse quello che era accaduto un cent’anni prima col Reparto della Salpétrière affidato al giovane Charcot, un duemila malate etichettate allora genericamente come alienate degenerate in un coacervo di patologia neurologica e mentale indistinte e dove il suo genio distinse quelle malattie neurologiche che fanno la sua gloria e che con la patologia mentale hanno rapporti marginali o sui generis. E questo per rimaner sul piano di un sapere autentico che procede appunto per differenze ed evitare delle sintesi di senso a pretesa toti-esplicativa che son meno dal lato del sapere che da quello della ideologia.
52 Cf. Gladys Swain, Dialogue avec l’insensé, Gallimard 1994.
53 Da cui il tornare ogni tanto a rileggersi la trilogia di Eschilo o la follia dell’Aiace di Sofocle.
54 K. Goldstein, La structure de l’organisme, trad. Franc. Gallimard, 1951.
55 J. Lhermitte, L’image de notre corps, 1939
56 P. Schilder, The image and appearance of human boddy, 1923, trad franc. 1968
57 Journal intime, traduzione italiana di Cesco Baseggio per UTET, 1931.
58 E’ nell’articolo del 1936 sulla intenzionalità di Husserl. Trad ital. In Che cos’è la letteratura? Il Saggiatorte 1960, pag 279.
59 Essay d’application des principes de Jackson à une conception dynamique de la neuropsichiatrie, Paris, Doin, 1938
60tanto che anche alcuni dei suoi allievi passeranno alla psicoanalisi, Lanteri-Laura rappresentando in questo senso un’eccezione insieme a Blanc e ad altri due o tre fra gli allievi di spicco.
61 DSM-IV-TR 1991, edizione italiana.
62 Nobili e mercanti nella Lucca del ‘500, Einaudi Reprints, 1974, dove è raccontata la facile penetrazione delle idee protestanti nella Lucca di quell’epoca per i contatti che i giovani di famiglia avevano con l’Europa dove li mandavano ad imparare il mestiere; e il loro volontario esilio quando scoppiò lo scandalo dell’eresia soprattutto a Losanna per impedire l’arrivo dell’Inquisizione a Lucca, una città che finché è stata libera non l’ha mai voluta. E che vi arrivò infatti solo nel 1859 quando Lucca passò sotto Firenze e perse la sua famosa Libertas.
63 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. ital. Sansoni, 1972
64 Rimarrà famosa l’introduzione nel DSM del disturbo posttraumatico da stress voluto dai reduci del Viet-Nam e la cancellazione della omosessualità pretesa dagli interessati.
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