“Ho sette o otto anni e mi trovo nel soggiorno disordinato della nostra casa confortevole, mentre guardo la giornata soleggiata che c’è fuori (..) E poi qualcosa di strano succede (..) La mia consapevolezza (di me, di lui della stanza, della realtà fisica intorno e a prescindere da noi) diventa improvvisamente confusa o incerta. Penso che mi sto dissolvendo. Mi sento – la mia mente sente – come un castello di sabbia, con tutta la sabbia che scivola via nell’onda che allontana. Che mi sta succedendo? E’ spaventoso, facciamola finita! Penso che se me ne sto molto ferma e tranquilla, questo finirà.
Questa esperienza è molto più strana e più difficile da descrivere di una paura estrema o di un terrore (..) La coscienza gradualmente perde la sua coerenza, il proprio centro va via, il centro non si riesce ad afferrare. Il “me” diventa una nebbia, ed il centro solido da cui si fa esperienza della realtà si perde come quando si ha un cattivo segnale radio. (..) La vista, il suono, i pensieri non stanno più insieme” (Saks 2007, 12-13).
Da questo racconto prende avvio la narrazione del personale viaggio nella follia della scrittrice Alyn R. Sacks. Il suo libro “The Center cannot hold” è stato un grosso best seller negli Stati Uniti ed eletto tra i primi dieci libri migliori dell’anno dalla rivista Time nel 2007. Per lo scrittore e neurologo Oliver Sacks, autore del celebre “Risvegli” diventato anche film di grande successo, il libro della Saks è l’autobiografia più lucida ed ottimista sul vivere con la schizofrenia che abbia mai letto ed un correttivo all’idea che ‘schizofrenia’ sia una parola infausta, qualcosa che troppo spesso equipariamo ad una vita di miseria, isolamento e tormento psicotico.
Il successo e l’ampia diffusione del libro della Saks ci da notizia del crescente interesse per i peculiari tratti che l’esperienza umana può prendere nel contesto delle turbe mentali, comprese quelle più disturbanti ad estreme. La trasformazione di quella che in genere è considerata una mera malattia in una arricchente forma di esperienza umana è catalizzata in modo significativo dalla luce che lo strumento psicoanalitico è in grado di gettare su questi ambiti, utilizzando la condivisione e la ricerca che si realizza nel contesto della relazione analitica: in questo modo la schizofrenia e la psicosi in genere viene ricondotta alla dimensione di esperienza, ovvero qualcosa che può essere raccontata con la ricchezza di particolari che si riconosce alle esperienze significative dell’esistenza.
L’assunto di questo nostro libro sulle psicosi è, appunto, che l’ambito dell’esperienza psicotica contiene un potenziale di conoscenza ancora in massima parte inesplorato: un potenziale la cui esplorazione che può arricchire tutte le persone interessate alla condizione umana, ma soprattutto tutti i professionisti ed operatori della salute mentale. Siamo, infatti, convinti che la psicoanalisi possa enormemente arricchirsi della esplorazione delle psicosi come base del rinnovamento che le è necessario per poter evolvere. Purtroppo sempre più spesso di parla di un declino della psicoanalisi legato al ritardo con cui vengon fatte nella nostra scienza gli aggiornamenti scientifici. “Nonostante la psicoanalisi cominciò con uno spirito di indagine aperta, con un orientamento ad esser innanzitutto di aiuto al paziente, essa proseguì poi sulla base di una mentalità di casta che si perpetuava da sola, una mentalità che è stata la sua rovina”: in questo modo Owen Renik – già direttore della più antica rivista americana di psicoanalisi, lo Psychoanalytic Quarterly, e autore del fortunato volume ‘Psicoanalisi Pratica’ (2007) – ha pubblicamente criticato la nostra disciplina in una intervista al New York Times (NYT, 10 ott 2006). Se non si può dar torto alla critica disincantata che Renik porta dall’interno alla psicoanalisi, da questo ne discende la necessità di andare urgentemente a ricollocare la nostra scienza sulla sua matrice clinica, rilanciando l’esplorazione delle forme più estreme in cui si presenta il disturbo mentale, ovvero là dove sono coinvolti i livelli più profondi, più significativi e trainanti del funzionamento mentale.
Uno degli elementi necessari al rinnovamento della psicoanalisi va ascritto al superamento della mentalità integralista che ha portato nel passato a contrapporre l’intervento psicologico nelle patologie gravi all’intervento farmacologico: una contrapposizione che è diventata in qualche caso drammatica come quando il non attribuire una terapia farmacologica ad un paziente psicotico è stata la base di una controversia legale che ha comportato come esito la chiusura dell’esperienza storica di Chestnut Lodge: una esperienza della cui importanza testimonia, in questo nostro volume, il contributo di John Kafka. La difficoltà di tradurre il contenimento farmacologico dell’angoscia psicotica in ipotesi neurochimiche attendibili dell’eziopatogenesi della schizofrenia (le cui origini complesse, che coinvolgono fattori biologici, ambientali e psicologici, sono oggetto di una ricerca che resta aperta) non intacca in nulla l’integrazione necessaria tra psicoanalisi e farmacoterapia. Su questo tema si centrerà in modo specifico il contributo di Giuseppe Martini a questo volume.
Ma come distinguere i confini di competenza del trattamento farmacologico da quelli di competenza psicoanalitica? Ci aiuta a condensare in poche battute questo tema di nuovo la scrittrice Elyn Saks, che ha beneficiato per una durata di trent’anni dell’assistenza di una terapia farmacologica non meno che di una psicoanalisi per la sua psicosi grave. Invitata a partecipare ad un dibattito indetto dal Journal of the American Psychoanalytic Association sul trattamento psicoanalitico della psicosi, la Saks ha riconosciuto tra i meriti dell’analisi la capacità di identificare i fattori di stress insieme alla loro gestione, l’aiuto a sviluppare una mentalità psicologica rafforzando un io osservante, l’elaborazione della ferita narcisistica di soffrire di una malattia mentale per cui si ha bisogno di una psicoanalisi e di una terapia farmacologica, la capacità di offrire un posto sicuro dove si possono portare i pensieri caotici, l’offerta di interpretazioni fonti di insight coniugata all’offerta del supporto di una persona gentile, non giudicante, che può accettare un altro essere umano non solo per il buono, ma anche per il brutto e cattivo (cfr Saks 2011).
Queste articolate osservazioni della Saks che non limitano il ruolo dell’analisi all’attivazione di importanti insight o al mero supporto relazionale appaiono in linea con la recente tendenza a guardare all’azione terapeutica della psicoanalisi come fenomeno complesso a cui contribuiscono una pluralità di fattori (Gabbard & Westen 2003): il che è particolarmente vero nelle situazioni più complesse come le psicosi. Tale insieme di argomenti fa apparire molto irrealistico credere che l’uso degli psicofarmaci possa invalidare o svalutare il valore della psicoanalisi per queste condizioni. Il problema che si pone è piuttosto come incoraggiare l’apertura degli psicoanalisti verso il trattamento delle psicosi, visto che non esistono segnali di un effettivo interesse o incoraggiamento da parte delle società psicoanalitiche o dei training psicoanalitici verso il trattamento delle psicosi che non siano sporadici o incoerenti.
Vanno comunque segnalati l’esistenza di varie iniziative psicoanalitiche che mettono in primo piano l’interesse per la psicosi, come the Association for Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Health Secton (APP) nel Regno Unito (UK), o il Centro Evelyne et Jean Kestenberg nel 13° Arondissement di Parigi, promosso da analisti noti come Liliane Abensour e Alain Gibeaut, la cui rivista ‘Psychanalyse et Psychose’ contribuisce in modo importante al dibattito centrato su psicoanalisi e psicosi. Nei paesi scandinavi va segnalato un importante interesse per il trattamento delle psicosi sulla base di un orientamento psicoanalitico, soprattutto grazie all’azione propulsiva di iniziative come il Turku Schizophrenia Project e di personalità come il finlandese Yrjo Alanen. Murray Jackson ha lungamente supervisionato nei paesi scandinavi, raccogliendo in volume una interessante serie di casi clinici trattati con una media di due sedute e per una durata di cinque anni, considerati parametri sufficienti per far evolvere positivamente casi molto drammatici di psicosi: la sua esperienza è raccolta nell’ancora oggi attuale ed istruttivo volume ‘Weathering the Storms. Psychotherapy for Psychosy’ (Jackson, 2001).
Una importante organizzazione internazionale che si occupa in modo organico e sistematico del trattamento psicoanalitico delle psicosi è l’International Society for the Psychological Treatments of the Schizophrenias and Other Psychoses, di cui fa parte il nostro collega Ira Steinman di San Francisco. Steinman contribuisce a questo nostro volume con un interessante saggio che mostra come l’analista possa gestire in modo efficace la situazione psicotica sia dal punto di vista analitico che farmacologico, contraddicendo un diffuso orientamento che offre al paziente psicotico l’affiancamento di un analista e di un farmacologo, possibilmente integrati da una terza figura che fa da consulente per la famiglia. A San Francisco è anche presente The Center for The Advanced Study of the Psychoses, diretto dai ben noti L. Bryce Boyer e Thomas H. Ogden, autori di articoli e libri, molti dei quali tradotti in varie parti del mondo. Ogden contribuisce a questo volume con un brillante saggio dedicato all'esplorazione dei processi del pensare ed alla discussione di tre forme di pensiero: il pensiero magico, il pensiero onirico ed il pensiero trasformativo.
Quello su come concepire il setting psicoanalisi/ farmacologia inerente il trattamento delle psicosi è solo uno dei punti di controversia inerente questo tipo di trattamenti. E l’esistenza di vari punti di controversia è un segnale della complessità del campo di cui ci occupiamo. Tra gli elementi di accordo si segnala: l’importanza di una cornice di lavoro stabile, il tenere il lavoro ancorato al qui ed ora il più possibile, con una maggiore presenza attiva da parte dell’analista in modo da poter meglio gestire le espressioni ostili che mettono a rischio il trattamento e le implicazione di sicurezza del paziente nelle situazioni pericolose. Tra gli elementi di disaccordo emerge un diverso modo di concepire l’ambiente di sostegno, l’esperienza emozionale correttiva ed il ruolo e la modalità di porgere l’interpretazione (Waldinger and Gunderson, 1987). Queste differenze verranno evidenti al lettore anche nei diversi saggi di questa raccolta che sono stati selezionati, valorizzando i vantaggi che derivano da una prospettiva che utilizza la maggiore apertura concettuale possibile riguardo le diversità di approccio nell’intervento psicoanalitico nelle psicosi.
Il nostro orientamento è stato inoltre quello di concepire il termine psicosi secondo una modalità inclusiva che – partendo dalla concezione freudiana che ipotizza un conflitto primario con la realtà nella psicosi (Freud 1924a, 1924b) – comprende le forme più gravi come la schizofrenia e le sindromi schizofreniformi, ma altresì le psicosi acute, comprese quelle più circoscritte nel tempo, nonché le forme in cui la parte psicotica della personalità (Bion 1957) prende chiaramente il sopravvento, come accade nelle organizzazioni patologiche della personalità; della difficoltà di trattamento di queste forme ci offre un significativo esempio nel nostro volume il saggio particolareggiato di Paul Williams.
Nel lavoro analitico bisogna tener conto della complessità del paziente psicotico che non si lascia prendere in schemi di comprensione ben definiti. In lui convivono accanto alle parti francamente psicotiche (caratterizzate da difese estremamente primitive, prima tra le quali l'auto-frammentazione del Sé), aree di esperienza fortemente regressive e di negazione del desiderio (orientate verso un orientamento anoressico della vita) e parti relativamente sane. Per l’analista diventa necessario collaborare con le parti sane per favorire un riassestamento psichico che consente il mantenimento del lavoro e di una certa stabilità nei legami affettivi. Il rischio che si corre è che si possa fraintendere come parte sana della personalità il risultato di un adattamento puramente cognitivo alla realtà.
Nella teoria psicoanalitica va registrata una convergenza – al di là delle formulazioni idiomatiche dei singoli autori- verso una lettura della psicosi come ‘buco nero’ nella rappresentazione affettiva e mentale del proprio corpo e del rapporto con la realtà (Freud, Winnicott, Bion, Lacan, Aulagnier, Tustin, Grotstein, Ferrari). Consentire al paziente di espandere la sua esperienza soggettiva, restata deformata dalla sua incapacità a dare un senso personale alla propria esistenza, è il principale obiettivo della terapia.
Il difetto di pensiero che caratterizza la psicosi crea un danno esteso nella barriera tra inconscio e conscio, che non riesce a funzionare in modo adeguato con conseguente rischio di allucinazioni, delirio e confusione mentale. Lo scopo del lavoro analitico è un apprendere dall’esperienza (Bion 1962) che permetta il ripristino di una separazione/ comunicazione funzionale tra inconscio e conscio: qualcosa che non è realizzabile "direttamente" con la classica interpretazione dei fantasmi inconsci. Se, come Freud ha intuito, il paziente psicotico non può creare l'inconscio, egli può nondimeno aderire cognitivamente al linguaggio (le rappresentazioni di parola). Questa adesione è molto fragile ed a volte può sfociare nei neologismi. Ciò non toglie che sia possibile aiutare il paziente a dare forma spontaneamente a pensieri e emozioni precedentemente precluse, tollerando le limitazioni che incontra in questo campo un approccio meramente interpretativo ed incoraggiando l'analizzando a far progredire la sua verità soggettiva verso forme di pensiero più organizzate e condivise. In questo modo l’analista può sostenere l’orientamento dell’analizzando psicotico a pensare la realtà come proto-funzione ‘onirica’ (Bion 1992) orientata ad organizzare l’esperienza, creando una membrana /barriera di comunicazione /differenziazione tra conscio e inconscio.
I pazienti psicotici pongono problemi scomodi per tutte le schematizzazioni del lavoro analitico che fanno riferimento ai luoghi comuni dell’ortodossia. Per fare un esempio, l’uso indiscriminato, spesso arbitrario, dell’interpretazione di transfert, usato impropriamente come cartina di tornasole dell’autenticità analitica della interpretazione, è sconsigliabile nella terapia delle psicosi– come nel nostro volume sottolineano i saggi di De Masi e di Lombardi. Per inciso andrebbe ricordato che il prestigio che gode l’interpretazione del transfert negli ambienti psicoanalitici ufficiali non è mai stata supportata da una ricerca empirica e che le poche ricerche empiriche che esistono a riguardo mostrano una relazione negativa tra l’alta frequenza di interpretazioni di transfert ed i risultati terapeutici (Crits-Christoph and Connolly Gibbons, 2002; Hoglend, 2004). Dei vari tipi di approcci psicoterapeutici centrati sulle necessità dei pazienti borderline, ovvero la Mentalization-Based Psychotherapy (MBP) promossa da Peter Fonagy, la Dialectical Behavior Therapy (DBT) promossa da Linehan e la Transference-Focused Psychotherapy (TFP) ideata da Otto Kernberg, solo l’ultima prevede una esplicita centratura sul transfert, perché intenzionalmente rivolta a pazienti meno gravi dello spettro borderline, mentre gli altri due tipi di interventi terapeutici sono orientati a migliorare, in primis, la regolazione emozionale e la capacità autoriflessiva (Munich, 2011).
Facciamo qui riferimento a questi approcci perché rimandano, pur nella loro significativa differenza, ad un tentativo di riorientare un approccio psicoanalitico alla luce delle necessità più urgenti presentate dal cosiddetto paziente difficile. In realtà noi crediamo nella possibilità di poter costruire un approccio analitico che includa delle modifiche sensate al trattamento classico per rispondere ai livelli di funzionamento a cui sono sensibili questi analizzandi: una modifica ai parametri tecnici tradizionali, che non solo non andrebbe considerata disturbante per una concezione rigorosa dell’analisi, ma che è destinata ad arricchirla e a renderla più al passo con le esigenze cliniche dei nostri tempi discriminando la specificità che è posta dall’elaborazione dei livelli più arcaici rispetto a quelli relazionali più evoluti. Considerato che “un approccio flessibile sul continuum supportivo-espressivo sia plausibilmente usato oggi dalla maggioranza dei terapisti orientati in senso dinamico” (Munich 2011), ci sembra impossibile pensare ad uno sviluppo della psicoanalisi – che sia realisticamente orientato ad includere la maggioranza dei pazienti, compresi quelli gravi, che accedono oggi ad un trattamento analitico – in assenza di un uso di flessibilità intelligente e motivata, che si costruisca a partire dall’osservazione clinica.
C’è d’altronde chi sostiene che un modello ortodosso di psicoanalisi classica non sia mai realmente esistito, o perlomeno che non sia mai stato usato clinicamente in modo estensivo per come si crede: malgrado questa realistica possibilità che vede nel ‘modello classico’ non molto di più che una fantasia, tale modello continua a dominare i discorsi psicoanalitici ufficiali e ad impregnare gli insegnamenti del training, ostacolando lo sviluppo di nuove tecniche e nuovi interventi terapeutici di carattere psicoanalitico (Fonagy, 2010; Luyten, Blatt, et al., 2012). Visto che coloro che non hanno ricevuto un training ortodosso sono più a loro agio con modalità tecniche nuove, c’è da chiedersi se non ci sia il rischio effettivo, paventato da Renik (2012), che il futuro della psicoanalisi debba essere assicurato da analisti estranei ai canali officiali di formazione o addirittura da professionisti che usino gli strumenti psicoanalitici senza riconoscere alcun legame con la psicoanalisi.
Kernberg (1975, 1992) ha valorizzato l’interesse della psicoanalisi per i casi difficili caratterizzati da un’area psicotica particolarmente espansa e la psicosi in genere, constatando come sia fittizio l’assunto che il trattamento farmacologico renda inutile la necessità di un approccio psicoterapeutico basato sulle conoscenze psicoanalitiche. Non solo è determinante il ruolo della psicoanalisi al trattamento e alla conoscenza della psicosi, ma egli parimenti sottolinea come l’esplorazione psicoanalitica della psicosi sia essenziale perché in grado di illuminare brillantemente anche la psicodinamica dei casi meno gravi.
La necessità di riorientare la nostra scienza verso una modalità fortemente esplorativa, aperta all’amore dell’innovazione, al senso del gioco (Winnicott, 1974 ), oltre che ancorata ad una base empirica, è stata recentemente ribadita da Luyten (2015), che ha sottolineato la necessità che gli psicoanalisti si interroghino, senza vergogna, sui capisaldi che reggono la psicoanalisi e che hanno sempre dato per scontati; altrimenti la rigidità e l’ortodossia, che ancora dominano certi suoi settori, potrebbero portare ad una caduta irrimediabile del movimento clinico ed intellettuale della nostra disciplina. Tra l’altro Luyten nota come i risultati terapeutici ottenibili in analisi provengano non tanto da specifiche modifiche indotte da interventi interpretativi, bensì da quanto l’analisi diventa capace di attivare una nuova capacità epistemologica del paziente ed un suo apprendimento sociale. Tutto questo ci pare particolarmente in linea con quanto noi riscontriamo nella clinica psicoanalitica della psicosi e in linea con lo spirito che abbiamo voluto attribuire alla selezione dei lavori che costituiscono questo libro: la psicoanalisi della psicosi si nutre in modo decisivo dell’apertura mentale dell’analista, della sua capacità di apprendere dal paziente e di un orientamento atto a favorire nell’analizzando un’espansione verso nuove esperienze, affiancandone la loro elaborazione.
Gli articoli che sono raccolti in questo volume vogliono dar ragione di una ricerca attiva sul versante della psicoanalisi della psicosi in un contesto diversificato di culture e di applicazioni. Abbiamo pensato di chiedere contributi a diversi autori italiani, europei e statunitensi che fanno riferimento a diversi orientamento psicoanalitici, ma che hanno in comune l’impegno pragmatico a confrontarsi con la psicoterapia psicoanalitica della psicosi. Pur nella diversità dei vertici, e talvolta della diversità di stile e di linguaggio, il lettore potrà cogliere un elemento comune nella matrice empirica ed esperienziale che è alla base di ogni singolo contributo. Prima di lasciare parlare i diversi autori ci fermeremo a dare una visione riassuntiva dell’insieme dei contributi, presentando in maniera molto concisa ogni singolo capitolo.
Lo psicoanalista francese Didier Houzel introduce nel primo capitolo la nozione di psicosi e di autismo nel bambino, invitando a diffidare delle semplificazioni etiologiche: semplicismi che possono facilmente scatenare reazioni di intolleranza da parte dei genitori di questi bambini, anche perché in passato son stati irragionevolmente accusati di una ‘anaffettività’ a cui fare risalire il disturbo del bambino. La psicosi del bambino va collocata, invece, in relazione ad un deficit di rappresentazione, che esclude che il soggetto disturbato sia mosso da una specifica intenzionalità. La psicoanalisi “non si occupa di ‘eziologie’ ma di ‘senso’ ”, sottolinea Houzel. Sul piano dell’approccio al trattamento va tenuto conto del contesto di realtà per avviare un lavoro psicoanalitico individuale con il bambino, per cui questo va concepito come un intervento “con la massima frequenza possibile e con la massima durata possibile”, al di là di ricette rigidamente precostituite. Ispirato dalla lezione di Frances Tustin, Houzel insiste sul valore di un intervento che lavori ai livelli della relazione contenitore-contenuto (Bion 1970), e quindi sul cosiddetto transfert sul contenitore (Houzel) come un livello più arcaico rispetto a quello indentificato da Melanie Klein come transfert infantile basato sulla identificazione proiettiva.
John Kafka, psichiatra e psicoanalista di Washington, DC, sviluppa il suo contributo sulla psicosi, ripercorrendo l’esperienza di Chesnut Lodge, una prestigiosa istituzione psichiatrica di Rockville nel Maryland, circa un’ora da Baltimora, che per molti anni ha offerto un trattamento residenziale ai pazienti gravi in linea con i principi psicoanalitici.
Le concezioni di Kafka sono in buona parte già note al lettore italiano attraverso il suo istruttivo volume ‘Le nuove realtà’ (Boringhieri 1992): titolo che forse non rispecchia del tutto le originali concezioni del suo autore, visto che suona diverso dal più significativo titolo originale Multiple Realities in Clinical Practice. Kafka considera l’importanza di un ‘sense of agency’ per il paziente grave, ovvero un senso di identità basato non solo per la sua capacità di interagire in modo costruttivo con la realtà esterna, ma anche sulla capacità di organizzare importanti aspetti del funzionamento interno come quello legato alla temporalità. Egli sottolinea il ruolo delle diverse concezioni sulla psicosi per cui essa può essere espressione di un deficit o di un conflitto: una diversità di prospettiva che impregna il contributo di autori storici come Ping_Nie Pao e Harold Searles. Determinante nell’esperienza del Lodge fu il ruolo di Frieda Fromm-Reichmann, che vi portò la sua unica capacità di calarsi in comunicazione con il paziente grave, rispondendo sia a livello della comunicazione psicotica che di quella non-psicotica.
Franco De Masi presenta un testo riassuntivo della sua esperienza personale di psicoanalisi della psicosi, partendo da una riconsiderazione dei casi di Alvise ed Ada (trattata da Paola Capozzi). Alvise presentava una ideazione psicotica che si mostrò in grado di regredire con l’analisi, ma si riaffacciò in occasione del confronto con la tesi di laurea, di fronte a cui il paziente reagì con il delirio che la CIA lo volesse rapire per portarlo negli Stati Uniti: una esplosione che sembra mostrare i connotati di un cambiamento catastrofico (Bion 1970), in cui il cambiamento della laurea e del mondo nuovo che si apre, appare vissuto come alieno alla personalità stessa del soggetto. De Masi attribuisce il riaffiorare della psicosi ad una carenza di analisi delle motivazioni inconsce alla base della costruzione del primo episodio psicotico, sottolineando questa sua ipotesi con affermazioni di Arieti e Searles. Lo studio del materiale dell’analisi di Ada permette a De Masi di ipotizzare come i sogni possano funzionare da predittori di una nuova esplosione psicotica. De Masi passa poi a considerare l’importanza degli stati di ritiri infantili, connotati da dissociazione dalla realtà, per la genesi delle successive situazioni deliranti del paziente adulto, il ruolo delle organizzazioni patologiche, in cui il paziente è soggiogato da una fascinazione sensoriale verso il piacere, e le peculiarità del transfert psicotico.
Riccardo Lombardi avvia il suo lavoro ridimensionando il significato di cura psicoanalitica della psicosi, che va svuotato del senso onnipotente di guarigione da una malattia: un dinamico equilibrio tra la parte psicotica e non-psicotica riguarda ogni persona, sana o malata che possa apparire da un punto di vista fenomenologico esterno. La schizofrenia e le psicosi gravi mostrano l’uso di una logica specifica da cui traspare il funzionamento logico dell’inconscio proprio ai livelli di profondità: l’elaborazione deve allora procedere nel senso di rafforzare la differenziazione ed il principio di realtà. Insieme ad una serie di ipotesi orientative psicoanalitiche di base per la comprensione della psicosi, Lombardi sottolinea l’importanza del ruolo svolto dai fenomeni di dissociazione corpo-mente nel favorire l’insorgenza di un chiaro disturbo psicotico: un breve caso clinico di trattamento analitico esemplifica la sua posizione. Se il compito più urgente di un intervento psicoanalitico della psicosi è di favorire una crescita dei fenomeni mentali, la mente ha bisogno di costruirsi su una continuità corpo-affetti-pensieri: non può esistere un’evoluzione verso il mentale che non passi per un riconoscimento del proprio corpo ed il rispetto delle matrici sensoriali del pensiero. Se la psicoanalisi presuppone sempre l’intersoggettività come sua condizione di base, l’elaborazione con il paziente psicotico va centrata sui bisogni primari di questo tipo di paziente a stabilire una comunicazione con sé stesso ed avviare fenomeni di percezione ed autocoscienza.
Mark J. Blechner partendo da una ricca e umanamente intensa esperienza di cura di pazienti psicotici acquisita da giovane terapeuta, sottolinea l’importanza del lavoro all’aria aperta e in un setting naturale. Per rendere più proficua questa impostazione, è necessario inventare una terapia specifica per ogni paziente, cercando di capire tutto quello che può coinvolgerli in una comunicazione significativa e di coinvolgimento emotivo.
Seguendo questa prospettiva, profondamente interpersonale, l’ascoltatore seleziona le sue risposte alle affermazioni dell’altro comunicante tenendo conto non solo del contenuto semantico ma anche delle altre dimensioni della comunicazione: il tono, l’emozione implicita e gli atteggiamenti. Il contributo del terapeuta al dialogo è significativamente modellato dalla risposta dell’altro. La strategia terapeutica che Blechner propone, è l’accordarsi dell’analista (che richiede una certa sensibilità e una capacità di ascolto attento) con la parte sana delle comunicazioni del paziente. Se il terapeuta si concentra sulla follia dell’altro, il dialogo sembra più folle e sale l’ansia di entrambi. Se, invece, il terapeuta risponde unicamente a ciò che è razionale e significativo nella comunicazione del paziente, il dialogo fa sembrare quest’ultimo più sano e può effettivamente renderlo più sano.
Stefano Calamandrei considera come causa principale del disturbo psicotico l’assenza di un filtro autoerotico alle intrusioni emotive da parte dell’oggetto. Al posto del filtro mancante i pazienti psicotici per tenere a debita distanza le stimolazioni emotive forti usano il diniego, le esternalizzazione di sé e l’investimento narcisistico nell’ambiente.
La realtà vissuta come un prolungamento di sé, sfocia a un investimento narcisistico che non è difensivo, ma la conseguenza della diffusione del soggetto nell’ambiente umano e non umano. L’indifferenziazione tra me e non-me, crea nel transfert un impedimento della holding reciproca e dell’attenzione fluttuante. L’analista vissuto come parte del mondo interno del paziente è oggetto di una relazione tirannica, soggetta a brusche variazioni. Ogni sua manchevolezza crea una profonda delusione, che non ha qualità di risentimento nei confronti di un oggetto esterno. La rabbia ha come vero bersaglio l’impotenza del paziente e produce un’intensa autosvalutazione.
Nella prospettiva di Calamandrei il transfert del paziente psicotico si sviluppa su due piani coesistenti. Il primo è manifesto: il ritiro autistico che crea una barriera insormontabile tra il paziente e l’analista. Il secondo, difficilmente rilevabile, è una dimensione simbiotica larvata: il mondo narcisistico del paziente è proiettato e depositato dentro l’analista e nel setting.
Per Sarantis Thanopulos la psicosi deriva dal crollo di un’area significativa dell'esperienza soggettiva nel rapporto primario con la madre. Il crollo avviene nel momento in cui l’esperienza sta per prendere forma e in condizioni favorevoli resta iscritta nella psiche come potenzialità. La tendenza della soggettività compressa e deformata a ri-espandersi, è, tuttavia, contrastata fortemente perché espone al rischio di ripetizione della catastrofe.
Una parte del paziente si mantiene sufficientemente viva e in grado di sognare. La configurazione dei fantasmi e l’interpretazione dei sogni è possibile, gratifica l'analista e sorregge la parte relativamente sana del paziente. Nondimeno, più rigoroso è il lavoro interpretativo, più i conti non tornano: tra la prospettiva dell'analista e la verità del paziente che non trova una forma adeguata per esistere, si apre una profonda divaricazione che la configurazione del fantasma (che resta beante) non può sanare.
La tensione tra la verità interpretativa e la verità del delirio, con cui il paziente cerca di colmare lo spazio della divaricazione, aiuta la verità soggettiva del paziente a trovare una via di accesso alla realtà e prendere forma. Questa verità trova la sua prima espressione indiretta nella destabilizzazione dell'assetto mentale e emotivo dell'analista. Solo se l’analista parla dall'impronta che il discorso del paziente lascia in lui, destabilizzandolo, può riconoscere l'emergente esperienza soggettiva del paziente (precedentemente preclusa) e permetterle di esistere e prendere forma per la prima volta.
Il "rovescio di pensare" è l'espressione sintetica usata da Giuseppe Civitarese per indicare il grande contributo di Bion dato alla comprensione del tipo di pensiero che caratterizza il funzionamento psicotico. Questo modo di pensare è caratterizzato da attacchi al legame dei pensieri onirici nel processo di sognare e pensare, e di conseguenza dall'attacco al processo di attribuizione di significato all'esperienza (funzione alfa). Il "rovescio di pensare" è il risultato dell'introiezione da parte del neonato o del bambino dell'incapacità della madre di contenerne lo stato emotivo, e si basa sul meccanismo fine delle cosiddette trasformazioni in allucinosi ( TA), che, per Bion, sono appannaggio, a secondo della loro entità, non solo dei pazienti gravi, ma anche della parte psicotica della mente di ciascuno.
Una vignetta clinica mostra come la rêverie dell'analista realizzi la disponibilità di quest'ultimo a sognare il sogno non sognato della paziente ed in questo modo "permettere all'O della seduta di evolvere: andare oltre l'identificazione conscia, la comprensione, la mera analisi dei fatti".
Secondo la personale rilettura di Bion fatta dall'autore "la comprensione della psicosi, del rovescio di pensare è basata su una teoria radicalmente sociale del soggetto", e perciò, l'analista deve lavorare più sui contenitori psichici, sullo sviluppo di pensare e di contenere /alfabetizzare le emozioni, che non su pensieri ed emozioni come contenuti in sé.
Secondo Thomas H. Ogden assistiamo, nella psicoanalisi contemporanea, ad uno spostamento dell'attenzione da ciò che il paziente pensa, e quindi dalla comprensione del significato simbolico dei sogni, del gioco e delle associazioni, al modo in cui il paziente pensa, e quindi all'esplorazione dei processi del pensare o del giocare.
L'adozione nel lavoro clinico di questo spostamento di enfasi porta l'Autore ad individuare tre forme di pensiero: il pensiero magico, il pensiero onirico ed il pensiero trasformativo. Attravero due illustrazioni cliniche, Ogden mostra come queste forme di pensiero non esistano mai in forma pura, coesistano, si creino vicendevolmente e siano in relazione dialettica l'una con l'altra.
Il pensiero magico sovverte il pensiero autentico e la crescita psicologica, sostituendo ad una realtà esterna perturbante una realtà inventata. Per contrasto, il pensiero onirico – "la nostra forma di pensiero più profonda" – comporta l’osservazione di una esperienza emozionale da molteplici prospettive simultaneamente: per esempio, le prospettive di pensiero nei processi primari e secondari, del contenitore e del contenuto, del sé infantile e del sé maturo, e così via. Infine, nel pensiero trasformativo, che richiede sempre le menti di almeno due persone, si crea un nuovo modo di ordinare l’esperienza che consente di generare tipi di vissuto, forme di relazione con l’oggetto e qualità della consapevolezza del proprio essere vivo (aliveness) che prima erano inimmaginabili.
I sogni di un analizzando in prossimità di periodi di vacanze analitiche offrono l'occasione a Luigi Rinaldi di riflettere sul rapporto tra sogno e psicosi ed in particolare sulla vexata questio della presenza, della qualità e della funzione dei sogni negli stati psicotici.
Ciò che emerge dalla sua esperienza clinica e dalla sua analisi della letteratura è che, quando il processo psicotico non è in fase acuta e non ha invaso l'intera struttura psichica, si è capaci di sognare. In questi casi, però, il fallimento parziale o totale del lavoro del sogno, riconducibile ad una carenza nella formazione del simbolo ed al pensiero concreto, non porta ad una sufficiente metabolizzazione dei residui diurni, e quindi non conduce all'esaudimento di desideri rimossi ed a proteggere il sonno da assalti pulsionali o della realtà esterna.
E' comunque preservata la funzione del sogno di rappresentazione del Sè e dei suoi tentativi di integrare le esperenze emozionali attuali e quelle passate, comprese quelle immagazzinate nella memoria non verbale. Per tale motivo, la regressione onirica può giungere ad illustrare un deficit di integrazione tra corpo e psiche, e le vicissitudini transferali possono essere rappresentate in termini sensoriali e fisici. Si tratta, in questi casi, di rappresentazioni che derivano dalla riattualizzazione, operata dalla psicosi, di quel registro pittografico (Aulagnier, 1975), che riflette specularmente le più antiche esperienze relative alla relazione primaria, e descrive come questo "processo originario" possa essere una specie di preforma dei successivi fantasmi di frammentazione, annientamento e perdita dei confini dell'io.
Secondo Paul Williams l’organizzazione patologica di tipo psicotico opera in parallelo con la parte non psicotica, controllandola e contrastandola. Ciò può creare una confusione che circola più in profondità di quanto si percepisce a partire dal discorso verbale e dal comportamento. Quando l’organizzazione patologica è predominante, i sentimenti contrastanti e i dubbi che sono prerogativa della parte non psicotica della personalità, non sono tollerati. Sono accettate solo le certezze che scaturiscono da fantasie sessuali e aggressive non elaborate.
Il compito principale dell’analista è quello di rendere la comunicazione intellegibile, differenziando nel transfert e nel controtransfert le istanze non psicotiche del paziente dalle loro sistematiche deformazioni psicotiche. L’analista prestando attenzione a entrambi i modi di comunicare e pensare del paziente, può introdurre quanto ha compreso nella mente non psicotica del paziente con la stimolazione di uno spirito di curiosità ed interesse. Opera, nella sostanza, una triangolazione tra la parte sana del paziente, la parte arrabbiata di lui e l’’impatto di queste oscillanti posizioni sulla relazione con l’analista. Può aprire in questo modo uno spazio di esplorazione congiunta delle esperienze polarizzate del paziente e dare sbocco a un’espressione autentica dei sentimenti. Col tempo, può diventare possibile un doloroso processo di svincolo dalla pseudo-protezione offerta dall’organizzazione patologica.
Nella quarta parte del volume è affrontato il problema dell'interazione tra psicoanalisi e psicofarmacologia nella cura delle psicosi.
Ira Steinman ci presenta un approccio in cui è lo psicoanalista (che è anche psichiatra) a gestire all'occorenza anche l'aspetto psicofarmacologico, attraverso un uso moderato di farmaci nelle fasi acute, allorquando l'angoscia è dilagante ed impedisce qualsiasi lavoro psicoterapeutico, per poi ridurre progressivamente le dosi di farmaco, man mano che i pazienti imparano a controllare i processi psicologici che prima apparivano incomprensibili e terrorizzanti.
Attraverso due casi clinici egli mostra come il trattamento proceda con l'abituale analisi psicodinamica degli eventi del passato, dei fenomeni di transfert e controtransfert e degli stati affettivi nel periodo in cui si sono sviluppati i sintomi. In questo modo Egli aiuta i pazienti a capire i significati simbolici, da loro assegnati ad allucinazioni e deliri, e ad individuare gli eventi traumatici che hanno portato alla frammentazione ed alla psicosi. A tal fine è indispensabili, a suo parere, che il terapeuta arrivi a quello che Harry Guntrip definisce "il cuore perduto del Sé", e sia convinto che è possibile "sbucciare la cipolla" e arrivare all'origine dei fenomeni psicotici più bizzarri ed estremi.
Col suo articolato contributo sul rapporto tra trattamento farmacologico e psicoanalitico nei disturbi psicotici, Giuseppe Martini mira a riempire il vuoto derivante dal fatto che questo tema, sebbene di enorme importanza, non è particolarmente ricorrente nelle riviste di psicoanalisi.
Nel suo sguardo alla letteratura Egli valorizza i contributi degli Autori che hanno auspicato la fondazione di una disciplina, la psicofarmacologia psicodinamica, che riconosce il ruolo centrale che il significato e i fattori interpersonali rivestono nel trattamento psicofarmacologico. Accettando questa premessa, si può concludere che i pazienti in analisi che assumono farmaci, anziché essere preda di appiattimento emotivo e "dehumanizing experiences", come si credeva negli anni "80, possono trarne un potenziamento dell'insight e della capacità di ricordare i loro sogni, e sono aiutati a ricompattare la frammentazione dell'Io, e in generale a partecipare maggiormente ad un'esperienza analitica, che, in assenza di farmaci, sarebbe per loro impossibile. L'autore si sofferma poi su questioni di teoria e di metodo per stemperare le premesse di una possibile prassi contraddittoria tra le operazioni psicoanalitiche volte ad esplorare la valenza simbolica che ha il sintomo, per promuoverne l'aspetto trasformativo – elaborativo, e la finalità "riduttiva" della psichiatria, tesa a ridurre l'entità del sintomo sino possibilmente a farlo scomparire, in quanto segno di un disturbo mentale. Quindi discute delle trasformazioni emozionali, relazionali e transferali conseguenti all'uso del farmaco, ed infine illustra, attraverso vivaci esempi clinici, indicazioni e controindicazioni del setting unificato (in cui lo psicoanalista prescrive anche i farmaci) e del setting separato (in cui all'analista si affianca lo psicofarmacologo) nelle psicosi acute, nelle schizofrenie e nei disturbi bipolari.
Questa esperienza è molto più strana e più difficile da descrivere di una paura estrema o di un terrore (..) La coscienza gradualmente perde la sua coerenza, il proprio centro va via, il centro non si riesce ad afferrare. Il “me” diventa una nebbia, ed il centro solido da cui si fa esperienza della realtà si perde come quando si ha un cattivo segnale radio. (..) La vista, il suono, i pensieri non stanno più insieme” (Saks 2007, 12-13).
Da questo racconto prende avvio la narrazione del personale viaggio nella follia della scrittrice Alyn R. Sacks. Il suo libro “The Center cannot hold” è stato un grosso best seller negli Stati Uniti ed eletto tra i primi dieci libri migliori dell’anno dalla rivista Time nel 2007. Per lo scrittore e neurologo Oliver Sacks, autore del celebre “Risvegli” diventato anche film di grande successo, il libro della Saks è l’autobiografia più lucida ed ottimista sul vivere con la schizofrenia che abbia mai letto ed un correttivo all’idea che ‘schizofrenia’ sia una parola infausta, qualcosa che troppo spesso equipariamo ad una vita di miseria, isolamento e tormento psicotico.
Il successo e l’ampia diffusione del libro della Saks ci da notizia del crescente interesse per i peculiari tratti che l’esperienza umana può prendere nel contesto delle turbe mentali, comprese quelle più disturbanti ad estreme. La trasformazione di quella che in genere è considerata una mera malattia in una arricchente forma di esperienza umana è catalizzata in modo significativo dalla luce che lo strumento psicoanalitico è in grado di gettare su questi ambiti, utilizzando la condivisione e la ricerca che si realizza nel contesto della relazione analitica: in questo modo la schizofrenia e la psicosi in genere viene ricondotta alla dimensione di esperienza, ovvero qualcosa che può essere raccontata con la ricchezza di particolari che si riconosce alle esperienze significative dell’esistenza.
L’assunto di questo nostro libro sulle psicosi è, appunto, che l’ambito dell’esperienza psicotica contiene un potenziale di conoscenza ancora in massima parte inesplorato: un potenziale la cui esplorazione che può arricchire tutte le persone interessate alla condizione umana, ma soprattutto tutti i professionisti ed operatori della salute mentale. Siamo, infatti, convinti che la psicoanalisi possa enormemente arricchirsi della esplorazione delle psicosi come base del rinnovamento che le è necessario per poter evolvere. Purtroppo sempre più spesso di parla di un declino della psicoanalisi legato al ritardo con cui vengon fatte nella nostra scienza gli aggiornamenti scientifici. “Nonostante la psicoanalisi cominciò con uno spirito di indagine aperta, con un orientamento ad esser innanzitutto di aiuto al paziente, essa proseguì poi sulla base di una mentalità di casta che si perpetuava da sola, una mentalità che è stata la sua rovina”: in questo modo Owen Renik – già direttore della più antica rivista americana di psicoanalisi, lo Psychoanalytic Quarterly, e autore del fortunato volume ‘Psicoanalisi Pratica’ (2007) – ha pubblicamente criticato la nostra disciplina in una intervista al New York Times (NYT, 10 ott 2006). Se non si può dar torto alla critica disincantata che Renik porta dall’interno alla psicoanalisi, da questo ne discende la necessità di andare urgentemente a ricollocare la nostra scienza sulla sua matrice clinica, rilanciando l’esplorazione delle forme più estreme in cui si presenta il disturbo mentale, ovvero là dove sono coinvolti i livelli più profondi, più significativi e trainanti del funzionamento mentale.
Uno degli elementi necessari al rinnovamento della psicoanalisi va ascritto al superamento della mentalità integralista che ha portato nel passato a contrapporre l’intervento psicologico nelle patologie gravi all’intervento farmacologico: una contrapposizione che è diventata in qualche caso drammatica come quando il non attribuire una terapia farmacologica ad un paziente psicotico è stata la base di una controversia legale che ha comportato come esito la chiusura dell’esperienza storica di Chestnut Lodge: una esperienza della cui importanza testimonia, in questo nostro volume, il contributo di John Kafka. La difficoltà di tradurre il contenimento farmacologico dell’angoscia psicotica in ipotesi neurochimiche attendibili dell’eziopatogenesi della schizofrenia (le cui origini complesse, che coinvolgono fattori biologici, ambientali e psicologici, sono oggetto di una ricerca che resta aperta) non intacca in nulla l’integrazione necessaria tra psicoanalisi e farmacoterapia. Su questo tema si centrerà in modo specifico il contributo di Giuseppe Martini a questo volume.
Ma come distinguere i confini di competenza del trattamento farmacologico da quelli di competenza psicoanalitica? Ci aiuta a condensare in poche battute questo tema di nuovo la scrittrice Elyn Saks, che ha beneficiato per una durata di trent’anni dell’assistenza di una terapia farmacologica non meno che di una psicoanalisi per la sua psicosi grave. Invitata a partecipare ad un dibattito indetto dal Journal of the American Psychoanalytic Association sul trattamento psicoanalitico della psicosi, la Saks ha riconosciuto tra i meriti dell’analisi la capacità di identificare i fattori di stress insieme alla loro gestione, l’aiuto a sviluppare una mentalità psicologica rafforzando un io osservante, l’elaborazione della ferita narcisistica di soffrire di una malattia mentale per cui si ha bisogno di una psicoanalisi e di una terapia farmacologica, la capacità di offrire un posto sicuro dove si possono portare i pensieri caotici, l’offerta di interpretazioni fonti di insight coniugata all’offerta del supporto di una persona gentile, non giudicante, che può accettare un altro essere umano non solo per il buono, ma anche per il brutto e cattivo (cfr Saks 2011).
Queste articolate osservazioni della Saks che non limitano il ruolo dell’analisi all’attivazione di importanti insight o al mero supporto relazionale appaiono in linea con la recente tendenza a guardare all’azione terapeutica della psicoanalisi come fenomeno complesso a cui contribuiscono una pluralità di fattori (Gabbard & Westen 2003): il che è particolarmente vero nelle situazioni più complesse come le psicosi. Tale insieme di argomenti fa apparire molto irrealistico credere che l’uso degli psicofarmaci possa invalidare o svalutare il valore della psicoanalisi per queste condizioni. Il problema che si pone è piuttosto come incoraggiare l’apertura degli psicoanalisti verso il trattamento delle psicosi, visto che non esistono segnali di un effettivo interesse o incoraggiamento da parte delle società psicoanalitiche o dei training psicoanalitici verso il trattamento delle psicosi che non siano sporadici o incoerenti.
Vanno comunque segnalati l’esistenza di varie iniziative psicoanalitiche che mettono in primo piano l’interesse per la psicosi, come the Association for Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Health Secton (APP) nel Regno Unito (UK), o il Centro Evelyne et Jean Kestenberg nel 13° Arondissement di Parigi, promosso da analisti noti come Liliane Abensour e Alain Gibeaut, la cui rivista ‘Psychanalyse et Psychose’ contribuisce in modo importante al dibattito centrato su psicoanalisi e psicosi. Nei paesi scandinavi va segnalato un importante interesse per il trattamento delle psicosi sulla base di un orientamento psicoanalitico, soprattutto grazie all’azione propulsiva di iniziative come il Turku Schizophrenia Project e di personalità come il finlandese Yrjo Alanen. Murray Jackson ha lungamente supervisionato nei paesi scandinavi, raccogliendo in volume una interessante serie di casi clinici trattati con una media di due sedute e per una durata di cinque anni, considerati parametri sufficienti per far evolvere positivamente casi molto drammatici di psicosi: la sua esperienza è raccolta nell’ancora oggi attuale ed istruttivo volume ‘Weathering the Storms. Psychotherapy for Psychosy’ (Jackson, 2001).
Una importante organizzazione internazionale che si occupa in modo organico e sistematico del trattamento psicoanalitico delle psicosi è l’International Society for the Psychological Treatments of the Schizophrenias and Other Psychoses, di cui fa parte il nostro collega Ira Steinman di San Francisco. Steinman contribuisce a questo nostro volume con un interessante saggio che mostra come l’analista possa gestire in modo efficace la situazione psicotica sia dal punto di vista analitico che farmacologico, contraddicendo un diffuso orientamento che offre al paziente psicotico l’affiancamento di un analista e di un farmacologo, possibilmente integrati da una terza figura che fa da consulente per la famiglia. A San Francisco è anche presente The Center for The Advanced Study of the Psychoses, diretto dai ben noti L. Bryce Boyer e Thomas H. Ogden, autori di articoli e libri, molti dei quali tradotti in varie parti del mondo. Ogden contribuisce a questo volume con un brillante saggio dedicato all'esplorazione dei processi del pensare ed alla discussione di tre forme di pensiero: il pensiero magico, il pensiero onirico ed il pensiero trasformativo.
Quello su come concepire il setting psicoanalisi/ farmacologia inerente il trattamento delle psicosi è solo uno dei punti di controversia inerente questo tipo di trattamenti. E l’esistenza di vari punti di controversia è un segnale della complessità del campo di cui ci occupiamo. Tra gli elementi di accordo si segnala: l’importanza di una cornice di lavoro stabile, il tenere il lavoro ancorato al qui ed ora il più possibile, con una maggiore presenza attiva da parte dell’analista in modo da poter meglio gestire le espressioni ostili che mettono a rischio il trattamento e le implicazione di sicurezza del paziente nelle situazioni pericolose. Tra gli elementi di disaccordo emerge un diverso modo di concepire l’ambiente di sostegno, l’esperienza emozionale correttiva ed il ruolo e la modalità di porgere l’interpretazione (Waldinger and Gunderson, 1987). Queste differenze verranno evidenti al lettore anche nei diversi saggi di questa raccolta che sono stati selezionati, valorizzando i vantaggi che derivano da una prospettiva che utilizza la maggiore apertura concettuale possibile riguardo le diversità di approccio nell’intervento psicoanalitico nelle psicosi.
Il nostro orientamento è stato inoltre quello di concepire il termine psicosi secondo una modalità inclusiva che – partendo dalla concezione freudiana che ipotizza un conflitto primario con la realtà nella psicosi (Freud 1924a, 1924b) – comprende le forme più gravi come la schizofrenia e le sindromi schizofreniformi, ma altresì le psicosi acute, comprese quelle più circoscritte nel tempo, nonché le forme in cui la parte psicotica della personalità (Bion 1957) prende chiaramente il sopravvento, come accade nelle organizzazioni patologiche della personalità; della difficoltà di trattamento di queste forme ci offre un significativo esempio nel nostro volume il saggio particolareggiato di Paul Williams.
Nel lavoro analitico bisogna tener conto della complessità del paziente psicotico che non si lascia prendere in schemi di comprensione ben definiti. In lui convivono accanto alle parti francamente psicotiche (caratterizzate da difese estremamente primitive, prima tra le quali l'auto-frammentazione del Sé), aree di esperienza fortemente regressive e di negazione del desiderio (orientate verso un orientamento anoressico della vita) e parti relativamente sane. Per l’analista diventa necessario collaborare con le parti sane per favorire un riassestamento psichico che consente il mantenimento del lavoro e di una certa stabilità nei legami affettivi. Il rischio che si corre è che si possa fraintendere come parte sana della personalità il risultato di un adattamento puramente cognitivo alla realtà.
Nella teoria psicoanalitica va registrata una convergenza – al di là delle formulazioni idiomatiche dei singoli autori- verso una lettura della psicosi come ‘buco nero’ nella rappresentazione affettiva e mentale del proprio corpo e del rapporto con la realtà (Freud, Winnicott, Bion, Lacan, Aulagnier, Tustin, Grotstein, Ferrari). Consentire al paziente di espandere la sua esperienza soggettiva, restata deformata dalla sua incapacità a dare un senso personale alla propria esistenza, è il principale obiettivo della terapia.
Il difetto di pensiero che caratterizza la psicosi crea un danno esteso nella barriera tra inconscio e conscio, che non riesce a funzionare in modo adeguato con conseguente rischio di allucinazioni, delirio e confusione mentale. Lo scopo del lavoro analitico è un apprendere dall’esperienza (Bion 1962) che permetta il ripristino di una separazione/ comunicazione funzionale tra inconscio e conscio: qualcosa che non è realizzabile "direttamente" con la classica interpretazione dei fantasmi inconsci. Se, come Freud ha intuito, il paziente psicotico non può creare l'inconscio, egli può nondimeno aderire cognitivamente al linguaggio (le rappresentazioni di parola). Questa adesione è molto fragile ed a volte può sfociare nei neologismi. Ciò non toglie che sia possibile aiutare il paziente a dare forma spontaneamente a pensieri e emozioni precedentemente precluse, tollerando le limitazioni che incontra in questo campo un approccio meramente interpretativo ed incoraggiando l'analizzando a far progredire la sua verità soggettiva verso forme di pensiero più organizzate e condivise. In questo modo l’analista può sostenere l’orientamento dell’analizzando psicotico a pensare la realtà come proto-funzione ‘onirica’ (Bion 1992) orientata ad organizzare l’esperienza, creando una membrana /barriera di comunicazione /differenziazione tra conscio e inconscio.
I pazienti psicotici pongono problemi scomodi per tutte le schematizzazioni del lavoro analitico che fanno riferimento ai luoghi comuni dell’ortodossia. Per fare un esempio, l’uso indiscriminato, spesso arbitrario, dell’interpretazione di transfert, usato impropriamente come cartina di tornasole dell’autenticità analitica della interpretazione, è sconsigliabile nella terapia delle psicosi– come nel nostro volume sottolineano i saggi di De Masi e di Lombardi. Per inciso andrebbe ricordato che il prestigio che gode l’interpretazione del transfert negli ambienti psicoanalitici ufficiali non è mai stata supportata da una ricerca empirica e che le poche ricerche empiriche che esistono a riguardo mostrano una relazione negativa tra l’alta frequenza di interpretazioni di transfert ed i risultati terapeutici (Crits-Christoph and Connolly Gibbons, 2002; Hoglend, 2004). Dei vari tipi di approcci psicoterapeutici centrati sulle necessità dei pazienti borderline, ovvero la Mentalization-Based Psychotherapy (MBP) promossa da Peter Fonagy, la Dialectical Behavior Therapy (DBT) promossa da Linehan e la Transference-Focused Psychotherapy (TFP) ideata da Otto Kernberg, solo l’ultima prevede una esplicita centratura sul transfert, perché intenzionalmente rivolta a pazienti meno gravi dello spettro borderline, mentre gli altri due tipi di interventi terapeutici sono orientati a migliorare, in primis, la regolazione emozionale e la capacità autoriflessiva (Munich, 2011).
Facciamo qui riferimento a questi approcci perché rimandano, pur nella loro significativa differenza, ad un tentativo di riorientare un approccio psicoanalitico alla luce delle necessità più urgenti presentate dal cosiddetto paziente difficile. In realtà noi crediamo nella possibilità di poter costruire un approccio analitico che includa delle modifiche sensate al trattamento classico per rispondere ai livelli di funzionamento a cui sono sensibili questi analizzandi: una modifica ai parametri tecnici tradizionali, che non solo non andrebbe considerata disturbante per una concezione rigorosa dell’analisi, ma che è destinata ad arricchirla e a renderla più al passo con le esigenze cliniche dei nostri tempi discriminando la specificità che è posta dall’elaborazione dei livelli più arcaici rispetto a quelli relazionali più evoluti. Considerato che “un approccio flessibile sul continuum supportivo-espressivo sia plausibilmente usato oggi dalla maggioranza dei terapisti orientati in senso dinamico” (Munich 2011), ci sembra impossibile pensare ad uno sviluppo della psicoanalisi – che sia realisticamente orientato ad includere la maggioranza dei pazienti, compresi quelli gravi, che accedono oggi ad un trattamento analitico – in assenza di un uso di flessibilità intelligente e motivata, che si costruisca a partire dall’osservazione clinica.
C’è d’altronde chi sostiene che un modello ortodosso di psicoanalisi classica non sia mai realmente esistito, o perlomeno che non sia mai stato usato clinicamente in modo estensivo per come si crede: malgrado questa realistica possibilità che vede nel ‘modello classico’ non molto di più che una fantasia, tale modello continua a dominare i discorsi psicoanalitici ufficiali e ad impregnare gli insegnamenti del training, ostacolando lo sviluppo di nuove tecniche e nuovi interventi terapeutici di carattere psicoanalitico (Fonagy, 2010; Luyten, Blatt, et al., 2012). Visto che coloro che non hanno ricevuto un training ortodosso sono più a loro agio con modalità tecniche nuove, c’è da chiedersi se non ci sia il rischio effettivo, paventato da Renik (2012), che il futuro della psicoanalisi debba essere assicurato da analisti estranei ai canali officiali di formazione o addirittura da professionisti che usino gli strumenti psicoanalitici senza riconoscere alcun legame con la psicoanalisi.
Kernberg (1975, 1992) ha valorizzato l’interesse della psicoanalisi per i casi difficili caratterizzati da un’area psicotica particolarmente espansa e la psicosi in genere, constatando come sia fittizio l’assunto che il trattamento farmacologico renda inutile la necessità di un approccio psicoterapeutico basato sulle conoscenze psicoanalitiche. Non solo è determinante il ruolo della psicoanalisi al trattamento e alla conoscenza della psicosi, ma egli parimenti sottolinea come l’esplorazione psicoanalitica della psicosi sia essenziale perché in grado di illuminare brillantemente anche la psicodinamica dei casi meno gravi.
La necessità di riorientare la nostra scienza verso una modalità fortemente esplorativa, aperta all’amore dell’innovazione, al senso del gioco (Winnicott, 1974 ), oltre che ancorata ad una base empirica, è stata recentemente ribadita da Luyten (2015), che ha sottolineato la necessità che gli psicoanalisti si interroghino, senza vergogna, sui capisaldi che reggono la psicoanalisi e che hanno sempre dato per scontati; altrimenti la rigidità e l’ortodossia, che ancora dominano certi suoi settori, potrebbero portare ad una caduta irrimediabile del movimento clinico ed intellettuale della nostra disciplina. Tra l’altro Luyten nota come i risultati terapeutici ottenibili in analisi provengano non tanto da specifiche modifiche indotte da interventi interpretativi, bensì da quanto l’analisi diventa capace di attivare una nuova capacità epistemologica del paziente ed un suo apprendimento sociale. Tutto questo ci pare particolarmente in linea con quanto noi riscontriamo nella clinica psicoanalitica della psicosi e in linea con lo spirito che abbiamo voluto attribuire alla selezione dei lavori che costituiscono questo libro: la psicoanalisi della psicosi si nutre in modo decisivo dell’apertura mentale dell’analista, della sua capacità di apprendere dal paziente e di un orientamento atto a favorire nell’analizzando un’espansione verso nuove esperienze, affiancandone la loro elaborazione.
Gli articoli che sono raccolti in questo volume vogliono dar ragione di una ricerca attiva sul versante della psicoanalisi della psicosi in un contesto diversificato di culture e di applicazioni. Abbiamo pensato di chiedere contributi a diversi autori italiani, europei e statunitensi che fanno riferimento a diversi orientamento psicoanalitici, ma che hanno in comune l’impegno pragmatico a confrontarsi con la psicoterapia psicoanalitica della psicosi. Pur nella diversità dei vertici, e talvolta della diversità di stile e di linguaggio, il lettore potrà cogliere un elemento comune nella matrice empirica ed esperienziale che è alla base di ogni singolo contributo. Prima di lasciare parlare i diversi autori ci fermeremo a dare una visione riassuntiva dell’insieme dei contributi, presentando in maniera molto concisa ogni singolo capitolo.
Lo psicoanalista francese Didier Houzel introduce nel primo capitolo la nozione di psicosi e di autismo nel bambino, invitando a diffidare delle semplificazioni etiologiche: semplicismi che possono facilmente scatenare reazioni di intolleranza da parte dei genitori di questi bambini, anche perché in passato son stati irragionevolmente accusati di una ‘anaffettività’ a cui fare risalire il disturbo del bambino. La psicosi del bambino va collocata, invece, in relazione ad un deficit di rappresentazione, che esclude che il soggetto disturbato sia mosso da una specifica intenzionalità. La psicoanalisi “non si occupa di ‘eziologie’ ma di ‘senso’ ”, sottolinea Houzel. Sul piano dell’approccio al trattamento va tenuto conto del contesto di realtà per avviare un lavoro psicoanalitico individuale con il bambino, per cui questo va concepito come un intervento “con la massima frequenza possibile e con la massima durata possibile”, al di là di ricette rigidamente precostituite. Ispirato dalla lezione di Frances Tustin, Houzel insiste sul valore di un intervento che lavori ai livelli della relazione contenitore-contenuto (Bion 1970), e quindi sul cosiddetto transfert sul contenitore (Houzel) come un livello più arcaico rispetto a quello indentificato da Melanie Klein come transfert infantile basato sulla identificazione proiettiva.
John Kafka, psichiatra e psicoanalista di Washington, DC, sviluppa il suo contributo sulla psicosi, ripercorrendo l’esperienza di Chesnut Lodge, una prestigiosa istituzione psichiatrica di Rockville nel Maryland, circa un’ora da Baltimora, che per molti anni ha offerto un trattamento residenziale ai pazienti gravi in linea con i principi psicoanalitici.
Le concezioni di Kafka sono in buona parte già note al lettore italiano attraverso il suo istruttivo volume ‘Le nuove realtà’ (Boringhieri 1992): titolo che forse non rispecchia del tutto le originali concezioni del suo autore, visto che suona diverso dal più significativo titolo originale Multiple Realities in Clinical Practice. Kafka considera l’importanza di un ‘sense of agency’ per il paziente grave, ovvero un senso di identità basato non solo per la sua capacità di interagire in modo costruttivo con la realtà esterna, ma anche sulla capacità di organizzare importanti aspetti del funzionamento interno come quello legato alla temporalità. Egli sottolinea il ruolo delle diverse concezioni sulla psicosi per cui essa può essere espressione di un deficit o di un conflitto: una diversità di prospettiva che impregna il contributo di autori storici come Ping_Nie Pao e Harold Searles. Determinante nell’esperienza del Lodge fu il ruolo di Frieda Fromm-Reichmann, che vi portò la sua unica capacità di calarsi in comunicazione con il paziente grave, rispondendo sia a livello della comunicazione psicotica che di quella non-psicotica.
Franco De Masi presenta un testo riassuntivo della sua esperienza personale di psicoanalisi della psicosi, partendo da una riconsiderazione dei casi di Alvise ed Ada (trattata da Paola Capozzi). Alvise presentava una ideazione psicotica che si mostrò in grado di regredire con l’analisi, ma si riaffacciò in occasione del confronto con la tesi di laurea, di fronte a cui il paziente reagì con il delirio che la CIA lo volesse rapire per portarlo negli Stati Uniti: una esplosione che sembra mostrare i connotati di un cambiamento catastrofico (Bion 1970), in cui il cambiamento della laurea e del mondo nuovo che si apre, appare vissuto come alieno alla personalità stessa del soggetto. De Masi attribuisce il riaffiorare della psicosi ad una carenza di analisi delle motivazioni inconsce alla base della costruzione del primo episodio psicotico, sottolineando questa sua ipotesi con affermazioni di Arieti e Searles. Lo studio del materiale dell’analisi di Ada permette a De Masi di ipotizzare come i sogni possano funzionare da predittori di una nuova esplosione psicotica. De Masi passa poi a considerare l’importanza degli stati di ritiri infantili, connotati da dissociazione dalla realtà, per la genesi delle successive situazioni deliranti del paziente adulto, il ruolo delle organizzazioni patologiche, in cui il paziente è soggiogato da una fascinazione sensoriale verso il piacere, e le peculiarità del transfert psicotico.
Riccardo Lombardi avvia il suo lavoro ridimensionando il significato di cura psicoanalitica della psicosi, che va svuotato del senso onnipotente di guarigione da una malattia: un dinamico equilibrio tra la parte psicotica e non-psicotica riguarda ogni persona, sana o malata che possa apparire da un punto di vista fenomenologico esterno. La schizofrenia e le psicosi gravi mostrano l’uso di una logica specifica da cui traspare il funzionamento logico dell’inconscio proprio ai livelli di profondità: l’elaborazione deve allora procedere nel senso di rafforzare la differenziazione ed il principio di realtà. Insieme ad una serie di ipotesi orientative psicoanalitiche di base per la comprensione della psicosi, Lombardi sottolinea l’importanza del ruolo svolto dai fenomeni di dissociazione corpo-mente nel favorire l’insorgenza di un chiaro disturbo psicotico: un breve caso clinico di trattamento analitico esemplifica la sua posizione. Se il compito più urgente di un intervento psicoanalitico della psicosi è di favorire una crescita dei fenomeni mentali, la mente ha bisogno di costruirsi su una continuità corpo-affetti-pensieri: non può esistere un’evoluzione verso il mentale che non passi per un riconoscimento del proprio corpo ed il rispetto delle matrici sensoriali del pensiero. Se la psicoanalisi presuppone sempre l’intersoggettività come sua condizione di base, l’elaborazione con il paziente psicotico va centrata sui bisogni primari di questo tipo di paziente a stabilire una comunicazione con sé stesso ed avviare fenomeni di percezione ed autocoscienza.
Mark J. Blechner partendo da una ricca e umanamente intensa esperienza di cura di pazienti psicotici acquisita da giovane terapeuta, sottolinea l’importanza del lavoro all’aria aperta e in un setting naturale. Per rendere più proficua questa impostazione, è necessario inventare una terapia specifica per ogni paziente, cercando di capire tutto quello che può coinvolgerli in una comunicazione significativa e di coinvolgimento emotivo.
Seguendo questa prospettiva, profondamente interpersonale, l’ascoltatore seleziona le sue risposte alle affermazioni dell’altro comunicante tenendo conto non solo del contenuto semantico ma anche delle altre dimensioni della comunicazione: il tono, l’emozione implicita e gli atteggiamenti. Il contributo del terapeuta al dialogo è significativamente modellato dalla risposta dell’altro. La strategia terapeutica che Blechner propone, è l’accordarsi dell’analista (che richiede una certa sensibilità e una capacità di ascolto attento) con la parte sana delle comunicazioni del paziente. Se il terapeuta si concentra sulla follia dell’altro, il dialogo sembra più folle e sale l’ansia di entrambi. Se, invece, il terapeuta risponde unicamente a ciò che è razionale e significativo nella comunicazione del paziente, il dialogo fa sembrare quest’ultimo più sano e può effettivamente renderlo più sano.
Stefano Calamandrei considera come causa principale del disturbo psicotico l’assenza di un filtro autoerotico alle intrusioni emotive da parte dell’oggetto. Al posto del filtro mancante i pazienti psicotici per tenere a debita distanza le stimolazioni emotive forti usano il diniego, le esternalizzazione di sé e l’investimento narcisistico nell’ambiente.
La realtà vissuta come un prolungamento di sé, sfocia a un investimento narcisistico che non è difensivo, ma la conseguenza della diffusione del soggetto nell’ambiente umano e non umano. L’indifferenziazione tra me e non-me, crea nel transfert un impedimento della holding reciproca e dell’attenzione fluttuante. L’analista vissuto come parte del mondo interno del paziente è oggetto di una relazione tirannica, soggetta a brusche variazioni. Ogni sua manchevolezza crea una profonda delusione, che non ha qualità di risentimento nei confronti di un oggetto esterno. La rabbia ha come vero bersaglio l’impotenza del paziente e produce un’intensa autosvalutazione.
Nella prospettiva di Calamandrei il transfert del paziente psicotico si sviluppa su due piani coesistenti. Il primo è manifesto: il ritiro autistico che crea una barriera insormontabile tra il paziente e l’analista. Il secondo, difficilmente rilevabile, è una dimensione simbiotica larvata: il mondo narcisistico del paziente è proiettato e depositato dentro l’analista e nel setting.
Per Sarantis Thanopulos la psicosi deriva dal crollo di un’area significativa dell'esperienza soggettiva nel rapporto primario con la madre. Il crollo avviene nel momento in cui l’esperienza sta per prendere forma e in condizioni favorevoli resta iscritta nella psiche come potenzialità. La tendenza della soggettività compressa e deformata a ri-espandersi, è, tuttavia, contrastata fortemente perché espone al rischio di ripetizione della catastrofe.
Una parte del paziente si mantiene sufficientemente viva e in grado di sognare. La configurazione dei fantasmi e l’interpretazione dei sogni è possibile, gratifica l'analista e sorregge la parte relativamente sana del paziente. Nondimeno, più rigoroso è il lavoro interpretativo, più i conti non tornano: tra la prospettiva dell'analista e la verità del paziente che non trova una forma adeguata per esistere, si apre una profonda divaricazione che la configurazione del fantasma (che resta beante) non può sanare.
La tensione tra la verità interpretativa e la verità del delirio, con cui il paziente cerca di colmare lo spazio della divaricazione, aiuta la verità soggettiva del paziente a trovare una via di accesso alla realtà e prendere forma. Questa verità trova la sua prima espressione indiretta nella destabilizzazione dell'assetto mentale e emotivo dell'analista. Solo se l’analista parla dall'impronta che il discorso del paziente lascia in lui, destabilizzandolo, può riconoscere l'emergente esperienza soggettiva del paziente (precedentemente preclusa) e permetterle di esistere e prendere forma per la prima volta.
Il "rovescio di pensare" è l'espressione sintetica usata da Giuseppe Civitarese per indicare il grande contributo di Bion dato alla comprensione del tipo di pensiero che caratterizza il funzionamento psicotico. Questo modo di pensare è caratterizzato da attacchi al legame dei pensieri onirici nel processo di sognare e pensare, e di conseguenza dall'attacco al processo di attribuizione di significato all'esperienza (funzione alfa). Il "rovescio di pensare" è il risultato dell'introiezione da parte del neonato o del bambino dell'incapacità della madre di contenerne lo stato emotivo, e si basa sul meccanismo fine delle cosiddette trasformazioni in allucinosi ( TA), che, per Bion, sono appannaggio, a secondo della loro entità, non solo dei pazienti gravi, ma anche della parte psicotica della mente di ciascuno.
Una vignetta clinica mostra come la rêverie dell'analista realizzi la disponibilità di quest'ultimo a sognare il sogno non sognato della paziente ed in questo modo "permettere all'O della seduta di evolvere: andare oltre l'identificazione conscia, la comprensione, la mera analisi dei fatti".
Secondo la personale rilettura di Bion fatta dall'autore "la comprensione della psicosi, del rovescio di pensare è basata su una teoria radicalmente sociale del soggetto", e perciò, l'analista deve lavorare più sui contenitori psichici, sullo sviluppo di pensare e di contenere /alfabetizzare le emozioni, che non su pensieri ed emozioni come contenuti in sé.
Secondo Thomas H. Ogden assistiamo, nella psicoanalisi contemporanea, ad uno spostamento dell'attenzione da ciò che il paziente pensa, e quindi dalla comprensione del significato simbolico dei sogni, del gioco e delle associazioni, al modo in cui il paziente pensa, e quindi all'esplorazione dei processi del pensare o del giocare.
L'adozione nel lavoro clinico di questo spostamento di enfasi porta l'Autore ad individuare tre forme di pensiero: il pensiero magico, il pensiero onirico ed il pensiero trasformativo. Attravero due illustrazioni cliniche, Ogden mostra come queste forme di pensiero non esistano mai in forma pura, coesistano, si creino vicendevolmente e siano in relazione dialettica l'una con l'altra.
Il pensiero magico sovverte il pensiero autentico e la crescita psicologica, sostituendo ad una realtà esterna perturbante una realtà inventata. Per contrasto, il pensiero onirico – "la nostra forma di pensiero più profonda" – comporta l’osservazione di una esperienza emozionale da molteplici prospettive simultaneamente: per esempio, le prospettive di pensiero nei processi primari e secondari, del contenitore e del contenuto, del sé infantile e del sé maturo, e così via. Infine, nel pensiero trasformativo, che richiede sempre le menti di almeno due persone, si crea un nuovo modo di ordinare l’esperienza che consente di generare tipi di vissuto, forme di relazione con l’oggetto e qualità della consapevolezza del proprio essere vivo (aliveness) che prima erano inimmaginabili.
I sogni di un analizzando in prossimità di periodi di vacanze analitiche offrono l'occasione a Luigi Rinaldi di riflettere sul rapporto tra sogno e psicosi ed in particolare sulla vexata questio della presenza, della qualità e della funzione dei sogni negli stati psicotici.
Ciò che emerge dalla sua esperienza clinica e dalla sua analisi della letteratura è che, quando il processo psicotico non è in fase acuta e non ha invaso l'intera struttura psichica, si è capaci di sognare. In questi casi, però, il fallimento parziale o totale del lavoro del sogno, riconducibile ad una carenza nella formazione del simbolo ed al pensiero concreto, non porta ad una sufficiente metabolizzazione dei residui diurni, e quindi non conduce all'esaudimento di desideri rimossi ed a proteggere il sonno da assalti pulsionali o della realtà esterna.
E' comunque preservata la funzione del sogno di rappresentazione del Sè e dei suoi tentativi di integrare le esperenze emozionali attuali e quelle passate, comprese quelle immagazzinate nella memoria non verbale. Per tale motivo, la regressione onirica può giungere ad illustrare un deficit di integrazione tra corpo e psiche, e le vicissitudini transferali possono essere rappresentate in termini sensoriali e fisici. Si tratta, in questi casi, di rappresentazioni che derivano dalla riattualizzazione, operata dalla psicosi, di quel registro pittografico (Aulagnier, 1975), che riflette specularmente le più antiche esperienze relative alla relazione primaria, e descrive come questo "processo originario" possa essere una specie di preforma dei successivi fantasmi di frammentazione, annientamento e perdita dei confini dell'io.
Secondo Paul Williams l’organizzazione patologica di tipo psicotico opera in parallelo con la parte non psicotica, controllandola e contrastandola. Ciò può creare una confusione che circola più in profondità di quanto si percepisce a partire dal discorso verbale e dal comportamento. Quando l’organizzazione patologica è predominante, i sentimenti contrastanti e i dubbi che sono prerogativa della parte non psicotica della personalità, non sono tollerati. Sono accettate solo le certezze che scaturiscono da fantasie sessuali e aggressive non elaborate.
Il compito principale dell’analista è quello di rendere la comunicazione intellegibile, differenziando nel transfert e nel controtransfert le istanze non psicotiche del paziente dalle loro sistematiche deformazioni psicotiche. L’analista prestando attenzione a entrambi i modi di comunicare e pensare del paziente, può introdurre quanto ha compreso nella mente non psicotica del paziente con la stimolazione di uno spirito di curiosità ed interesse. Opera, nella sostanza, una triangolazione tra la parte sana del paziente, la parte arrabbiata di lui e l’’impatto di queste oscillanti posizioni sulla relazione con l’analista. Può aprire in questo modo uno spazio di esplorazione congiunta delle esperienze polarizzate del paziente e dare sbocco a un’espressione autentica dei sentimenti. Col tempo, può diventare possibile un doloroso processo di svincolo dalla pseudo-protezione offerta dall’organizzazione patologica.
Nella quarta parte del volume è affrontato il problema dell'interazione tra psicoanalisi e psicofarmacologia nella cura delle psicosi.
Ira Steinman ci presenta un approccio in cui è lo psicoanalista (che è anche psichiatra) a gestire all'occorenza anche l'aspetto psicofarmacologico, attraverso un uso moderato di farmaci nelle fasi acute, allorquando l'angoscia è dilagante ed impedisce qualsiasi lavoro psicoterapeutico, per poi ridurre progressivamente le dosi di farmaco, man mano che i pazienti imparano a controllare i processi psicologici che prima apparivano incomprensibili e terrorizzanti.
Attraverso due casi clinici egli mostra come il trattamento proceda con l'abituale analisi psicodinamica degli eventi del passato, dei fenomeni di transfert e controtransfert e degli stati affettivi nel periodo in cui si sono sviluppati i sintomi. In questo modo Egli aiuta i pazienti a capire i significati simbolici, da loro assegnati ad allucinazioni e deliri, e ad individuare gli eventi traumatici che hanno portato alla frammentazione ed alla psicosi. A tal fine è indispensabili, a suo parere, che il terapeuta arrivi a quello che Harry Guntrip definisce "il cuore perduto del Sé", e sia convinto che è possibile "sbucciare la cipolla" e arrivare all'origine dei fenomeni psicotici più bizzarri ed estremi.
Col suo articolato contributo sul rapporto tra trattamento farmacologico e psicoanalitico nei disturbi psicotici, Giuseppe Martini mira a riempire il vuoto derivante dal fatto che questo tema, sebbene di enorme importanza, non è particolarmente ricorrente nelle riviste di psicoanalisi.
Nel suo sguardo alla letteratura Egli valorizza i contributi degli Autori che hanno auspicato la fondazione di una disciplina, la psicofarmacologia psicodinamica, che riconosce il ruolo centrale che il significato e i fattori interpersonali rivestono nel trattamento psicofarmacologico. Accettando questa premessa, si può concludere che i pazienti in analisi che assumono farmaci, anziché essere preda di appiattimento emotivo e "dehumanizing experiences", come si credeva negli anni "80, possono trarne un potenziamento dell'insight e della capacità di ricordare i loro sogni, e sono aiutati a ricompattare la frammentazione dell'Io, e in generale a partecipare maggiormente ad un'esperienza analitica, che, in assenza di farmaci, sarebbe per loro impossibile. L'autore si sofferma poi su questioni di teoria e di metodo per stemperare le premesse di una possibile prassi contraddittoria tra le operazioni psicoanalitiche volte ad esplorare la valenza simbolica che ha il sintomo, per promuoverne l'aspetto trasformativo – elaborativo, e la finalità "riduttiva" della psichiatria, tesa a ridurre l'entità del sintomo sino possibilmente a farlo scomparire, in quanto segno di un disturbo mentale. Quindi discute delle trasformazioni emozionali, relazionali e transferali conseguenti all'uso del farmaco, ed infine illustra, attraverso vivaci esempi clinici, indicazioni e controindicazioni del setting unificato (in cui lo psicoanalista prescrive anche i farmaci) e del setting separato (in cui all'analista si affianca lo psicofarmacologo) nelle psicosi acute, nelle schizofrenie e nei disturbi bipolari.
0 commenti