All’inizio di Marzo è stato pubblicato su Pnas (organo ufficiale dell’Accademia Nazionale delle Scienze Statunitense) un lavoro intitolato “Reddito e benessere emotivo: un conflitto risolto”. Il lavoro è firmato da Matt Killingsworth, ricercatore della Wharton School (Pennsylvania) e da Daniel Kahneman psicologo israeliano. Il primo studia la natura e le cause della felicità umana e la relazione tra denaro e felicità. Dirige un progetto di ricerca che usa smartphones per studiare la felicità nella vita quotidiana in tempo reale. Il secondo ha vinto il Nobel dell’Economia nel 2002 per le sue ricerche sul rapporto tra psicologia e finanza e sulle decisioni in condizioni di incertezza.
Inizialmente i due studiosi erano in disaccordo: secondo Killingsworth il benessere emotivo – che entrambi identificano con la felicità- aumentava linearmente con l’aumento del reddito; secondo Kahneman l’aumento si appiattiva quando si arrivava a un reddito di 60.000 – 90.000 dollari. Una re-analisi congiunta dei risultati delle loro ricerche ha risolto il loro conflitto. L’aumento della felicità raggiunto un determinato reddito si ferma, ma solo nella parte meno felice della popolazione. È, invece, costante nella sua parte felice e accelera perfino nella parte più felice.
Dire che i soldi portino felicità è un luogo comune, come lo è anche l’affermazione contraria. I luoghi comuni sono credenze che riproducono convenzioni sociali di interpretazione della realtà e accordano le impressioni superficiali, semplicistiche sulla vita all’ideologia del potere. Quando ai luoghi comuni si vuole dare parvenza scientifica, si ricorre alla forma più insidiosa dello “scientismo”: l’equiparazione di uno strumento (il calcolo algoritmico) al metodo scientifico e delle procedure di indagine al risultato ottenuto. Il calcolo esatto e rigoroso di quantità non approda a nulla di sensato se ai ricercatori non è chiaro il punto di partenza, né l’oggetto su cui stanno indagando.
Come si potrebbe definire la felicità con parametri misurabili esterni alla nostra soggettività? Il mondo è pieno di persone di buona volontà che quando stiamo male ci consolano dicendo che non ci manca nulla per essere felici. Solo per farci sentire ancora più soli e non visti. Se poi si equipara la felicità al benessere emotivo, la confusione è garantita. La felicità è un sentimento, niente affatto una percezione oggettivabile, di piena corrispondenza tra la vita dentro di noi e la vita nel mondo esterno. Questo sentimento, che non è mai dissociato dal lutto e dalla sofferenza, non è mai ingannevole, perché nel nostro intimo sappiamo sempre distinguere tra ciò che è vivo e ciò che non lo è, nonostante le pratiche di eccitazione e le nostre auto-seduzioni mentali. La felicità non la si può trattenere, non è di nostra proprietà, non ne disponiamo come, quanto e quando ci pare e piace. Ci sfugge dalle mani se miriamo ad una sua appropriazione concreta.
Il “benessere emotivo” è definito e usato in modo fuorviante. Dovrebbe significare lo stare dentro le proprie emozioni (di qualsiasi natura esse siano), la capacità di sedimentarle, comprenderle, elaborarle. Il vivere e non eliminare i contrasti che creano, l’attraversare lo spazio delle loro contraddizioni. Si straparla, invece, di benessere emotivo per indicare il senso di sicurezza e i sentimenti positivi come obiettivi calcolabili da perseguire.
Killingsworth vende in giro per il mondo l’idea che per essere felici bisogna restare nel presente. È uno dei tanti apostoli di una prospettiva sulla felicità fondata su un essere umano unidimensionale sul piano del tempo. Essa ci libera del passato (la storia vivente in noi) e del futuro. Esclude il desiderio (che ha memoria, insegue l’attimo e dialoga con l’inatteso) e punta sul bisogno: l’appagamento “qui e ora”, la perpetua ricerca del sollievo che vive alla giornata. Com’è felice la società dei consumi.
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