Cari Edoardo e Francesco,
ho sempre qualche remora ad imbattermi in testi che possano ispirarsi ad una sorta di sistematizzazione, di ricerca del “cosa è”, del discorso fenomenologico, soprattutto quando questo si declina nella clinica, sia essa psicopatologica che psicoterapeutica. Mi sovvengono sempre in mente le parole della Bakewell nel testo “Al caffè degli esistenzialisti”, che raccontano di un Jaspers che: “Scrisse una lettera di ammirazione a Husserl, confessando però di essere ancora incerto su cosa fosse veramente la fenomenologia. Husserl gli rispose: «Lei usa già i metodi suddetti. Prosegua così. Non ha bisogno di sapere che cosa è la fenomenologia. Si tratta infatti di una cosa difficile». In una lettera ai genitori, Jaspers avanzò l’ipotesi che nemmeno Husserl sapesse cosa fosse la fenomenologia.”
Ogni tentativo di ingabbiare il discorso fenomenologico all’interno di una cornice mi è sempre apparso come un tentativo di fuga dalle “cose stesse”.
Questa premessa, che mi sembra utile per evidenziare il mio pormi su qualsivoglia discorso fenomenologico, lascia anche emergere una sorta di mio pregiudizio su quanto si possa dire in merito alla fenomenologia e non solo. Nonostante quanto detto, questo non mi ha impedito, facendo epochè, di lasciarmi attraversare dalle parole del vostro testo dal titolo audace: La cura fenomenologica. Potrei anche dire che ho provato intenzionalmente a divenire cosa che sente, come voi avete raccolto dalla filosofia di Mario Perniola declinata come “farsi sentire”.
La sorpresa, nel disporsi in epochè, è sempre dietro l’angolo; tutto, anche quello che può apparire ovvio, assume un sapore nuovo, vivido e vivace. Ed allora scorgo tra le righe, la fatica e il sudore, di chi per anni ha cercato di raccogliere nella pratica clinica le coordinate entro cui porsi per esser-ci con l’altro essendo utile, e si ritrova, ad un certo punto, a renderlo alla comunità come esperienza di cui poterne fare uso.
Sono stato catturato dall’attenzione con cui autori come Calvi, Husserl, Heidegger, Di Petta, Perniola, Binswanger, Jaspers, Charbonneau, Mortari, Piro, Costa, Scheler, Blankenburg, Sartre, Merleau-Ponty, Paci, Gander, Bignamini, Camus, Galimberti, Leoni, Kimura, Boss, Borgna, Bachelard, Barison, Minkowski, Pastore, Stein, Stanghellini ed altri sono stati usati, come portatori di discorsi che si intrecciano in una fitta rete, dispiegandoli lungo la via del percorso di cura, del paziente chiamato Aldo.
Diceva Carlo Sini, nel titolo di un suo lavoro, “Il metodo e la via”, aggiungerei sostituendo alla congiunzione l’essenza, che il metodo è la via; proprio attraverso l’epochè ci si allontana da sé per essere per l’altro. Un percorso, quello scelto da voi, per delimitare il fare fenomenologico nella prassi clinica, che trova nella cura radici, radicamento e ramificazioni.
Aldo si ritrova ad essere non l’oggetto della cura ma il soggetto di cui aver cura. Ritrovandovi disposti a divenire sentire mentre intenzionate il suo mondo e il suo vissuto. Alla ricerca di quella “trovata”, per dirla alla Binswanger, che permetta l’incontro al di là della collocazione diagnostica. Praticando continuamente quegli esercizi fenomenologici tanto cari al Maestro Calvi; accingendovi tra metafore e sogni, nei pressi della svolta (Kehre) che allarga gli orizzonti permettendovi, curato e curante, di andare oltre; chissà, forse verso il fine cura.
Sono talmente “coinvolto” da questo discorso che quasi mi lascerei dentro il “farsi sentire”, ma non sarei più nella mia intenzionale epochè.
Edoardo e Francesco siete, a mio avviso, riusciti a mostrare una via percorribile, che vede nel metodo fenomenologico, troppo spesso rivolto a rivelare una struttura psicopatologica, l’utilizzabilità per quella svolta nel divenire curanti.
Lascerò questo testo, “la cura fenomenologica”, nella mia libreria e porterò il sentito nella mia pratica di clinico orientato fenomenologicamente.
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