Percorso: Home 9 Clinica 9 Recensione a “La potenza delle immagini di Antonello Correale”

Recensione a “La potenza delle immagini di Antonello Correale”

10 Nov 21

Di

Ci sono temi, in psicoanalisi, in cui è arduo addentrarsi, poiché da un lato sembra si sia detto tutto ed esiste già un’amplissima letteratura, dall’altro resta elevato il margine di sconosciuto e di mistero; uno di questi temi, è la psicosi. Il libro di Antonello Correale riesce invece – ed ha il grande merito di riuscirci con un linguaggio competente ma semplice, chiaro, a tratti persino colloquiale – ad addentrarsi nel pianeta in fondo sempre estraneo della psicosi consentendo al lettore, psicoanalista, psichiatra ma anche operatore psichiatrico di vario livello, un viaggio di ricerca appassionato, in cui rivedere alcuni dei fondamentali per riconsiderali alla luce delle ipotesi nuove che l’autore propone, derivate da una lunga esperienza sia clinica sia frutto di riflessione teorica.

Il libro si compone di due parti, e tredici capitoli in tutto. La prima parte, quella che Rossi Monti nella bella introduzione definisce la “più nuova e originale” contiene una lettura personale dell’autore, una sua proposta potremmo dire eziopatogenetica sull’origine della psicosi o perlomeno di alcune forme di psicosi schizofreniche, mentre la seconda parte è dedicata prevalentemente al disturbo borderline e alle istituzioni di cura. Sebbene alcuni dei capitoli siano stati originariamente scritti per riviste straniere e altri, quelli in chiusura sulle comunità e i borderline, tratti direttamente dalle supervisioni ai gruppi, il testo risulta assolutamente armonico, e anzi coerentemente forte di una tesi comune, di un fil rouge che lo percorre tutto e che giustifica il suggestivo titolo La potenza delle immagini: psicosi, disturbo borderline, trauma hanno qualcosa in comune nell’ipotesi dell’autore. Ma che cosa le accomuna, al di là dell’espressività del sintomo, della gravità e dell’apparenza clinica?


 

I capitoli su allucinatorio e originario, che occupano la prima metà del libro, sono scritti in grande dettaglio, e su questi mi soffermerò maggiormente; le forme psicotiche di cui Correale parla sono soprattutto quelle dette ‘paucisintomatiche’ (Blankenburg, 1998), probabilmente le più frequenti.

L’ipotesi fondante del testo è contenuta nella prima parte, che come detto punteggia però tutto il discorso, intorno ai di termini centrali di allucinatorio e originario. Partendo dalla definizione di pittogramma di Aulagnier (1975), l’originario è definito come quel primo, fondamentale contatto tra una zona erogena dell’infans e un oggetto che la stimola. Queste forme percettive ipercondensate, che altri autori chiameranno diversamente (i ‘significanti formali ‘di Anzieu, (1987), ad esempio) hanno conosciuto, nel bambino futuro psicotico, un impatto, un destino particolare: l’incontro sensoriale con l’altro diventa lacerazione, collisione, bombardamento.

E’ molto importante sottolineare, anche per le sue conseguenze cliniche e tecniche, che l’originario non coincide con l’implicito (è con questo ‘dibattito’ che si apre il libro) poiché quest’ultimo non prevede la presenza di seppur minimi livelli di rappresentazione, mentre l’originario sì. Ne consegue una precisa scelta di campo dell’autore in favore dell’originario e perciò dell’atto interpretativo, pur modulato e graduale in pazienti così gravi, come atto principe della psicoanalisi, laddove si riconosce sempre una rappresentazione che va, lentamente, riportata alla luce e alla consapevolezza.

Il tema dell’originario si intreccia inevitabilmente con quello, ad esso complementare in questa visione, dell’allucinatorio. Il concetto di allucinatorio, che sembra un’utile espansione del modello dei Botella (2001) di ‘raffigurabilità psichica’ e di ‘allucinatorio post-traumatico’, è invocato dall’autore come un eccesso, un’iperplasia di sensorialità tutte le volte che, in quella che diventerà la futura esperienza psicotica, si ha ‘il collasso della presenza’; “si ha il collasso della presenza tutte le volte che l’oggetto ha caratteri di enigmaticità. Il collasso della presenza ipersensorializza, sulla scia anche del contributo della fantasie originarie. La ipersonsarializzazione comporta un’attivazione di un’area della mente scissa e autonoma, che paralizza e terrorizza “(p. 69). Concetto derivato dall’ “apocalisse della presenza” di De Martino (1948), con esso Correale vuole intendere non solo le crisi psicotiche ma tutte quelle situazioni in cui viene meno il senso dell’esperienza soggettiva, quali certe depersonalizzazioni isteriche, o abusi di sostanze, tutti stati in cui si entra in un funzionamento di tipo allucinatorio. Il concetto quindi di allucinatorio, che possiamo considerare metapsicologico, usato come centrale per le psicosi, ha il merito di essere estensibile, nell’ottica proposta da Correale, in una gamma di situazioni cliniche che investono l’essere umano nella sua variegata esperienza traumatica, in cui cambia la sintomatologia, ma è comune la radice e dunque può accomunarsi l’approccio clinico.

Correale introduce il lettore in un universo umbratile, affascinante e misterioso, agli albori della vita psichica, “il dramma della soggettività”, dove si intersecano i primissimi contatti con l’oggetto e l’elemento costituzionale proprio di ciascun infans, quello che Freud chiamava ‘il fattore quantitativo’ all’interno delle serie complementari, il bagaglio pulsionale di ognuno, il legame ancora cosi profondo con il corpo e con il corpo dell’altro, di questo primo altro (madre, padre, ambiente) che così spesso nella psicosi è stato eccedente, seduttivo, occlusivo, eppure carenziale al tempo stesso. Conseguenza tragica, sul piano metapsicologico, di questa ipersensorializzazione, sarà che essa impedirà il normale meccanismo della rimozione, consentendo invece solo il rigetto (Verwerfung) (Freud, 1914) o forclusione (Lacan, 1955), in cui l’apparato psichico viene privato della rappresentazione; psicosi e nevrosi si distinguono strutturalmente, come è noto, per la presenza o meno del meccanismo rimovente che in più punti, ripercorrendo il testo freudiano del 1915, Correale ripropone nel libro, come meccanismo centrale per comprendere il suo discorso. L’ipersensorialità dell’allucinatorio uccide, fa fuori la rimozione, e dunque la possibilità di vivere in un contesto simbolico. Dal punto di vista della rimozione (rimozione originaria, concetto fondante nel testo) l’allucinatorio si può anche ritenere il fallimento totale o parziale della rimozione: la mente non è protetta, la mente è invasa e, in assenza di rimozione, prevalgono le scissioni.

Potremmo dire che il messaggio enigmatico a cui questo infans non riesce a fare fronte, non è a nostro avviso un messaggio enigmatico speciale, ma è molto più enigmatico di quanto già normalmente non sia il messaggio che il sessuale adulto rappresenta fisiologicamente per l’infans all’interno della seduzione originaria (Laplanche, 1991): siamo sempre travolti da un’eccedenza, venendo al mondo, ogni essere umano ha davanti l’enorme incombenza di tradurre un messaggio sessuale inconscio all’adulto stesso, seduttivo per asimmetria, che ritroveremo come sappiamo nella cura, ma che nella psicosi è stato enigmatico all’eccesso, ipertrofico, spaventoso, assolutamente intraducibile. Quello che è assai originale nella proposta di Correale è che egli non si limita a dire questo, ma conferisce una forma sensoriale a tale enigmaticità: il visivo. La psicosi, a cui allinea anche il trauma e per certi versi il feticismo inteso in senso allargato, sarebbe la psicopatologia in cui prepondera il visivo, l’eccedenza del particolare estratto dalla scena visiva sensoriale che, fissata, registrata nella memoria, assilla da lì in poi sensorialmente il soggetto psicotico. Ne consegue l’ulteriore passaggio importante di distinguere allucinatorio da allucinazione, per come classicamente intesa. Correale muove una critica puntuale su come il sintomo allucinatorio sia stato trattato dalla clinica psichiatrica tradizionale, ossia unicamente come un’ evacuazione, con un significato unicamente espulsivo; si è accentuato, anche in certa parte della psicoanalisi , questo aspetto evacuativo dell’allucinazione, il buttar fuori, l’esternalizzare; in tal senso l’autore non condivide la visione kleiniana di un’identificazione proiettiva unicamente espulsiva, recuperando invece l’idea freudiana dell’allucinazione come proiezione e l’iperbole bioniana, in cui qualcosa viene espulso ma può anche tornare indietro. L’espulsione è certamente vera e clinicamente nota, ma opportunamente l’autore rileva come tale lettura di un sintomo così complesso sia insufficiente: anche nell’evacuare, c’è sempre qualcosa che rimane, l’immagine (visiva) che il soggetto voleva eliminare resta in parte indisturbata, non se ne va. L’allucinazione, diversamente da quanto avviene nella psichiatra attuale, non va estirpata ma ripercorsa a ritroso perché essa rappresenta l’esito, lo sbocco sintomatico, quel che il paziente è riuscito a fare, per organizzare e mettere ordine, infine, all’incombenza dell’ allucinatorio; l’interessante proposta tecnica di Correale è pertanto di ripercorrere la strada del sintomo all’indietro, dall’allucinazione all’allucinatorio, dal derivato alla sua fonte inconscia. Ma come fare questo? Il suggerimento di Correale è di lavorare, analista e paziente insieme, l’immagine come un quadro, procedere lentamente chiedendo dettagli al paziente, aprire a significati, non interpretare subito il contenuto ma la sensazione (duro, molle, forte, amaro…), allargando la percezione eccessiva e occludente del paziente ad un linguaggio condiviso. L’ipotesi suggestiva, è che l’allucinatorio possa costituire, per lo psicotico, una sorta di via regia all’inconscio come il sogno lo è per il nevrotico.

Merito di Correale è aver saputo tenere insieme intorno al non facile e tuttora dibattuto tema delle psicosi, una sua importante ipotesi centrale, corredata da un’ampia letteratura che ha per solido impianto Freud (soprattutto la teoria della rimozione e l’inconscio del 1915, ma non solo), e vede intrecciarsi il pensiero francese (Aulagnier, Anzieu), Bion e Winnicott, alcuni italiani che si sono occupati di psicosi quali De Masi, le neuroscienze, la fenomenologia, ma anche la letteratura e la clinica, consapevole che il mistero della psicosi, che da sempre affligge l’umanità e la interroga, non è racchiudibile in una sola teoria. Tuttavia, a me pare che il fil rouge a lui più vicino, e che ha saputo trasmettere molto efficacemente, sia tutta la teorizzazione freudiana metapsicologica sulla rimozione e i concetti di pittogramma ed eccesso di Aulagnier per come descritti in La violenza dell’interpretazione (1975), uniti a una concezione clinica sul campo, vivace, vissuta, amalgamata alla teoria di modo che il lettore avverta l’esperienza viva e la sensibilità dell’autore lungo tutta la sua riflessione.

Molto suggestivo il capitolo di passaggio tra le due parti, circa la possibilità della relazione d’amore nello psicotico. Ci si domanda: si tratta di una relazione possibile, quella che già, per tutti noi, è spesso inconsciamente evitata poiché l’incontro del desiderio con il suo oggetto ci espone a pericolose regressioni (Donnelly, 2012), ai capricci sempre imprevedibili dell’altro? Con parole poetiche, Correale descrive come il soggetto psicotico, imprigionato in un’immagine materna invadente e ipersensorializzata, incapace a fare lutti, è come se aspirasse solo a relazioni, d’amore o di amicizia, senza tempo, senza finitezza, quale quella a cui la madre lo avrebbe illuso; è perciò che questi pazienti amano stare in posti stabili, routinari, i reparti ospedalieri, le comunità. Sono temi aperti e senza una sicura risposta, e forse i termini umani e poetici, cari all’autore, sono i migliori con cui affrontarli.

La seconda parte del libro si occupa del disturbo borderline, cercando di trattare la discussa questione del ‘nucleo psicotico’, delle isterie personali e collettive, e si conclude con una riflessione sulle istituzioni e le sue ‘pieghe’, ambiti di lavoro in cui Correale ha lunga esperienza.

E’ da segnalare, in questa parte, l’opportuna distinzione tra disturbo borderline e stato limite, due concetti che, anche in psicoanalisi, spesso vengono confusi per la loro somiglianza clinica. Mentre il borderline costituisce disturbo a sé, dalle caratteristiche ben note e disturbanti per gli operatori che se ne occupano, che non ha legami con la psicosi ed è conseguenza di una storia traumatica, lo stato limite è da leggersi nell’accezione data da Green (1990), capace invece di evolvere in psicosi o con nuclei psicotici, molto vicino all’area dei disturbi narcisistici. La loro utile distinzione diagnostica rende anche distinto il trattamento; per il borderline, si tratterà sempre, come per l’allucinatorio, di rintracciare a ritroso il trauma, anche apparentemente minimo del paziente. Si tratta sempre di un agire terapeutico, anche col paziente cosiddetto ‘grave’, che ha fiducia nella parola, nel tempo, nelle risorse del paziente, e nello strumento psicoanalitico. Il lettore incontrerà, via via che si avvicina ai capitoli conclusivi, un tono colloquiale, in cui l’autore si rivolge al gruppo degli operatori di una Comunità che possiamo intendere come immaginaria, come ogni Comunità: si rivolge alla loro fatica, ma anche alla loro voglia di capire. Una riflessione sull’istituzione chiude il testo: l’istituzione con i suoi interstizi pieni di depositi inconsci, di spinte gregarizzanti e passivizzanti ma anche, talvolta, vitali. Sarà l’istituzione, si domanda Correale, capace di rinnovarsi, capace di tollerare l’après-coup, cioè usare la capacità della mente di tornare su una scena, su un fatto e risignificarlo, darne un significato nuovo, evitarne così la cristallizzazione e il conformismo?

L’invito del testo credo sia racchiuso nella fiducia, perché questo accada, nel metodo psicoanalitico, anche nei territori impervi e ipersensorializzati della psicosi, del borderline, e del trauma

Bibliografia

Anzieu D. (1987): I significanti formali e l’Io-pelle. In: D. Anzieu et al. Gli involucri psichici, Masson, Milano, 1997

Aulagnier P. (1975): La violenza dell’interpretazione. Dal pittogramma all’enunciato .Borla, Roma, 2005

Blankenburg (1991): La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Cortina, Milano, 1998

Botella C. e S. (2001): La raffigurabilità psichica. Borla, Roma

De Martino E. (1948): Il mondo magico: prologomeri a una storia del magismo. Einaudi, Torino

Donnelly D. (2012): The function of suffering as portrayed in ‘The scarlet letter’ and reflected in clinical work. Journal Amer. Psychoanal. Ass., vol. 60, n. 6

Freud S. (1914): Caso clinico dell’uomo dei lupi. OSF, 11, Boringhieri, Torino

Freud S. (1915): La rimozione. OSF, 7, Boringhieri, Torino

Green A. (1990): La follia privata. Psicoanalisi degli stati limite. Cortina, Milano, 1991

Lacan J. (1955): Il Seminario. Libro III. Le psicosi. Einaudi, Torino, 2010

Laplanche J. (1991): Elementi per una metapsicologia. Borla, Roma

 

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia