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RECENSIONE A “Psicoterapia come esperienza umana. Anti-manuale per giovani terapeuti”

8 Apr 22

Di admin
I corsi di laurea in psicologia sono enormemente aumentati negli ultimi decenni, in ogni zona d’Italia. Secondo il dato riportato dal CNOP (Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi), nel 2020 erano iscritti agli Ordini professionali delle varie regioni ben 117.762 colleghe e colleghi; nel 1994, erano soltanto 22.989. Si sono dunque quintuplicati in questi anni.  

Se prima di questa data gli psicologi si trovavano scaraventati nel mondo del lavoro, spesso in istituzioni pubbliche nelle quali prendersi cura di situazioni estremamente complesse e gravi, ora un’enorme schiera di psicologi si trova lasciata nel limbo del precariato, dell’incertezza per il proprio futuro, persino nella disoccupazione. Gli psicologi lavorano in contesti diversi, anche molto diversi dalla loro formazione da studenti: operano spesso come educatori in strutture residenziali oppure come insegnanti di sostegno; le psicologhe fanno le insegnanti, a volte si dedicano ampiamente al ruolo di mamme quasi a tempo pieno molto più per carenza di opportunità professionali anziché per scelta. La formazione come psicoterapeuta diventa dunque spesso un modo per tentare di sopravvivere economicamente ma anche una via per rilanciare il desiderio di saperne di più a livello teorico e il desiderio di vedere la pratica clinica cui aspiravano anni prima, quando studiavano all’Università e apprendevano dai docenti e dai testi da loro proposti nelle bibliografie d’esame.  

 



 

 

Credo sia questa la premessa fondamentale dalla quale trae origine la nuova pubblicazione di Marco Nicastro, psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico dotato di una certa esperienza, uomo di lettere e di cultura, niente affatto privo di un’apertura verso altre prospettive psicoterapeutiche e verso territori artistici e poetici. Un breve testo, un pamphlet, composto di una sintetica premessa e di tre parti relativa ciascuna a uno dei tre momenti, evidentemente non soltanto cronologici ma anche logici, della cura: fase iniziale, fase centrale e fase conclusiva. Un testo gradevole, scritto in modo piano, che si legge agevolmente e piacevolmente. Si rivolge espressamente a giovani psicoterapeuti, ad allievi di Istituti di specializzazione in psicoterapia ma pure a giovani psichiatri alle prese con l’avvio della propria esperienza professionale che non può non essere pure un’avventura umana. Consta di poche decine di pagine e – dettaglio che non guasta considerando il già citato precariato di coloro cui si indirizza –  ha un prezzo assolutamente abbordabile. 

Giungiamo al concetto fondamentale di questo testo, scritto a chiare lettere sin dal sottotitolo: la pratica della psicoterapia pone problemi a chi intenda insegnarla secondo uno stile universitario e altrettanti a chi crede di poterla apprendere attraverso un manuale che spieghi, diriga, illumini. Come insegnare allora quello che è impossibile insegnare? Senza un manuale: attraverso un anti-manuale. La pratica della psicoterapia, sia in contesto pubblico sia privato, implica qualcosa di umano che oltrepassa qualsiasi nozione manualistica. 

Nicastro fa prova di modestia; eppure, in modo semplice, senza astruserie, dispiega una serie di concetti tratti dalla propria esperienza soggettiva oltre che dalla propria pratica clinica. Concetti che costituiscono dei fari nella notte per permettere ai giovani colleghi, i quali talvolta brancolano nel buio degli steccati che le varie scuole psicoterapeutiche si trovano a erigere, di rintracciare dei sentieri ove destreggiarsi.   

I riferimenti teorici, giustamente dosati in modo da evitare di tediare il lettore, sembrano situarsi soprattutto sul versante di una fenomenologia con coloritura intersoggettiva e su quello dell’approccio psicoanalitico e gruppoanalitico di matrice inglese. Non a caso le due citazioni riportate in esergo sono tratte dalla Psicopatologia generale di Karl Jaspers e dai Seminari brasiliani di Wilfred R. Bion. Di Jaspers viene colto il lato intuitivo secondo il quale la commozione induce riflessione, fornisce materiale per conoscere, tanto che riflessione e commozione procedono unite; da Bion viene tratta la paradossale centralità proprio di quelle parti dell’esperienza analitica che vengono escluse dalla stanza d’analisi.  

Sin dai primi paragrafi del capitolo dedicato alla fase iniziale della terapia, si staglia una figura molte volte incontrata quando si incontrano giovani colleghi nelle loro analisi, nelle supervisioni, nei collettivi di studio: la figura della diagnosi. La richiesta di un inquadramento diagnostico si impone spesso come una domanda più ampia di rassicurazione da parte del clinico alle prime esperienze. Se ne coglie l’esigenza di orientamento che possa tutelare dal rischio di errore e dal timore di catastrofi come quelle specifiche dei passaggi all’atto. Molti giovani operano con curiosità e interesse che riescono a portare nei contesti istituzionali o privati nei quali lavorano ma anche con delle azioni volte a diagnosticare in modo sempre più dettagliato l’essere umano con interventi “più utili a dare un ordine di base alle idee del terapeuta che a lavorare concretamente” (p. 8). La posizione di Nicastro è chiara e sostanzialmente condivisibile, pur non potendo mai fare del tutto a meno di alcune coordinate diagnostiche: “lo scopo principale dei colloqui iniziali con un paziente non è quello di formulare una diagnosi” (p. 11).  A questo proposito, viene giustamente sollevata una critica a quelle operazioni cliniche focalizzate soprattutto quando non esclusivamente sulla diagnosi; spicca fra queste il DSM. A questo proposito ricordiamo il movimento francese detto “Stop DSM”, promosso dallo psichiatra e psicoanalista Patrick Landman e l’ampia prospettiva volta alla depatologizzazione che contraddistingue la psicoanalisi lacaniana secondo la quale ciascuno presunta una qualche forma di follia. La follia costituisce, anzi, un’esperienza umana fondamentale che va ben oltre qualunque forma di psicopatologia.  

La seconda parte del libro si focalizza sul cuore della terapia che costituisce una co-costruzione fra paziente e terapeuta. Ricorda la tesi di J. -C. Maleval secondo la quale la differenza principale fra la psicoterapia autoritaria con le sue stupefacenti mistificazioni e la psicoterapia non autoritaria sta nell’imposizione di un senso da parte del terapeuta nella prima a differenza della co-costruzione di un senso specifica della seconda. La critica alla psicoanalisi che Nicastro solleva calza a pennello se ci si riferisce alle esperienze centrate su un setting molto strutturato, obbligatoriamente con diverse sedute settimanali come quella tipica dell’International Psychoanalytical Association e del cosiddetto metodo Eitington basato sulle quattro sedute settimanali; sarebbe immotivata se fosse riferita alla psicoanalisi di orientamento lacaniano che, pur non senza principi, si discosta dagli standard sia per il tempo della seduta sia per la frequenza degli appuntamenti. Così concepita, la psicoanalisi diventa un’esperienza da riservare “al limite solo a chi volesse intraprendere il lungo percorso per diventare analista a sua volta” (p. 42). In pratica, è come se una cura medica venisse riservata soltanto ai medici oppure agli studenti universitari di Medicina! 

Chiarificazione, verbalizzazione degli affetti, incoraggiamenti, suggerimenti sono le operazioni specifiche della fase cruciale della cura da un punto di vista tecnico. Risulta evidentemente impossibile prescindere del tutto dalla dimensione tecnica, dagli strumenti tecnici e dagli atti tecnici in gioco in una cura ma da considerare in secondo piano rispetto a un’altra coloritura. Infatti, molto giustamente, Nicastro ci ricorda come “la psicoterapia non appartiene al mondo delle tecniche ma dell’arte” (p.50). Questa lettura artistica della talking cure si situa in linea con quella di diversi altri autori: basti rammentare il titolo di un capitolo di Una base sicura di Bowlby e L’arte della psicoanalisi. Sognare sogni non sognati di Ogden. L’arte della relazione terapeutica trae origine dalla formazione personale, dalla formazione culturale fondata sullo studio, sulla lettura così come sulla cultura cinematografica o teatrale, sull’esperienza clinica e altrettanto sulle esperienze di vita del clinico. In effetti “tali aspetti non sono insegnabili nelle scuole di psicoterapia” (p. 52).  

Nicastro ripropone sin dalla premessa un’affermazione molto nota e controversa: “credo che, più che la teoria e la tecnica seguite, siano importanti la persona del terapeuta – le sue qualità umane – e il modo specifico in cui egli adegua la teoria e applica la tecnica col proprio paziente” (p. 9). Altrettanto nota è l’obiezione che ne segue relativa a quel “bisturi” costituito secondo Freud dall’interpretazione; in questi termini, un bisturi maneggiato da un chirurgo molto umano o poco umano fa qualche differenza? Venire operati di cancro dal bisturi tenuto in mano da un medico molto umano o poco umano determina forse conseguenza sulla prognosi e il decorso della patologia oncologica? L’importante è che l’intervento chirurgico abbia un esito favorevole, che il chirurgo sappia come maneggiare il bisturi. Si potrebbe ulteriormente ribattere a proposito dell’inappropriatezza oppure invece dell’appropriatezza dell’accostamento di psicoterapeuta e chirurgo, in un dialogo senza fine.  

Sicuramente, come nella celebre metafora freudiana dell’analisi quale partita a scacchi di cui si conoscono le mosse di apertura e quelle di chiusura tali da condurre allo scacco matto, non si può mai sapere come lo stile singolare del paziente e del terapeuta interagiranno. La psicoterapia viene dunque paragonata a una danza e “nessuno dall’esterno può sapere a priori che direzione prenderanno i due ballerini, sebbene la stanza del ballo e le regole dei passi da fare siano in parte noti” (p. 53).  

Un limite del testo di Nicastro sta a nostro avviso nella sua prospettiva intersoggettiva che ostacola l’emergere del transfert, fattore senza dubbio di resistenza ma comunque motore fondamentale della cura. Opprime il lavoro del transfert nella sovrapposizione relazionale dove transfert e controtransfert si sovrappongono al punto da divenire elementi ardui da distinguere, in un campo intersoggettivo ma persino in un cosiddetto co-transfert nel quale non si chiarisce chi abbia il ruolo di paziente e chi il ruolo di terapeuta. Lacan sosteneva che l’esperienza freudiana fiorisce quando vi è asimmetria di posizioni fra analista e analizzante, appassisce appena ci si sposta sull’asse della relazione intersoggettiva. L’esperienza ci ha insegnato quanto spesso porsi su un piano intersoggettivo impedisca il prosieguo dell’analisi sia perché determina interruzioni sia quando determina una stagnazione della dialettica. 

Nicastro propone posizioni chiare anche su quell’argomento spesso controverso che concerne la conclusione di un percorso psicoterapeutico: dopo aver precisamente scritto della riduzione della sintomatologia per la quale il clinico venne contattato, propone altri concetti più estesamente umani come un aumento di risorse psichiche, l’instaurazione di relazioni soddisfacenti, una certa fiducia nella vita e nel futuro, l’incremento delle capacità creative relative alla sublimazione. Trattando o meno l’argomento con il terapeuta, quando si riscontrano tali condizioni, “da un punto di vista pratico ed effettivo la terapia si conclude quando il paziente decide di concluderla” (p. 68).  

Un libro del quale proporre la lettura, dunque. Un libro del quale proporre la lettura ai giovani psicoterapeuti in formazione.  

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