La riflessione sul fenomeno del masochismo può essere considerata, a mio avviso, uno dei contributi più rilevanti che la psicoanalisi ha fornito allo sviluppo del pensiero. Ciò che Sigmund Freud scopre di perturbante e scabroso nello psichismo umano è che, a differenza di qualsiasi altro animale, il parlessere (così Jacques Lacan definiva il solo animale – quello umano, per l’appunto – dotato di linguaggio) può trovare una soddisfazione speciale nel dispiacere. È un fatto, questo, che la clinica psicoanalitica irrimediabilmente impone.
Mentre la vita degli organismi, dai meno complessi ai più evoluti, si svolge all’interno della logica del principio di piacere (finalizzata, pertanto, ad evitare l’accumulo di tensione e a ricondurre il sistema al più basso livello di eccitazione), quella dell’essere parlante confina e, assai spesso, tracima nel suo al di là. Non è solo all’omeostasi, allora, che essa può puntare: non è unicamente nell’attenuazione dello stato di tensione o nella riduzione del livello di eccitazione, infatti, che l’umano è in grado di assicurarsi un appagamento libidico. L’indugiare in uno stato di dolore (fisico e/o psichico), vissuto consapevolmente come spiacevole, può garantire, paradossalmente, un piacere di natura diversa – così come lo definiva Sigmund Freud – o – per riprendere il lessico lacaniano – una condizione di godimento.
Da sempre, gli psicoanalisti si confrontano con tale questione. Ascoltano storie, vengono a conoscenza di esperienze, entrano in contatto con vite segnate da una spinta irrefrenabile verso la propria rovina, ostinatamente orientate in direzione di una sofferenza nei confronti della quale si fatica a prendere le distanze e che, in alcuni casi, rivela, in maniera esplicita, il suo essere una vera e propria meta libidica. L’io del paziente, certamente, si lamenta: a livello della coscienza, infatti, la sofferenza è mal sopportata. Ma la fedeltà al progetto masochista – lo sappiamo – si realizza sull’Altra scena, sul piano dell’inconscio. Qualcosa, insomma, a insaputa dell’io, si soddisfa nell’insoddisfazione: ça jouit – affermava Lacan – proprio per sottolineare l’impersonalità di questo meccanismo che colonizza l’attività psichica dell’essere umano.
Ebbene, è a questo grande mistero – che, sin dalla sua nascita, interroga la psicoanalisi – che Rossella Valdrè dedica il suo ultimo saggio. Un lavoro che – come lei stessa afferma – completa un percorso di ricognizione teorica e clinica sui temi metapsicologici più complessi (che la psicoanalisi contemporanea tende a scotomizzare), il cui valore sta proprio nel riportare in primo piano concetti freudiani fondamentali (pulsione di morte, coazione a ripetere, masochismo, ecc.) i quali, a mio parere, costituiscono il vero fulcro speculativo del pensiero di Freud.
La Valdrè affronta lo ‘scandalo’ del masochismo e lo affronta con coraggio. Per almeno due motivi: il primo è che sottolinea la natura strutturale del masochismo. Recupera in pieno, così facendo, il senso della lezione freudiana: il masochismo non è un incidente di percorso, non è il frutto di contingenze sfortunate, non è il frutto di un evento occasionale. Esso è inscritto ab origine nello psichismo dell’essere umano, è il marchio di fabbrica della sua costituzione. Dunque, non può essere liquidato come semplice fenomeno perverso (rubricato, cioè, all’interno di una singola struttura), ma va considerato come diposizione fondamentale dell’umano, disposizione che attraversa (e influenza) le varie esperienze soggettive. In altre parole, si realizza a livello fantasmatico, in ogni essere umano, un legame speciale (che – va specificato – solo in alcuni casi prenderà il sopravvento nella vita del soggetto) tra la propria passivizzazione (che può assumere le forme della dipendenza, della svalutazione di se, del maltrattamento, della sottomissione, della violenza subita, ecc.) e l’erotizzazione di tale posizione. Per una serie di ragioni che la Valdrè indaga con precisione, la posizione passiva (che, generalmente, il parlessere tende ad evitare per i suoi effetti desoggettivanti) può finire con il procurare un tornaconto libidico (inconscio) che smentisce e ribalta la logica edonistica convenzionale. Essere oggetto, per giunta maltrattato e umiliato, diventa, così, la condizione per una soddisfazione pulsionale irrinunciabile, incomprensibile per il soggetto stesso. Non solo: come lucidamente evidenziato dalla Valdrè, il bisogno di punizione (la ‘consegna’ di se all’azione sadica dell’Altro) consente al soggetto di attenuare ed espiare il senso di colpa, connesso all’insorgere di desideri considerati sconvenienti. È questo il fulcro dell’insegnamento di Freud, che l’autrice indica al lettore come fondamento per ogni ragionamento sul tema. Ed è su questa ‘tendenza alla passivizzazione’ che la Valdrè scrive quelle che, a mio avviso, sono le pagine più originali e convincenti: tendenza che la psicoanalista genovese – coerentemente alle osservazioni di Freud – fa risalire all’originaria esperienza di inermità e di impotenza (Hilflogsigkeit) che contraddistingue la venuta al mondo dell’essere umano. Il lattante – scrive l’autrice – si trova alla mercè delle cure materne, oggetto in balia della volontà incontrollabile del suo Nebenmensch, dipendente totalmente dalle sue cure: ebbene, l’intervento del ‘prossimo’ (l’azione specifica dell’accudente) lascerà tracce libidiche sulla psiche del neonato, venendo così a cementare quella connessione misteriosa tra la condizione di inermità e la soddisfazione libidica. Una sorta di fissazione pulsionale originaria rovescia la condizione sfavorevole dell’essere oggetto, in un guadagno (indimenticabile) di piacere, che proprio a quella posizione è correlato: punto di partenza trans-strutturale (o, forse, pre-differenzazzione strutturale) che si ripresenterà in un’infinità di situazioni esistenziali nelle quali il ‘consegnarsi’ nelle mani dell’altro verrà a costituirsi come condizione indispensabile per un’esperienza enigmatica di piacere.
Notevole, a questo proposito, il richiamo alla correlazione – messa in evidenza anche da altri autori – tra il masochismo e il narcisismo. Due fenomeni che solo all’apparenza sembrano confliggere ma che – come la Valdrè abilmente dimostra – sono, in una qualche misura, l’uno il risvolto dell’altro, l’uno la verità dell’altro. Come non vedere, infatti, nel masochismo, l’impossibilità di ‘uscire da se stessi’, di non considerarsi il centro del proprio interesse libidico, di ‘accedere’ all’altro? Come non vedere nel ‘prendersi di mira’ masochistico una delle possibili declinazioni dell’autoreferenzialità narcisistica?
Ma il coraggio con il quale la Valdrè affronta la questione del masochismo emerge, soprattutto, nell’analisi del suo legame con la femminilità. Tema, questo, spinoso, urticante, irritante, politicamente scorretto, che, se non trattato con rigore, rischia di far precipitare qualsiasi ragionamento nel qualunquismo del discorso comune. Due precisazioni dell’autrice aiutano, allora, il lettore ad evitare il pericolo di una deriva cripto-maschilista e sessista: innanzitutto, la ripresa puntuale della terminologia utilizzata da Freud, il quale, come noto, nel definire una delle tre possibili forme di masochismo, parlò di masochismo femmineo. La Valdrè insiste molto su questo termine, proprio per sottolineare come, in effetti, Freud – a differenza di molti suoi allievi – non abbia stabilito alcuna correlazione rigida e predeterminata tra masochismo e femminilità, bensì abbia messo in evidenza il legame esistente tra il masochismo ed un atteggiamento passivo, definito, per l’appunto, femmineo nella misura in cui, nella cultura maschilista del secolo scorso, una siffatta postura (rinunciataria, debole, molle) veniva associata al femminile. Detto in altri termini: se si concorda sul fatto che nel sistema patriarcale il concetto di passività è abbinato alla posizione femminile, allora, per una sorta di implicita sinonimia, la definizione di masochismo femmineo dovrà intendersi come indice di una disposizione alla passività. Si potrà, di conseguenza, contestare la correttezza di tale correlazione (che è alla base della terminologia utilizzata), ma non certamente il concetto che si intende mettere in rilievo. La critica femminista (interna ed esterna al movimento psicoanalitico) ha giustamente attaccato l’adesione di Freud all’ideologia patriarcale che, senza dubbio, ha condizionato il suo lavoro speculativo. Tra gli argomenti maggiormente utilizzati per denunciare il pregiudizio sessista di Freud, certamente va segnalato proprio quello sul masochismo ‘femminile’. Ma la Valdrè ci aiuta a mettere le cose al loro posto: non si tratta di masochismo femminile – ci dice – ma di masochismo femmineo, il che esclude qualsiasi correlazione tra una specifica disposizione libidica e uno specifico genere sessuale. L’unica correlazione possibile è tra l’assunzione di una posizione passiva (suscettibile di manifestarsi tanto nei maschi quanto nelle femmine) e la possibile soddisfazione libidica che ad essa si associa. Niente di più, niente di meno.
Tuttavia – ed è questa la seconda preziosa precisazione dell’autrice – la clinica psicoanalitica (e non solo) ci mette di fronte ad una evidenza che non possiamo ignorare: in effetti, tanto nelle stanze di analisi quanto nella cronaca massmediatica, nei salotti televisivi, nelle ‘poste del cuore’, nelle conversazioni comuni, il tema del masochismo sembra manifestarsi con maggiore frequenza nelle donne, principalmente nella forma di una dedizione ingiustificata ad uomini maltrattanti, svalutanti, violenti e aggressivi. Come spiegare questo fenomeno? Si tratta solo dell’effetto di un condizionamento culturale? Della conseguenza di processi educativi che confinano la donna in una condizione di minorità e di dipendenza? Oppure, c’è nell’esser donna un fattore predisponente all’assunzione di una passività, suscettibile, in determinate situazioni, di trasformarsi in masochismo? Detto in altri termini: premesso che il masochismo è – come già detto – originario, primario, strutturale e, pertanto, non conosce distinzione di sesso, è concepibile, tuttavia, ipotizzare una correlazione specifica tra l’anatomia della donna (il possedere un corpo fisiologicamente destinato a ricevere, accogliere, sviluppare al suo interno la vita, ecc.) e il possibile sviluppo di forme ‘secondarie’ di masochismo (nelle quali viene sintomaticamente erotizzata la postura di ricettacolo di qualsiasi atto – anche il più violento – da parte di colui/colei di cui ci si pensa ‘innamorate’)?.
La risposta non è semplice. E, soprattutto, corre sul filo di una distinzione che incrocia, in maniera inestricabile, l’elemento socio-culturale e quello biologico-costituzionale e che, di conseguenza, chiama in causa il dibattito (profondamente attuale) sui generi sessuali e sulla loro fondazione identitaria. Su questo punto, le opinioni si dividono, anche all’interno del movimento psicoanalitico. Merito indubbio della Valdrè è quello di non forzare il ragionamento in vista di una conclusione definitiva ma, al contrario, mettere in primo piano considerazioni e riflessioni, tratte anche da ambiti non analitici (letteratura, cinema, arte) che, anziché puntare a rinforzare schieramenti ideologici precostituiti, aiutano ad illuminare zone d’ombra e, in particolare, i punti di maggiore contraddizione. L’autrice pone, pertanto, una questione che – correttamente, a mio avviso – viene lasciata aperta, non pregiudizialmente definita, inconclusa dunque e, soprattutto, bisognosa del contributo di altri saperi e discipline. Il ricorso allo studio e all’analisi di materiale cinematografico e artistico (che compone una parte importante del testo) è giustificato da tale esigenza: l’esigenza di non ridurre a mera disfunzione psicopatologica quell’attitudine costituente e costitutiva dell’umano che ne spiega, paradossalmente, l’unicità all’interno del mondo che abita.
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