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Recensione saggio LA MORTE DENTRO LA VITA

27 Dic 16

Di Antonello Sciacchitano

Forse alzando le spalle direte: “Questa non è scienza della natura, è la filosofia di Schopenhauer”. Ma perché, signore e signori, un pensatore acuto non avrebbe dovuto presagire ciò che in seguito l’obbiettiva e faticosa ricerca dei dettagli avrebbe confermato? E poi, tutto ciò è stato già detto; molti prima di Schopenhauer hanno detto cose simili. Inoltre, quanto diciamo non è esattamente di Schopenhauer. Non diciamo che la morte è l’unico scopo della vita; non ci lasciamo sfuggire la morte accanto alla vita. Riconosciamo due pulsioni di base e a ciascuna attribuiamo la sua meta. (S. Freud, Lezione 32, 1933).


Confermare? Bestätigen, dice Freud. Si confermano le dottrine. Si confutano le scienze. Tanto per collocare Freud nella giusta prospettiva epistemologica: Freud conferma la propria dottrina, confuta le dottrine rivali. Passa accanto alla scienza con “bella indifferenza”. Freud è sovranamente indifferente all’evenienza che la propria dottrina possa essere falsificata come qualsiasi teoria scientifica. Procede con la sicurezza del conquistador, come lui stesso amava definirsi. Lo mise nero su bianco 118 anni fa nella Lettera a Fliess del 1 febbraio 1900: “In effetti non sono un uomo di scienza, né un osservatore, né uno sperimentatore, né un pensatore. Non sono altro che un temperamento da conquistador – un avventuriero, se proprio vuoi tradurre il termine – con la curiosità, la temerarietà e la tenacia di uno così”. Poi aggiunge la verità vera: “Trovo la scienza sempre più difficile e faticosa”.
Nell’incipit del suo bel libro La morte dentro la vita, l’autrice, Rossella Valdré, dichiara: “Sono tra coloro che credono nel concetto di pulsione di morte” (p. 17). Credere? Glauben. La psicoanalisi presuppone una fede? Anche se non è una religione con un dio, forse sì, come tutte le dottrine, viste dal lato del catecumeno o dell’apprendista stregone. A noi che non abbiamo la curiosità, né la temerarietà, né la tenacia dei conquistatori non resta che credere. O no? La Valdré, pur freudiana ortodossa, sembra indicare un’alternativa alla fede.
Interrogarsi. Questo “è un libro di domande” (p. 24). La domanda reintroduce il dubbio nell’ideologia più compatta. Nel caso, da scompattare è proprio l’ideologia freudiana di base, eretta sul concetto di pulsione. La pulsione è la causa psichica per eccellenza che Freud pone a monte di ogni evento psichico. È causa efficiente la pulsione sessuale che produce la soddisfazione sessuale; è causa finale la pulsione di morte che spinge l’apparato psichico al più basso livello di eccitazione, anche contraddicendo il principio di piacere. Le due cause fondano la scienza metapsicologica, che è un vero scire per causas. Oggi, in clima indeterministico, le scienze non cercano più le cause come scopo finale della ricerca. Con modelli meccanicisti analizzano fenomeni senza causa: il moto inerziale in meccanica classica, il decadimento radioattivo in meccanica quantistica, la deriva dei geni in genetica, la selezione naturale in biologia evoluzionista. È chiaro: la scienza freudiana non è galileiana; è aristotelica; è eziologica, quindi non è scienza come si pratica oggi. Tutto ciò rende precaria la giustificazione biologica del freudismo, peraltro non particolarmente ricercata dall’ortodossia freudiana. (Ai suoi tempi Freud, come molti suoi colleghi medici, non era particolarmente aggiornato sui progressi della genetica, della biologia, della fisica). Prendere o lasciare: scienza o non scienza? Valdré prende. Prende il concetto di pulsione di morte; riconosce che è controverso, cioè scientificamente problematico, e gli dedica tutto il primo capitolo (pp. 31-86), ammettendo di tentare di parlare di ciò che non parla, “la pulsione muta”. In ciò Valdré si allinea al Freud che in chiusura dell’Io e l’Es afferma: “L’Es non può dire ciò che vuole” (GW, XIII, 289).



Non entro nei dettagli tecnici della metapsicologia freudiana, diligentemente esposti dalla Valdré, semplicemente perché non condivido l’approccio pesantemente eziologico (quindi tecnico ma non scientifico) di Freud. Al fondo lo riconosco falso, non essendo falsificabile, seppure sempre autoreferenzialmente confermato dai fatti clinici, se interpretati secondo i propri schemi. Però, conoscendo bene il freudismo, posso testimoniare (se serve) che la ricostruzione teorica della Valdré è corretta e in molti punti illuminante, soprattutto là dove distingue tra pulsione di morte, alla radice della vitalità della vita stessa, e aggressività, in particolare l’auto-aggressività. L’eterna ripetizione dell’identico, già inventata da Nietzsche, che tuttavia Freud non voleva leggere per non esserne influenzato, è un fenomeno più generale della distruttività. In ambito meccanicistico una macchina entra inevitabilmente in un loop ripetitivo se i suoi stati interni – quelli del suo “apparato psichico” – sono in numero finito, anche senza invocare come cause forze autodistruttive, perché prima o poi la macchina entrerà in uno stato già visitato e da allora si ripeterà; senza produrre più niente di nuovo è come se si spegnesse.
La parte più godibile del libro è nei capitoli successivi al primo, dedicati alla clinica e all’arte, considerate sotto la specie della pulsione di morte. Tuttavia, per procedere nell’analisi del testo della Valdré, devo aggirare un inghippo logico.
Ammesso che la metapsicologia freudiana sia uno strumento teorico falso, come può cavare qualcosa di vero applicato alla clinica o all’arte? La risposta è alquanto paradossale. La premessa è che sia la clinica psicoanalitica sia l’arte sono luoghi di elezione del falso. Per l’arte lo disse già Platone. L’arte è finzione; è copia di una copia, essendo la cosa copiata dall’artista una copia della vera essenza ideale che abita nell’Iperuranio. Quindi l’artista è un falsario che produce del falso. Per la clinica psicoanalitica ce l’ha detto proprio Freud. L’elenco delle falsità che si sperimentano in clinica psicoanalitica non è breve.
Cominciamo dalla principale, dalla madre di tutti i falsi freudiani: il transfert, che è un falso amore, vicino al vero odio. Segue il sogno, che è una falsa soddisfazione del desiderio, essendo allucinatoria. Si continua con i falsi ricordi, che sono ricordi di copertura. Letteralmente falsi sono gli atti mancati, i lapsus e tutta la psicopatologia della vita quotidiana. Il sintomo nevrotico è per eccellenza un godimento spostato, quindi falso che – giustamente fa notare la Valdrè – scivola dalla competenza delle pulsioni sessuali e passa a quella della pulsione di morte. (Opportunamente Lacan unificherà le due pulsioni nella comune ripetizione del significante). Chiudono in bellezza l’elenco delle falsità le false interpretazioni dell’analista, talvolta più efficaci delle vere. Nel mio lessico familiare si usa chiamare “falsoneria” quella falsità che si vede troppo bene che è falsa. I miei figli se lo ricordano.
In mezzo a tutte queste falsità non sfigura la dottrina metapsicologica freudiana. Come tutte le altre sue consorti, essa ha una funzione ermeneutica precisa; come ho già detto (mio malgrado, perché ritengo il paradosso una cattiva falsità, praticamente inutilizzabile in clinica) è una funzione alquanto paradossale: far dire al soggetto in analisi – all’analizzante, vivaddio, non all’analizzando, cara Valdré – un po’ di verità. “La recita – il teatro nel teatro come il falso nel falso – è la trappola che sorprenderà la coscienza del re”, elucubra tra sé e sé Amleto. Cui fa da controcanto Polonio, citato perfino da Freud in Costruzioni in analisi (1937): “Acchiappare la carpa della verità con l’esca della menzogna” (GW, XVI, 48). L’ultima e vera perplessità in cui mi lascia la metapsicologia freudiana è che fa regolarmente emergere verità di colorito paranoico, funzionando l’apparato psichico in base a rappresentazioni sessuali con cui l’inconscio perseguita il conscio, il quale poi si difende rimuovendole.
Allora passiamo in rassegna alcune delle vero-falsità che Valdré ci racconta in clinica analitica e in estetica; ma c’è poi questa gran differenza?

 
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Il topos elettivo è Woody Allen che, essendo ebreo, si ostina in età non più tenera a non volere andare a Lourdes, continuando a bazzicare il freudismo alla ricerca dell’impossibile cura al male di vivere.
C’è un fattore comune in storie diverse, che in prospettiva si distinguono solo per il nome dei protagonisti allo sbando: Giada, Jasmine, Pier Paolo, nel senso di Pasolini. Domina in tutte queste vicende lo slegamento, l’attacco al legame: l’aggressione verso sé e verso l’altro ma senza libido, quasi che esistesse un’energia (narcisistica?) della pulsione di morte, che pure Freud negò alla pulsione muta. Recentemente un prete, che si firma Nerosfina, ha scritto un libretto ironico, anche autoironico, di 70 pagine (non ce ne vogliono molte per trattare certe cose tanto semplici quanto fondamentali), intitolato Infelici e contenti (Ltd, 1916), dove sviluppa il tema, già a fondo arato dal biblico Ecclesiaste, secondo cui tutti gli uomini desiderano essere infelici. È questo che hanno imparato dall’altro; è questo il senso del lacaniano desiderio dell’Altro. Gli uomini non sanno che farsene dell’Altro per la propria felicità, pare.
Scrivo l’Altro con l’A maiuscola non in ottemperanza alla mia (scarsa) ortodossia lacaniana, ma perché a questo punto il discorso relativo al soggetto individuale – in clinica o nei film ­– si apre sul soggetto collettivo, tema che conviene a questa rubrica.
Valdré intitola l’ultimo capitolo del libro, il quarto, con la domanda (il suo è un libro di domande, ricordiamolo): La contemporaneità. È davvero l’epoca delle passioni tristi? Il riferimento è a un bestseller della psicoterapia di due psichiatri, con forte sensibilità sociale: Benasayag e Schmit, intitolato L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, Milano 2004). Gli autori dicono di aver mutuato l’espressione “passioni tristi” dall’Etica di Spinoza. Va per la precisione detto che Spinoza, più psicologo che filosofo, non parla di passioni tristi, ma di affetti corporei che portano alla speranza, al timore, alla fiducia, alla disperazione, alla gioia e, dulcis in fundo, ai rimorsi della coscienza morale. Con passioni tristi questi autori intendono la disgregazione e l’impotenza dell’individuo di fronte alla società.
Si tratta di una vecchia questione di fondo freudiana: tutti gli individui, pur caratterizzati dall’identificazione all’identico Führer (termine freudiano!), ciononostante non riescono a creare un qualche legame sociale che generi certezze di convivenza. Tipicamente oggi i figli non riconoscono l’autorità dei genitori. Tra generazioni si è creata una pericolosa e sterile simmetria. Il campo della politica è invaso da cazzabubbolari arruffapopoli, che predicano modelli associativi ispirati a uno sfrenato particolarismo. Svaniscono i corpi intermedi, sostiene Francesco Bollorino. Si può accusare per questo la scienza che, una volta preso il posto della religione, ha cessato di creare certezze, operando per produrre cose convenienti solo a sostenere gli scambi economici, per la ricchezza di pochi e la miseria di molti? Sì, lo si fa, ma l’accusa è inconsistente nonché ignorante: la scienza moderna esordisce nel territorio dell’incertezza già con Galilei, che esclude dalla propria pratica, per esempio nell’analisi del moto, ogni riferimento eziologico, formulando con Cartesio il principio di inerzia del moto senza forze che lo muovano. Poi la scienza procede con congetture che non sono vere finché non si dimostrano false.
In conclusione, non ci sono conclusioni, conclude la Valdré. Le sue domande non hanno avuto risposte… per fortuna. Non ci resta che sublimare la nostra disperazione. In fondo la vera giustificazione della sublimazione artistica è di produrre un sembiante di valore sociale. L’artista crea più comunità del politico. Il ministro più importante di un governo è quello ai Beni Culturali.

Per saperne di più in tema di sublimazione, rimando a R. Valdré, Sulla sublimazione: un percorso del destino del desiderio nella teoria e nella cura, Mimesis, Milano 2015.
  
 
 

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