Mentre sul segreto nella vita degli individui, nelle dinamiche familiari e nel retaggio della storia personale si possono reperire diverse osservazioni in letteratura – così come sul potere patologico del mantenimento dei segreti, dell’occultamento di vicende o parti della storia individuale e familiare – sul paziente mentitore, se vogliamo definirlo così, non vi è molto. Si tratta, evidentemente di un tema poco piacevole e, probabilmente, diviene poco piacevole scriverne, oltre che porre davanti a sé stessi la realtà di persone in terapia che mentono al proprio terapeuta e che rivelano le loro menzogne inavvertitamente, o solo dopo un certo lasso di tempo.
Naturalmente esiste una notevole gradualità tra le rappresentazioni (ideali?) di verità e di menzogna all’interno della quale si possono collocare le mezze verità, le distorsioni, le omissioni, le minimizzazioni, fino a giungere alle vere e proprie bugie, eventualmente articolate con arte e in risposta a domande precise del terapeuta.
Tutto ciò è probabilmente complicato dal momento in cui oggi si vive nell’era post-moderna e in un mondo che si è ormai scoperto essere afflitto da numerose fake news. Possono quindi suscitare interesse anche i commenti in certo senso laterali, rispetto al tema centrale del libro, come quelli inerenti la congruità tra il profilo social – cioè la persona come emerge online – e la persona in carne e ossa, e le riflessioni sull’identità personale e sociale, sulla costruzione dell’identità, e sul falso sé.
Narrazioni e ricordi, memorie e modi di presentarsi – aggiungerei recuperando anche ciò che è definito nell’ambito del testing psicologico distorsione motivazionale e desiderabilità sociale – possono difficilmente essere separati da vere e proprie alterazioni involontarie del passato e dell’esperienza del paziente.
Al di là dell’argomento in se stesso, questo libro è interessante perché si basa sull’esito di una ricerca che ha coinvolto oltre numerosi soggetti e il cui scopo era, appunto, quello di fare luce sui segreti e sulle bugie dei pazienti puntando a evidenziare, ad esempio, quali informazioni sono più spesso occultate e quali giustificazioni sono addotte per celare informazioni la cui comunicazione, in tutta evidenza e per pura logica, dovrebbero essere considerate importanti per il decorso positivo della psicoterapia.
Il progetto di ricerca si colloca in realtà all’interno di uno studio più ampio sulla disclosure iniziato addirittura negli anni novanta i cui esiti sono già stati presentati in diversi lavori – vedi, ad esempio, il testo di Barry A. Farber Self-Disclosure in Psychotherapy, pubblicato nel 2006 dall’editore Guilford Press di New York.
Questo specifico progetto di ricerca sui segreti e le bugie ha visto l’impiego di metodi quantitativi e qualitativi (le interviste in profondità) su un campione di ben 1345 soggetti.
Domande e risposte sono spesso riportate letteralmente nel testo e, consultando le numerose vignette, ci si rende conto della difficoltà di definire una comunicazione come bugiarda a causa del sottile e spesso impercettibile slittamento tra la verità, le mezze verità, le omissioni, gli abbellimenti e le bugie vere e proprie. Non si deve naturalmente nemmeno dimenticare che ogni psicoterapia è condotta sulla base della narrazione e del dialogo, della comunicazione tra due soggetti in totale assenza della possibilità di riscontro oggettivo delle informazioni che sono scambiate. Ciò, in realtà, se ci si pone dal punto di vista del paziente, vale anche per quanto riguarda il terapeuta, e non casualmente un capitolo è totalmente dedicato alle bugie del terapeuta!
Come si può immaginare, tra i contenuti più nascosti si trovano quelli di carattere sessuale e l’uso-abuso di sostanze, i pensieri e i sentimenti fortemente negativi verso il terapeuta e la terapia, ma anche i traumi subiti o inferti, l’autolesionismo e le idee di suicidio. Tra le dichiarazioni riportate letteralmente dalle interviste effettuate con i pazienti emergono anche contenuti minimizzati o non detti sulle abitudini alimentari, su come la persona si comporta nel lavoro o in famiglia, sulle fantasie perverse o violente, sull’utilizzo della pornografia, sulla contraffazione di documenti professionali o accademici, su pensieri razzisti, e così via.
Leggendo tra le righe, spesso si vede il paziente muoversi con deferenza e con un senso di inopportuno rispetto (o soggezione) verso il terapeuta, cosa che lo porta a tenere per sé molte informazioni ritenute disdicevoli; altre volte sono la vergogna e la colpa a inibire il paziente, oppure la sua preoccupazione che, comunicando cose ritenute molto brutte, perderà l’appoggio e la comprensione del terapeuta.
Se da un lato si rimane sconcertati apprendendo che il 93% dei pazienti ha dichiarato di essersi comportato disonestamente con il proprio terapeuta, almeno su alcuni argomenti, si deve però anche considerare – come giustamente fanno notare gli autori – che nella ricerca che è stata realizzata i concetti di bugia e disonestà che sono stati impiegati presentano dei confini molto ampi, molto più ampi di quelli di ricerche precedenti, comprendendo anche le smaller lies, le piccole omissioni e gli aggiustamenti di fatti ed eventi vissuti.
Al termine di queste pagine, tra molte considerazioni che possono venire in mente, ci si ritrova a riflettere sulle convinzioni personali che ogni singolo terapeuta nutre nel proprio animo e che vedono un ampio spettro di posizionamenti: da coloro che si fidano aprioristicamente della narrazione del paziente fino, all’estremo opposto, a coloro che nutrono ciò che si definiva un tempo la cultura del sospetto.
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