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Si può salvare la psicoterapia dal dominio del modello scientista?

4 Set 22

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Gli psicoterapeuti sono tanti, sempre di più, così come gli orientamenti della psicoterapia, che si sono moltiplicati nel corso dei decenni dall’epoca in cui vigevano tre-quattro grandi orientamenti teorici e clinici. Sembra che parlare di e fare psicoterapia siano ormai cose assodate, e che per mettersi personalmente in gioco in quest’ambito sia necessario solo scegliere il percorso a sé più congeniale, e questo sia per chi voglia intraprendere questa strada come terapeuta sia per chi decida, come paziente, di affidarsi a un terapeuta. Tuttavia la situazione non è così scontata, anzi, la psicoterapia nella sua forma teorica e tecnica contiene in sé tante antinomie, segnalate nel tempo in articoli e libri da ricercatori e clinici di diversi orientamenti, ma spesso purtroppo negate o minimizzate in nome di una rincorsa della psicoterapia al metodo della medicina e in generale al modus operandi delle scienze cosiddette forti, al solo fine di garantirsi credibilità presso quelle istituzioni (sanitarie, giuridiche, economiche ecc.) e quell’opinione comune sempre più informata con cui la comunità degli psicologi e degli psichiatri si trova a confrontarsi quotidianamente.

Per chi fa questo mestiere è invece fondamentale sapere quali siano le questioni più rilevanti in gioco, in particolare su quali presupposti o principi si basi il lavoro clinico, che cosa significhi conoscere o giungere a delle conclusioni in ambito psicologico, che legame c’è tra quanto afferma la propria teoria di riferimento e quanto accade concretamente nella stanza di psicoterapia, e altre simili.

 



 

 

Ci spinge a riflettere attentamente sulle basi epistemologiche della psicoterapia La scienza dell’anima (Santelli, 2020), un recente volumetto di Simone Biondi, psicoterapeuta bolognese. Il libro, partendo da un’analisi sintetica della nascita della scienza come modo di conoscere e indagare i fenomeni della natura a partire dall’antica Grecia, e continuando poi con i principi via via stabiliti nel corso della storia del pensiero da Platone, Aristotele, e poi Cartesio, Bacone, Galileo, e intersecando infine quanto stabilito nel corso del pensiero scientifico con le critiche mosse da altri autori soprattutto di area fenomenologica ma non solo (Jaspers, Husserl, Nietzsche, Heidegger, Severino, Galimberti), cerca di mostrare come la psicologia moderna sia nata all’interno del dibattito filosofico come modo di conoscere l’umano secondo i canoni che progressivamente si sono affermati circa la definizione di sapere scientifico.

Il testo evidenzia come la scienza e il pensiero razionale che la sottende, fin dai suoi albori, si fondi sul desiderio di controllare e prevedere il mondo almeno parzialmente imprevedibile della realtà con un sempre maggiore grado di certezza, e che proprio per raggiungere questo obiettivo sia stata costretta ad operare un’astrazione logica e una semplificazione dei fenomeni studiati che ha pesato molto soprattutto quando l’oggetto di studio era rappresentato dall’uomo in quanto ente dotato di autocoscienza e anche di moventi irrazionali, un oggetto di studio ancora più complesso e imprevedibile di altri. La conseguenza di tale processo di semplificazione – che ha portato a sezionare, dividere in parti più semplici, quantificare, definire in modo sintetico l’uomo e la sua interiorità (pensieri, emozioni, motivazioni, comportamenti) elaborando teorie astratte logicamente concatenate su di esso – è stata un allontanamento delle varie teorie psicologiche e cliniche, volte a stabilire leggi per spiegare il comportamento umano e le sue manifestazioni aberranti, dalle manifestazioni concrete e specifiche che ogni paziente evidenzia nella relazione col terapeuta e quindi dalla possibilità di approntare metodi terapeutici efficaci per i vari pazienti o di poter spiegare perché certe tecniche funzionano o non funzionano con i diversi pazienti. Per dirla al modo di Heidegger (l’autore di riferimento per Biondi), dinnanzi ad un albero, i clinici dei diversi orientamenti non vedevano più l’albero così come si presentava nella sua specificità in quel momento ma l’idea che la teoria seguita indicava dell’albero e delle sue manifestazioni.

Si tratta, chiarisce l’autore, di un’epistemologia centrata sulla consequenzialità logica della teoria e sul suo riscontro empirico tramite prove sperimentali che sta alla base anche dei maggiori orientamenti psicoterapeutici esistenti (psicoanalitico, cognitivo-comportamentale, sistemico) nonostante le apparenti grandi differenze che li caratterizzano sia a livello teorico che pratico. In essi si evidenzia sempre il vecchio tentativo del pensiero tecno-scientifico di ricondurre l’esistente, nelle sue manifestazioni immanenti e specifiche, a modelli teorici e schemi conoscitivi prestabiliti del normale e del patologico, usando la clinica come campo per confermare la validità di tali modelli ma al contempo perdendo di vista quanto in essi non può rientrare (e che però fa parte integrante dell’esperienza col paziente) perché li metterebbe fortemente in discussione. Più in generale l’autore evidenzia come il tentativo di controllo sulla specificità e l’imprevedibilità del reale attuato tramite gli strumenti della logica razionale a partire da Platone per dominare il mondo fenomenico (principio di identità, di non contraddizione, di causa efficiente ecc.) abbia portato l’uomo ad allontanarsi da un rapporto più immediato e disinteressato con i fenomeni di volta in volta emergenti nella realtà, piegando all’astrazione logica, al mondo ordinato delle idee, alla metafisica insomma, quanto di non conosciuto e complesso c’è nel mondo reale. Questo ovviamente non può che comportare, almeno in ambito psicoterapeutico, ad una parzialità degli esiti (celati però pericolosamente da un’apparenza di verità indubitabile perché comprovata empiricamente) e ad una confusione nel collegamento tra i presupposti teorici di base e la prassi terapeutica, con una conseguente difficoltà a chiarire gli effetti di quest’ultima (essendo ormai assodato che molte terapie sono efficaci e che quindi il modello teorico non spiega né influisce molto sull’esito del lavoro clinico).

Se l’excursus filosofico-epistemologico sul cammino del sapere scientifico e sui principali orientamenti teorici in psicoterapia occupa la prima metà del testo, la seconda parte è dedicata alla riflessione su quegli orientamenti che, a parere dell’autore, sono più rispettosi della complessità del reale dell’uomo, in quanto aderiscono ad una logica di costante ricerca e definizione del senso di ciò che viene osservato in clinica e di ciò che si fa col paziente, e quindi ad una logica più di comprensione ermeneutica che di spiegazione causale dei fenomeni osservati (secondo la vecchia ma sempre utile definizione di Dilthey). Tra questi l’autore individua in particolare quello umanistico e quello fenomenologico, l’orientamento a lui più vicino, come si nota dai costanti riferimenti nel corso del libro ad autori afferenti a quella tradizione filosofica. Si tratta però, nel caso di questi orientamenti clinici, di una inclinazione a rispettare la complessità dell’umano solo parziale (specie per quelli umanistici), in quanto ancora influenzata dal tentativo di trovare spiegazioni causali o di costruire visioni teoriche dell’uomo che guidino l’operare del clinico, o, nel caso dell’orientamento fenomenologico, caratterizzati da una certa confusione e contraddizione teorica di fondo, soprattutto per quanto riguarda le potenzialità applicative.

In particolare l’autore vede la fenomenologia come quell’orientamento filosofico che può colmare in ambito psicologico quello iato che c’è tra teoria e pratica terapeutica, che può evitare le contraddizioni tra la coerenza logica delle teorie della mente, il loro ispirarsi al modello scientifico-sperimentale e l’incapacità poi di quantificare quanto osservato nella clinica e quindi di poter prevedere quanto accade, e questo perché l’orientamento fenomenologico non si approccia all’oggetto di studio (il paziente) tramite lo schermo di una teoria precostituita bensì tramite un metodo volto a far emergere l’oggetto così come è, descrivendolo nel suo manifestarsi dalla prospettiva e secondo le modalità di esistenza che gli sono proprie. Si tratta però, ci tiene a precisare l’autore, di un lavoro di revisione epistemologica (quello operato in ambito clinico dalla fenomenologia) ancora in fieri e non privo di contraddizioni e debolezze al suo interno.

Il libro di Biondi si presenta dunque come un libro necessario, in quanto ripercorre da un punto di vista filosofico, e con un linguaggio sufficientemente accessibile anche a chi non si occupa specificamente di questioni filosofiche, i problemi epistemologici di fondo delle teorie e delle pratiche psicoterapeutiche, mirando (l’autore in un passaggio lo dice esplicitamente) a scuotere le coscienze dei clinici relativamente ai pericoli insiti nel perpetuare un modello scientista nel campo delle scienze umane e in particolare della psicoterapia. È un libro che a mio avviso, pur con alcuni passaggi su cui si può non essere così d’accordo – vedi a mio avviso la fiducia che l’analitica esistenziale di Heidegger, col suo linguaggio spesso astruso e ampollosamente astratto possa costituire la base più convincente per un nuovo modello di psicologia clinica – dovrebbe essere inserito per la sua chiarezza ed esaustività nei programmi di studio delle facoltà di Psicologia e delle scuole di specializzazione in psicoterapia, per dare la possibilità a chi si avvicina a quest’ambito di non dare per assodati concetti e tecniche solo perché comunemente accettati nella prassi quotidiana o descritti in manuali autorevoli, e aiutando i futuri psicoterapeuti e psichiatri ed approcciarsi in modo critico alla professione e soprattutto al sistema scientista che domina anche le istituzioni sanitarie deputate alla cura della sofferenza mentale, con le loro sempre più asfissianti pratiche diagnostiche e terapeutiche centrate sul perseguimento dell’efficienza e dell’oggettivazione categoriale della condizione dei pazienti.

Si tratta di un’aspirazione sacrosanta e importantissima che coincide con la difesa sia della qualità della cura dei pazienti, sia della complessità umana e di ciò che rende unici i protagonisti di questo lavoro: il paziente (con la sua storia, i suoi tempi di cambiamento, le sue irrisolvibili contraddizioni, la sua capacità di autodeterminarsi) e il terapeuta (con la sua storia, la sua personalità, la sua etica, la sua creatività, la sua cultura, la sua esperienza professionale). Una spinta e un appello alla revisione del sistema della cura così come si è configurato nei decenni che appare, almeno ai clinici più avveduti, assolutamente necessaria e comunque da approfondire e sostenere perché la psicoterapia non rimanga una tecnica al servizio del controllo e della gestione dell’angoscia del contatto con la sofferenza umana e la sua complessità ma un modo per aiutare a comprendere tale sofferenza, a darle voce, a farla emergere nelle sue specifiche manifestazioni individuali.

Solo così la psicoterapia (e la psichiatria) potrà diventare una pratica realmente aperta all’umano.

 

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