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L’animale come motore narrativo

10 Ott 12

Di Patrizia-Carrano

Grazie per questo graditissimo invito. Che certo mi è stato fatto perché scrivo di animali. Perché il mondo animale è tanto presente nei miei romanzi? Per la ragione più semplice: mi piace scrivere di ciò che ha il dono di emozionarmi.

Ho scritto romanzi in cui i cavalli erano protagonisti assoluti, dotati di pari dignità rispetto ai personaggi umani. Ma anche quando ho raccontato storie squisitamente femminili, e biografie generazionali, come "Cattivi compleanni", o "L'età crudele", o, ancora, "A lettere di fuoco", un animale non è mai mancato.

Un romanziere – a me non piace la parola scrittore: è presuntuosa, Manganelli la definiva sindacale – costruisce un mondo. Nel mio mondo ci sono sempre cani, gatti – un gatto anziano che nell'incedere dell'età si era meritato il nome di Musatti, per come portava la gloria della sua vecchiaia – ma anche rospi, storni, segugi, volpi, poiane, gheppi, topi, colombi. Basta avere occhi, e anche il panorama di un abitante della città può diventare ricco di presenze non umane.

Poiché chi scrive di solito legge, mi è capitato di incontrare altri animali, sulla pagina. A riguardo la narrativa italiana è scarsa: forse perché noi siamo stati fortemente segnati da una visione antropocentrica, figlia del cattolicesimo. Pochi animali, raccontati talvolta con una propensione sadica: visto con gli occhi e la sensibilità di oggi, Giannino Stoppani, Gianburrasca, è un vero e proprio torturatore. Ma poi ecco la meravigliosa stirpe dei codoni, i gatti che Elsa Morante ci offre in Menzogna e Sortilegio, la cagna Belladella Storia, sempre della Morante, agli uccelli che racconta tanto bene Elena Gianini Belotti in " Voli", oppure ai cani della raccolta di racconti "Cani e Lupi" di Lodoli. All'estero, le cose sono andate diversamente: ricordo con emozione le lontre raccontate da Gavin Maxwell, i falchi pellegrini destritti da James Backer formidabili creature letterarie che io vi invito a cercare, incontrare e conoscere.

Con l'andare del tempo ho cominciato a chiedermi come la narrazione usasse l'animale personaggio . Cosa ne facesse, come lo inserisse nei gangli della narrazione. Cosa distinguesse il mio lavoro da quello degli altri. E cosa lo apparentasse.

Lasciando da parte il mondo della favola, che Calvino definisce una " grande enciclopedia del narrabile" e che si configura come uno sublime catalogo di proiezioni, magie, possibilità fantastiche, meraviglioso labirinto in cui perdersi, e ritrovarsi, gli animali che noi incontriamo nella narrativa rivelano, almeno secondo me, più di altri personaggi, la qualità di chi ne scrive. Scrivere di animali è difficile come scrivere d'amore: il luogo comune è sempre in agguato. Ricordo la meravigliosa paginetta che Marguerite Yourcenar dedica a Bòristene, il cavallo di Adriano. Il vecchio imperatore rimpiange la sua pienezza fisica, e la possibilità di montarlo, e ricorda quando "il mio pensiero diventava la sua azione". E rievoca con sette sole parole, tutta la storia della domesticazione, tutta la finezza del rapporto che lega cavallo e cavaliere, tutta l'intimità che si può costruire fra un uomo e la sua cavalcatura. E il senso di comunione con il respiro del mondo che può dare stare in groppa a un destriero.

Marguerite Yourcenar – credo nella raccolta "Il tempo grande scultore" – ritorna sul ritratto che da ragazza fece del suo cane e individua tutte le ingenuità che da giovane la spinsero a dimostrare quanto avesse studiato per scriverne. Si dispiace di non aver messo in campo maggiore emozione. Di aver preso le distanze pur nell'affetto che presiede il ritratto. Di aver eluso il tema del rapporto.

Ecco dunque uno dei nodi centrali del problema. Il rapporto. E lo sguardo. Lo sguardo dello scrittore chino sul personaggio animale, e di conseguenza lo sguardo con cui l' animale guarda il mondo. Il leone che fissa Karin Blixen mentre sola, nella savana Keniota, cerca di raggiungere suo marito impegnato su un fronte di guerra, ha uno sguardo molto diverso da quello con cui il cagnolino guarda la signora di Cecov. La diversità non sta nel fatto che uno è un felino selvatico e l'altro un cane, ma nel suo carico simbolico, nel rapporto che l'autore ha costruito con lui. E nel reticolo di relazioni che ha instaurato fra lui e gli altri personaggi. Inutile dire che nel caso della Blixen quel leone è l'Africa, è il pericolo, è il diritto che ha il Kenia a difendersi dall'intrusione della civiltà bianca, è il contraltare della sua forza – e fragilità – femminili. E tante altre cose ancora. E che il cane della signora del cagnolino è il segno della sua meravigliosa, incantevole e dolorosa solitudine, della sua disponibilità al sentimento, disponibilità che verrà umiliata e tradita.

Tentando una divisione di comodo che ha tutti i difetti dello schematismo, proviamo a distinguere gli animali così come li incontriamo nella narrazione.

L'ANIMALE ANTROPOMORFO.

L'animale, dichiaratamente, esplicitamente immaginato in un mondo che non è naturale, ma piuttosto parallelo e speculare a quello dell'uomo. Penso ai topini di Beatrix Potter, seduti a fare colazione, penso soprattutto a Topolino.

Perché non posso non citare il fumetto di Topolino, che Gillo Dorfles ha detto essere diventato " più vero del vero"? Perché nessun animale come il topo ha la capacità di farsi uomo: nessuno come lui può essere affettuoso, carino, suscitare tenerezza. E nello stesso tempo nascondersi, guizzare via, portare in giro bellamente la sua parte più oscura. Lo nota molto acutamente Antonio Faeti in un suo vecchio, meraviglioso saggio eiunaudiamo che si intitola "In trappola col topo":

" Ci si accosta al topo col timore, non solo con la speranza e la tranquilla accettazione, di trovare in esso l'uomo. Il processo di antropomorfizzazione a cui il topo viene sottoposto è ritmato dal contiguo e collegato rituale esorcistico in base a cui lo si aborre e lo si rende emblema di spaventosi malefizi". Per dirla in soldoni, da una parte c'è Minnie e dall'altra i topi di Morte a Venezia, e quelli di Dracula. Ma sempre topi sono.

Mi si consenta una digressione sul topo, perché la sua storia in letteratura è molto antica : lo sa bene Michel Dansen, autore di una tesi di specializzazione alla Sorbona dal titolo " Il topo nella letteratura francese del diciannovesimo e ventesimo secolo" e creatore una "Accademia internazionale del topo" che ha sede nel quartiere latino, nella stessa casa in cui abitò nel '625 Blaise Pascal. Di questa Accademia è socio anche il nostro Tullio Pericoli, che spiega di aver partecipato al consesso parigino " per tentare di liberarmi dalla nevrosi e dall'ossessione che questi roditori hanno sempre provocato nel mio subconscio. Forse conoscendoli meglio culturalmente – ha scritto Pericoli – riuscirò ad allontanare l'incubo del topo, del topino, ma soprattutto del ratto, un individuo indistruttibile che si è sempre scontrato con l'uomo e nel quale Freud identificava un mostruoso pene a quattro zampe che tenta di penetrare nell'ano".

Il ratto che turba i sogni di Pericoli somiglia a quello immaginato da Patricia Higsmith in "Delitti bestiali", una raccolta di racconti in cui descrive un ratto deciso a procurarsi del cibo, che finisce con il mangiare il visetto di un lattante. Il topo della Highsmith non è cattivo. Perché – ce lo spiega molto bene Danilo Mainardi – gli animali non sono né buoni né cattivi. Non hanno queste categorie morali, che sono squisitamente umane. Il topo della Highsmith è, semplicemente, un topo. Che non ha pensieri, azioni e pulsioni da uomo. Ma da topo. Un animale le cui logiche – ho fame, devo mangiare – possono entrare in profondo conflitto con quelle del genere umano.

Finita la digressione, torniamo alla nostra schematica divisione. E incontriamo

L'ANIMALE SIMBOLICO

L'animale inteso come creatura fantastica, immaginifica, fortemente simbolica. Penso alla balena di Melville, a quella di Pinocchio, e di Giona. Antri paurosi, ma anche ventri materni, viscere capaci di ingoiare e restituire, quegli animali hanno un che di soprannaturale, di mitico, il cui segno e senso voi saprete certo analizzare assai meglio di me, individuando quali e quante siano le proiezioni di cui quelle creature si fanno carico. Penso però anche al destriero che accompagna il protagonista dell'ultimo libro di Manganelli, La palude definitiva, che è una lucidissima ricognizione sull'angoscia che lo portò a morte. Il destriero di Manganelli è in effetti un animale salvifico, che traghetta il protagonista nella palude, lo guarda, e lo giudica. Potremmo dire che è – ed ecco un'altra categoria – un cavallo magico.

L'ANIMALE MAGICO

E subito mi viene alla mente il meraviglioso Kipling: gli animali della sua giungla sono tutti animali magici. Kipling vuole dirci che l'intero mondo – non solo quell'India che lui, inglese coloniale ha amato e descritto con straordinaria finezza – ha bisogno, per sopravvivere, di conservare il senso del sacro. Bagheera, l'orso Balù, il serpente, la mangusta Rikki Tikky Tavi, hanno tutti un unico compito, nei confronti del cucciolo d'uomo Mowgly: ricordargli che la vita ha una luce nascosta, baluginante, difficile da percepire, ma indispensabile da cercare, una luce senza la quale gli atti che noi compiamo non hanno alcuna eco.

Me ne sono accorta quando ho scritto un breve racconto intitolato Il destriero d'argento, in cui le notti desolate di un bambino malamato, vengono rischiarate da un essere che ha forma di cavallo, il colore della luna, e che lo riconcilia con sé stesso e con il mondo.

C'è poi, e può sembrare lapalissiano, L'ANIMALE GUARDATO DALL'UOMO.

E cito subito un esempio altissimo: Cane e padrone di Thomas Mann. Un uomo, un intellettuale, la sua famiglia, la sua casa, la sua servitù, il suo cane. Osservato con amorosa minuzia.

Passo però subito a un esempio più recente e assai meno risolto. Che cito perché può aiutarci a chiarire alcune questioni. Un uomo, un intellettuale, la sua casa, la sua famiglia, un gatto. Quello descritto da Alberto Asor Rosa in un breve romanzo "Storie di animali e altri viventi". In cui a dir la loro sono un gatto prima e una cagna poi.

Asor Rosa finge – o forse in buona fede crede – di dar voce a un gatto domestico. Ma oltre a fornirlo di quattro zampe, e di una coda, non riesce a fare. Quell'animale non è un credibile felino. Non è neppure un essere simbolico, non è una creatura magica.

Non si apparenta, per fare un esempio, ai meravigliosi "Gatti tutto fare," di Eliot, mirabili creature fantastiche, a loro volta parenti degli eroi narrati dalla Gattomachia di Lope de Vega.

Asor Rosa resta, inesorabilmente, a metà del guado. Il suo gatto non è vero, ma non è sufficientemente inventato. Sicché finisce per non avere pensiero.

Eppure l'animale è dotato di pensiero. L'etologo Danilo Mainardi ci ha insegnato che l'animale è una creatura culturale – il libro è di trent'anni fa e si intitola proprio "L'animale culturale" . L'animale ha una mente capace di fare esperienza, di elaborarla e di trasmetterla. Dunque, di fare cultura. Come è possibile coniugare il suo sistema di pensiero con il nostro? Come si intreccia nella pagina, la vita di un gatto e quella di un uomo?

Pensiamo a un grande come Edgar Allan Poe che – ce lo spiega Manganelli nella prefazione ai racconti da lui mirabilmente tradotti – inserisce nell'orrore un elemento ironico, bizzarro, lieve, che rende ancora più perturbante ciò che racconta: ed ecco che un gatto, sguerciato per pura crudeltà dal suo padrone ormai preda delle droghe e del laudano, finisce per smascherare l'uccisione della moglie poiché – rimasto prigioniero nell'intercapedine del muro dove il cadavere della donna è stato nascosto – non smette di miagolare, attirando l'attenzione della polizia.

Il gatto di Poe è il perfetto interprete della geometria del caso, del contrappasso del destino. Somiglia – la cito ancora una volta – al piccolo scondinzolante cagnetto che Patricia Higsmith mette in scena in uno dei suoi incipit più azzeccati: dove si racconta d'una coppia inglese, che prende il té con dei vicini nel giardino del cottage di campagna. E mentre si svolge la cerimonia dei muffins, dei dolci allo zenzero, delle chiacchere amene sul tempo e le piante, ecco arrivare l' allegro e festante botolo dei padroni di casa che ha in bocca qualcosa. Una talpa? Un topo? Forse un uccello? No. Una mano d'uomo disseppellita da un angolo del bosco. Anche qui abbiamo un animale che diventa un deus ex machina, un rivelatore di quanto davvero accade sulla scena dei fatti.

Accade nella morte, ma anche nell'amore: il canuccio della Higsmith può essere apparentato – la strada da compiere è lunga ma possibile – al cane che spira nell'"Insostenibile leggerezza dell'essere" siglando, con la sua morte, la fine dell'amore fra i due protagonisti. Anche la carcassa impagliata del cane Bendicò, che vola dalla finestra nelle ultime pagine del "Gattopardo," sigla la fine di un'epoca, chiude una stagione. Animali usati – il romanziere usa tutto, fruga nella mondezza della vita e ricicla – come messaggeri di qualcosa che non va, che si nasconde, che muta, che cambia. Animali intesi come testimoni lucidi – anche se apparentemente inconsapevoli – dell'esistenza degli umani.

A volte, però gli animali, i personaggi di animali, chiedono di avere una voce alta e forte. La voce di un protagonista che racconta il proprio mondo.

Abbiamo dunque, non più l'uomo che guarda l'animale, ma L'ANIMALE CHE GUARDA L'UOMO. E IL MONDO

Ed ecco allora la questione. Che mi sono posta anch'io nel momento di scrivere certe storie. E' possibile a chi non parla, dare parola? Esprimerne il pensiero logico e compiuto? Lasciando all'animale il ruolo di animale? Io credo di sì. Jack London l'ha fatto.

Se prendiamo i suoi due romanzi più celebri – "Zanna Bianca" e "Il richiamo della foresta", un libro che vi consiglio di rileggere nella collana einaudiana " scrittori tradotti da scrittori", nella bellissima traduzione di Gianni Celati, voi troverete descritta l'odissea di Buck un cane californiano che viene rubato e spedito a trainare le slitte nel Klondike, e di un lupo che viene sottratto ai combattimenti e che diventa cane da guardia di una famiglia di un giudice.

Cosa connota e distingue London? La sua capacità, come scrittore, di farsi animale. Se Tolstoi si è fatto donna nel raccontare la Karenina, London si fa animale. E guarda il mondo con occhi da lupo e da cane. London opera un meraviglioso efficacissimo sdoppiamento: racconta l'odissea di Buck e dei suoi compagni di fatica, racconta come Buck guardi all'uomo cercando in lui il mitico superalfa, il capobranco che ogni cane anela per l'intera sua vita. Ma racconta anche come gli uomini guardino a lui. A volte con rispetto e protezione, altre con volontà di sfruttamento, cupidiglia, crudeltà. London, dunque, costruisce una perfetta interazione fra mondo umano e mondo animale. Perfetta perché espressivamente compiuta, anche nel conflitto, nella tragedia, nella fatica, nell'abbandono, nella morte.

I personaggi di London hanno avuto molti epigoni, soprattutto al cinema: tutti i cani della saga di Lassie, o di Rin Tin Tin. O del commissario Rex sono figli di Buck. E sono diventati a volte intollerabilmente antropomorfi. Si può sostenere che nel cinema non c'è spazio altro che per l'animale antropomorfo?. Che l'animale, per farsi protagonista deve mimare vizi e vezzi dell'uomo? No. La strada è certo impervia, ma vi segnalo alcuni film in cui l'animale resta tale, eppure si fa centro assoluto della storia: il ciuco del film di Robert Bresson "Au Hasard Bathazar", odissea di un asinello che Bresson fa morire al suono della musica di Bach, ucciso mentre porta un carico di contrabbando. La cammella che rifiuta il suo piccolo nel recentissimo "La storia del cammello che piange". Il meraviglioso lupo di " Never Cry Wolf", anomalo film della Disney diretto da un grande regista Carrol Ballard, in cui si racconta di uno scienziato mandato in Alaska a studiare i lupi, che riesce a interagire con gli individui di una famiglia. Per non dire diMicrocosmos, o del Popolo migratore. E di un meraviglioso " cameo" (se fosse un attore diremmo così): quello del canuccio che salva dal suicidio Umberto D.

Vorrei servirmi del cinema, e per la precisione del film " La mosca", ma anche della saga di Alien, per introdurre un ultimo tema: quello dell'ibrido fra uomo e animale. L'ibrido è antico quanto il mito: pensiamo al centauro Chirone, alle sirene, alla sfinge, al Minotauro. L'ibrido racconta una prossimità fra l'uomo e l'animale che si va facendo in questi anni molto sentita e molto moderna: non solo e non tanto per la crescita di una nuova sensibilità animalista ma, al contrario, per l'inquietante pericolo che tale contiguità comporta: " il salto" dall'animale all'uomo compiuto dal virus dell'Aids o da quello della Sars intrecciano strettamente il destino dell'uno a quello dell'altro.

Proprio a Rovereto, si è chiusa questo maggio una mostra intitolata intitolata " Il bello e le bestie" 'Metamorfosi, artifici e ibridi dal mito all'immaginario scientifico' a cura di Lea Vergine e Giorgio Verzotti. Forse la narrativa più nuova e attenta prenderà spunto proprio da queste nuove realtà.

Per quel che mi concerne, io resto ancora indussolubilmente legata allo sguardo e al rapporto perseguiti da London: che è un grande scrittore capace di farsi animale senza mai cedere all'antropomorfismo. Raccontare la percezione che un falco pellegrino ha del vento, l'emozione che suscita in un cane l'arrivo del proprio amato padrone, l'ansia di tornare a casa di un gatto ferito, lo sperdimento di un cavallo che viene trasportato verso la macellazione, restano il nodo centrale del mio agire da romanziere, quando scrivo di animali.

Se mi balocco con l'idea di scrivere VITA OPERE E PENSIERI DI OTTO IL BASSOTTO, so che al dunque finirò per lavorare aL'ORRORE CHE MI HAI DATO, un romanzo sui combattimenti dei cani cercando di entrare nella testa di un molossoide – un pitt bull o un cane corso – torturati fin dalla nascita perché diventino delle macchine di morte. O continuerò a scrivere di cavalli, o in generale di equidi, della loro tragica bellezza, della loro sorte spesso ingiusta e crudele, del mistero che presiede alla loro disponibilità verso l'uomo.

Chiudo questa relazione regalandomi il lusso di una autocitazione. Avrei potuto offrirvi uno dei molti ritratti di cavalli che abitano i miei libri. Ma so che di cavalli parlerà anche Tonia Cancrini. Scelgo perciò le righe che aprono un mio romanzo ambientato nel '500 a Malta, intitolato Le armi e gli amori. Malta è luogo di passaggio dei falchi. E io inizio il romanzo seguendo un falco.

* * *

Prologo

Anno 1565 dell'era cristiana Anno 972 dell'era islamica

Il falco pellegrino uscì dalla macchia, e ignorando le baie a Oriente dell'isola, troppo trafficate di uomini e di merci, puntò verso sud in cerca di preda. Muoveva con lentezza nel cielo terso dell'inverno morente, battendo il territorio con lunghi voli controvento, cui seguiva una planata diagonale. L'isola gli appariva come un universo di piani strapiombanti di terra e d'acqua: ne scorgeva il profilo nitido delle coste, il rilievo delle colline, il disegno dei contrafforti, l'infinito variare dei quadrilateri dei campi. Raggiunta la costa, una pietraia plumbea brulicante di granchi, il pellegrino scese per tre volte in picchiata, esercitando la mira. E finalmente si sentì pronto per la caccia. L'acqua stagnante della salina ne riflesse la testa arrotondata, il largo petto, le ali appuntite, le penne maestre lunghe ed esili per la velocità, le remiganti secondarie lunghe e larghe che lo aiutavano a sollevare le prede pesanti, il becco adunco, il dente della mandibola superiore, le zampe grosse e muscolose.

Era una femmina. Un falcone di due anni con una maschera facciale bianca e marrone ben delineata, utile a spaventare la preda e farle prendere il volo. Continuando la sua ricognizione, il falcone volò sul mare, alzandosi fino a intravedere, nella foschia lontana, le coste di Sicilia. Planò nuovamente verso sud puntando in direzione delle coste africane, e profittò delle correnti ascensionali per riposare, le ali larghe e tese, l'occhio perduto nel vasto orizzonte. Quelle terre erano sue, quel mare era il suo mare: litorali, isole, penisole che l'estate rendeva aride, un giallo arabesco nello smalto delle onde, e poi ancora deserti, strapiombi rocciosi, dolci acque fluviali, altopiani spazzati dai freddi venti dell'inverno, carovane di uomini, animali, granaglie, messi e merci, tutto s'affacciava in quell'enorme bacino che a Oriente si incuneava fino alle gelide steppe dell'Anatolia, e a Occidente era sbarrato da uno stretto oltre il quale s'apriva l'ignoto.

Piegando in direzione di Malta, il falcone avvistò nei pressi della costa un gruppo di colombacci in candido volo. Appariscenti, rumorosi, pesanti, i colombacci erano una preda ideale: pronti a vedere il pericolo dal basso, quando venivano attaccati dall'alto non riuscivano a fuggire con sufficiente rapidità, e il loro volo retto era lento a curvare. Per esser certo di coglierli di sorpresa, il falcone si lasciò il sole alle spalle, poi s'alzò fino a rendersi invisibile e solo allora si tuffò in picchiata. Mentre scendeva, veloce come un dardo, protese le zampe in avanti, finché i piedi non gli arrivarono sotto il petto. Piegò le tre dita anteriori, allungò il dito posteriore e si preparò a colpire.

Nessun carnivoro è più efficiente o più pietoso d'un pellegrino: l'urto violento, il dito che perfora come uno stiletto il petto o il dorso della preda, conducono quasi sempre a una morte istantanea. Il colombaccio, l'ultimo dello stormo, il più sprovveduto, forse il più giovane, morì fulmineamente, mentre i suoi compagni si dispersero vociando spaventati. Il falcone riprese quota, allargando le ali che al momento dell'attacco aveva sollevato sopra il dorso. Stringendo il suo pasto fra gli artigli puntò verso una piccola piana a ridosso d'un muraglione di tufo, dov'era solito abbandonare le prede dopo essersi saziato. A volte tornava a mangiare i suoi stessi avanzi anche il giorno seguente. Altre volte, quelle carni contribuivano al sostentamento di topi, corvi, gheppi e gabbiani. Come sempre, prima di mettersi a mangiare, spennò il colombaccio: tenendolo fermo con il suo stesso peso, strappò con il becco un ciuffo di penne. Lavorava già da qualche tempo, quando una grossa rete di corda piombò su di lui, imprigionandolo. Subito il falcone tentò di sollevarsi, ma le maglie della rete erano pesanti, e non gli riuscì di muoversi. Spaventato, si costrinse all' attesa. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma la nitida e oscura consapevolezza dell'istinto gli rivelò che da predatore era divenuto una preda.

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