Affrontare in psicoterapia le problematiche di natura fobica non è semplice soprattutto perché queste si innervano in molti disturbi; troviamo delle "nervature" fobiche in molti problemi comuni, come il disturbo di panico (che in fin dei conti è un disturbo fobico, in cui cioè è presente un oggetto che viene temuto -in questo caso il panico stesso-, e che è in grado di scatenare reazioni potenti di allarme), il disturbo ossessivo compulsivo (pensiamo per esempio alla fobia di contaminazione), i disturbi post traumatici in cui alcuni elementi del mondo interiore (come i ricordi post traumatici o le flashbulb memories, o alcune parti di sé) divengono oggetti di fobia (che in questo caso viene appunto chiamata fobia degli stati interni).
Osserviamo che l’individuo si abitua a vivere un mondo sempre più piccolo: come in un gioco in soggettiva, alcune aree o zone del suo mondo divengono lentamente oscurate, off-limits, non raggiungibili: la zona di comfort sembra l’unica in grado di garantire il senso di sicurezza dell’individuo.
Alcune situazioni però ci fanno riflettere su come funzioni e come si risolva il disturbo fobico. Proviamo a illustrarne alcune con delle vignette cliniche:
- una paziente supera molto rapidamente la sua fobia per il volo quando richiamata nel suo paese di origine da una notizia grave a riguardo di un suo famigliare
- un paziente con disturbo di panico con agorafobia, si trova ad assistere in prima persona a un terremoto: in quel momento emerge in lui una calma serafica, che lo rende perfettamente in grado di aiutare molteplici persone colpite dal cataclisma, come avendo dimenticato il disturbo di panico che prima sembrava così invalidante
- una paziente con fobia di contaminazione, supera la sua paura dopo aver ricevuto una diagnosi negativa poi rivelatasi incorretta, che lo porta a superare in un colpo la maggior parte dei suoi blocchi
Queste situazioni cliniche sono tutt'altro che rare, e anzo si presentano frequentemente in concomitanza con i problemi dello “spettro fobico”, portandoci ad alcune osservazioni che riguardano la sua fenomenologia:
- in alcune situazioni si instaura tra il disturbo fobico e un altro problema, un conflitto che riguarda il peso che quei due problemi rappresentano per il paziente. Sembra esistere cioè un momento in cui il paziente compie implicitamente una valutazione sul male minore tra due scelte differenti, pur entrambe sofferte: spesso la problematica fobica viene valutata come la meno conveniente in termini di priorità, e bypassata, risolvendosi in modo pressoché totale. Già questo ci dovrebbe far riflettere su come il problema fobico sia un problema “costruito” dal soggetto, in grado di essere superato quando l’ambiente intorno imponga un “cambio di passo”
- in altre situazioni ancora, alcune forme di fobia sembrano trovare un punto di sblocco quando il soggetto accetta il rischio che ciò che teme possa accadere. Nell’attesa dell’evento temuto, la portata dell’evento stesso cresce. Ovvero, la rappresentazione dell’oggetto fobico cresce a dismisura fino a divenire per il paziente intollerabile, impossibile anche solo da immaginare. Ci accorgiamo spesso tuttavia di come per alcuni individui arrivi un momento di “introiezione del fatalismo”, accompagnato da uno stato di de-responsabilizzazione e partendo dal quale diviene possibile affidarsi a quello che succede all’esterno. In quel momento, l’ansia si placa, il soggetto accetta il rischio che ciò che teme possa accadere tornando a contemplarlo tra le opzioni possibili, consentendosi un “passo avanti” al di fuori della consueta zona di comfort. Osserviamo cioè uno sblocco generato, in fin dei conti, dall’accettazione di un non-controllo su ciò che può accadere all’esterno, un affidarsi all’ambiente circostante e al “fato”, verso una posizione appunto più fatalistica. É evidente come da un lato sia necessario per il paziente perdere una quota di controllo, delegando una parte del controllo all’esterno, e insieme contemplare la possibilità di un rischio percepito prima intollerabile, di fatto assumendo l’ipotesi di un proprio danno -se non addirittura della propria morte.
L'accettazione del rischio, l’assunzione dell’idea di un proprio danno, l’affidarsi all’esterno (come al momento del decollo su un aereo per un paziente che soffra di fobia del volo, nel momento in cui si affida alle capacità del pilota), inducono uno stato di calma in cui la fear response (lo stato di freezing generato dall'attivazione simpatica del Sistema Nervoso Autonomo) scompare o si riduce sensibilmente.
In questo stato di calma, è possibile per il paziente eseguire passi al di fuori della sua zona “sicura”, acquisendo sicurezza e di fatto sbloccandosi.
Per arrivare a questo stato di “calma” indotta dai movimenti psichici prima citati, occorre che il paziente tuttavia si esponga allo stimolo fobico, ovvero che lo approcci, gli si avvicini.
La terapia espositiva è considerata la terapia più efficace per i disturbi di natura fobica, basandosi su un razionale molto semplice, in fondo: occorre che noi tutti ci si confronti con gli oggetti delle nostre paure, almeno per gradi. Spesso capiterà che, a stretto contatto con essi, si inneschino delle reazioni fisiologiche di natura mentale che produrranno trasformazioni nell'approccio all’oggetto fobico stesso, ri-consegnando al paziente quote di controllo prima impossibili da considerare.
Per spingere il paziente a esporsi allo stimolo, è spesso necessario un deus ex machina che si introduca sulla scena del paziente, spingendolo/a ad andare incontro alla sua personale “esposizione”.
Spesso il ruolo del terapeuta è proprio questo, semplicemente: porsi come “terzo” polo in grado di spingere il paziente a un progressivo affronto delle sue paure radicate nel tempo.
Vediamo alcune caratteristiche della terapie espositiva, la ESP. Ne abbiamo già scritto qui a proposito dell’uso della realtà virtuale per il movimento di esposizione, che come è logico aspettarsi diventerà uno strumento usato largamente, nel prossimo futuro (in ambito di psicoterapia congitivo comportamentale e non).
Questo articolo offre degli spunti interessanti per capire come mai la terapia espositiva sia stata considerata una “prima scelta” nei disturbi fobici.
L’articolo è una review sistematica: le review sistematiche prendono in esame (in teoria) tutta la letteratura presente su un dato argomento, mettendola insieme per fare un “punto della situazione”.
Vediamone alcuni aspetti:
- questo articolo è da inserire in una cornice teorica cognitivo-comportamentale: la paura di uno stimolo si basa, alla luce di questo modello teorico, su un meccanismo di apprendimento più o meno complesso. Lo stimolo fobico, per diverse ragioni, diviene per l’individuo associato a reazioni di paura: la terapia espositiva tenta di rompere questa associazione stimolo/risposta. Ci sono diversi studi sull'apprendimento a prova singola che sono di estremo interesse anche in ambito di trauma: cos’è il PTSD, d'altronde, se non una forma estrema e complessa di apprendimento (ne abbiamo scritto qui, per chi fosse interessato)
- la terapia espositiva è la variante moderna della Desensibilizzazione Sistematica, ideata negli anni ‘50: l’ulteriore sviluppo consisterà nelle varianti integrate da approcci tecnologici (come appunto la Realtà Virtuale)
- gli autori prendono in esame 111 studi, effettuati con soggetti sofferenti di una Fobia Specifica, evidenzando diversi fattori di successo o di insuccesso (stile di coping, aspetto neurofisiologici, caratteristiche della terapia come durata delle sedute e frequenza): quello che per noi è interessante è capire come questi fattori di successo o insuccesso ben si inseriscano nella cornice del Modello dell Apprendimento Inibitorio di Craske, qui descritto, di fatto la “punta di diamante” dell’approccio epositivo al problema della fobie specifiche. Questo modello (approfondito più avanti in questo articolo) vuole non tanto “rompere” associazioni risposta/stimolo attraverso un progressivo esporsi del paziente agli stimoli temuti, ma teorizza una possibile “riscrittura” delle associazioni da lui/lei messe in atto, che andranno a sostituirsi alle prime, disfunzionali.
IL MODELLO DELL’APPRENDIMENTO INIBITORIO DI CRASKE
In questo articolo, gli autori mettono a confronto il metodo classico su cui si incentra storicamente la terapia espositiva (basato su esercizi di desensibilizzazione sistematica), con un nuovo modo di attuare la terapia espositive -basato sull'apprendimento inibitorio.
La terapia espositiva classica, nacque a fine anni ‘50 grazie al lavoro di Joseph Wolpe, con appunto l’esercizio di desensibilizzazione sistematica: se un soggetto aveva appreso a temere le conseguenze di un certo stimolo, presentandogli/le lo stimolo in modo graduale e in un contesto controllato, avrebbe lentamente spento l’associazione originale stimolo/risposta. Sarebbe stato sufficiente per esempio esporre gradualmente un paziente a fotografie e a incontri sempre più ravvicinati con il suo oggetto fobico (per esempio i cani) per produrre uno spegnimento graduale della fear response, verso una sua definitiva estinzione.
Nel tempo venne osservato come la risposta fobica fosse dura a morire, e che anzi sembrasse riaccendersi nel tempo, soprattutto quando il soggetto si trovasse in contesti differenti e nuovi (a seguito cioè di un “rinnovo contestuale”), e a causa di “eventi avversi improvvisi”. Ovvero: la terapia espositiva classica non sembrava sufficiente. La terapia espositiva classica sembrava inoltre non funzionare su pazienti particolarmente ansiosi, per i quali non sembrava facile “apprendere” il meccanismo di “estinzione”.
Per questo, gli autori descrivono in questo articolo come il metodo incentrato su l'estinzione sia stato nel tempo radicalizzato, arrivando appunto al modello di apprendimento inibitorio.
Il razionale su cui si fonda il modello di apprendimento inibitorio, potrebbe essere semplificato in:
“non è sufficiente che il soggetto dis-impari ad aver paura de-sensibilizzando: è necessario che il soggetto associ allo stimolo fobico un altro tipo di reazione -neutra- che “sovrascriva” la prima risposta disfunzionale”.
Questo articolo ci illustra meglio i punti del modello (che l’autore definisce in grado di regalare una “seconda giovinezza” alle terapie espositive), partendo con le già citate fragilità del modello espositivo classico:
- nonostante il tentativo di “sovrascrittura” della nuova associazione stimolo/risposta, la paura sembra tornare in determinate circostanze, come prima accennato (eventi stressanti slegati dalla paura originaria, cambio di contesto che annulla il “potere” della nuova associazione neutra)
- negli individui con problematiche di ansia, l'apprendimento inibitorio sembra più difficile, se non impossibile
A causa di queste fragilità, il modello dell'apprendimento inibitorio in origine pensato da Michelle Craske e poi sviluppato in altri gruppi di ricerca, tentò di potenziarne gli effetti usando 3 strategie complementari:
- strategie comportamentali
- strategie farmacologiche
- strategie di neuromodulazione
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Le strategie comportamentali rappresentano degli atti di “potenziamento” dell’apprendimento inibitorio, volto a renderlo più stabile nel tempo. L’autore sottolinea come a queste strategie di potenziamento abbia contribuito anche Jodeph LeDoux, probabilmente lo scienziato più noto al mondo in ambito di “paura” e risposte ansioso/fobiche.
Che fare durante la procedura di esposizione per aumentarne gli effetti? Il modello di apprendimento inibitorio prevede di:
- etichettare le emozioni durante la procedura di esposizione (l’affect labeling di cui abbiamo qui già scritto)
- portare al massimo livello il grado di imprevedibilità l'esposizione agli stimoli temuti (si tenta in altre parole di rendere casuale e iper-ansiogena la procedura di esposizione in modo da renderla più stabile nel tempo -una procedura definita estinzione profonda)
- ridurre al minimo i segnali di sicurezza durante l'esposizione, cosa che interferirebbe col processo di apprendimento riducendo l’ansia (nell’articolo leggiamo “Comuni comportamenti o segnali di sicurezza per chi soffre di disturbi d’ ansia sono, ad esempio, certi comportamenti di controllo, la presenza di un’altra persona, il terapeuta, il telefono cellulare, i farmaci, bevande varie, etc.”)
- minimizzare gli interventi cognitivi durante l’esposizione; ovvero: non parlare nè commentare alcunchè durante l’esposizione, dato che questo potrebbe interferire con la credenza del paziente sulla minaccia, di fatto interferendo sul processo di apprendimento inibitorio. Viene sottolineato dall’autore come Joseph Ledoux arrivi a una conclusione simile nel suo “Ansia, come il cervello ci aiuta a capirla”, ma da un punto di vista neurobiologico. Interessante inoltre notare come anche nel protocollo EMDR le parole siano al minimo, per favorire anche qui l’accesso diretto e non mediato del paziente al ricordo/target traumatico (ma in un ambito di psicoterapia differente, probabilmente con razionali e intenzioni diverse)
- variare di frequente la forma dello stimolo, dato che “La variabilità suscita alti livelli di attivazione fisiologica e ansia soggettiva, ostacolando l’abituazione e mantenendo elevate l’attenzione e l’aspettativa di minaccia”
- variare di frequente il contesto in cui avviene l’esposizione (“Per ovviare a tale ostacolo l’esposizione dovrebbe essere svolta in ambienti diversi come, ad esempio, da soli o in compagnia, in studio del terapeuta o in luoghi sconosciuti, variando le ore del giorno o i giorni della settimana”)
- riposare o dormire a seguito dell’esposizione, per favorire il consolidamento mnestico (anche qui, elemento sottoscritto da LeDoux, corroborato da molteplici studi di ricerca in ambito neurobiologico)
- fare le esposizioni al mattino, per via di un differente panorama neurobiologico interno, relativamente al livello di cortisolo prodotto (più alto al mattino); si veda questo articolo
- lavorare sul processo di ri-consolidamento. Numerosi studi indicano come la memoria sia co-costruita nel momento presente; immaginare la memoria come un’attività di ripescaggio da uno stock di ricordi immutabili, è una pia illusione (ne abbiamo parlato a fondo qui), fatta eccezione forse per alcuni tipi di ricordi traumatici. La memoria è costruita socialmente e gli stessi ricordi, quando ripescati, vengono consolidati e ri-consolidati di continuo. Per questo, alcuni studi osservarono come persistere nell’esposizione “massiva” nella finestra temporale di ri-consolidamento dei ricordi problematici, desse risultati migliori e più persistenti (si trattava dunque di eseguire la procedura espositiva da 10 minuti a 6 ore dalla prima esposizione, con funzione di trigger). Si veda anche qui). Abbiamo già parlato di ri- consildamento in ambito di PTSD, qui
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L’autore qua illustra una serie di interventi farmacologici in teoria funzionali a “potenziare” l'effetto dell’esposizione, attraverso diversi meccanismi di funzionamento, dall’uso del Cortisolo alla L-Dopa, fino all’uso dell'Ossitocina e della Cannabis. Si tratterebbe di integrare alla terapia espositiva l’uso di un farmaco che “favorisca” il consolidamento delle nuove memorie, funzionali a sostituirsi a quelle “fobiche”. L’integrazione psicoterapia/farmaco in sede di colloquio clinico appare una prassi d’avanguardia, come gli studi sull’uso dell’MDMA per il PTSD ci raccontano ormai ampiamente. Si veda l’articolo per un approfondimento su questi aspetti.
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Per quanto riguarda le strategie di neuromodulazione, ne conosciamo 3. L’obiettivo sembra essere, anche in questo caso, potenziare il momento dell’esposizione intervenendo direttamente sul cervello, attraverso diverse vie. Al momento sono state studiate tre modalità:
- stimolazione cerebrale profonda: prevede l'erogazione di impulsi elettrici attraverso elettrodi impiantati nelle regioni profonde del cervello. Ha attirato un certo interesse per le pubblicazioni e gli studi inerenti il trattamento di disturbi non facilmente trattabili come il Morbo di Parkinson o forme estreme di DOC; in questo caso la letteratura riporta effetti “massimizzati” quando combinati all’attività di esposizione
- stimolazione magnetica transcranica: anche qui abbiamo osservato negli ultimi anni un certo interesse a questa pratica soprattutto per particolari problematiche molto resistenti, per esempio la dipendenza da cocaina. Esistono diversi centri in Italia che la praticano, soprattutto in questo ambito, per esempio il gruppo di Gallimberti (https://www.disintossicazione.it/), ; alcuni studi hanno rilevato come, abbinata alla semplice terapia espositiva, la TMS sembri implementarne gli effetti
- stimolazione del nervo vago: l’autore cita qui un metodologia molto avanguardisitca e per ora poco usata nè i cui effetti sembrano compresi a fondo, ancora ricercata per lo più in ambito pre-clinico, consistente nell’impianto di un pacemaker sottopelle volto a stimolare il nervo vago sinistro (qui per approfondire).
Al di là delle metodologie di potenziamento della terapia espositiva, e dei modelli che sappiano indicarci il suo utilizzo, è importante sottolineare come il suo utilizzo si nasconda nel razionale teorico di molte altre prassi cliniche; pensiamo per esempio all’EMDR, che vuole de-sensibilizzare l'individuo all’emergere di memorie traumatiche, di fatto esponendolo ad esse in condizioni di sicurezza, o alle metodologie di visualizzazione come la Moviola di Guidano o le varie forme di imagery. Oppure, parlando di mindfulness, è di nuovo l’esposizione ai contenuti di pensiero disturbanti che consente di distaccarsene, de-sensibilizzandosi ad essi (di nuovo, dunque, una forma di terapia espositiva).
Per un ulteriore approfondimento: https://www.youtube.com/watch?v=pKPgFVKVFLA
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