Traduzione di Antonello Sciacchitano
Capitolo II
Il tabù e l’ambivalenza dei moti affettivi
1
Tabù è una parola della Polinesia; tradurla ci procura difficoltà, perché non possediamo più il concetto così indicato. Tra gli antichi romani era ancora corrente: il loro sacer è lo stesso di “tabù” dei polinesiani. Anche l’ayos dei greci, il Kodausch degli ebrei, doveva avere lo stesso significato, espresso dai polinesiani con il loro termine tabu e da molti altri popoli dell’America, dell’Africa (Madagascar), dell’Asia settentrionale e centrale con analoghe denominazioni.
Per noi il significato di tabù si scinde in due direzioni opposte. Da un lato, vuol dire santo, consacrato; dall’altro, inquietante, pericoloso, proibito, impuro. In polinesiano l’opposto di tabù si dice noa, ossia “usuale”, “in generale accessibile”. Così al tabù aderisce qualcosa come una sorta di riserva; si estrinseca essenzialmente anche in divieti e restrizioni. Il nostro composto “sacro timore” coinciderebbe spesso con il senso del tabù.
Le restrizioni del tabù sono qualcosa di diverso dai divieti religiosi o morali. Non sono ricondotte al comandamento di un dio, ma in senso proprio si vietano da sé; le distingue dai divieti morali il mancato inserimento in un sistema che dichiari del tutto in generale necessarie certe astensioni e fondi anche tale necessità. I divieti del tabù sono privi di ogni fondamento; la loro origine è sconosciuta; inintelligibili per noi, appaiono ovvi a chi ne è dominato.
Wundt chiama il tabù “il più antico codice di leggi non scritte dell’umanità”.1 Si ammette in genere che il tabù sia più antico degli dei e risalga a tempi precedenti ogni religione.
Poiché ci serve una descrizione imparziale di tabù da sottoporre alla considerazione psicanalitica, faccio seguire un estratto dall’articolo che l’Enciclopedia britannica dedica alla voce Taboo, redatta dall’antropologo Northcote W. Thomas.2
In senso stretto il tabù comprende solo:
a) il carattere sacro (o impuro) di persone o di cose,
b) il tipo di proibizione risultante da questo carattere,
c) la sacralità (o impurità) derivante dall’infrazione di questo divieto. L'opposto del tabù si dice in lingua polinesiana noa, cioè “usuale” o “generale” (…).
In senso più lato si possono distinguere diversi generi di tabù:
1) naturale o diretto, risultato di una forza misteriosa (mana) inerente a una persona o a una cosa;
2) trasmesso o indiretto, che procede anch’esso da quella forza, ma è o a) acquisito o b) imposto da un sacerdote, da un capo o da qualcun altro;
3) intermedio, rispetto ai precedenti, dove sono presenti entrambi i fattori, come nel caso che una donna acquisisca il tabù da parte del marito … Il nome tabù è applicato anche ad altre restrizioni rituali; tuttavia sarebbe meglio non riferire al tabù tutto ciò che rientra meglio nella definizione di interdizione religiosa”.
Gli scopi del tabù sono molteplici. 1) I tabù diretti hanno come fine: a) la protezione di cose e persone importanti – capi, sacerdoti ecc. – contro i danni che potrebbero esser loro arrecati; b) la salvaguardia dei deboli – donne, bambini e la gente comune in generale – contro il potente mana (influenza magica) di capi e sacerdoti; c) la tutela da pericoli collegati al toccare cadaveri, al mangiare determinati cibi ecc.; d) la salvaguardia degli atti più importanti della vita – nascita, iniziazione, matrimonio e funzioni sessuali ecc. – contro qualsiasi cosa interferisca con essi; e) la protezione di esseri umani dall’ira o dalla potenza di dei e spiriti;3 f) la protezione di nascituri e infanti da molteplici pericoli che li minacciano per la relazione particolarmente solidale con i propri genitori, se, per esempio, fanno certe cose o assumono certi cibi, mangiando i quali certe qualità si possono trasferire ai figli. Un’altra applicazione di tabù è per proteggere dai ladri le proprietà di una persona, i suoi strumenti di lavoro, i suoi campi, ecc.
Sin dall’origine la punizione per la trasgressione di un tabù è interamente affidata a un dispositivo interno operante automaticamente: il tabù violato si vendica da sé. Quando sopraggiungono rappresentazioni di dei o spiriti, con cui il tabù entra in rapporto, ci si aspetta una punizione automatica dalla potenza della divinità. In altri casi, verosimilmente in seguito all’ulteriore evoluzione del concetto, è la società ad assumersi il compito di punire il temerario che con il suo operato ha messo in pericolo i compagni. Così anche i primi sistemi penali dell’umanità si riallacciano al tabù.
Chi ha violato un tabù è diventato a sua volta tabù. Certi pericoli derivanti dalla violazione di un tabù si possono scongiurare mediante atti di penitenza e cerimonie di purificazione.
Si ritiene che la fonte del tabù sia una specifica forza magica inerente a persone e a spiriti, da cui si può trasferire attraverso oggetti inanimati. Persone o cose che sono tabù si possono paragonare a oggetti carichi di elettricità; sono sede di un pauroso potere trasmissibile per contatto che si scatena con effetti funesti, se l’organismo che lo ha suscitato è troppo debole per resistervi. La conseguenza della violazione di un tabù non dipende solo dall’intensità della forza magica insita nell’oggetto tabù, ma anche dall’intensità del mana che ad esso si oppone nel sacrilego. Così, per esempio, re e capi sono depositari di un’enorme forza, e i sudditi che si rivolgessero direttamente a loro troverebbero la morte; ma un ministro o un'altra persona dotata di un mana superiore all’usuale può avvicinarli impunemente, e a sua volta può essere avvicinato dai suoi inferiori senza pericolo … Anche i tabù indiretti dipendono per la loro portata dal mana della persona da cui promanano; i tabù che promanano da un re o da un sacerdote sono più potenti di quelli provenienti da un uomo comune.
La trasmissibilità di un tabù è senz’altro la caratteristica che ha motivato il tentativo di eliminare il tabù con cerimonie di espiazione.
Vi sono tabù permanenti e temporanei. Alla prima categoria appartengono i sacerdoti e i capi, i defunti e quanto appartenne loro. I tabù temporanei sono legati a circostanze particolari, per esempio alla mestruazione e al puerperio, alla situazione in cui si trova il guerriero prima e dopo la spedizione, alle attività della pesca, della caccia ecc. Si può anche proclamare un tabù generale su una grande regione – analogo a un interdetto ecclesiastico – e mantenerlo per anni.
*
Se so valutare esattamente le impressioni dei miei lettori, ora mi arrischio ad affermare che, dopo tutte queste informazioni sul tabù, non sappiano ancora bene che cosa debbano intendere con questo termine e dove collocarlo nel loro modo di pensare. Certo è la conseguenza dell’insufficiente informazione che hanno ricevuto da me e del venir meno di ogni discussione sui rapporti tra tabù e superstizione, tabù e credenza nelle anime, tabù e religione. Tuttavia, d’altro canto temevo che una descrizione più esauriente di ciò che sappiamo sul tabù avrebbe potuto avere un effetto ancora più confusivo, e posso assicurare che in realtà la situazione di fatto è tutt’altro che limpida.
Si tratta, insomma, di una serie di restrizioni cui questi popoli primitivi si sottomettono: questo e quello sono proibiti, ma non sanno perché né viene loro in mente di chiederlo; si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, persuasi che calpestare uno di questi divieti sarebbe punito nel modo più duro. Vi sono resoconti attendibili secondo cui aver inconsapevolmente violato uno di questi divieti è stato in effetti punito in modo automatico. Per esempio, l’innocente peccatore che ha mangiato un animale a lui proibito si deprime profondamente; aspetta la morte e poi muore davvero. I divieti concernono per lo più la possibilità di godere di qualcosa, la libertà di movimento e di rapporti; in alcuni casi sembrano ricchi di significato e devono chiaramente indicare astensioni e rinunce; in altri casi sono di contenuto del tutto incomprensibile, si riferiscono a minuzie prive di valore e sembrano del tutto cerimoniali.
Sembra che alla base di tutti questi divieti ci sia qualcosa come una teoria che li rende necessari, perché certe persone o cose hanno una forza pericolosa che si trasferisce per contatto con l’oggetto così carico, quasi come per contagio. Si considera anche la quantità di questa pericolosa proprietà. Una persona o una cosa ne ha più di un’altra e il pericolo si regola addirittura sulla differenza di carica. In tutto ciò l’aspetto più singolare è che chi giunga a trasgredire tale divieto acquisti a sua volta il carattere della cosa proibita, come se, per così dire, avesse preso su di sé tutto il carico di pericolosità. Questa forza aderisce a tutte le persone in qualche modo speciali, come re, sacerdoti, neonati, e a tutte le condizioni eccezionali, per esempio quelle fisiche della mestruazione, della pubertà, della nascita, di tutto ciò che è inquietante, come la malattia, la morte e a ciò che vi si connette per la facoltà di contagio o di diffusione.
“Tabù” è detto però di tutto ciò che sia portatore o fonte di tale misteriosa qualità, si tratti di persone o anche di località, oggetti, circostanze transitorie. Tabù è detto anche del divieto che promana da questa proprietà; infine è tabù, in senso letterale, qualcosa che comprende al tempo stesso il concetto di sacro, elevato al di sopra del comune, ma anche di pericoloso, impuro, inquietante.
In tale parola, e nel sistema che designa, si esprime un frammento di vita psichica, che non ci sembra in realtà immediatamente comprensibile. Soprattutto si dovrebbe pensare che sia impossibile avvicinarsi alla comprensione senza addentrarsi nelle credenze in spiriti e demoni, caratteristiche di civiltà tanto arcaiche.
Perché mai dovremmo interessarci all’enigma del tabù? Non solo, ritengo, perché ogni problema psicologico merita in sé che se ne tenti una soluzione, ma anche per altri motivi. Possiamo immaginare che il tabù dei selvaggi della Polinesia non sia dopo tutto così lontano da noi come sulle prime siamo inclini a credere, e che le proibizioni in fatto di costumi e di morale, cui noi stessi obbediamo, potrebbero avere, nella loro essenza, una parentela con questo tabù primitivo, e che chiarire la natura del tabù potrebbe far luce sull’origine oscura del nostro “imperativo categorico”.
Staremo dunque a sentire con tensione densa di aspettative l’esposizione che uno studioso come Wilhelm Wundt fa della sua concezione del tabù, tanto più se promette “di risalire alle radici ultime delle rappresentazioni del tabù”.4 Del concetto di tabù Wundt dice che “comprende tutte le usanze in cui si esprime il timore per determinati oggetti connessi a rappresentazioni liturgiche o ad azioni che vi si riferiscono”.5 E altrove: “Se con il termine di tabù intendiamo, in accordo con il significato generale della parola, ogni divieto stabilito dall’uso e dal costume o da leggi espressamente formulate, di toccare un oggetto, di usarlo personalmente, o di usare certe parole rigorosamente vietate…”, non ci sarebbe nessun popolo e nessun grado di civiltà sfuggito al danno del tabù.
Wundt spiega poi perché gli sembri più adatto allo scopo studiare la natura del tabù nelle condizioni primitive dei selvaggi australiani piuttosto che nella civiltà superiore dei polinesiani. Ordina i divieti da tabù in uso tra gli australiani in tre classi, a seconda che riguardino animali, uomini o oggetti di altro genere. Il tabù degli animali consiste in sostanza nel divieto di ucciderli e mangiarli; costituisce il nucleo del totemismo (v. il primo e ultimo saggio del libro).
Il tabù del secondo tipo, che ha l’uomo per oggetto, è di carattere essenzialmente diverso. Sin dall’inizio soggiace a condizioni che implicano un tipo di vita inconsueto per l’uomo tabù. Così i ragazzi sono tabù in occasione della cerimonia di iniziazione, le donne durante la mestruazione e subito dopo il parto; sono tabù i neonati, gli ammalati, e soprattutto i morti. Gli oggetti di uso costante appartenenti a un uomo, per esempio le vesti, gli utensili, le armi, rappresentano un tabù permanente per ogni altra persona. In Australia tra le proprietà più personali vi è anche il nuovo nome che il ragazzo riceve in occasione della sua iniziazione virile, che è tabù e va tenuto segreto. I tabù del terzo tipo, riguardanti alberi, piante, case, località, sono più variabili, e sembrano seguire solo la regola secondo cui è soggetto a tabù tutto ciò che per una causa qualunque è inquietante o suscita timore.
Lo stesso Wundt deve chiarire che le variazioni subite dal tabù nella civiltà più ricca dei polinesiani e dell’arcipelago malese non sono molto profonde. La differenziazione sociale più accentuata di questi popoli si fa sentire nel fatto che capi, re e sacerdoti esercitano un tabù particolarmente efficace e loro stessi sono esposti alla più forte coazione del tabù.
Ma le specifiche fonti del tabù stanno più a fondo degli interessi dei ceti privilegiati. “Nascono là dove originano le pulsioni più primitive e al tempo stesso più durature dell’uomo, nella paura dell’effetto di potenze demoniache”.6 “Il tabù, che in origine non è altro che la paura oggettivata di fronte alla potenza demoniaca, supposta nascosta nell’oggetto tabù, proibisce di eccitare questa potenza, e ordina di liquidare la vendetta del demone se, in modo consapevole o no, è stato offeso”.
Poi il tabù si trasforma gradualmente in una forza fondata su sé stessa, indipendente dal demonismo. Diventa coazione imposta dal costume e dalla tradizione e, infine, dalla legge. “Ma il comandamento inespresso celato dietro le proibizioni del tabù, largamente mutevoli a seconda del luogo e del tempo, è in origine uno solo, questo: “Previeni l’ira dei demoni”.
Wundt ci insegna, allora, che il tabù è espressione e sbocco della credenza dei popoli primitivi in potenze demoniache. In seguito il tabù si sarebbe sciolto da questa radice e sarebbe rimasto una potenza semplicemente perché lo era stato, grazie a una sorta di perseveranza psichica; così sarebbe esso stesso diventato la radice dei nostri imperativi di costume e delle nostre leggi. Ora, benché la prima di queste affermazioni non susciti obiezioni, credo di dare a molti lettori la parola dicendo che la spiegazione di Wundt sia deludente. Ciò non significa certo risalire alle fonti delle rappresentazioni del tabù o indicarne le radici ultime. Né la paura né i demoni si possono considerare in psicologia termini ultimi, al di là dei quali non si possa risalire. Le cose starebbero altrimenti se i demoni esistessero davvero; ma essi – lo sappiamo bene – sono a loro volta, al pari degli dei, creazioni delle forze psichiche dell'uomo; sono stati creati da qualcosa e grazie a qualcosa.
Sul doppio significato del tabù, Wundt esprime opinioni significative ma non del tutto comprensibili. Per lui all’inizio del tabù non c’è ancora la scissione tra sacro e impuro. Appunto per questo a tali concetti manca qui il significato che poterono assumere solo contrapponendosi l’uno all’altro. L’animale, l’uomo, il luogo dove il tabù poggia, sono demoniaci, non sacri e perciò neanche impuri nel senso successivo. L’espressione “tabù” si adatta bene al significato ancora indifferentemente intermedio del demoniaco – l’intoccabile –, perché sottolinea una caratteristica destinata a rimanere in tutti i tempi comune sia al sacro sia all’impuro: la fobia del suo contatto. Proprio nel permanere di questa caratteristica comune sta un indizio dell’originaria concordanza tra i due ambiti del sacro e dell’impuro, differenziati solo in seguito a ulteriori condizioni, alla fine sviluppandosi entrambi in contrapposizione.
La credenza propria del tabù delle origini nella potenza demoniaca celata nell'oggetto, il cui contatto o impiego illecito provoca la vendetta sul colpevole mediante incantesimo, è del tutto ed esclusivamente il proprio timore oggettivato, non ancora suddiviso nelle due forme assunte in fase evoluta: nel riguardo e nell’avversione.
Ma come nasce questo sdoppiamento? Secondo Wundt con il trapianto dei comandamenti tabù dall’ambito delle rappresentazioni dei demoni in quello degli dei. La contrapposizione tra sacro e impuro coincide con il succedersi di due stadi mitologici, dei quali il primo non scompare completamente una volta raggiunto il successivo, ma persiste in forma di svalutazione gradualmente tinta di disprezzo. In genere in ambito mitologico vige la legge per cui lo stadio che ha fatto il suo tempo, proprio perché superato e ricacciato indietro da quello più avanzato, permane accanto a quest’ultimo in forma svilita, così che gli oggetti della sua venerazione si trasformano in quelli dell’avversione.7
Le altre affermazioni di Wundt si riferiscono al rapporto delle rappresentazioni del tabù con la purificazione e il sacrificio.
2
Chi affronta il problema del tabù dalla psicanalisi, cioè dallo studio della componente inconscia della vita psichica individuale, dirà dopo breve riflessione che questi fenomeni non gli sono estranei. Conosce persone che si sono create individualmente analoghi divieti tabù, a cui si adeguano con lo stesso rigore con cui i selvaggi rispettano i tabù comuni alla loro tribù o alla loro società. Se non fosse abituato a designare questi individui come “malati di coazione”, dovrebbe ritenere appropriato per questa condizione il nome di “malattia da tabù”. Ma attraverso la ricerca psicanalitica ha appreso tanto sulla malattia coatta, sull’eziologia clinica e sull’essenza del meccanismo psichico, che non può impedirsi di applicare ciò che ha imparato qui per chiarire il corrispondente fenomeno nella psicologia dei popoli.
A questo tentativo tocca un’avvertenza. La somiglianza tra tabù e malattia coatta può essere puramente estrinseca, valida per la forma dei due fenomeni senza estendersi alla loro sostanza. La natura ama impiegare le stesse forme nei contesti biologici più diversi, ad esempio nel ceppo di corallo e nell’albero, fino a certi cristalli o alla formazione di determinati precipitati chimici. Sarebbe evidentemente avventato e poco lungimirante o fondarsi su queste coincidenze, che risalgono a condizioni meccaniche comuni, per trarre conclusioni sull’intima relazione. Terremo presente l’avvertenza, ma per questa possibilità non dobbiamo trascurare il paragone prospettato.
La concordanza più immediata e vistosa tra divieti coatti dei nervosi e tabù sta ora nel fatto che tali divieti sono, al pari dei tabù, immotivati e di origine enigmatica. Sono subentrati in un momento imprecisato e ora vanno osservati per un’invincibile paura. Una minaccia esterna di punizione è superflua, perché esiste una sicurezza interiore, una coscienza, che ogni trasgressione provocherebbe insopportabili sventure. Il massimo che questi coatti possono comunicare in proposito è la sensazione indefinita che una certa persona della loro cerchia patirebbe i danni della trasgressione. Non si sa quale possa essere il danno, e del resto si ottiene questa scarna informazione più facilmente a proposito delle pratiche di espiazione e di difesa, di cui parleremo in seguito, che non dei divieti in sé.
II divieto principale e nucleare della nevrosi, come del tabù, è quello del contatto, da cui il nome: paura del contatto, délire de toucher. La proibizione si estende non solo al contatto diretto con il corpo, ma assume tutto l’ambito racchiuso nell’espressione traslata “entrare in contatto”. Tutto ciò che indirizza i pensieri al proibito, evocando un contatto mentale, è proibito nella stessa misura in cui è vietato il contatto corporeo immediato. Pari estensione si ritrova nel tabù.
Una parte dei divieti è senz’altro intelligibile nelle sue intenzioni, un’altra parte invece ci sembra incomprensibile, inconsistente, priva di senso. Designiamo come “cerimoniali” tali prescrizioni e scopriamo che gli usi del tabù fanno riconoscere la stessa diversità.
È propria dei divieti coatti un’imponente spostabilità: si estendono da un oggetto all’altro per una connessione qualsiasi, e rendono anche questo nuovo oggetto, per usare la calzante espressione di una mia paziente, qualcosa di “impossibile”. Alla fine l’impossibilità sequestra il mondo intero. I malati coatti si comportano come se le persone e le cose “impossibili” fossero portatrici di un pericoloso contagio, pronto a trasferirsi per contatto a quanto è vicino. Abbiamo già rilevato gli stessi caratteri di contagiosità e trasmissibilità descrivendo i divieti del tabù. Sappiamo anche che chi ha violato un tabù toccando qualcosa che è tabù diventa tabù a sua volta e nessuno può entrare in contatto con lui.
Accosto due esempi di trasmissione (meglio, di spostamento) del divieto: uno dalla vita dei Maori, l’altro da una mia osservazione di una malata coatta.
“Un capo Maori non attizzerà il fuoco con il suo fiato, perché il suo sacro respiro comunicherebbe la sua potenza al fuoco, che la passerebbe alla pentola che sta sopra il fuoco, che la passerebbe al cibo che cuoce in essa, che la passerebbe all'uomo il quale mangiasse il cibo cotto nella pentola che sta sul fuoco, su cui il capo ha soffiato con il suo sacro e pericoloso respiro”.8
La paziente pretende che si allontani un oggetto d’uso comune che il marito ha comprato e portato a casa, altrimenti le renderebbe “impossibile” lo spazio in cui vive. La donna ha sentito, infatti, che tale oggetto è stato acquistato in un negozio che si trova, diciamo, in via del Cervo. Ma Cervo è oggi il nome di una sua amica che vive in una città lontana e che la nostra paziente ha conosciuto da giovane con il nome da ragazza. Oggi questa amica è per lei “impossibile”, tabù, e l’oggetto acquistato qui a Vienna è altrettanto tabù quanto l’amica con cui la paziente non vuole venire in contatto.
Come quelli da tabù, i divieti coatti comportano enormi rinunce e restrizioni nella vita, anche se parte di esse può essere eliminata eseguendo determinate azioni, che pure devono essere compiute e hanno carattere coattivo; sono azioni coatte sulla cui natura di atti punitivi e di espiazione, di misure di difesa e di purificazione non c’è dubbio. L’azione coatta più consueta è il lavacro con acqua (“coazione al lavare”). Anche parte dei divieti da tabù può essere sostituita, o la loro trasgressione si può riparare con analogo "cerimoniale": anche qui la lustrazione con acqua è il rito preferito.
Riassumiamo ora i punti che più chiaramente mostrano la concordanza tra usi dei tabù e sintomi della nevrosi coatta:
1) l’immotivazione degli ordini;
2) il loro consolidamento con una necessità interiore;
3) la loro spostabilità e il pericolo di contagio attraverso l’oggetto del divieto;
4) l’essere causa di pratiche cerimoniali, di ordini derivanti dai divieti.
Ma la storia clinica e il meccanismo psichico dei casi di malattia coatta ci sono divenuti noti dalla psicanalisi. La prima si presenta come nel seguente caso tipico di angoscia del contatto. Proprio all’inizio, nella prima infanzia, si manifestò una intensa voglia di toccare, il cui obiettivo era assai più specifico di quanto ci potremmo attendere. A questa voglia si oppose ben presto dall’esterno il divieto di attuare proprio quel contatto.9 Il divieto fu accolto perché poteva trovar sostegno in potenti forze interiori,10 e si dimostrò più forte della pulsione che voleva manifestarsi nel contatto. Ma, data la costituzione psichica primitiva del bambino, il divieto non riuscì a eliminare la pulsione. Unico risultato della proibizione fu di rimuovere la pulsione – la voglia di toccare – e di esiliarla nell’inconscio. Divieto e pulsione furono entrambi mantenuti: la pulsione perché era stata solo rimossa e non eliminata, il divieto perché, qualora fosse cessato, la pulsione sarebbe penetrata nella coscienza e si sarebbe imposta e attuata. Si era creata così una situazione irrisolta, una fissazione psichica; tutto il seguito derivò allora dal persistente conflitto tra divieto e pulsione.
Il carattere principale della costellazione psicologica, che si è così fissata, sta in ciò che si potrebbe definire comportamento ambivalente11 dell’individuo verso un certo oggetto, anzi verso una certa azione che lo riguarda. Vuol sempre eseguire l’azione – il contatto – ma ne ha anche avversione. Il contrasto tra le due correnti [psichiche] non è risolvibile a breve, perché – possiamo solo dire – sono localizzate nella vita psichica in modo da non potersi mai incontrare. Il divieto è del tutto cosciente, mentre la persistente voglia di toccare è inconscia e la persona non ne sa nulla. Senza tale fattore psicologico, l’ambivalenza non potrebbe mantenersi così a lungo né porterebbe a tali conseguenti manifestazioni.
Nella storia clinica del caso abbiamo posto in rilievo come decisiva l’irruzione del divieto nella prima infanzia; in questa fascia d’età, il ruolo per la formazione successiva spetta al meccanismo della rimozione. In conseguenza dell’avvenuta rimozione, che si collega a una dimenticanza (amnesia), la motivazione del divieto, divenuto cosciente, resta sconosciuta; tutti i tentativi di sostituzione intellettuale del divieto devono fallire, non trovando il punto cui potrebbero aggrapparsi. Il divieto deve la sua forza – il suo carattere coatto – proprio al rapporto con la sua controparte inconscia, con la voglia nascosta non smorzata, ossia con una necessità interna cui manca la comprensione cosciente. La trasmissibilità e trapiantabilità del divieto riflettono un processo che va di pari passo con la voglia inconscia ed è particolarmente facilitato dalle condizioni psicologiche dell’inconscio. La voglia pulsionale si sposta costantemente per sottrarsi allo sbarramento in cui si trova costretta, e cerca di ottenere surrogati della cosa vietata: oggetti e pratiche sostitutive. Di conseguenza anche il divieto si disloca e si estende ai nuovi obiettivi dell’impulso rigorosamente proibito. A ogni nuovo assalto della libido rimossa, il divieto risponde rinnovando l’inasprimento. L’inibizione che le due forze contendenti esercitano l’una contro l’altra provoca il bisogno di scarica, di contenere la tensione imperante, bisogno in cui si può riconoscere il motivo delle pratiche coatte, che nella nevrosi sono chiaramente azioni di compromesso: da un lato testimoniano pentimento, sforzi di espiazione e così via, dall’altro sono al tempo stesso pratiche sostitutive, che risarciscono la pulsione per la cosa proibita. È una legge della malattia nevrotica che queste coazioni entrino sempre più al servizio della pulsione e si accostino sempre più all’azione originariamente proibita.
Proviamo ora a trattare il tabù come se fosse della stessa natura di un divieto coatto dei nostri malati. Dobbiamo innanzitutto chiarire che molti dei divieti da tabù che ci è dato di osservare sono di tipo secondario, spostato e deformato; dobbiamo accontentarci, allora, di gettare appena un po' di luce sui divieti più originari e significativi derivanti dal tabù. Inoltre le differenze tra la situazione del selvaggio e del nevrotico sono sufficientemente importanti da escludere una concordanza completa, un trasferimento dall’uno all’altro, impedendo che una rappresentazione coincida punto per punto con l’altra.
Diremmo allora in primo luogo che non ha senso interrogare i selvaggi sulla motivazione reale delle loro proibizioni, sulla genesi del tabù. Secondo le nostre premesse, devono essere incapaci di comunicare alcunché in merito, poiché per loro la motivazione è “inconscia”. Tuttavia, possiamo costruire la storia del tabù nel modo seguente, secondo il modello dei divieti coatti.
I tabù sono divieti preistorici, imposti un tempo dall’esterno a una generazione di uomini primitivi; ciò significa che furono loro inculcati a viva forza dalla generazione precedente. Questi divieti hanno colpito attività per cui c’era forte inclinazione. I divieti si sono quindi conservati di generazione in generazione, forse solo a causa della tradizione, rappresentata dall’autorità dei genitori e della società; o forse, invece, si sono già “organizzati” nelle generazioni successive come parte di un patrimonio psichico ereditato. Chi potrebbe mai decidere, proprio in rapporto al caso in questione, se tali “idee innate” esistono, se hanno causato la fissazione dei tabù da sole o con il concorso dell’educazione? Dal permanere dei tabù scaturisce una constatazione: la voglia originaria di fare ciò che è proibito continua a sussistere anche in popoli che rispettano i tabù. Queste popoli hanno dunque un atteggiamento ambivalente verso i loro tabù: a livello inconscio nulla sarebbe loro più gradito di trasgredirli, ma hanno anche timore di farlo; la violazione del tabù li spaventa proprio perché la vorrebbero; il timore è più forte della voglia, che è però inconscia in ogni singola persona del popolo come nel nevrotico.
I divieti tabù più antichi e più importanti danno luogo alle due leggi fondamentali del totemismo: non uccidere l’animale totem ed evitare il rapporto sessuali con membri dell’altro sesso appartenenti allo stesso totem.
Queste dovrebbero essere quindi le voglie più antiche e più forti degli uomini. Non potendo comprenderlo, non possiamo verificare la nostra premessa su questi esempi finché senso e origine del sistema totemico ci restano così del tutto sconosciuti. Ma a chi conosca i risultati della ricerca psicanalitica sui singoli individui basta l’enunciato di questi due tabù e la loro concomitanza, per richiamare alla mente qualcosa di ben definito, dagli psicanalisti spiegato come punto nodale della vita di desiderio infantile e poi nucleo della nevrosi.12
La precedente molteplicità dei fenomeni di tabù, che ha portato ai tentativi di classificazione citati prima, a nostro parere converge a unità per noi nel modo seguente: fondamento del tabù è un'azione proibita, per cui nell’inconscio esiste una forte inclinazione.
Senza comprenderlo, sappiamo che chi compie ciò che è proibito trasgredisce il tabù e diventa a sua volta tabù. Ma come mettere insieme questo fatto con l’altro, secondo cui il tabù coinvolge non solo persone che hanno compiuto l’atto proibito, ma anche persone che si trovano in situazioni particolari, le situazioni stesse, nonché oggetti impersonali? Che caratteristica pericolosa sarà mai, per mantenersi sempre uguale in tutte queste diverse circostanze? Solo una, la proprietà di attizzare l’ambivalenza dell’uomo e di indurlo in tentazione di violare il divieto.
L’uomo che ha trasgredito un tabù diventa egli stesso tabù perché ha la pericolosa proprietà di indurre altri in tentazione di seguirne l’esempio. Desta invidia: perché a lui dovrebbe essere permesso ciò che ad altri è vietato? È dunque realmente contagioso, in quanto ogni esempio contagia l’imitazione e perciò va evitato.
Non c’è bisogno che un uomo abbia violato un tabù per essere, per sempre o per poco, tabù, se si trova in condizione tale da eccitare le voglie proibite di altri, destando in loro il conflitto dell’ambivalenza. La maggior parte delle posizioni e situazioni eccezionali sono di questo tipo e hanno questa forza pericolosa. Il re o il capo suscita invidia per i suoi privilegi; tutti forse vorrebbero essere re. Il defunto, il neonato e la donna nel loro stato di sofferenza eccitano per il loro particolare stato d’impotenza; l'individuo appena maturato sessualmente, per il nuovo godimento che promette. Tutte queste persone e queste situazioni sono tabù in quanto non bisogna cedere alla loro tentazione.
Ora comprendiamo anche perché le forze del mana di diverse persone si possano sottrarre l’una dall’altra nonché, in parte, annullarsi a vicenda. Il tabù di un re è troppo forte per il suo suddito, perché la differenza sociale tra i due è troppo grande. Ma un ministro, per esempio, può fare da tramite innocuo tra loro. Tradotto dal linguaggio del tabù in quello della psicologia normale, il suddito, che teme la troppo grande tentazione del contatto con il re, può sopportare per esempio di entrare in rapporto con un funzionario, che non è così invidiabile e la cui posizione può forse apparirgli raggiungibile. Il ministro d’altra parte può moderare la sua invidia verso il re in considerazione del potere di cui gode personalmente. Di conseguenza differenze minori della forza magica che induce in tentazione sono meno temibili che non differenze particolarmente maggiori.
È altrettanto chiaro come mai la violazione di determinati divieti tabù costituisca un pericolo sociale da punire o espiare da parte di tutti i membri della società, se si vuole evitare che rechi un danno a tutti. Il pericolo esiste realmente, se ai moti coscienti sostituiamo le voglie inconsce. Consiste nella possibilità di imitare che, se realizzata, porterebbe ben presto la società a dissolversi. Se gli altri non punissero la trasgressione, dovrebbero convincersi che desiderano fare quel che ha fatto il trasgressore.
Non deve stupire che, nei divieti di tabù, il contatto abbia un ruolo analogo a quello che ha nel délire de toucher, benché il senso nascosto del divieto tabù non possa essere così specifico come nella nevrosi. Il contatto inizia ogni presa di possesso, ogni tentativo di servirsi di una persona o di una cosa.
Abbiamo tradotto la forza contagiosa insita nel tabù nella proprietà di indurre in tentazione, stimolando l’imitazione. Ciò sembra non accordarsi con il fatto che la contagiosità del tabù si manifesti anzitutto nella trasmissione a oggetti, che diventano così essi stessi portatori del tabù.
La trasferibilità del tabù riflette la tendenza, accertata nella nevrosi, della pulsione inconscia di spostarsi per via associativa su oggetti sempre nuovi. Così la nostra attenzione è richiamata sul fatto che alla pericolosa forza magica del mana corrispondono capacità più reali di due tipi: la proprietà di ricordare all’uomo i suoi desideri proibiti, e quella, in apparenza più importante, di indurlo a violare il divieto a favore di questi desideri. Ma queste due capacità tornano a riunirsi in un’unica, supponendo che, nel senso di una vita psichica primitiva, al risveglio del ricordo dell’azione proibita sia connesso anche il risveglio della tendenza a compierla. Allora ricordo e tentazione tornano a coincidere. E, dal momento che l’esempio di un uomo che ha violato un divieto induce gli altri a imitarlo, bisogna ammettere che la disubbidienza alla proibizione si propaga come un contagio, così come il tabù si trasmette da una persona a un oggetto e da questo oggetto a un altro.
Se la violazione di un tabù può essere riparata con un’espiazione o con una penitenza, che significano poi una rinuncia a qualche bene o a qualche libertà, si dimostra che il rispetto della prescrizione del tabù era già una rinuncia a qualcosa che si sarebbe volentieri desiderato. L’omissione di una certa rinuncia si riscatta con una rinuncia in un altro posto. Quanto al cerimoniale tabù, ne trarremmo la conclusione che la penitenza sia qualcosa di più originario della purificazione.
Riepiloghiamo ora quale comprensione il confronto con il divieto coatto dei nevrotici ci ha dato sul tabù. Il tabù è un preistorico divieto imposto dal di fuori (da un’autorità) e diretto contro le voglie più intense degli uomini. La voglia di violare il tabù permane nel loro inconscio. Gli uomini che rispettano il tabù hanno un atteggiamento ambivalente verso ciò che è colpito dal tabù. La forza magica attribuita al tabù è riconducibile alla capacità di indurre gli uomini in tentazione. Agisce come un contagio perché l’esempio è contagioso e perché nell’inconscio le voglie proibite si spostano su oggetti diversi. La penitenza con una rinuncia per la violazione del tabù dimostra che l’osservanza del tabù si basa su una rinuncia.
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Ora vogliamo sapere che valore può pretendere il nostro parallelismo fra tabù e nevrosi coatta e la concezione del tabù data da tale confronto. Un valore esiste chiaramente solo se la nostra interpretazione offre un vantaggio non conseguibile altrimenti, permettendo di capire il tabù meglio di quanto potremmo fare se non ci fosse. Siamo quasi tentati di dire che abbiamo già dato in quanto precede la prova dell’utilità; ma dovremmo tentare di rinforzarla, continuando a spiegare in dettaglio i divieti e gli usi del tabù.
Ma ci si apre anche un’altra strada. Possiamo avviare la ricerca se parte delle precondizioni che abbiamo trasferito dalla nevrosi al tabù o parte delle conseguenze cui siamo così giunti, non siano immediatamente dimostrate dai fenomeni del tabù. Allora dobbiamo solo decidere che direzione prendere. L'affermazione sulla sua genesi, secondo cui il tabù deriva da un divieto preistorico, imposto un tempo dal di fuori, si sottrae naturalmente alla prova. Piuttosto cercheremo di confermare che le condizioni psicologiche per il tabù sono quelle che abbiamo imparato a conoscere per la nevrosi coatta. Come siamo giunti a conoscere questi fattori psicologici nel caso della nevrosi? Attraverso lo studio analitico dei sintomi, soprattutto delle azioni coatte, delle misure di difesa e degli ordini coatti. Lì abbiamo trovato gli indizi più evidenti della loro provenienza da moti o tendenze ambivalenti, dove, o corrispondono simultaneamente sia al desiderio sia al contro-desiderio, o si pongono in prevalenza al servizio di una delle due tendenze in contrasto. Riuscendo ora a dimostrare l’esistenza dell’ambivalenza, cioè di tendenze contrastanti, anche nelle prescrizioni del tabù, o potendo fra queste scoprirne qualcuna che porti a espressione simultanea entrambe le tendenze, come accade nelle azioni coatte, la concordanza psicologica tra tabù e nevrosi coatta sarebbe assicurata nel punto forse più importante.
Come già accennato, i due divieti fondamentali del tabù sono inaccessibili alla nostra analisi, poiché appartengono al totemismo; un’altra parte dei dispostivi del tabù è di origine secondaria e risulta ai nostri fini inutilizzabile; il tabù è infatti diventato, presso i popoli in cui vige, una forma normale di legislazione, ed è passato al servizio di tendenze sociali di certo più recenti del tabù stesso: un esempio è fornito dai tabù imposti da capi e sacerdoti per garantirsi proprietà e privilegi. Ci resta tuttavia un grande gruppo di prescrizioni su cui possiamo intraprendere la nostra indagine. Da tale gruppo scelgo i tabù che si riferiscono a: a) nemici, b) capi, c) morti; traggo il materiale da trattare dall’eccellente raccolta di J.G. Frazer nella sua grande opera “Il ramo d’oro”.13
a) Il trattamento dei nemici
Se fossimo inclini ad attribuire ai popoli selvaggi e semi-selvaggi atteggiamenti di sfrenata e impietosa crudeltà verso i loro nemici, verremmo con grande interesse a sapere che anche per loro l’uccisione di un uomo obbliga a rispettare una serie di prescrizioni, correlate agli usi del tabù, facilmente classificabili in quattro gruppi. Esse impongono: 1) la riconciliazione con il nemico ucciso; 2) limitazioni e 3) pratiche espiatorie, purificazioni dell’uccisore, e 4) certe prescrizioni cerimoniali. Se questi costumi tabù siano generalizzabili o meno presso i popoli in questione è cosa che da un lato non possiamo decidere con sicurezza, data le nostre informazioni incomplete, e d’altro lato non ci interessa in relazione a questi fatti. Si può comunque ammettere che si tratti di usi largamente diffusi e non di fenomeni isolati.
Nell’isola di Timor, al ritorno da una spedizione di guerra vittoriosa con le teste tagliate dei nemici vinti, le pratiche di riconciliazione sono particolarmente significative, anche perché il capo della spedizione è colpito da pesanti restrizioni (v. oltre). “In occasione dell’ingresso festoso dei vincitori si compiono sacrifici per riconciliarsi con le anime dei nemici, altrimenti sono previste sciagure sui vincitori. Si prepara una danza, accompagnata da una canzone, in cui si lamenta la morte dell’ucciso e s’impetra il suo perdono: “Non ti adirare con noi perché abbiamo la tua testa qui con noi; se la fortuna fosse stata meno propizia con noi, le nostre teste sarebbero ora esposte nel tuo villaggio. Ti abbiamo offerto un sacrificio per placarti. Ora il tuo spirito può riposare e lasciarci in pace. Perché ci sei stato nemico? Non sarebbe stato meglio che fossimo rimasti amici? Allora il tuo sangue non sarebbe stato sparso né la tua testa tagliata”.14
Tra i nativi di Paloo, nel Celebes, si trovano costumi analoghi. “I Galla [Africa orientale] fanno sacrifici agli spiriti dei nemici uccisi prima di rientrare nel villaggio natale”. (Secondo Paulitschke, Etnografia del Nord-Africa.)
Altri popoli hanno trovato il mezzo di trasformare i loro nemici, dopo la loro morte, in amici, custodi e protettori, consistente nel trattamento affettuoso delle teste tagliate, come si vantano alcune tribù selvagge del Borneo. Quando i Daiachi della costa, a Sarawak, portano a casa da una spedizione guerresca una testa, la trattano per mesi e mesi con la massima gentilezza e la chiamano con i nomi più teneri di cui la loro lingua dispone. Le sono posti in bocca i bocconi migliori dei loro pasti, e così pure leccornie di ogni genere e sigari. Si prega ripetutamente di odiare i suoi amici di un tempo e di amare i suoi nuovi ospiti, poiché adesso è uno di loro. Sarebbe grave errore attribuire in parte a scherno un trattamento che ci sembra orribile.15
Tra parecchie tribù selvagge dell’America settentrionale gli osservatori sono stati colpiti dal lutto per il nemico ucciso e scotennato. Quando un Choctaw uccideva un nemico, cominciava per lui un lutto di un mese, in cui l’uccisore si sottoponeva a gravi limitazioni. Gli indiani Dakota praticavano un analogo lutto. Gli Osagi, nota un testimone degno di fede, una volta terminato il lutto per i loro morti, “prendevano il lutto per il nemico come se si trattasse di un amico”.16
Prima ancora di addentrarci nelle ulteriori classificazioni degli usi tabù circa il trattamento dei nemici, dobbiamo prendere posizione contro un’obiezione ovvia. A noi, a Frazer e ad altri, si potrebbe obiettare che i motivi di queste prescrizioni di riconciliazione sono abbastanza semplici e non hanno nulla a che fare con l’“ambivalenza”. Questi popoli sono dominati da un timore superstizioso degli spiriti dei nemici uccisi, un timore che non era ignoto neppure all'antichità classica e che il grande drammaturgo inglese ha messo in scena nelle allucinazioni di Macbeth e di Riccardo III. Da tale superstizione conseguono tutte le prescrizioni di riconciliazione, e così pure le restrizioni e le espiazioni di cui più tardi dovremo parlare. A favore di questa tesi stanno anche le cerimonie classificate nel quarto gruppo, che non consentono altra interpretazione se non questa: sono sforzi di scacciare gli spiriti degli uccisi che perseguitano gli uccisori.17 Inoltre i selvaggi ammettono apertamente la loro paura per gli spiriti dei nemici uccisi, cui fanno risalire gli stessi tabù descritti.
L’obiezione è di fatto ovvia e, se fosse anche sufficiente, potremmo volentieri risparmiarci la fatica del nostro tentativo di spiegazione. Rimandiamo a più tardi di confrontarci con essa e opponiamole per il momento solo la concezione derivante dalle premesse contenute nelle precedenti spiegazioni del tabù. Da tutte le prescrizioni deduciamo che, nel comportamento verso i nemici, si esprimono anche altri impulsi oltre a quelli esclusivamente ostili. Vi scorgiamo espressioni di pentimento, di stima per il nemico, di cattiva coscienza per averlo privato della vita. Si direbbe perfino che in questi selvaggi sia vivo, molto prima di ogni legislazione ricevuta per mano di un dio, il comandamento “Non ammazzare”, che non si può violare impunemente.
Torniamo ora agli altri tre gruppi di prescrizioni tabù. Le limitazioni dell’uccisore vittorioso sono straordinariamente numerose e per lo più serie. Nel Timor (vedi le pratiche di riconciliazione descritte sopra) al capo della spedizione è vietato “di ritornare subito a casa sua. Gli si prepara una capanna speciale, dove deve rimanere due mesi, sottoposto a purificazione corporale e spirituale. Durante tale tempo non può andare da sua moglie né nutrirsi da sé, ma deve farsi imboccare”.18
Tra alcune tribù Daiak i reduci da una vittoriosa spedizione di guerra devono restare appartati per qualche giorno e astenersi da determinati cibi, non possono toccare cibo e devono restare lontani dalle loro mogli. A Logea, un’isola presso la Nuova Guinea, “gli uomini che hanno ucciso o partecipato all’uccisione dei nemici si chiudono in casa per una settimana. Evitano ogni rapporto con le mogli e con gli amici, non toccano cibo con le mani e si nutrono esclusivamente di vegetali, cotti per loro in appositi recipienti. Il motivo dell’ultima limitazione è che non devono sentire l’odore del sangue degli uccisi, perché in tal caso si ammalerebbero e morirebbero.
Nella tribù Toaripi o Motumotu della Nuova Guinea l’uomo che ha ucciso un suo simile non può accostarsi alla moglie né toccare cibo con le dita. È nutrito da altre persone con cibi particolari. Ciò dura fino al successivo novilunio.
Tralascio di citare per esteso i casi di restrizioni imposte all’uccisore vittorioso, riportati da Frazer, e mi limito a sottolineare gli esempi in cui il carattere tabù è particolarmente evidente o la restrizione compare insieme a espiazione, purificazione e atti cerimoniali.
Tra i Monumbo della Nuova Guinea tedesca, chi ha ucciso un nemico in battaglia diventa “impuro”; il termine impiegato è lo stesso che si usa per le donne durante la mestruazione o il puerperio. È tenuto a rimanere a lungo nella “casa per soli uomini”, mentre gli abitanti del suo stesso villaggio si radunano intorno a lui e festeggiano la sua vittoria con canti e danze. Non può toccare nessuno, neppure la moglie e i figli. Se lo facesse, secondo la credenza moglie e figli si coprirebbero di piaghe. Diventa puro con lavacri e altri cerimoniali.
Tra i Natchez del Nord-America, i giovani guerrieri che avevano conquistato il primo scalpo dovevano osservare certe regole d’astinenza per sei mesi. Non potevano dormire con le loro mogli, né mangiar carne ma solo pesce e budino di mais. Se un Choctaw aveva ucciso un nemico e tolto lo scalpo, cominciava per lui un lutto di un mese, durante il quale non poteva pettinare i capelli né grattarsi la testa con la mano, ma doveva servirsi di un piccolo stecco.
Se un indiano Pima aveva ucciso un Apache, doveva eseguire rigorosi cerimoniali di purificazione e di espiazione. Durante il periodo di digiuno, che durava sedici giorni, non poteva toccare né carne né sale, non doveva fissare lo sguardo su un fuoco acceso né rivolgere la parola a nessun essere umano. Viveva solo nel bosco, servito da una vecchia che gli portava la scarsa razione di cibo assegnatagli, si bagnava spesso nel fiume vicino e portava in segno di lutto una zolla d’argilla sul capo. Al diciassettesimo giorno si celebrava la cerimonia pubblica della purificazione solenne dell’uomo e delle sue armi. Poiché gli indiani Pima prendevano il tabù relativo all’uccisore più sul serio dei loro nemici, e non usavano, come loro, rimandare l’espiazione e la purificazione a spedizione conclusa, la loro bravura guerresca risentiva molto del loro rigore morale o della loro devozione, se così preferiamo definirlo. Nonostante il loro coraggio eccezionale, i Pima si mostrarono alleati poco utili agli americani nella lotta contro gli Apache.
Per quanto le particolarità e le variazioni delle cerimonie di espiazione e di purificazione dopo l’uccisione di un nemico possano essere interessanti ai fini di una trattazione più approfondita, tuttavia ne interrompo la descrizione perché non potrebbero offrirci punti di vista nuovi. Forse aggiungerei ancora che l’isolamento temporaneo o permanente del boia di professione, tradizione conservata fino ai nostri giorni, rientra in tale contesto. La posizione dell’“uomo libero” nella società medievale rappresenta bene di fatto il “tabù” dei selvaggi.19
Nella spiegazione corrente di tutte queste prescrizioni di riconciliazione, limitazione, espiazione e purificazione si combinano due principi: l’estensione del tabù dal morto a tutto ciò che è entrato in contatto con lui, e la paura dello spirito dell’ucciso. Non è detto, e in effetti non è facile da stabilire, come questi due elementi vadano combinati per spiegare il cerimoniale, se debbano essere concepiti come fattori di ugual valore, oppure se uno abbia carattere primario e l’altro secondario, e quale sia il primario. Ci preme piuttosto sottolineare l’unitarietà della nostra concezione, che deduce tutte le prescrizioni dall’ambivalenza emotiva verso il nemico.
b) Il tabù dei sovrani
Il comportamento dei popoli primitivi verso i loro capi, re e sacerdoti è retto da due principi che sembrano integrarsi a vicenda anziché contraddirsi. “Non solo vanno difesi, ma bisogna difendersi da loro”.20 Alle due cose provvede un’infinità di prescrizioni tabù. La ragione per cui bisogna guardarsi dai sovrani la conosciamo già, perché sono i portatori di quella misteriosa e pericolosa forza magica che si trasmette per contatto come una carica elettrica e arreca morte e rovina a chi non sia a sua volta protetto da carica analoga. Di conseguenza si evita ogni contatto diretto o indiretto con la sacralità pericolosa e, quando tale contatto sia inevitabile, si è trovato un cerimoniale per allontanare le conseguenze temute. Per esempio, i Nuba dell'Africa orientale credono che morirebbero se entrassero nella casa del loro re-sacerdote; tuttavia possono scansare la pena per la loro intrusione denudandosi la spalla sinistra e facendovi mettere sopra la mano dal re. Ecco quindi il fatto notevole: il contatto del re diventa rimedio e protezione contro i pericoli derivanti dal contatto con il re; al tempo stesso si tratta della forza risanatrice, che il contatto intenzionale del re emana, in contrasto con il pericolo di toccarlo, un contrasto fra passività e attività verso il re.
Trattandosi di efficacia curatrice del contatto regale, non abbiamo bisogno di cercare esempi tra i selvaggi. In tempi non troppo lontani i re d’Inghilterra hanno esercitato questo potere sulla scrofola, che prese perciò il nome di The King's Evil. La regina Elisabetta, come del resto i sovrani che le succedettero, non rinunciò a questa componente delle sue prerogative regali. Carlo I, si dice, avrebbe guarito nel 1633 cento malati in un colpo solo. Sotto il regno del suo scostumato figlio, Carlo II, una volta superata la grande rivoluzione inglese, le guarigioni regali di scrofolosi conobbero la massima fioritura. Sembra che durante il suo regno questo sovrano abbia toccato circa centomila scrofolosi. In queste occasioni, la ressa di chi cercava la guarigione era di solito tale che una volta sei o sette persone rimasero schiacciate dalla folla, e anziché la guarigione trovarono la morte. Lo scettico Guglielmo III d’Orange, che divenne re d’lnghilterra dopo la cacciata degli Stuart, rifiutò di praticare l'incantesimo. L’unica volta in cui si lasciò convincere a operare il contatto risanatore, lo fece pronunciando le parole: “Che Dio ti accordi miglior salute e più intelligenza”.21
Il seguente racconto può testimoniare gli spaventevoli effetti in cui s’incorre quando, anche non intenzionalmente, si entra in contatto con il re o con ciò che gli appartiene. Accadde una volta che un capo neozelandese di alto grado e di grande santità lasciasse per strada i resti del suo pasto. Sopraggiunse poi uno schiavo, un gran pezzo d’uomo; vide il cibo rimasto e affamato si mise a mangiarlo. Aveva appena finito, quando uno spettatore spaventato lo informò che il cibo di cui aveva abusato era del capo. Era un guerriero forte e coraggioso, ma non appena udì la notizia fu preso dalle più straordinarie convulsioni e da crampi allo stomaco, che durarono finché non morì al tramonto del giorno dopo.22
Una donna maori, avendo mangiato dei frutti e saputo poi che provenivano da un luogo tabù, esclamò che lo spirito del capo, la cui santità era stata così profanata, l’avrebbe uccisa. Questo accadeva di pomeriggio: alle dodici del giorno dopo era morta.23
L’acciarino d’un capo maori portò una volta a morte molte persone; perché, avendolo perduto, lo trovarono degli uomini che l’usarono per accendere la pipa; quando seppero a chi era appartenuto morirono di spavento.24
Non c’è da stupirsi se il bisogno di isolare persone così pericolose come capi e sacerdoti si fece sentire erigendo intorno a loro un muro, dietro cui fossero inaccessibili agli altri. Potrebbe anche balenare l’idea che il muro, tirato su in origine da prescrizioni di tabù, persista ancor oggi nei cerimoniali di cortesia.
Ma una parte, forse la maggiore, di questi tabù dei sovrani non si può ridurre al bisogno di proteggersi da loro. Nel trattamento delle persone privilegiate l’altro punto di vista, il bisogno di proteggerle dai pericoli che le minacciano, ha avuto la parte più significativa nel creare i tabù e, quindi, nel far nascere l’etichetta di corte.
La necessità di proteggere il re da tutti i possibili e immaginabili pericoli deriva dalla sua enorme importanza, nel bene e nel male, per i suoi sudditi. In senso stretto è la sua persona che regola il corso del mondo. Il suo popolo lo deve ringraziare per la pioggia e il sole che fanno crescere i frutti della terra, per il vento che porta le navi alle sue coste e per la solida terra dove metter piede.25
Questi re dei selvaggi sono dotati di un potere e di una capacità di conferire benefici che sono propri solo degli dei, a cui, in fasi più tarde della civiltà, solo i cortigiani più servili fingeranno di credere.
Sembra un’evidente contraddizione che persone dotate di tale pienezza di poteri abbiano bisogno a loro volta di essere premurosamente protette dai pericoli che le minacciano; ma non è questa l’unica contraddizione che emerge nel trattamento dei reali presso i selvaggi. Infatti, questi popoli ritengono necessario vigilare anche sui loro re affinché facciano buon uso delle loro stesse forze: non sono affatto sicuri delle loro buone intenzioni o della loro coscienziosità. Un tratto di diffidenza si mescola ai motivi che generano le prescrizioni tabù per il re. “L'idea che la monarchia preistorica sia un despotismo”, dice Frazer,26 “in cui il popolo esiste solo per il sovrano, è interamente inapplicabile alle monarchie che consideriamo. Al contrario, in esse il sovrano esiste solo per i suoi sudditi; la sua vita ha valore finché adempie i doveri della sua posizione, ordinando il corso della natura a beneficio del popolo. Appena venga meno o fallisca, la cura, la devozione, l’omaggio religioso, che gli avevano fino allora prodigato, cessano per trasformarsi in odio e disprezzo; viene ignominiosamente deposto e può essere contento se riesce a salvare la vita. Oggi venerato come un dio, domani gli può capitare di essere ucciso come un delinquente. Ma non abbiamo nessun diritto di condannare come incoerente o inconsistente il mutato comportamento del suo popolo. AI contrario, la sua condotta è perfettamente conseguente. Se il loro re è il loro dio, come pensano, deve dimostrare di essere anche il loro difensore; se non vuole difenderli, deve far posto a un altro pronto a difenderli.
Finché risponde alle loro aspettative non v’è limite alla cura che si prendono di lui e lo obbligano a prendersi uguale cura di sé stesso. Un re di tal sorta vive murato in un sistema di cerimoniali ed etichette, imbozzolato in una rete di usi e divieti, la cui intenzione non va nel senso di elevare la sua dignità o tanto meno aumentare il suo benessere, ma ha il solo e unico scopo di trattenerlo da passi che, disturbando l’armonia della natura, potrebbero trascinare lui stesso, il suo popolo e l’universo in una comune catastrofe. Lungi dall’aumentare il suo benessere, queste prescrizioni, mettendo le pastoie a ogni suo atto, annientano la sua libertà e gli rendono spesso la vita, che pretendono di voler proteggere, un peso e una pena”.
Un esempio tra i più illuminanti dell’incatenamento e della paralisi di un sacro sovrano ottenuti attraverso il cerimoniale dei tabù, fu raggiunto nel modo di vivere del Mikado del Giappone nei secoli passati. Una descrizione, risalente a oltre duecento anni fa,27 racconta che un Mikado “crede che sarebbe assai nocivo alla sua dignità e santità di toccare terra con i piedi; per questo quando vuole andare in qualche sito dev'essere portato a spalla da qualcuno. Anche più grave sarebbe se la sua sacra persona fosse esposta all'aria aperta, e il sole non è considerato degno di splendere sulla sua testa. Si attribuisce tale santità a tutte le parti del suo corpo, per cui non osa tagliarsi né i capelli, né la barba, né le unghie. Pure, affinché non diventi troppo sporco, lo possono pulire di notte quando dorme, perché, dicono, quel che vien preso dal suo corpo in quel tempo viene rubato e tale furto non pregiudica la sua santità o dignità. Anticamente era obbligato a seder sul trono ogni mattina per qualche ora, senza muover né mani né piedi, né il capo né gli occhi, né alcuna parte del corpo, perché con tali mezzi si credeva che potesse conservare la pace e la tranquillità nel suo impero; se per disgrazia, infatti, si fosse voltato da una parte o dall’altra, o se avesse guardato a lungo verso uno dei suoi domini, c’era da temere che guerra, carestia, incendi o qualche altra grande calamità fosse pronta a desolare quella regione”.
Alcuni tabù a cui sono sottoposti i re barbari ricordano con forza le restrizioni degli assassini. Nell’Africa occidentale, alla Punta del Pescecane vicino al Capo Padron, nella Guinea inferiore, vive solo in una foresta il re-sacerdote Kukulu. Non può toccare una donna né lasciare la sua casa; in realtà non può neppure alzarsi dalla sua sedia, dove deve dormire seduto, perché se si mettesse a giacere non soffierebbe più nessun vento e finirebbe la navigazione. La sua cura è di mantenere le tempeste sotto controllo e in generale l’atmosfera in uno stato uniformemente sano.28 Quanto più potente è un re di Loango, dice ancora Bastian, tanto maggiore è il numero di tabù che deve osservare. Anche il principe ereditario è fin dall’infanzia legato ai tabù, i quali però si accumulano via via che cresce; quando sale al trono ne è addirittura soffocato.
Lo spazio non lo consente, né il nostro interesse lo richiede, di addentrarci ulteriormente nella descrizione dei tabù inerenti alla dignità regale o sacerdotale. Aggiungiamo ancora che tra essi svolgono un ruolo principale le limitazioni della libertà di movimento e della dieta. Ma come la connessione con queste persone privilegiate abbia avuto l’effetto di conservare antiche usanze può risultare da due esempi di cerimoniale tabù derivati da popoli civilizzati, quindi da livelli culturali assai più elevati.
Il Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove nella Roma antica, aveva da osservare un numero straordinariamente grande di precetti tabù. Non poteva cavalcare, né toccare un cavallo, né vedere un esercito in armi, né portare un anello che non fosse rotto, né avere alcun nodo nei suoi vestiti; … non poteva toccare farina di frumento né pasta lievitata, non poteva toccare e neppure nominare una capra, un cane, della carne cruda, dei fagioli e dell'edera; … i suoi capelli potevano essere tagliati solo da un uomo libero e con un coltello di bronzo, e i suoi capelli e le sue unghie tagliate dovevano essere sepolti sotto un albero di buon augurio; non poteva toccare un cadavere; … non poteva restare a capo scoperto all’aria aperta e così via. Sua moglie, la Flaminica, aveva oltre a questi altri divieti. Non poteva salire più di tre gradini di una scala detta Greca; in certe feste non si doveva pettinare; il cuoio delle sue scarpe non doveva essere fatto con la pelle di una bestia morta di morte naturale ma solo di una uccisa o sacrificata; se udiva il tuono era tabù finché non avesse offerto un sacrificio espiatorio.29
Gli antichi re d’Irlanda erano sottoposti a una serie di limitazioni altamente singolari, dal cui rispetto si attendevano tutte le benedizioni e dalla cui violazione tutte le sventure per il paese. L'elenco completo di questi tabù è contenuto nel Book of Rights, i cui esemplari manoscritti più antichi sono datati 1390 e 1418. I divieti sono dettagliati assai minuziosamente; si riferiscono a specifiche attività da compiere in luoghi e tempi determinati: nella tale città il re non deve sostare in un certo giorno della settimana, non può attraversare un certo fiume a una certa ora, non deve accamparsi in una determinata pianura per nove giorni interi, e così via.30
La severità delle restrizioni tabù imposte ai re-sacerdoti ha avuto tra molti popoli selvaggi una conseguenza storicamente significativa e particolarmente interessante dal nostro punto di vista. La dignità connessa alla carica di re-sacerdote cessò di essere una cosa cui valesse la pena di aspirare; chi stava per riceverla usava spesso ogni mezzo per sottrarvisi. Così in Cambogia, dove esiste un re del fuoco e dell’acqua, era spesso necessario usare la forza per indurre i successori ad assumere la dignità regale. A Nine o isola del Selvaggio, una corallifera nel Pacifico meridionale, la monarchia si estinse proprio perché non si trovò più chi fosse disposto ad assumere una carica così densa di responsabilità e di pericoli. In alcune parti dell’Africa occidentale, quando il re muore, si tiene segretamente un consiglio di famiglia per designare il suo successore. Quello su cui cade la scelta, viene preso alla sprovvista, legato e gettato nella casa dei feticci, dove è tenuto prigioniero, finché non acconsente ad accettar la corona. Qualche volta riesce a trovare il modo di evitare l’onore che vogliono gettargli sulle spalle; un certo capo girava sempre armato, ben risoluto a resistere con la forza a ogni tentativo di metterlo sul trono.31 Presso i neri della Sierra Leone l’opposizione ad assumere la dignità regale diventò così forte che la maggior parte delle tribù fu costretta a nominare re stranieri.
Frazer fa risalire a queste circostanze se, nell’evoluzione storica, l’originaria carica del re-sacerdote finì scindendosi in un potere sacro e in uno profano. Oppressi dal peso della loro sacralità, i re divennero incapaci di esercitare di fatto il loro potere, e furono costretti a cederlo a individui di rango inferiore ma più dotati dal punto di vista pratico, dispostissimi a rinunciare agli onori della dignità regale. Da questa categoria di persone sorsero poi i sovrani laici, mentre la supremazia spirituale, ormai senza importanza sul piano pratico, rimase affidata a quelli che erano stati i re tabù. È noto quanto la storia dell’antico Giappone confermi questa disposizione.
Osservando ora il quadro delle relazioni esistenti tra gli uomini primitivi e i loro sovrani, si risveglia in noi l’attesa che non sia difficile progredire dalla descrizione alla comprensione psicanalitica. Questi rapporti sono di natura assai intricata e non senza contraddizioni. Ai sovrani si attribuiscono molti privilegi, in pratica coincidenti con i divieti tabù imposti agli altri. Sono persone privilegiate; a loro è consentito fare o godere proprio ciò che ad altri è interdetto dal tabù. Ma in contrasto con questa libertà sta il fatto che sia limitata da altri tabù non gravanti sugli individui comuni. Ecco dunque una prima contrapposizione, quasi una contraddizione, tra un più di libertà e un più di restrizione per le stesse persone. Poiché si attribuiscono loro poteri magici straordinari, si teme il contatto con le loro persone o con ciò che appartiene loro, mentre d’altra parte ci si aspetta da tali contatti ogni sorta di effetti benefici. Ciò sembra una seconda contraddizione, particolarmente stridente, ma siamo venuti a sapere che è tale solo in apparenza. Il contatto che procede dal re medesimo, con intenzione benevola, ha un effetto salutare e protettivo; pericoloso è solo il contatto che l’uomo qualunque stabilisce con il re o con le cose regali, verosimilmente perché può alludere alla presenza di tendenze aggressive. Un’altra contraddizione, meno facilmente risolvibile, è che si attribuisce al sovrano un grande potere sui processi naturali e ci si considera tuttavia obbligati a proteggerlo con assai particolare cura dai pericoli che lo minacciano, come se il suo potere, che pure può molto, non fosse in questo caso in grado di farvi fronte. L’ulteriore aggravante è data dalla circostanza che non ci si fida che il sovrano voglia usare il suo enorme potere nel modo giusto a vantaggio dei suoi sudditi oltre che per propria difesa; si diffida quindi di lui e ci si crede in diritto di sorvegliarlo. L’etichetta dei tabù, cui è soggetta la vita del re, serve a tutte queste intenzioni: tutelare il re, proteggerlo dai pericoli, proteggere i sudditi dal pericolo che rappresenta per loro.
È ovvio dare la seguente spiegazione del complicato e contraddittorio rapporto che si stabilisce tra i primitivi e i loro sovrani: per motivi superstiziosi, e per altre ragioni ancora, affiorano nel trattamento dei re tendenze di vario genere, ognuna delle quali si sviluppa fino alle estreme conseguenze senza riguardo per le altre. Di qui si generano poi contraddizioni, che scandalizzano l’intelletto dei selvaggi tanto poco quanto quello dei popoli più civilizzati in materia di religione o di “lealtà”.
Fin qui andrebbe tutto bene, ma la tecnica psicanalitica ci consentirà di approfondire il contesto e di enunciare qualcosa di più vicino alla natura di queste molteplici tendenze. Sottoponendo ad analisi lo stato di cose descritto, come se facesse parte del quadro sintomatico di una nevrosi, cogliamo subito il punto di partenza nell’eccesso di preoccupazioni angosciose a base del cerimoniale tabù. L’esistenza di questa eccessiva tenerezza è assai comune nella nevrosi, in particolare nella coatta, da noi privilegiata per il nostro paragone. La sua origine ci è ormai diventata molto chiara; affiora ovunque esista, oltre al predominante atteggiamento affettuoso, una corrente contraria ma inconscia di ostilità, cioè ovunque si realizzi un caso tipico di atteggiamento emotivo ambivalente. L’ostilità è poi sopraffatta da un eccessivo intensificarsi della tenerezza, che si manifesta in forma di ansiosa sollecitudine e diventa coatta, perché altrimenti non sarebbe in grado di adempiere al suo compito di mantenere inconscia la corrente contraria rimossa. Ogni psicanalista ha sperimentato con quanta sicurezza l’eccesso di tenerezza ansiosa permetta questa soluzione nelle situazioni più inverosimili, per esempio nel rapporto tra madre e figlio o tra coniugi affezionati. Applicato al trattamento delle persone privilegiate, risulterebbe che alla loro venerazione, anzi alla loro divinizzazione, nell’inconscio si contrappone un’intensa corrente di ostilità, e quindi, come ci aspettavamo, si sarebbe realizzata anche qui la situazione di atteggiamento emotivo ambivalente. La diffidenza, il cui concorso sembra innegabile nel motivare i tabù regali, sarebbe un’altra espressione più diretta della stessa ostilità inconscia. Anzi, data la molteplicità degli esiti finali di tale conflitto presso popoli diversi, non ci mancherebbero esempi capaci di fornire ancora più facilmente la prova di questa ostilità. Come sentiamo da Frazer, i selvaggi Timme della Sierra Leone,32 che eleggono il loro re, si riservano il diritto di bastonarlo ben bene la sera dell’incoronazione; si servono di questo privilegio costituzionale con tanto scrupolo che talvolta l’infelice monarca non sopravvive a lungo all’elevazione al trono. Così, quando i capi hanno della ruggine contro qualcuno e vogliono liberarsene, lo eleggono re. Tuttavia, anche in casi evidenti come questo, l’ostilità non si riconosce come tale, ma si traduce in cerimoniali.
Un’altra parte del comportamento dei primitivi verso i loro sovrani ricorda un processo generalmente diffuso nella nevrosi, che emerge apertamente nel cosiddetto delirio di persecuzione. Qui l’importanza di una determinata persona è straordinariamente accresciuta, i suoi poteri esagerati fino all’inverosimile, per poterle addossare meglio la responsabilità di tutto ciò che contraria l’ammalato. In verità, i selvaggi non si comportano diversamente con i loro re, attribuendo loro poteri sulla pioggia o sul sole, sul vento o sul tempo, per poi deporli o ucciderli, perché la natura ha deluso le loro aspettative di una buona caccia o di un ricco raccolto. Il modello riprodotto dal paranoico nel delirio di persecuzione è nel rapporto tra il bambino e suo padre. Nella rappresentazione del figlio, al padre tocca di regola la stessa pienezza di poteri, e si dimostra che la diffidenza verso il padre è intimamente legata alla sua alta considerazione. Nominando come suo “persecutore” una persona con cui ha rapporti vitali, il paranoico la eleva al livello del padre; la pone in condizioni che gli consentono di renderla responsabile di tutte le sventure che prova. Tale seconda analogia tra selvaggio e nevrotico ci fa capire quanto nel rapporto tra il selvaggio e il suo sovrano derivi dall’atteggiamento infantile del figlio verso il padre.
Il punto di riferimento più forte della nostra modalità di trattamento, che pretende paragonare i divieti del tabù ai sintomi nevrotici, lo troviamo però nel cerimoniale stesso del tabù, di cui prima si è discussa l’importanza per la posizione della regalità. Il cerimoniale manifesta inconfondibilmente il suo duplice significato e la sua provenienza da tendenze ambivalenti non appena siamo disposti ad ammettere che gli effetti prodotti siano stati sin dall’inizio intenzionali. Non solo contraddistingue i re e li innalza al di sopra di tutti i comuni mortali, ma rende anche la loro esistenza un tormento e un peso insopportabili, costringendoli a una servitù assai più penosa di quella dei loro sudditi. Ci sembra quindi l’esatto corrispettivo dell’azione coatta della nevrosi, in cui pulsione repressa e reprimente s’incontrano nella comune soddisfazione simultanea. L’azione coatta è una presunta protezione contro l’azione proibita; secondo il nostro punto di vista essa è propriamente la ripetizione di ciò che è proibito. Il “presunto” si riferisce qui all’istanza cosciente, il “proprio” all’istanza inconscia della vita psichica. Analogamente, anche il cerimoniale tabù dei re è in modo presunto il massimo degli onori e la massima protezione loro accordata; propriamente invece è la punizione per tale elevazione, la vendetta che i sudditi si prendono su di loro. Nel libro di Cervantes, le esperienze di Sancio Panza come governatore della sua isola, gli hanno consentito di riconoscere che tale concezione del cerimoniale di corte è l’unica veramente calzante. Sarebbe possibile ricevere altri consensi, potendo indurre re e signori di oggi a pronunciarsi in merito.
Perché l’assetto emotivo verso i sovrani debba contenere un così intenso contributo inconscio di ostilità è un problema molto interessante, che però esula dai limiti di questo lavoro. Abbiamo già accennato al complesso infantile nei confronti del padre. Aggiungiamo ancora che, proseguendo nell’analisi della preistoria della regalità, dovremmo trovare le spiegazioni decisive. Secondo le suggestive dichiarazioni di Frazer, per sua stessa ammissione però non del tutto convincenti, i primi re erano stranieri che, dopo un breve periodo di dominio, erano in occasione di feste solenni destinati a morte sacrificale quali rappresentanti della divinità.33 I miti del cristianesimo riporterebbero ancora gli effetti di questa evoluzione storica dei re.
c) Il tabù dei morti
Sappiamo che i morti sono sovrani potenti; forse ci stupirà venire a sapere che siano trattati da nemici.
Se ci è lecito rimanere sul terreno del paragone con l’infezione, il tabù dei morti dimostra una particolare virulenza tra la maggior parte dei popoli primitivi. Si manifesta anzitutto nelle conseguenze che porta con sé il contatto con il morto e nel trattamento di chi è in lutto per lui.
Tra i Maori chiunque avesse toccato un cadavere o partecipato alla sua tumulazione era considerato in sommo grado impuro e quasi del tutto tagliato fuori da ogni rapporto con il prossimo o, per così dire, boicottato. Non poteva entrare in nessuna casa, né avvicinarsi a persone o a cose senza contagiarle con la sua stessa infezione. Addirittura non poteva toccare cibo con le mani, divenute praticamente inservibili per la loro impurità. Gli si metteva davanti del cibo per terra e, con le mani dietro la schiena, cercava di afferrarlo come meglio gli riusciva con le labbra e con i denti. Occasionalmente gli era permesso di essere nutrito da un altro, che allora cercava d’imboccarlo con il braccio teso, curando di non toccare lo sciagurato; ma anche costui era poi soggetto a severe restrizioni poco meno gravi di quelle del contaminato. In quasi ogni villaggio un disgraziato, reietto dalla società, viveva così con miserabili elemosine. Solo a questo poveraccio era permesso avvicinarsi a distanza di un braccio a chi avesse compiuto gli estremi doveri verso il morto. Ma quando, trascorso il tempo del suo isolamento, l’inquinato dal cadavere poteva riunirsi ai compagni, tutte le stoviglie usate nel periodo pericoloso erano fatte a pezzi e gettati via tutti i vestiti con cui era vestito.
I costumi tabù che conseguono al contatto fisico dei cadaveri sono uguali in tutta la Polinesia, la Melanesia e in parte dell’Africa: elemento costante è il divieto di toccar cibo e la conseguente necessità di farsi imboccare da altri. È degno di nota il fatto che in Polinesia, o forse solo nelle Hawaii,34 i re-sacerdoti fossero sottoposti alle stesse limitazioni durante l’esercizio delle funzioni sacre. Nei tabù dei morti a Tonga l’attenuarsi e il progressivo sparire del divieto segue molto chiaramente la personale forza tabù. Chi ha toccato il cadavere di un capo defunto è impuro per dieci mesi; ma se chi ha toccato il cadavere è anche lui un capo, la sua impurità è limitata a tre, quattro o cinque mesi, secondo il rango ricoperto dal morto; se si tratta però del cadavere del “gran capo divino”, anche i capi più potenti diventano tabù per dieci mesi. I selvaggi credono fermamente che chi calpesta tali prescrizioni tabù è destinato ad ammalarsi gravemente e a morire; stando all’opinione di un osservatore, nessuno di loro ha mai neppure provato a sincerarsi del contrario.35
In sostanza analoghe, ma ai nostri fini più interessanti, sono le restrizioni tabù delle persone il cui contatto con i morti va inteso in senso traslato: parenti in lutto, vedovi e vedove. Se nelle prescrizioni citate finora non vediamo altro che l’espressione tipica della virulenza e della contagiosità del tabù, in quelle che esporremo ora trapelano i motivi dei tabù, e precisamente sia i motivi presunti sia quelli che possiamo ritenere profondi e autentici.
Tra gli Shuswap della Colombia britannica durante il periodo di lutto le vedove e i vedovi vivono isolati; non possono toccare la testa né alcuna parte del corpo con le mani; non possono usare le stoviglie che usano gli altri. Nessun cacciatore si avvicinerà alla capanna dove vivono persone in lutto perché porterebbe sfortuna. Se la loro ombra cadesse su qualcuno, questi dovrebbe cadere ammalato. Dormono su cespi spinosi con cui circondano il letto. L’ultima precauzione è destinata a tener lontano lo spirito dei defunti. Ancora più evidente è l’uso che vige, come riferito, in altre tribù del Nord-America, dove la vedova porta, per un certo periodo dalla morte del marito, un indumento simile a calzoni d’erba secca, per rendere impossibile allo spirito del morto di avvicinarsi a lei. Così è ovvio pensare che il contatto in senso traslato vada comunque inteso come contatto fisico, poiché lo spirito del defunto non si distacca dai parenti e nel periodo di lutto non cessa di “fluttuare” intorno a loro.
Tra gli Agutaino di Palawan nelle Filippine, per i primi sette o otto giorni dopo la morte del marito, alla vedova è proibito uscire dalla sua capanna; anche in seguito, può uscire solo di notte, quando è difficile incontrare qualcuno; infatti chi la guarda corre il rischio di morire all’istante. Per avvertire del proprio avvicinamento, lei stessa batte ad ogni passo contro gli alberi con un bastone di legno; ma questi alberi si seccano.
Un’altra osservazione ci spiega in cosa consista la pericolosità della vedova. Nella regione di Mekeo in Nuova Guinea britannica un vedovo perde tutti i diritti civili e vive per un certo tempo emarginato. Non può coltivare un giardino, né mostrarsi in pubblico, né attraversare il villaggio o la strada. Deve strisciare come bestia selvaggia tra l’erba alta o tra i cespugli; se vede o sente avvicinarsi qualcuno, specie una donna, deve nascondersi nel folto. L’ultimo accenno ci permette di ricondurre facilmente la pericolosità del vedovo o della vedova al pericolo della tentazione. L’uomo che ha perso la moglie deve evitare il desiderio di sostituirla; la vedova a maggior ragione deve lottare con Io stesso desiderio, poiché, priva di un signore e padrone, potrebbe destare la bramosia di altri uomini. Ognuna di queste soddisfazioni sostitutive urta contro il significato del lutto e dovrebbe suscitare l’ira dello spirito.36
Uno degli usi più sconcertanti, ma anche più istruttivi, connessi al tabù del lutto tra i primitivi, è il divieto di pronunciare il nome del defunto. È diffuso in modo straordinario e ha conosciuto svariate forme e conseguenze importanti.
Oltre che fra australiani e polinesiani, cui dobbiamo di solito la conoscenza degli usi tabù nel loro miglior stato di conservazione, questa proibizione è osservata fra popoli tanto lontani gli uni dagli altri come i Samoiedi della Siberia e i Toda dell’India meridionale; i Mongoli di Tartaria e i Tuareg del Sahara; gli Aino del Giappone e gli Akamba e i Nandi dell'Africa centrale; i Tinguiane delle Filippine e gli abitanti delle isole Nicobare, del Borneo, del Madagascar e della Tasmania.37 In alcuni di questi popoli la proibizione e le sue conseguenze valgono solo per il periodo del lutto; in altri popoli invece il divieto ha carattere permanente, ma sembra tuttavia attenuarsi in tutti i casi via via che ci si allontana dal momento della morte.
Evitare il nome del defunto è una proibizione a cui, di regola, ci si attiene con straordinario rigore. Per alcune tribù dell’America meridionale pronunciare il nome del parente defunto di fronte ai sopravvissuti è considerato la peggiore offesa che si possa loro arrecare; la punizione prevista per tale trasgressione non è meno severa di quella stabilita per l’assassinio.38 Non è facile di primo acchito indovinare perché si dovrebbe tanto aborrire nominare il defunto, ma i pericoli connessi hanno fatto sorgere tutta una serie di espedienti informativi per molti aspetti interessanti e significativi. I Masai dell’Africa, per esempio, ricorrono alla scappatoia di mutar nome al defunto subito dopo la morte; così si può menzionarlo senza timore con il suo nuovo nome, mentre tutti i divieti restano legati al vecchio. L’atteggiamento sembra presupporre che lo spirito non conosca e non venga mai a sapere il suo nuovo nome. Le tribù australiane di Adelaide e della Baia dell’Incontro usano con tale coerenza questa precauzione che, quando uno muore, tutte le persone che portano un nome uguale o simile a quello del defunto lo mutano in un altro. A volte, per estensione dello stesso ragionamento, tutti i parenti stretti cambiano il proprio nome, a prescindere dalla sua similarità fonetica con quello del morto; quest’uso è in vigore presso alcune tribù del Victoria e dell’America nordoccidentale. Anzi, presso i Guaycuru del Paraguay il capo soleva, in questa triste occasione, attribuire a tutti i membri della tribù nuovi nomi, che "da quel momento in poi ricordavano come se li avessero sempre avuti”.39
Se poi il nome del defunto coincideva con quello di un animale, di un oggetto ecc., ad alcune delle popolazioni ricordate sembrò necessario attribuire nomi nuovi anche a questi animali e oggetti, in modo da non ricordare il defunto usando quelle parole. Da qui dovette derivare un’incessante trasformazione del patrimonio linguistico, che causò parecchie difficoltà ai missionari, specialmente quando l'interdizione del nome diventò permanente. Nei sette anni che il missionario Dobrizhoffer trascorse presso gli Abiponi del Paraguay, il nome per giaguaro fu cambiato tre volte, e coccodrillo, spina e uccisione di animale ebbero vicende simili.40 La fobia di pronunciare il nome di un defunto si estende però anche in un’altra direzione: si evita di citare tutto ciò in cui il defunto ebbe un ruolo; importante conseguenza di tale processo repressivo è che questi popoli non hanno alcuna tradizione, alcuna reminiscenza storica; le ricerche sulla loro preistoria urtano contro le maggiori difficoltà. In un certo numero di queste popolazioni primitive, tuttavia, si sono adottati usi compensatori, destinati a far rivivere i nomi dei defunti dopo un lungo periodo di lutto: i nomi sono dati a bambini, considerati reincarnazione dei morti.
Lo sconvolgente nel tabù dei nomi si ridimensiona, tenuto conto che per i selvaggi il nome è parte essenziale e patrimonio importante della personalità, attribuendo alla parola la stessa portata della cosa. Come ho già rilevato altrove,41 lo stesso fanno i nostri bambini, che infatti non si accontentano mai dell’assunto che l’analogia lessicale sia priva di significato, ma deducono coerentemente che, se due cose vengono indicate con due parole dal suono simile, ciò deve indicare una profonda coincidenza tra di esse. Anche l’adulto civilizzato è in grado di scoprire, da alcune singolarità del suo comportamento, che non è così lontano quanto crede dal prendere alla lettera e dal dare peso ai nomi propri e che il suo nome è cresciuto in maniera molto particolare insieme a lui. Lo conferma la pratica psicanalitica che trova molti spunti per richiamare l’attenzione sull’importanza dei nomi nell’attività psichica inconscia.42
Per quanto riguarda i nomi, i nevrotici coatti si comportano allo stesso modo dei selvaggi, e c'era da aspettarselo. Rivelano un’elevata “sensibilità complessuale”43 nel pronunciare e nell’udire determinate parole e determinati nomi (analogamente ad altri tipi di nevrotici) e dal loro atteggiamento verso il proprio nome derivano un buon numero di inibizioni spesso pesanti. Ho conosciuto un’ammalata di questo tabù, che si era imposta di non scrivere il proprio nome per timore che potesse cadere in mano di qualcuno, il quale si sarebbe così impossessato di una parte della sua personalità. Nella spasmodica fedeltà con cui doveva difendersi dalle tentazioni della sua fantasia, si era creata l’obbligo “di non dar via nulla della propria persona”. Vi era compreso in primo luogo il suo nome, poi, per estensione la sua scrittura, per cui rinunciò del tutto a scrivere.
Quindi non ci sorprende più che i selvaggi considerino il nome del morto parte della sua persona e diventi oggetto del tabù che lo riguarda. Infatti, anche pronunciare il nome del morto può essere ricondotto al contatto con lui. Possiamo perciò rivolgere la nostra attenzione a un problema di indole più generale: il motivo per cui tale contatto sia colpito da un tabù così severo.
La spiegazione più ovvia alluderebbe al terrore naturale suscitato dalla vista del cadavere e dei cambiamenti ivi ben presto osservati. Andrebbe inoltre dato spazio al lutto per il morto, come motivo per tutto ciò che gli si riferisce. Solo che il terrore per il cadavere non spiega evidentemente tutte i dettagli delle prescrizioni tabù, né il lutto potrà mai spiegare perché nominare il morto sia un grave oltraggio verso i sopravvissuti. Anzi al lutto piace che ci si occupi del defunto, che se ne elabori il ricordo e lo si serbi quanto più a lungo possibile. Le particolarità dei costumi tabù vanno ricondotte a qualcosa di diverso dal lutto, a qualcosa che persegue evidentemente finalità differenti. Proprio i tabù dei nomi rivelano questo motivo ancora ignoto e, se i costumi non dicessero nulla, verremmo a saperne dalle indicazioni degli stessi selvaggi in lutto.
Infatti, non fanno mistero di temere la presenza e il ritorno dello spirito del defunto e praticano una quantità di cerimonie per tenerlo lontano e scacciarlo.44 Pronunciare il suo nome sembra loro un esorcismo cui seguirà subito la sua presenza.45 Di conseguenza fanno di tutto per non andare incontro all’esorcismo e all’evocazione. Si travestono perché lo spirito non li riconosca, deformano il suo nome o il proprio.46 Si adirano contro lo straniero senza riguardi che, pronunciando il nome del morto, ne istiga lo spirito contro i sopravvissuti. Non si può sfuggire alla conclusione che, secondo l'espressione di Wundt, soffrano per la paura “della sua anima divenuta demone”.47 Con questo modo di vedere saremmo giunti a confermare la concezione di Wundt che, come abbiamo visto, trova l’essenza del tabù nella paura dei demoni.
La premessa di tale dottrina, per cui nell’attimo della morte il caro membro della famiglia diventa un demone, da cui i superstiti possono aspettarsi solo ostilità e dalle cui brame malvagie si debbono difendere con ogni mezzo, è così singolare che a prima vista saremmo tentati di rifiutarla. Ma quasi tutti gli studiosi più autorevoli sono concordi nell’attribuire questa concezione ai primitivi. Westermarck, che nella sua opera L'origine e lo sviluppo delle idee morali attribuisce a mio parere troppo poca importanza al tabù, peraltro nel capitolo sull’Atteggiamento verso i defunti afferma: “In linea generale, i dati di cui dispongo mi portano a concludere che i morti sono più spesso visti come nemici che come amici, per cui Jevons e Grant Allen sbagliano affermando che nelle credenze primitive la malvagità dei morti si rivolgerebbe anzitutto e solo contro gli stranieri, e che i morti vigilerebbero invece con paterna sollecitudine sulla vita e sul benessere dei loro discendenti e dei loro compagni di clan”.48
In un’opera di grande effetto,49 Rudolf Kleinpaul ha usato i resti della vecchia credenza negli spiriti dei popoli civilizzati per rappresentare il rapporto tra vivi e morti. Anch’egli arriva alla convinzione che i morti attirino a sé i vivi con intenti mortiferi. I morti uccidono. Lo scheletro, oggi immagine della morte, mostra che la morte stessa non è altro che un’assassina. Il vivo non si sente al sicuro dalla persecuzione del morto prima di aver posto tra lui e sé dell’acqua che li separi. Perciò si preferivano seppellire i morti su isole o si portavano sull’altra sponda di un fiume: le espressioni “aldiqua” e “aldilà” derivano da tale uso. Grazie alla successiva mitigazione, la malvagità dei morti è stata limitata a quelle categorie cui si doveva riconoscere un particolare diritto al risentimento: i morti per mano omicida, che in qualità di spiriti malvagi perseguitano i loro assassini, e coloro, come gli sposi promessi, che la morte ha colto non placati nei loro più ardenti desideri. Ma, in origine, secondo Kleinpaul, tutti i morti erano vampiri; tutti nutrivano astio per i vivi e cercavano di far loro del male, di privarli della vita. Fu proprio il cadavere a far sorgere per la prima volta il concetto di spirito maligno.
L’ipotesi che i defunti più cari si trasformino dopo morti in demoni permette evidentemente di riformulare il problema. Cosa spinse i primitivi ad attribuire ai loro cari morti un tale mutamento di sentimenti? Perché ne fecero dei demoni? Westermarck pensa che la risposta sia facile: “La morte è per lo più considerata come la peggiore delle sventure; si crede pertanto che i morti siano assai insoddisfatti del loro destino. Secondo le concezioni primitive, si muore solo per assassinio, prodotto o con la violenza o con l’incantesimo; per questa ragione si vede l’anima smaniosa di vendetta e irascibile. Presumibilmente prova invidia verso i superstiti e aspira alla compagnia degli amici di un tempo; si comprende quindi che li faccia ammalare per causarne la morte e riunirsi a loro … L’ulteriore spiegazione della cattiveria attribuita alle anime sta nella paura istintiva di loro, a sua volta risultato della paura della morte.”50 Lo studio dei disturbi psiconevrotici ci indica una spiegazione più comprensiva, che include quella di Westermarck.
Quando una moglie perde il marito o una figlia la madre, non di rado accade che i superstiti cadano in preda a dubbi penosi, da noi detti “rimproveri coatti”, di aver provocato per imprudenza o trascuratezza la morte della persona amata. Nessun ricordo di quante cure dedicarono ai malati, nessuna concreta controdimostrazione della dichiarata responsabilità riesce a por fine al tormento, che rappresenta per così dire l’espressione patologica del lutto e si attenua lentamente con il passare del tempo. L’esame psicanalitico di tali casi ci ha insegnato a riconoscere le molle segrete di tale sofferenza. Siamo venuti a sapere, cioè, che i rimproveri coatti sono in un certo senso giustificati e solo per questo sono inattaccabili da confutazioni e obiezioni. Non già che la persona in lutto sia realmente responsabile della morte o che sia stata davvero trascurata, come il rimprovero coatto afferma. Tuttavia, qualcosa in questa persona, un desiderio a lei stessa inconscio, non è insoddisfatto di quella morte e potendo l’avrebbe procurata volentieri. Ora, dopo la morte della persona amata, il rimprovero reagisce contro questo desiderio inconscio.
L’ostilità, celata nell’inconscio e nascosta dietro un tenero amore, esiste in quasi tutti i casi di intenso legame affettivo con una certa persona, ed è l’esempio classico, il paradigma dell’ambivalenza emotiva propria di tutti i moti affettivi umani, presente in tutti noi, chi più chi meno. Normalmente non è in quantità tale da far sorgere i descritti rimproveri coatti, ma se la sua presenza è massiccia, si manifesta proprio nei rapporti con le persone più teneramente amate, ossia proprio là dove meno lo si attenderebbe. La predisposizione alla nevrosi coatta, presa così spesso a termine di paragone nel problema del tabù, ci sembra caratterizzata in misura particolarmente notevole dall’originaria ambivalenza emotiva.
Ora conosciamo il fattore che può spiegare il presunto demonismo delle anime dei defunti recenti e la necessità di proteggersi dalla loro ostilità con prescrizioni tabù. Ammesso che la vita emotiva dei primitivi sia caratterizzata da un’ambivalenza non meno intensa di quella che, in base ai dati della psicanalisi, attribuiamo ai malati coatti, si comprende che dopo una perdita dolorosa sia necessaria una reazione contro l’ostilità latente nell’inconscio analoga a quella che si manifesta attraverso rimproveri coatti. Tale ostilità, che nell’inconscio è penosamente percepita come soddisfazione per la morte avvenuta, subisce però una sorte diversa presso i popoli primitivi, che si difendono dall’ostilità spostandola sull’oggetto dell’ostilità stessa, ossia sul morto. Chiamiamo proiezione tale processo di difesa, frequente sia nella vita psichica normale sia patologica. Il superstite ora nega di aver mai nutrito impulsi ostili contro l’amato defunto, ma li nutre ora l’anima del morto, che cercherà di metterli in atto per tutta la durata del lutto. Benché la difesa della proiezione sia riuscita, il carattere punitivo e di rimorso della reazione emotiva del soggetto si manifesta ora nel timore, nelle rinunce che s’impone e nelle restrizioni cui si sottomette, camuffate in parte da norme protettive contro il demone ostile. Quindi una volta di più troviamo che il tabù cresce sul terreno di un atteggiamento emotivo ambivalente. Anche il tabù dei morti deriva dal contrasto tra dolore cosciente e soddisfazione inconscia per la morte avvenuta. Originato dall’astio degli spiriti, è ovvio che proprio i superstiti più prossimi al morto, un tempo i più amati, debbano temerlo di più.
Anche le prescrizioni tabù, come i sintomi nevrotici, si comportano qui in modo contraddittorio. Da un lato, nel loro carattere di restrizioni, esprimono il lutto; ma, dall’altro, tradiscono con estrema evidenza ciò che vorrebbero nascondere: l’ostilità verso il morto, ora motivata come necessità. Abbiamo appreso a comprendere un certo numero di divieti tabù come timore della tentazione: il morto è inerme; ciò costituisce un inevitabile stimolo a soddisfare su di lui le brame ostili; a tale tentazione va contrapposto il divieto.
Westermarck ha però ragione pretendendo che nella concezione dei selvaggi non ci sia differenza tra morte violenta e naturale. Per il pensiero inconscio, anche chi è morto di morte naturale è assassinato: l’hanno ucciso i cattivi desideri (vedi il prossimo saggio: Animismo, Magia e onnipotenza dei pensieri). Chi s’interessa all’origine e al significato dei sogni di morte di cari congiunti (genitori, fratelli) può constatare nel sognatore, nel bambino o nel selvaggio, la piena coincidenza di comportamento verso il morto, fondato sulla stessa ambivalenza emotiva.
Abbiamo prima confutato l’asserzione di Wundt che trova l’essenza del tabù nella paura dei demoni, concordando tuttavia con lui quando dice che il tabù dei morti va fatto risalire alla paura per l’anima del defunto trasformata in demone. Sembra una contraddizione, ma non è difficile da risolvere. Abbiamo assunto i demoni, ma non come dato ultimo e psicologicamente inesplicabile. Siamo per così dire andati alle loro spalle, riconoscendoli come proiezioni di sentimenti ostili dei superstiti verso i morti.
I sentimenti contraddittori di tenerezza e di ostilità, provati dagli uomini con fondati motivi verso i loro morti, pretendono di imporsi entrambi al momento della perdita, rispettivamente come lutto e come soddisfazione. Il contrasto non può che portare a un conflitto, e poiché uno dei poli opposti, l’ostilità, è in tutto o in gran parte inconscio, l’esito del conflitto non può essere quello di sottrarre l’intensità minore da quella maggiore e di stabilire fra esse una differenza cosciente, come accade per esempio perdonando a una persona amata un’offesa che ci abbia arrecato. Il processo si liquida mediante un particolare meccanismo psichico che in psicanalisi si è soliti definire proiezione. L'ostilità, di cui nulla si sa e nulla si vuol sapere neppure dopo, è respinta dalla percezione interna verso il mondo esterno, e in tal modo è separata dalla propria persona e spostata su quella dell’altro. Non siamo più noi, i sopravvissuti, a rallegrarci, anzi, proprio al contrario, noi siamo liberi dal morto; no, noi siamo in lutto per lui, che stranamente è diventato un demone malvagio; è pronto a rallegrarsi per le nostre sventure e cerca di farci morire. I superstiti devono allora difendersi da questo nemico cattivo. Si sono liberati dall’oppressione interna, ma l’hanno solo sostituita con una difficoltà proveniente dall’esterno.
Non va escluso che il processo di proiezione, che dei defunti fa nemici malintenzionati, trovi un appoggio in ostilità reali che i sopravvissuti possono ricordare ed effettivamente rimproverare loro: la loro durezza, la loro sete di potere, la loro ingiustizia, tutto ciò insomma che costituisce lo sfondo delle relazioni anche più affettuose tra uomini. Ma non è tanto facile che tale fattore basti da solo a rendere comprensibile la creazione proiettiva dei demoni. Le colpe dei defunti contengono certo una parte dei motivi per l’ostilità dei superstiti, ma sarebbero inefficaci se i sopravvissuti non sviluppassero questa ostilità da sé, e il momento della morte dei loro cari sarebbe senza dubbio l’occasione meno adatta per destare il ricordo dei rimproveri, che pure potrebbero fondatamente esser loro rivolti. Non possiamo fare a meno di considerare l’ostilità inconscia come il motivo invariabilmente operante, il vero e proprio elemento propulsore. La corrente di ostilità contro i parenti più prossimi e più amati poteva restare latente mentre erano in vita, non tradirsi né direttamente né indirettamente alla coscienza con qualche formazione sostitutiva. Venendo meno le persone a un tempo amate e odiate, ciò non è più possibile e il conflitto si è acuito. Da un lato, il lutto derivato dall’intensificarsi dei sentimenti affettuosi è diventato più intollerante verso l’ostilità latente, dall’altro, non può consentire che dall’ostilità si sprigioni un sentimento di soddisfazione. Si giunge così a rimuovere l'ostilità inconscia mediante la proiezione e a dar vita a quel cerimoniale che esprime la paura della punizione dei demoni. Via via che il lutto si allontana nel tempo, anche il conflitto diventa meno acuto e il tabù dei morti si affievolisce e si può dimenticare.
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Chiarito così il terreno su cui il tabù molto istruttivo dei morti è cresciuto, non vogliamo mancare di aggiungere alcune osservazioni, che possono diventare molto significative per comprendere in generale il tabù.
Proiettare l’ostilità inconscia sui demoni nel tabù dei morti è solo un esempio di una serie di processi cui attribuire la massima influenza nel formare la vita psichica primitiva. Nel caso trattato, la proiezione serve a disbrigare un conflitto emotivo; trova lo stesso uso in un gran numero di situazioni psichiche che portano alla nevrosi. Ma la proiezione non è creata per la difesa; si dà anche là dove non vi sono conflitti. La proiezione all’esterno di percezioni interne è un meccanismo primitivo, cui soggiacciono, per esempio, anche le nostre percezioni sensoriali, che ha di norma la parte maggiore nel formare il nostro mondo esterno. In condizioni non ancora a sufficienza precisate, anche percezioni interne di processi emotivi e mentali, come le percezioni sensoriali, si proiettano all’esterno, dove si usano per configurare il mondo esterno, mentre dovrebbero restare nel mondo interno. Ciò è forse geneticamente connesso alla funzione dell’attenzione che in origine non era rivolta al mondo interno ma agli stimoli affluenti dal mondo esterno, e aveva notizia dei processi endopsichici solo da sviluppi di piacere e di avversione. Solo con la formazione di un linguaggio intellettuale astratto, con un nesso tra i residui sensoriali delle rappresentazioni verbali e i processi interni, questi si resero gradualmente percepibili. Fino allora, proiettando percezioni interne all’esterno, gli uomini primitivi svilupparono un’immagine del mondo esterno, che ora dobbiamo ritradurre in psicologia con rinforzata percezione cosciente.
La proiezione dei propri moti cattivi su demoni è solo una parte del sistema diventato la “visione del mondo” dei primitivi, che impareremo a conoscere come “animismo” nel prossimo saggio di questa serie. Allora stabiliremo i caratteri psicologici di tale formazione sistematica e ritroveremo i nostri punti di riferimento, analizzando le formazioni sistematiche mostrate dalle nevrosi. Per ora non diremo altro se non che la cosiddetta “elaborazione secondaria” del contenuto dei sogni è il modello di tutte queste formazioni sistematiche. Non dimentichiamo neppure che, per ogni atto di giudizio della coscienza esiste una doppia derivazione dallo stadio della formazione sistematica: la sistematica, appunto, e la reale ma inconscia.51
Wundt nota che “tra gli effetti, attribuiti ovunque dal mito ai demoni, prevalgono senz’altro i funesti; quindi nella credenza dei popoli i demoni cattivi sono evidentemente più antichi dei buoni”.52 Ora, è ben possibile che il concetto di demone in generale sia stato dedotto dall’importante relazione dei vivi con i morti. Nella successiva evoluzione umana l’ambivalenza insita in tale relazione si è poi espressa nell’emergere dalla stessa radice di due formazioni psichiche completamente opposte: la paura dei demoni e degli spiriti da un lato, e la venerazione degli antenati dall’altro.53 Che i demoni siano sempre concepiti come spiriti di persone morte di recente è la prova più efficace dell’influenza del lutto sull’origine della credenza nei demoni. Al lutto spetta un compito psichico ben determinato: deve staccare dai morti i ricordi e le aspettative dei superstiti. Una volta assolta tale funzione, il dolore si attenua, e con esso il rimorso e i rimproveri, e quindi anche la paura del demone. Gli stessi spiriti, inizialmente temuti come demoni, vanno ora incontro al più lieto destino di essere venerati come antenati e invocati come soccorritori.
Valutando nel corso del tempo il rapporto dei sopravvissuti con i morti, non si può non constatare la straordinaria diminuzione della sua ambivalenza. Tenere a freno l’ostilità inconscia verso i morti, sempre ancora dimostrabile, adesso riesce facilmente senza un particolare dispendio psichico. Se in passato l’odio appagato e la tenerezza dolorosa avevano lottato l’uno contro l’altra, oggi si eleva la pietà come cicatrizzazione che vuole De mortuis nihil nisi bonum. Solo i nevrotici turbano ancora il lutto per la perdita dei loro cari con attacchi di rimproveri coatti, che in psicanalisi svelano il loro segreto di antico atteggiamento emotivo ambivalente. Non è il caso di esaminare qui in che modo il mutamento si sia realizzato e in che misura l’evoluzione sociale e il miglioramento reale dei rapporti familiari abbiano concorso a originarlo. Ma questo esempio potrebbe portare a supporre che ai moti psichici dei primitivi fosse concessa una misura d’ambivalenza maggiore di quella rintracciabile negli uomini civilizzati di oggi. Con il decremento dell’ambivalenza svanì lentamente anche il tabù, sintomo di compromesso del conflitto di ambivalenza. A proposito dei nevrotici, costretti a riprodurre tale lotta e il risultante tabù, diremmo che hanno serbato una costituzione arcaica in forma di residuo atavico, la cui compensazione a servizio della richiesta della civiltà li costringe ora a un dispendio psichico mostruoso.
A questo punto ricordiamo l’informazione, disorientante nella sua oscurità, che Wundt ci ha offerto sul doppio significato di “sacro” e “impuro” della parola tabù (v. sopra). In origine il termine “tabù” non avrebbe significato “sacro” e “impuro”, ma “demoniaco”, ciò che è vietato toccare, sottolineando così un’importante connotazione comune a entrambi questi concetti estremi; tuttavia, proprio il permanere di questa connotazione comune dimostrerebbe che tra i due ambiti del sacro e dell’impuro esiste sin dall’origine una concordanza solo dopo differenziata.
In contrasto con ciò, deduciamo facilmente dai nostri ragionamenti che il citato duplice significato compete alla parola tabù fin dall’inizio e che essa serve a definire una precisa ambivalenza e tutto ciò che si è sviluppato sul suo terreno. Tabù è in sé stessa una parola ambivalente; siamo in più convinti che sarebbe stato sufficiente rifarsi al significato accertato di questo termine per scoprire ciò che è risultato da una ricerca assai approfondita, cioè che il divieto da tabù va inteso come esito di un’ambivalenza emotiva. Lo studio delle lingue più antiche ci ha insegnato che un tempo erano numerose le parole contenenti in sé significati opposti e che in un certo senso – anche se non esattamente nello stesso senso – erano ambivalenti come la parola tabù.54 Lievi modificazioni fonetiche della “parola primordiale” dai significati opposti sono più tardi servite a conferire un’espressione linguistica differenziata ai due sensi opposti in essa originariamente compresenti.
La parola tabù ha avuto un altro destino: diminuendo l’importanza dell’ambivalenza da essa designata, scomparvero dal vocabolario la parola stessa “tabu” e le espressioni analoghe. In un contesto successivo, spero di poter rendere verosimile che dietro il destino di questo concetto si cela una trasformazione storica ben precisa; in un primo tempo la parola era connessa a relazioni umane specifiche, caratterizzate da grande ambivalenza emotiva, e da allora fu estesa ad altre analoghe relazioni.
Se non sbagliamo, la comprensione del tabù getta luce anche su natura e origine della coscienza morale. Per trasgressione del tabù si può parlare di coscienza tabù e di senso di colpa tabù senza estendere i concetti. La coscienza morale del tabù è verosimilmente la forma più antica in cui s’incontra il fenomeno della coscienza morale.
Cos’è, infatti, “coscienza morale”? Secondo la testimonianza della lingua [tedesca] le spetta ciò che si sa a pieno.55 In diverse lingue la sua denominazione non si distingue da quella di essere coscienti.
Coscienza morale è la percezione interna del rifiuto di determinati moti di desiderio insiti in noi. L’accento cade però sul fatto che tale rigetto non ha bisogno di appellarsi ad altro, essendo certo di sé stesso. È ancora più chiaro nel senso di colpa, nella percezione della condanna interiore rivolta a quegli atti con cui abbiamo realizzato certi moti di desiderio. Ogni motivazione sembra qui superflua: chiunque abbia una coscienza deve avvertire in sé stesso la giustificazione della condanna, il rimprovero per l’atto compiuto. Ma il comportamento dei selvaggi verso il tabù mostra la stessa caratteristica: il tabù è un comando della coscienza morale, la cui violazione fa sorgere uno spaventoso senso di colpa, tanto ovvio quanto di origine ignota.56
È quindi verosimile che anche la coscienza morale nasca sul terreno di un’ambivalenza emotiva di relazioni umane ben determinate, cui tale ambivalenza è connessa, nelle condizioni proprie sia del tabù sia della nevrosi coatta, dove un elemento del contrasto è inconscio e mantenuto rimosso dall’altro coattivamente dominante. Quanto appreso dall’analisi delle nevrosi conferma a più riprese la conclusione. In primo luogo, dal carattere dei nevrotici coatti emerge il tratto di una meticolosa coscienziosità come sintomo di reazione alla tentazione in agguato nell’inconscio; man mano che la malattia si acutizza, si sviluppa il senso di colpa fino alla massima intensità. Si può addirittura arrivare a dire che, se non siamo in grado di stabilire nei malati coatti l’origine del senso di colpa, non abbiamo prospettive di riuscirci altrove. A risolvere il compito si riesce per ora nel singolo nevrotico. Per quanto riguarda i popoli primitivi, confidiamo di arrivare a una soluzione analoga.
In secondo luogo, non ci può sfuggire che il senso di colpa ha molto in comune con la natura dell’angoscia: senza esitare si può descriverlo un’“angoscia morale”. L’angoscia, tuttavia, rinvia a fonti inconsce: dalla psicologia delle nevrosi abbiamo appreso che quando impulsi di desiderio soggiacciono alla rimozione, la loro libido si trasforma in angoscia. In rapporto a ciò vogliamo ricordare che anche nel senso di colpa qualcosa è ignoto e inconscio, e precisamente la motivazione del rigetto. Il carattere d’angoscia del senso di colpa corrisponde all’elemento ignoto.
Se il tabù si esprime in prevalenza in divieti, basta riflettere un momento perché risulti ovvio, senza ricorrere alle dettagliate argomentazioni sull’analogia con le nevrosi, che alla base del tabù ci sia una corrente positiva di desiderio. Infatti, non c'è bisogno di proibire ciò che nessuno vuol fare, e comunque ciò che è proibito nella maniera più energica deve essere oggetto di desiderio. Se applicassimo questa tesi plausibile ai nostri primitivi, dovremmo dedurne che tra le loro più forti tentazioni vi sia quella di uccidere i loro re e sacerdoti, di commettere incesto, di maltrattare i loro morti e così via. Ora, tutto ciò è inverosimile. La contraddizione sembra ancora più netta, però, se riferiamo questa stessa tesi ai casi in cui anche noi crediamo di percepire nel modo più chiaro la voce della coscienza. Sono i casi in cui risponderemmo con assoluta certezza di non provare la minima tentazione di violare uno di questi comandamenti, per esempio quello che dice: Non ammazzare, e di non provare altro che avversione se violati.
Se questo enunciato della nostra coscienza morale non avesse l’importanza che ha, da un lato il divieto – il tabù non meno del nostro divieto morale – diventerebbe superfluo, dall’altro il dato della coscienza morale rimarrebbe inspiegato e verrebbero meno i nessi tra coscienza morale, tabù e nevrosi; ecco che si produce un blocco nella nostra comprensione, destinato a durare finché non applicheremo al problema il punto di vista psicanalitico.
Se invece teniamo conto dei dati di fatto scoperti dalla psicanalisi sui sogni delle persone sane, ossia che la tentazione di uccidere l’altro è anche in noi più forte e più frequente di quanto non immaginiamo, ed esplica effetti psichici anche quando non si manifesta alla nostra coscienza; se inoltre riconosciamo che le prescrizioni coatte di certi nevrotici non sono altro che misure di sicurezza e autopunizioni contro l’accresciuto impulso a uccidere, allora alla tesi prima asserita, cioè che dietro ogni divieto ci deve essere un desiderio, torneremo a una nuova valutazione. Ammetteremo che questa brama di uccidere è realmente presente nell’inconscio, e che sia il tabù sia il divieto morale non sono superflui psicologicamente, anzi sono spiegati e giustificati dall’atteggiamento ambivalente verso l’impulso omicida.
Il carattere tanto frequente quanto fondamentale di tale rapporto ambivalente, cioè che la positiva corrente di desiderio sia inconscia, ci apre una visuale ad altri nessi e ad altre possibili spiegazioni. I processi psichici dell’inconscio non sono identici a quelli che conosciamo nella nostra vita psichica cosciente, ma godono di certe non trascurabili libertà, che ai processi coscienti sono state sottratte. Un impulso inconscio non è necessariamente sorto dove lo vediamo manifestarsi; può derivare da tutt’altro luogo, essersi originariamente riferito ad altre persone e contesti, ed essere giunto là dove ora s’impone alla nostra attenzione grazie al meccanismo dello spostamento. Inoltre, per l’indistruttibilità e l’incorreggibilità dei processi inconsci, può essere sopravvissuto da tempi remoti, ai quali era commisurato, fino a tempi e a circostanze più recenti, in cui le sue manifestazioni non possono che apparire strane. Tutti questi sono solo cenni che tuttavia, accuratamente sviluppati, potrebbero essere assai importanti per comprendere l’evoluzione della civiltà.
A conclusione di questi rilievi, non vogliamo omettere un’osservazione che prepara successive ricerche. Anche tenuta ferma l’uguaglianza sostanziale tra divieto tabù e divieto morale, non pretendiamo contestare l’esistenza di una differenza psicologica tra questi due elementi. Solo un cambiamento nelle condizioni dell’ambivalenza sottostante può essere la causa per cui il divieto non compare più in forma di tabù.
Finora, nella considerazione analitica dei fenomeni tabù, ci siamo lasciati guidare da concordanze dimostrabili nella nevrosi coatta; tuttavia, il tabù non è una nevrosi ma una formazione sociale. Pertanto ci s’impone il compito di indicare dove stia la differenza di principio tra la nevrosi e una creazione culturale come il tabù.
Voglio riprendere come punto di partenza un singolo dato di fatto. I primitivi temono che violare un tabù provochi una punizione, di solito una malattia grave o la morte. Questa punizione minaccia ora chi si è reso colpevole della trasgressione. Nella nevrosi coatta è diverso. Se il malato fa qualcosa di proibito, il suo timore è che la punizione non colpisca lui stesso ma un’altra persona, la cui identità è per lo più lasciata nel vago; ma l’analisi permette di riconoscerla facilmente come una delle persone più vicine e più amate dal paziente. In queste circostanze il nevrotico si comporta da altruista, il primitivo da egoista. Solo se la violazione del tabù non ha dato origine a una vendetta spontanea sul trasgressore, si ridesta tra i selvaggi un sentimento collettivo: si sentono tutti minacciati dal sacrilegio e si affrettano a eseguire personalmente la mancata punizione. Ci è facile chiarire il meccanismo di questa solidarietà. È in gioco la paura dell’esempio che infetta, della tentazione a imitare, ossia della contagiosità del tabù. Se uno è riuscito a soddisfare il desiderio rimosso, in tutti i membri della comunità dovrà destarsi lo stesso desiderio. Per frenare questa tentazione l’invidiato va privato del frutto della sua temerarietà, e non di rado la punizione dà agli esecutori l’opportunità di commettere a loro volta, con la giustificazione dell’espiazione, la stessa azione sacrilega. Questo è uno dei fondamenti dell’ordinamento penale umano, la cui premessa, senza dubbio corretta, consiste nell’attribuire gli stessi moti proibiti al criminale e alla società che si vendica di lui.
La psicanalisi conferma qui ciò che di solito dicono le persone pie, che siamo tutti cattivi peccatori. Come possiamo spiegare invece l’inattesa nobiltà d’animo della nevrosi, che non teme niente per sé e tutto per una persona cara? La ricerca analitica mostra che questa magnanimità non è primaria. In origine, all’inizio della malattia, la minaccia della punizione era diretta contro la propria persona, come presso i selvaggi; si temeva in ogni caso per la propria vita. Solo più tardi la paura della morte fu spostata su un’altra persona cara. Il processo è abbastanza complicato, ma riusciamo ad afferrarlo nel suo insieme. Alla base della formazione del divieto c’è sempre un impulso malvagio, un desiderio di morte, contro una persona cara. Questo impulso è rimosso mediante un divieto e il divieto collegato a una determinata azione che, per spostamento, prende in un certo senso il posto dell’atto ostile contro la persona amata; l'esecuzione di tale azione è minacciata dalla pena di morte. Ma il processo va avanti, e l’originario desiderio di morte contro la persona cara è sostituito dall’angoscia che muoia. Se quindi la nevrosi si mostra così amorevolmente altruistica, è per compensare in tal modo l’opposto atteggiamento di base di brutale egoismo. Se definiamo sociali le spinte emotive caratterizzate dal riguardo nei confronti di qualcuno, senza assumerlo come oggetto sessuale, rileveremo che il recesso di questi fattori sociali è un tratto fondamentale della nevrosi, coperto in seguito da sovra-compensazione.
Senza fermarci sull’origine di questi moti sociali e sulla loro relazione con le altre pulsioni fondamentali dell’uomo, vogliamo mettere in luce il secondo carattere fondamentale della nevrosi con un altro esempio. Per la forma in cui si manifesta, iI tabù presenta un’estrema somiglianza con la paura del contatto tipica dei nevrotici, il délire de toucher. Ora, nel caso delle nevrosi, si tratta di regola del divieto di contatto sessuale; la psicanalisi ha dimostrato che le forze pulsionali deviate e spostate nella nevrosi sono di origine sessuale. Nel caso del tabù, il contatto proibito non ha evidentemente un significato esclusivamente sessuale, ma piuttosto il senso molto più generale di un’aggressione, dello stabilire un potere su qualcuno o qualcosa, di un'affermazione di sé. Se è proibito toccare il capo o perfino qualcosa che sia venuto in contatto con lui, l’impulso corrispondente, che in altre occasioni si esprime in astiosa vigilanza del capo, addirittura nei maltrattamenti fisici a lui inflitti prima dell’incoronazione, deve sottostare a un’inibizione. Una pertanto è la caratteristica della nevrosi: la preponderanza delle componenti pulsionali sessuali su quelle sociali. Ma le stesse pulsioni sociali sono risultate unità particolari grazie al confluire di componenti egoistiche ed erotiche.
Già dall’unico esempio di confronto tra tabù e nevrosi coatta si può indovinare il rapporto fra le singole forme di nevrosi e le istituzioni civili, e perché lo studio della psicologia delle nevrosi diventi importante per comprendere lo sviluppo della civiltà.
Le nevrosi mostrano, da un lato, concordanze vistose e profonde con le grandi produzioni sociali dell’arte, della religione e della filosofia e, dall'altro, sembrano il risultato di una loro distorsione. Potremmo azzardarci a dire che l’isteria è la caricatura di una creazione artistica, la nevrosi coatta di una religione, il delirio paranoico di un sistema filosofico. In ultima analisi la differenza risale al fatto che le nevrosi sono formazioni asociali; cercano di ottenere con mezzi privati ciò che nella società si ottiene con il lavoro collettivo. Dall’analisi delle pulsioni operanti nelle nevrosi, si apprende che l’influsso determinante è esercitato dalle forze pulsionali di origine sessuale, mentre le corrispondenti formazioni culturali poggiano sulle pulsioni sociali emerse dall’unificazione di componenti egoistiche ed erotiche. Il bisogno sessuale non è, infatti, in grado di unire gli uomini come le richieste di autoconservazione; la soddisfazione sessuale è prima di tutto un fatto privato dell'individuo.
La natura asociale della nevrosi deriva geneticamente dalla sua tendenza originaria a sfuggire a una realtà insoddisfacente per rifugiarsi in un mondo di fantasia assai più piacevole. In questo mondo reale, evitato dal nevrotico, dominano la società degli uomini e le istituzioni da loro create in comune. Voltare le spalle alla realtà è al tempo stesso uscire dalla comunità umana.
1 W. Wundt, Völkerpsychologie, vol. 2, “Mythus und Religion”, pt. 2, Lipsia 1906, p.308.
2 N.W. Thomas, voce Taboo nell’Encyclopaedia Britannica, 11 ed. (1910-11). La voce include una rassegna della letteratura principale sull’argomento.
3 Questa applicazione del tabù può anche essere tralasciata in questo contesto, perché non originaria.
4 W. Wundt, cit., p. 301.
5 Ivi, p. 237.
6 Ivi, p. 307.
7 Ivi, p. 313.
8 J.G. Frazer, The Golden Bough. The Taboo and the Peril of the Soul, 3 ed., pt. 2, Londra 1911-14, p. 136
9 Sia il piacere che il divieto si riferivano al contatto dei propri genitali.
10 In riferimento alla persona amata da cui proveniva il divieto.
11 Secondo l’azzeccata espressione di E. Bleuler, Vortrag über Ambivalenz, Zbl. Psychoanal., vol. 1, 266, 1910.
12 Cfr. in questi saggi i miei riferimenti ai già annunciati studi sul totemismo (v. il IV saggio di questo libro).
13 III edizione, parte II. Taboo and the Perils of the Souls, 1911.
14 Ivi, p. 166.
15 Frazer, Adonis, Attis, Osiris, p. 248, 1907, citazione da Hugh Low, Sarawak,
London 1848.
16 J.O. Dorsay in Frazer, Taboo etc., p. 181.
17 Frazer, Taboo, p. 169 sg. e p. 174. Le cerimonie consistono nel battere
gli scudi, in grida e lamenti, nel far rumore con strumenti musicali ecc.
18 Frazer, Taboo, p. 166, citazione da S. Müller, Heizen en Onderzoekingen in den
Indischen Archipel, Amsterdam 1857.
19 Per questi esempi v. Frazer, Taboo, pp. 165-190, Manslayers tabooed.
21 Frazer, The Magic Art I, p. 368.
22 Old New Zealand, da una Pakeha Maori (London 1884), sec. Frazer, Taboo, p. 155.
23 W. Brown, New Zealand and its Aborigines, London 1845, sec. Frazer, ivi.
24 Frazer, ivi.
25 Frazer, Taboo. The Burden of Royalty, p. 7.
26 Ivi, p. 7.
27 Kämpfer, History of Japan, sec. Frazer, ivi, p. 3.
28 A. Bastian, Die deutsche Expedition an der Loangoküste, Jena 1874, sec. Frazer, ivi, p. 5.
29 Frazer, ivi, p. 13.å
30 Frazer, ivi, p. 11.
31 A. Bastian, Die deutsche Expedition an der Loangoküste, sec. Frazer, ivi.
p. 18.
32 Ivi, p. 18, sec. Zweifel et Monstier, Voyage aux sources du Niger, 1880.
33 Frazer, The Magic Art: and the Evolution of Kings", 2 vol. 1911. The Golden
Bough.
34 Frazer, Taboo, p. 138 sg.
35 W. Mariner, The Natives of the Tonga Islands, 1818, sec. Frazer, ivi, p. 140.
36 La stessa ammalata, le cui “impossibilità” ho prima paragonato ai tabù, riconobbe
d’indignarsi ogni volta che incontrava per strada una persona vestita a lutto.
“Bisognerebbe proibire a certa gente di uscire di casa!”
37 Frazer, The Golden Bough cit., pt. 2, p. 353.
38 lvi, p. 352.
39 Frazer, ivi, p. 357, secondo un antico osservatore spagnolo, 1732.
40 Frazer, ivi, p. 360.
41 V. Il Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, 1905.
42 V. W. Stekel, Die Verpflichtung des Namens, Z. Psychoter. und Psychol., vol. 3, 1911, e K. Abraham, Sul potere determinante del nome, 1911.
43 [Komplexempfindlichkeit, secondo Jung. Ndt].
44 Come esempio di un'ammissione del genere, Frazer cita i Tuareg del Sahara (The Golden Bough cit., pt. 2, p. 353).
45 Forse occorre aggiungere qui la condizione: fin quando sopravvive qualcosa dei suoi
resti corporei (ivi, p. 353).
46 Tra i Nikobari. Frazer, ivi, p. 382.
47 Wundt, cit., p. 49.
48 E. Westermarck, The Origin and Development of the Moral Ideas, 2 voll., Londra 1906-08) vol. 2, pp. 532 sg. Nelle note e nel seguito del testo viene addotta una gran quantità di testimonianze a conferma, spesso molto caratteristiche. Ad esempio: “Tra i Maori si usava credere che i parenti più prossimi e più amati cambiassero natura dopo la morte e diventassero maligni perfino nei confronti delle persone un tempo da loro amate … Gli indigeni australiani credevano che ogni defunto fosse mal disposto per lungo tempo dopo la morte: quanto più stretta la parentela, tanto maggiore la paura …. Gli Eschimesi centrali sono dominati dall’idea che i morti siano all’inizio spiriti malevoli che spesso si aggirano attorno ai villaggi causando malattie, danni e uccidendo gli uomini con il loro tocco; ma in seguito, si ritiene, trovano pace e non sono più temuti”.
49 R. Kleinpaul, Die Lebendigen und die Toten in Volksglauben, Religion und Sage, Lipsia 1898.
50 Westermarck, cit., vol. 2, pp. 534 sg.
51 Vicine alle creazioni proiettive dei primitivi sono le personificazioni in cui lo scrittore estrinseca, come individui separati, i moti pulsionali opposti che lottano in lui.
52 Wundt, Mythus und Religion, II, p. 129.
53 Nel corso delle psicanalisi di nevrotici che soffrono (o soffrirono nell’infanzia) di paura dei fantasmi, è spesso facile scoprire che dietro la maschera dei fantasmi si celano i genitori. V. in proposito anche l’articolo sugli “spettri sessuali” di P. Haeberlin (Sexualgespenster, Sexualprobleme, febbraio 1912), dove però non è questione del padre (che era morto) ma di un'altra persona su cui cade l’accento erotico.
54 Cfr. il mio commento ad Abel, “Gegensinn der Urworte” (Significato opposto delle parole primitive) in Jahrbuch für psychoanalyt. und psychopathol. Forsch., vol. II, 1910.
55 [“Was man am gewissesten weiß”, letteralmente ciò che si sa come più saputo. Ndt]
56 È un interessante parallelismo che il senso di colpa del tabù non diminuisca per nulla se la trasgressione avviene inconsapevolmente; così nel mito greco la colpa di Edipo non si cancella per averla acquisita senza, anzi contro, il suo sapere e la sua volontà.
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