Da ormai qualche anno, negli ambienti clinici, scientifici e filosofici è nato un dibattito su una possibile alleanza tra neuroscienze e psicoanalisi. Due discipline che per anni sono state rappresentate, per ragioni politiche e sociali ai poli opposti, si trovano, oggi, nella possibilità di cooperare. Se la prima è sempre stata la scienza del “padrone”, oggi ri-significata alla luce delle attuali tecniche di misurazione quantitativa dei dati fisiologici e neurali, la seconda è nata come reazione proprio a quell’ambiente medico borghese che rappresentava la scienza di fine Ottocento. Fin dagli albori ci si è chiesti cosa fosse la psicoanalisi. I punti di vista e le risposte sono sempre state elusive, parziali e mai definitive. Lacan affermava come la psicoanalisi fosse un sintomo, qualcosa che non dovrebbe esistere ma la cui stessa esistenza aveva qualcosa da dire. Popper giudicava la psicoanalisi come una “cattiva scienza” perché, andando contro il principio di falsificabilità, aveva una spiegazione per tutto. Eppure, arrovellarsi sulla psicoanalisi senza tenere conto della matrice da cui è nata, è come parlare della fisica senza tenere conto dell’atomo. Su questa scia, lo psicoanalista Luigi Antonello Armando, nel suo Storicizzare Freud, prende la questione da un punto di vista storico mettendo sotto la lente d’ingrandimento non tanto le neuroscienze, ma la stessa psicoanalisi freudiana in quello che si potrebbe definire un approccio simil-etnologico. La domanda che si pone Armando non è “che cos’è la psicoanalisi?” ma “che significato storico ha avuto e continua ad avere la psicoanalisi?”. Il movimento che compie è stato passare da una domanda statica, nosologica, che chiede di essere definita verso lineari astrazioni concettuali destinati alla confutazione, a una più dinamica, contestuale e concreta destinata alla ricerca di una qualche verità. Insomma, ciò che compie Armando è mettere in crisi le teorizzazioni metapsicologiche freudiane, l’Edipo su tutti, per ricercare una sorta di ragione storica dietro di esse. L’obiettivo è quello di riaprire al mondo una psicoanalisi che, con e dopo Freud, ha ripiegato sui suoi stessi dogmi divenendo a tutti gli effetti un’ortodossia istituzionale, svuotandosi della sua stessa essenza rivoluzionaria. Perché, se neuroscienze e psicoanalisi nascono storicamente come saperi antitetici a causa della natura intrinsecamente reazionaria della psicoanalisi freudiana, ciò è dovuto semplicemente a ragioni culturali dell’epoca in cui è nata, poiché l’una sembrerebbe essere nata dalle mancanze dell’altra. La psicoanalisi è nata dalla mancata spiegazione del sintomo isterico, che, storicamente, e detto ancora più radicalmente rispetto ad essa, era il prodotto degli stessi pregiudizi della cultura borghese dell’epoca nei confronti della sessualità e in particolare della femminilità, tabù e tallone d’Achille che si è conservato, come dimostrerà Armando, nella stessa psicoanalisi.
“Hanno pensato la donna come un «continente nero» ed addossato anche essi a lei una colpa: quella di arrecare, con la sua stessa apparenza, con il suo modo di incedere nel mondo (Freud, 1906), con la vaghezza della sua figura, sconvolgimento nell’uomo e «disagio» in un ordine civile identificato con la permanenza del consueto noto. L’hanno perciò coperta e/o pensata come appartenente a un mondo subumano ed hanno anche essi attribuito all’uomo il compito di educarla a pensarsi essa stessa così, in modo da impedirle di arrecare quello sconvolgimento e quel disagio.”[1]
È da questo storico e culturale addomesticamento della femminilità che Clara Mucci abbatte, con un certo stile, i miti di una civiltà che continua a preservare nelle sue istituzioni un’ideologia ancora infarcita di maschilismo, potere, colonialismo e patriarcato. Il suo Corpi Borderline, uscito per Raffaello Cortina nel 2020, prima ancora di essere un manuale densissimo che sistematizza un modello clinico per il trattamento dei disturbi di personalità così come emergono nella contemporaneità, è un manifesto politico e sociale che si presta a recuperare una viscerale umanità in un contesto i cui corpi rischiano di perdere qualunque connessione tra loro e con il mondo reale. Di fatto, è proprio dal corpo in connessione con la mente e il cervello che Mucci inizia a teorizzare un modello di terapia fondato sulla relazione madre-figlio come nucleo fondamentale per lo sviluppo delle identità. Identità, come dimostrato dalle neuroscienze, che possono svilupparsi solo dalla relazione con un altro sicuro (la madre) che ha fornito le cure e l’affetto necessari post e prenatali. Allan Schore, Otto Kernberg, Sandor Ferenczi, Peter Fonagy, Nancy McWilliams, Vittorio Lingiardi, Judith Butler sono solo alcuni degli autori di riferimento citati in questo libro, i cui studi hanno reso possibile la sistematizzazione di una terapia fondata sulla relazione corpo-mente-cervello. Non è un caso, dunque, che questo modello si adatti così bene alla clinica dei disturbi borderline di personalità, perché se ogni terapia è un abito cucito sul paziente, ciò che tira fuori Mucci è un cut-up di teorie e tecniche cucito per tenere insieme la stessa frammentarietà raccontata dai pazienti borderline.
Dal modello clinico…
Fin dalle prime pagine e, sulla scia del suo precedente lavoro, Trauma e Perdono, Mucci espone i risultati di decine di anni di studi sulla relazione tra madre e figlio. Le evidenze emerse da questi ultimi, provenienti principalmente dalla branca delle neuroscienze degli affetti, dimostrano come la sintonizzazione tra emisferi destri nei primissimi momenti di vita sia determinante per quello che già John Bowlby definiva un attaccamento sicuro. In mancanza di questa connessione o se ciò dovesse risultare disturbato da lutti, psicopatologie, dipendenze o traumi irrisolti da parte del caregiver, cui sono preposte le primissime cure, queste rischiano nell’86% circa dei casi di trasmettersi al nascituro. Da questo, Mucci estrapolerà il concetto di trauma intergenerazionale come trasmissione epigenetica al bambino di ciò che è irrisolto nel caregiver, ponendo tre livelli di gravità: il trauma relazionale precoce, associato ad attaccamento insicuro o disorganizzato; un secondo livello costituito dal traumi, incesto e/o abusi protratti nel tempo (quello che van der Kolk definisce PTSD Complex, ad oggi riconosciuto solo dal PDM 2 di Lingiardi e McWilliams), e un terzo livello, meno grave, di traumatizzazioni collettive e sociali (terremoti, catastrofi ambientali ma anche genocidi). Nel sistema di Mucci, tale gerarchia è stata possibile definire solo retroattivamente grazie alla ricerca eziopatogenetica clinica dei disturbi di personalità e all’osservazione comportamentale (Infant Research su tutte) nonché neurale (attraverso gli studi decennali di Allan Schore) del rapporto madre-figlio nei primissimi anni di vita. Grazie a tali evidenze, Mucci si servirà del modello diagnostico elaborato da Otto Kernberg il quale pone lungo un continuum di gravità le manifestazioni cliniche dei vari disturbi di personalità: da un livello nevrotico meno grave in cui vi è diffusione di identità ma utilizzo di difese più mature ed esame di realtà mantenuto, a uno borderline ad alto o basso funzionamento con diffusione d’identità, utilizzo massiccio di difese primitive (dissociazione, l’identificazione proiettiva) e un esame di realtà conservato, fino ad arrivare ai bordi con le psicopatologie più gravi tra cui il narcisismo, l’antisociale e la psicosi in cui anche l’esame di realtà è compromesso. Da Kernberg, Mucci si discosterà sulla questione del temperamento aggressivo innato che, se per lo psicoanalista americano è una variabile fondamentalmente innata, per Mucci è un concetto conservativo che servirebbe più al clinico che al paziente. L’autrice, per le stesse ragioni, non mancherà di criticare la stessa pulsione di morte freudiana. Indentificando quest’ultima con l’aggressività e la distruttività dell’individuo, Mucci, dimostrerà come questa non sia altro che il prodotto di relazioni disfunzionali eziopatogenetiche in cui l’individuo ha dovuto difendersi ma anche adattarsi ad un ambiente ostile. La vita che arriva a difendersi dalla vita. A tale conclusione giungerà anche Wilhelm Reich attraverso la strada del masochismo ne L’Analisi del Carattere del 1933. “Se inizialmente si era detto che la nevrosi nasceva dal conflitto fra pulsione e mondo esterno, ora si diceva che la nevrosi nasceva dal conflitto fra pulsione e bisogno di punizione, il che era esattamente l’opposto di quanto era stato detto precedentemente. Questa concezione seguì coerentemente la teoria più nuova della pulsione basata sull’antitesi fra Eros e pulsione di morte, teoria che riconduceva il conflitto psichico a elementi interiori e che metteva sempre più in ombra il ruolo predominante del mondo esterno frustrante e punitivo. In questo modo si credette di aver trovato la risposta alla domanda sull’origine della sofferenza. […] Questa affermazione sbarra la difficile via alla sociologia della sofferenza umana, che la formula psicologica originale sul conflitto psichico aveva già notevolmente spianata.”[2] È con questo ritorno alla radice conflittuale dell’essere umano che Mucci, con riferimento al sociologo francese Le Brenton e al caso di Bertha (ragazza borderline con sintomi bulimici e autolesionistici), metterà in rilievo la distinzione tra sofferenza emotiva e dolore dicendo come “si può provare dolore fisico senza essere consapevoli di provare sofferenza, e si può essere sofferenti nell’animo senza che il corpo presenti tracce concrete di dolore o lesioni rintracciabili nel corpo. Senza questa rappresentazione (delle tracce del dolore nel corpo), la sofferenza diventa poco rappresentabile, comprensibile, comunicabile.”[3] Insomma, ciò che con Kernberg e prima ancora con Freud era rappresentato come biologicamente innato, con Mucci diventa dipendente dall’unica e soggettiva esperienza della persona in relazione a un altro sicuro che è stato capace di cure e accudimento sufficientemente buoni da poter sviluppare nel bambino quei modelli capaci di adattarsi alle infinite peculiarità dell’ambiente di vita. Così facendo, l’autrice, piuttosto che rintanarsi nell’ortodossia psicoanalitica o nel riduzionismo neuroscientifico, si apre, grazie alle due discipline, a una lettura del malessere e del disagio alla luce della contemporaneità.
…al manifesto
Aperta una breccia verso una sociologia della sofferenza, Mucci, così come fece Freud rintracciando nell’isteria il sintomo di quel tipo di società repressiva e disciplinare, istituisce l’organizzazione borderline di personalità come bussola e sintomo della nostra epoca iper-moderna e iper-controllante. La seconda parte del libro, oltre ad essere dedicata quasi esclusivamente al narcisismo, si apre con una breve analisi introduttiva di quelle che sono le conseguenze del modello capitalistico occidentale che propone ideali sempre più individualistici e che spingono alla circolare ricerca del continuo e perpetuo profitto. “Se una sensazione di emergenza ha accompagnato le culture occidentali dopo l’avvento della modernità, nella nostra era la realtà del riscaldamento globale, la crisi economica mondiale, il terrorismo, l’incertezza politica e i nuovi populismi sono diventati una minaccia costante per l’individuo immerso nei social network, che potrebbe essere tentato di ritirarsi e distaccarsi dal coinvolgimento sociale e dall’impegno, alla ricerca di una gratificazione centrata su di sé e rassicurante, o di unirsi a gruppi autoritari che nutrono sogni di supremazia e violenza.”[4] Nonostante Mucci colga nel cambiamento di paradigma sociale un cambiamento anche dei suoi sintomi, l’autrice prosegue dicendo, ancora una volta, come il nucleo delle varie manifestazioni del disturbo narcisistico di personalità risieda in una relazione disfunzionale primaria tra il Sé e l’altro. Coerentemente con il modello clinico, dunque, e con un retaggio ferencziano, Mucci, pone lungo un continuum di gravità anche le varie forme di narcisismo; esso comprenderebbe, in ordine di gravità, il narcisismo nevrotico, il disturbo di personalità narcisistico con organizzazione borderline, il narcisismo maligno e la cosiddetta psicopatia o personalità antisociale. Tutte condividono un problema di regolazione degli affetti: regolazione che secondo gli studi neuroscientifici di Allan Schore viene acquisita intorno ai due anni di vita a seguito dell’interiorizzazione di oggetti buoni interni e di un buono sviluppo interemisferico destro che controlla le risposte di ipo o iperarousal. Sempre secondo quest’ultimo, più la traumatizzazione è precoce, più sarà grave la manifestazione psicopatologica che si manifesterà in età più tarda. Proprio per questo motivo, la condizione traumatica esperita da una personalità antisociale (che per Kernberg, essendo la più grave, ha prognosi zero), secondo Schore, deve essere stata esperita intorno ai primi 4/9 mesi o addirittura nel periodo prenatale con conseguente sottosviluppo dell’amigdala (primo centro di memoria implicita somatico-psichica). Da un punto di vista fenomenico, i livelli di vergogna nonché di aggressività reattiva, che si manifestano nel narcisista, oltre ad indicare un problema di mancata regolazione affettiva, sono il sintomo di un controllo onnipotente nei confronti di una realtà percepita come ostile e minacciosa. La grandiosità, secondo Mucci, “si manifesta come difesa per la percezione della propria fragilità interiore e della propria vulnerabilità, che, […] sono create nella specifica relazione con il caregiver.”[5] Secondo Margaret Mahler, importante, per il bambino, è il riavvicinamento alla madre nella fase di separazione/individuazione, in cui quest’ultimo inizierebbe a barattare parte della sua magica onnipotenza gratificante con piccole dosi di autonomia che gli dovrebbero consentire di acquisire una ben più adattiva autostima. Gli autori citati da Mucci sembrerebbero concordare sul fatto che la personalità narcisistica abbia vissuto traumi, umiliazioni o deprivazioni proprio durante questa fase di riavvicinamento alla madre; infatti, il bambino, provando vergogna per l’umiliazione subita, tenderebbe difensivamente a chiudersi, investendo libidicamente ed esclusivamente questo Sé idealizzato magico e onnipotente in cui l’altro e l’ambiente sono percepiti come ostili e minacciosi. Insomma, dalla prospettiva relazionale di Mucci, il nucleo problematico del narcisista è che non ha posto per un altro che sia reale, poiché le contingenze derivanti dall’incontro con un altro reale potrebbero esporlo a delle ferite così insopportabili da farlo sprofondare in un delirio di morte e distruzione (vedi il caso di Fabian). Per questo, in linea con quanto detto, gruppi terroristici, ideologie suprematiste, femminicidi, ma anche malasanità, pandemie, disoccupazione, corruzione, povertà, sfruttamento, disastri ambientali sono il lato oscuro e distruttivo della cultura occidentale impegnata a preservare l’immagine grandiosa che ha di sé stessa. In conseguenza a tali narrazioni trionfalistiche, non solo l’individuo che avrà interiorizzato dei valori quali la giustizia, la verità, il perdono, si troverà disadattato e frustrato in un mondo che realmente funziona attorno alla menzogna, alla corruzione e alla violenza, ma saranno proprio coloro che non avranno ricevuto cure tali da aver raggiunto una rappresentazione concreta di un altro reale a trovarsi paradossalmente in una posizione di superiorità sociale. Wilhelm Reich definiva questi come periodi di peste emozionale in cui l’utilizzo antisociale di qualunque valore, oltre a diventare feticcio per una estensione del proprio potere e del proprio Sé, diventa un ideale di contagio emozionale che in un modello estremamente contraddittorio come quello neoliberista occidentale, non può che favorire il ritorno dei vari totalitarismi (l’annullamento per eccellenza di qualunque ethos morale). “Un tratto essenziale della reazione della peste emozionale sta nel fatto che l’azione e la motivazione dell’azione non coincidono mai. Il vero motivo è nascosto, e l’azione viene giustificata con un motivo apparente. Nella reazione caratteriale naturalmente sana il motivo, l’azione e la meta coincidono organicamente; non vi è nulla di dissimulato.”[6]
Uno dei tanti autori che Mucci citerà in Corpi Borderline come esempio di una viscerale umanità che non può e non deve finire è proprio Primo Levi, testimone che ha raccontato uno dei più grandi traumi su cui poggia la modernità occidentale.
“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimentichiamo le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”[7]
Mucci non smetterà mai di ricordare nel suo libro quanto, per riscoprire un’umanità ormai ridotta a brandelli, sia necessario ridare concreta importanza alla relazione madre-bambino, suo nucleo fondamentale. Perdere di vista, sottovalutare o addirittura svalutare tale relazione significa avvicinarsi sempre più verso un abisso di odio, frustrazione, violenza e distruzione. Per questo, l’autrice, piuttosto che chiudere in una ideologia e fondare su degli slogan la propria clinica, ancora più radicalmente, si fa carico di quelli che sono i nuovi sintomi della contemporaneità, utilizzando, con dovizia, qualunque strumento potesse contribuire a ricercare e costruire un modello clinico solido che, oltre ad essere convincente, funziona.
“Hanno pensato la donna come un «continente nero» ed addossato anche essi a lei una colpa: quella di arrecare, con la sua stessa apparenza, con il suo modo di incedere nel mondo (Freud, 1906), con la vaghezza della sua figura, sconvolgimento nell’uomo e «disagio» in un ordine civile identificato con la permanenza del consueto noto. L’hanno perciò coperta e/o pensata come appartenente a un mondo subumano ed hanno anche essi attribuito all’uomo il compito di educarla a pensarsi essa stessa così, in modo da impedirle di arrecare quello sconvolgimento e quel disagio.”[1]
È da questo storico e culturale addomesticamento della femminilità che Clara Mucci abbatte, con un certo stile, i miti di una civiltà che continua a preservare nelle sue istituzioni un’ideologia ancora infarcita di maschilismo, potere, colonialismo e patriarcato. Il suo Corpi Borderline, uscito per Raffaello Cortina nel 2020, prima ancora di essere un manuale densissimo che sistematizza un modello clinico per il trattamento dei disturbi di personalità così come emergono nella contemporaneità, è un manifesto politico e sociale che si presta a recuperare una viscerale umanità in un contesto i cui corpi rischiano di perdere qualunque connessione tra loro e con il mondo reale. Di fatto, è proprio dal corpo in connessione con la mente e il cervello che Mucci inizia a teorizzare un modello di terapia fondato sulla relazione madre-figlio come nucleo fondamentale per lo sviluppo delle identità. Identità, come dimostrato dalle neuroscienze, che possono svilupparsi solo dalla relazione con un altro sicuro (la madre) che ha fornito le cure e l’affetto necessari post e prenatali. Allan Schore, Otto Kernberg, Sandor Ferenczi, Peter Fonagy, Nancy McWilliams, Vittorio Lingiardi, Judith Butler sono solo alcuni degli autori di riferimento citati in questo libro, i cui studi hanno reso possibile la sistematizzazione di una terapia fondata sulla relazione corpo-mente-cervello. Non è un caso, dunque, che questo modello si adatti così bene alla clinica dei disturbi borderline di personalità, perché se ogni terapia è un abito cucito sul paziente, ciò che tira fuori Mucci è un cut-up di teorie e tecniche cucito per tenere insieme la stessa frammentarietà raccontata dai pazienti borderline.
Dal modello clinico…
Fin dalle prime pagine e, sulla scia del suo precedente lavoro, Trauma e Perdono, Mucci espone i risultati di decine di anni di studi sulla relazione tra madre e figlio. Le evidenze emerse da questi ultimi, provenienti principalmente dalla branca delle neuroscienze degli affetti, dimostrano come la sintonizzazione tra emisferi destri nei primissimi momenti di vita sia determinante per quello che già John Bowlby definiva un attaccamento sicuro. In mancanza di questa connessione o se ciò dovesse risultare disturbato da lutti, psicopatologie, dipendenze o traumi irrisolti da parte del caregiver, cui sono preposte le primissime cure, queste rischiano nell’86% circa dei casi di trasmettersi al nascituro. Da questo, Mucci estrapolerà il concetto di trauma intergenerazionale come trasmissione epigenetica al bambino di ciò che è irrisolto nel caregiver, ponendo tre livelli di gravità: il trauma relazionale precoce, associato ad attaccamento insicuro o disorganizzato; un secondo livello costituito dal traumi, incesto e/o abusi protratti nel tempo (quello che van der Kolk definisce PTSD Complex, ad oggi riconosciuto solo dal PDM 2 di Lingiardi e McWilliams), e un terzo livello, meno grave, di traumatizzazioni collettive e sociali (terremoti, catastrofi ambientali ma anche genocidi). Nel sistema di Mucci, tale gerarchia è stata possibile definire solo retroattivamente grazie alla ricerca eziopatogenetica clinica dei disturbi di personalità e all’osservazione comportamentale (Infant Research su tutte) nonché neurale (attraverso gli studi decennali di Allan Schore) del rapporto madre-figlio nei primissimi anni di vita. Grazie a tali evidenze, Mucci si servirà del modello diagnostico elaborato da Otto Kernberg il quale pone lungo un continuum di gravità le manifestazioni cliniche dei vari disturbi di personalità: da un livello nevrotico meno grave in cui vi è diffusione di identità ma utilizzo di difese più mature ed esame di realtà mantenuto, a uno borderline ad alto o basso funzionamento con diffusione d’identità, utilizzo massiccio di difese primitive (dissociazione, l’identificazione proiettiva) e un esame di realtà conservato, fino ad arrivare ai bordi con le psicopatologie più gravi tra cui il narcisismo, l’antisociale e la psicosi in cui anche l’esame di realtà è compromesso. Da Kernberg, Mucci si discosterà sulla questione del temperamento aggressivo innato che, se per lo psicoanalista americano è una variabile fondamentalmente innata, per Mucci è un concetto conservativo che servirebbe più al clinico che al paziente. L’autrice, per le stesse ragioni, non mancherà di criticare la stessa pulsione di morte freudiana. Indentificando quest’ultima con l’aggressività e la distruttività dell’individuo, Mucci, dimostrerà come questa non sia altro che il prodotto di relazioni disfunzionali eziopatogenetiche in cui l’individuo ha dovuto difendersi ma anche adattarsi ad un ambiente ostile. La vita che arriva a difendersi dalla vita. A tale conclusione giungerà anche Wilhelm Reich attraverso la strada del masochismo ne L’Analisi del Carattere del 1933. “Se inizialmente si era detto che la nevrosi nasceva dal conflitto fra pulsione e mondo esterno, ora si diceva che la nevrosi nasceva dal conflitto fra pulsione e bisogno di punizione, il che era esattamente l’opposto di quanto era stato detto precedentemente. Questa concezione seguì coerentemente la teoria più nuova della pulsione basata sull’antitesi fra Eros e pulsione di morte, teoria che riconduceva il conflitto psichico a elementi interiori e che metteva sempre più in ombra il ruolo predominante del mondo esterno frustrante e punitivo. In questo modo si credette di aver trovato la risposta alla domanda sull’origine della sofferenza. […] Questa affermazione sbarra la difficile via alla sociologia della sofferenza umana, che la formula psicologica originale sul conflitto psichico aveva già notevolmente spianata.”[2] È con questo ritorno alla radice conflittuale dell’essere umano che Mucci, con riferimento al sociologo francese Le Brenton e al caso di Bertha (ragazza borderline con sintomi bulimici e autolesionistici), metterà in rilievo la distinzione tra sofferenza emotiva e dolore dicendo come “si può provare dolore fisico senza essere consapevoli di provare sofferenza, e si può essere sofferenti nell’animo senza che il corpo presenti tracce concrete di dolore o lesioni rintracciabili nel corpo. Senza questa rappresentazione (delle tracce del dolore nel corpo), la sofferenza diventa poco rappresentabile, comprensibile, comunicabile.”[3] Insomma, ciò che con Kernberg e prima ancora con Freud era rappresentato come biologicamente innato, con Mucci diventa dipendente dall’unica e soggettiva esperienza della persona in relazione a un altro sicuro che è stato capace di cure e accudimento sufficientemente buoni da poter sviluppare nel bambino quei modelli capaci di adattarsi alle infinite peculiarità dell’ambiente di vita. Così facendo, l’autrice, piuttosto che rintanarsi nell’ortodossia psicoanalitica o nel riduzionismo neuroscientifico, si apre, grazie alle due discipline, a una lettura del malessere e del disagio alla luce della contemporaneità.
…al manifesto
Aperta una breccia verso una sociologia della sofferenza, Mucci, così come fece Freud rintracciando nell’isteria il sintomo di quel tipo di società repressiva e disciplinare, istituisce l’organizzazione borderline di personalità come bussola e sintomo della nostra epoca iper-moderna e iper-controllante. La seconda parte del libro, oltre ad essere dedicata quasi esclusivamente al narcisismo, si apre con una breve analisi introduttiva di quelle che sono le conseguenze del modello capitalistico occidentale che propone ideali sempre più individualistici e che spingono alla circolare ricerca del continuo e perpetuo profitto. “Se una sensazione di emergenza ha accompagnato le culture occidentali dopo l’avvento della modernità, nella nostra era la realtà del riscaldamento globale, la crisi economica mondiale, il terrorismo, l’incertezza politica e i nuovi populismi sono diventati una minaccia costante per l’individuo immerso nei social network, che potrebbe essere tentato di ritirarsi e distaccarsi dal coinvolgimento sociale e dall’impegno, alla ricerca di una gratificazione centrata su di sé e rassicurante, o di unirsi a gruppi autoritari che nutrono sogni di supremazia e violenza.”[4] Nonostante Mucci colga nel cambiamento di paradigma sociale un cambiamento anche dei suoi sintomi, l’autrice prosegue dicendo, ancora una volta, come il nucleo delle varie manifestazioni del disturbo narcisistico di personalità risieda in una relazione disfunzionale primaria tra il Sé e l’altro. Coerentemente con il modello clinico, dunque, e con un retaggio ferencziano, Mucci, pone lungo un continuum di gravità anche le varie forme di narcisismo; esso comprenderebbe, in ordine di gravità, il narcisismo nevrotico, il disturbo di personalità narcisistico con organizzazione borderline, il narcisismo maligno e la cosiddetta psicopatia o personalità antisociale. Tutte condividono un problema di regolazione degli affetti: regolazione che secondo gli studi neuroscientifici di Allan Schore viene acquisita intorno ai due anni di vita a seguito dell’interiorizzazione di oggetti buoni interni e di un buono sviluppo interemisferico destro che controlla le risposte di ipo o iperarousal. Sempre secondo quest’ultimo, più la traumatizzazione è precoce, più sarà grave la manifestazione psicopatologica che si manifesterà in età più tarda. Proprio per questo motivo, la condizione traumatica esperita da una personalità antisociale (che per Kernberg, essendo la più grave, ha prognosi zero), secondo Schore, deve essere stata esperita intorno ai primi 4/9 mesi o addirittura nel periodo prenatale con conseguente sottosviluppo dell’amigdala (primo centro di memoria implicita somatico-psichica). Da un punto di vista fenomenico, i livelli di vergogna nonché di aggressività reattiva, che si manifestano nel narcisista, oltre ad indicare un problema di mancata regolazione affettiva, sono il sintomo di un controllo onnipotente nei confronti di una realtà percepita come ostile e minacciosa. La grandiosità, secondo Mucci, “si manifesta come difesa per la percezione della propria fragilità interiore e della propria vulnerabilità, che, […] sono create nella specifica relazione con il caregiver.”[5] Secondo Margaret Mahler, importante, per il bambino, è il riavvicinamento alla madre nella fase di separazione/individuazione, in cui quest’ultimo inizierebbe a barattare parte della sua magica onnipotenza gratificante con piccole dosi di autonomia che gli dovrebbero consentire di acquisire una ben più adattiva autostima. Gli autori citati da Mucci sembrerebbero concordare sul fatto che la personalità narcisistica abbia vissuto traumi, umiliazioni o deprivazioni proprio durante questa fase di riavvicinamento alla madre; infatti, il bambino, provando vergogna per l’umiliazione subita, tenderebbe difensivamente a chiudersi, investendo libidicamente ed esclusivamente questo Sé idealizzato magico e onnipotente in cui l’altro e l’ambiente sono percepiti come ostili e minacciosi. Insomma, dalla prospettiva relazionale di Mucci, il nucleo problematico del narcisista è che non ha posto per un altro che sia reale, poiché le contingenze derivanti dall’incontro con un altro reale potrebbero esporlo a delle ferite così insopportabili da farlo sprofondare in un delirio di morte e distruzione (vedi il caso di Fabian). Per questo, in linea con quanto detto, gruppi terroristici, ideologie suprematiste, femminicidi, ma anche malasanità, pandemie, disoccupazione, corruzione, povertà, sfruttamento, disastri ambientali sono il lato oscuro e distruttivo della cultura occidentale impegnata a preservare l’immagine grandiosa che ha di sé stessa. In conseguenza a tali narrazioni trionfalistiche, non solo l’individuo che avrà interiorizzato dei valori quali la giustizia, la verità, il perdono, si troverà disadattato e frustrato in un mondo che realmente funziona attorno alla menzogna, alla corruzione e alla violenza, ma saranno proprio coloro che non avranno ricevuto cure tali da aver raggiunto una rappresentazione concreta di un altro reale a trovarsi paradossalmente in una posizione di superiorità sociale. Wilhelm Reich definiva questi come periodi di peste emozionale in cui l’utilizzo antisociale di qualunque valore, oltre a diventare feticcio per una estensione del proprio potere e del proprio Sé, diventa un ideale di contagio emozionale che in un modello estremamente contraddittorio come quello neoliberista occidentale, non può che favorire il ritorno dei vari totalitarismi (l’annullamento per eccellenza di qualunque ethos morale). “Un tratto essenziale della reazione della peste emozionale sta nel fatto che l’azione e la motivazione dell’azione non coincidono mai. Il vero motivo è nascosto, e l’azione viene giustificata con un motivo apparente. Nella reazione caratteriale naturalmente sana il motivo, l’azione e la meta coincidono organicamente; non vi è nulla di dissimulato.”[6]
Uno dei tanti autori che Mucci citerà in Corpi Borderline come esempio di una viscerale umanità che non può e non deve finire è proprio Primo Levi, testimone che ha raccontato uno dei più grandi traumi su cui poggia la modernità occidentale.
“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimentichiamo le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”[7]
Mucci non smetterà mai di ricordare nel suo libro quanto, per riscoprire un’umanità ormai ridotta a brandelli, sia necessario ridare concreta importanza alla relazione madre-bambino, suo nucleo fondamentale. Perdere di vista, sottovalutare o addirittura svalutare tale relazione significa avvicinarsi sempre più verso un abisso di odio, frustrazione, violenza e distruzione. Per questo, l’autrice, piuttosto che chiudere in una ideologia e fondare su degli slogan la propria clinica, ancora più radicalmente, si fa carico di quelli che sono i nuovi sintomi della contemporaneità, utilizzando, con dovizia, qualunque strumento potesse contribuire a ricercare e costruire un modello clinico solido che, oltre ad essere convincente, funziona.
[1] L. A. Armando, Storicizzare Freud, Franco Angeli, Milano, 2019, pag.21.
[2] W. Reich, L’Analisi del Carattere, SugarCo, Milano, 1978, pagg. 268-269.
[3] C. Mucci, Corpi borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità, Raffaello Cortina, Milano, 2020, pag.175.
[4] Ivi, pag.213.
[5] Ivi, pag.224.
[6] W. Reich, L’Analisi del Carattere, SugarCo, Milano, 1978, pag.311.
[7] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi Tascabili, 1989, pag.13, in Corpi borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità.
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