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Un poeta per il clinico. L’essenza benefica della poesia. UNA RECENSIONE

13 Lug 22

Di admin

Le parole ci proteggono dalle cose"(M.Solms)                                                                                                      

 

Ne “Il poeta e la fantasia” (1907) Freud si interroga su cosa sia questa materia, la fantasia, a cui i poeti e gli artisti sembrano accedere meglio degli scienziati: dopo aver studiato La Gradiva, andava rendendosi conto che il modello archeologico della mente non era sufficiente a spiegare la complessità dello psichismo umano e che un altro fattore, appunto la fantasia, aveva altrettanta importanza ad alterare e decostruire i ricordi, i vissuti, le esperienze. La realtà è soprattutto realtà psichica, forgiata dal nostro immaginario, e nell’artista questa capacità risulta come magicamente esaltata. Tutta la psicoanalisi successiva, come è noto, non ha abbandonato il monito di Freud di ‘rivolgersi ai poeti’, quando con i nostri metodi terapeutici non arriviamo a qualcosa: la psicoanalisi, la psichiatria e l’arte sono, da Freud in poi, del tutto inscindibili e fanno quasi parte della stessa prassi. 

 



 

 

E’ all’interno di questa cornice che si colloca il libro di Sabino Nanni, Un poeta per il clinico. Psichiatra e psicoterapeuta di lunga esperienza, Nanni propone al lettore in questo libro il mirabile frutto di una lunga ricerca, esito di una vasta e fitta tessitura tra la sua analisi personale, il suo lavoro clinico con i pazienti, e la frequentazione della poesia di Baudelaire, Les Fleurs du Mal (1857).  Il libro si compone infatti di molte poesie dell’opera di Baudelaire, scelte dall’autore non per il loro valore letterario ma per la valenza emotiva risuonata in lui, a cui Nanni fa seguire, in corsivo, un commento personale che in parte ‘traduce’ il componimento, in parte apre a volte ad altre associazioni psicoanalitiche o artistiche, sui grandi temi che il Poeta incontra nella sua travagliata ricerca interiore. L’amore, la noia, la bellezza, l’Eros, la voluttà, la morte, lo Spleen, i demoni interni prendono corpo nelle parole del poeta che, diventando parola poetica, sono ora fruibili al lettore e condivisibili da ogni essere umano. Libertà e rigore, direi, si alternato negli incisi di Nanni, sempre molto ricchi e godibili alla lettura. Ma perché farne uso in un setting terapeutico?  La proposta dell’autore non è che il clinico tenga per sé la ricchezza del materiale poetico, ma che la offra, quando qualcosa nel discorso del paziente evoca in lui un’associazione o una particolare reverie, al paziente stesso, che venga messo nel linguaggio condiviso della psicoterapia. L’assunto teorico di base, come leggiamo nell’Introduzione, consiste nel fatto che “se il terapeuta, attraverso lo studio della poesia, ha arricchito il suo vocabolario con termini che riflettono un’ampia gamma di sensazioni e di esperienza vissute, la sua capacità di entrare in contatto empatico con la persona che sta curando ne risulta notevolmente potenziata”. Come scrive lo psicoanalista e neuroscienziato Mark Solms, “le parole ci proteggono dalle cose” (2018). Con questa mirabile sintesi, Solms intende dire che le parole (cioè le ‘rappresentazioni di parola, Freud, 1915) ci proteggono dall’urto dalle cose, degli stimoli esterni e soprattutto interni (dalle ‘rappresentazioni di cosa’, ib.): le parole, patrimonio solo degli esseri umani tra tutti i viventi, trasformano le cose, gli oggetti in simboli, in rappresentazioni attraverso metafore, permettono di sopperire alle urgenze sublimandole. Le parole inventano mondi, ma anche implicano una capacità di lutto, di separarsi; perché la bocca acquisisca il linguaggio, come scrive la Dolto, occorre che non sia occupata dal seno. La parola è sempre anche esperienza di perdita, perciò in certi nostri pazienti essa è così difficile, così rifiutata, così evitata. Al posto della parola, alcuni pazienti ricorrono alla scarica, alla via breve dell’acting-out, all’azione, alle sostanze. Tuttavia, la nostra cura è cura della parola, non abbiamo altro strumento. Ecco allora che la parola poetica appare un formidabile aiuto, ai due protagonisti della cura: al terapeuta, che può accedere dentro di sé alle mille parole che nel corso di una vita hanno “arricchito il suo vocabolario” e che ci vengono in soccorso, a volte inaspettatamente, proprio in certe impasse, in certi momenti difficoltosi con i pazienti; e ai pazienti, che non sempre si sentono raggiunti, “toccati” (Quinodoz, 2003 ) dalle interpretazioni, o non riescono a sognare, a immaginare, e sembra sbarrata ogni strada per un accesso al simbolico. 

La parola poetica (vorrei qui estendere il poetico a tutto il materiale artistico a cui un terapeutica può ricorrere, secondo il suo stile personale, quali film, libri, quadri…) è di per sé terapeutica, probabilmente per quel suo oscillare nel preconscio, non del tutto inconscia e non del tutto consapevole che, usando spesso i meccanismi linguistici affini al sogno come la condensazione e la metafora, permette a chiunque di essere sentita, anche se non immediatamente compresa, non richiede cultura o istruzione specifica.  

Quando Baudelaire scrive, in un verso citato da Nanni, riguardo la Noia…”Tu la conosci, lettore, quel mostro delicato…”, supponiamo di rivolgerci ad un paziente che provi quegli stati di vuoto anedonico tipico di certe forme narcisistiche o borderline, ebbene egli sentirà immediatamente queste parole sulla sua pelle: la sua noia è un mostro che gli divora la mente, ma al tempo stesso insinuoso, delicato, non ha i caratteri della furia o dell’odio, potrebbe non esser notato o persino, in quel delicato, vi è in essa qualcosa di cui prendersi cura, il paziente è infatti spesso ‘dedito’ alla sua strana noia. Si potrebbero fare molti esempi. 

Uno dalla mia recente esperienza clinica, che la lettura di Nanni mi ha rievocato. Il signor M., un paziente settantenne, torna a consultarmi dopo un’analisi conclusa diversi anni addietro per un grave lutto, la morte della moglie dopo un lungo matrimonio, relazione strettissima, di reciproca dipendenza, assoluto punto di riferimento per M., e fortemente ambivalente. Proprio la presenza di quest’ambivalenza potrebbe far scivolare il lutto verso una deriva malinconica, M. si incolpa, si accusa di aver distrutto con la sua rabbbia e incuria il suo oggetto d’amore. Si tratta di un uomo colto e intelligente, capace di sogno e simbolizzazione, ma l’entità del trauma ora sembra a volte sovrastarlo ed è difficile dire qualcosa che abbia senso. In occasione della recente scomparsa della grande poetessa Patrizia Cavalli, durante una seduta mi viene in mente una sua breve poesia: che tu ci sia o non ci sia /ormai è la stessa cosa, / comunque io ho la nostalgia. Il sig. M. sa bene, con la sua parte razionale, che la vera nostalgia tende a prescindere dalla presenza reale o meno dell’oggetto, che si può essere nostalgici di qualcosa o qualcuno che non c’è mai stato o che al contrario continua ad esserci, ma non estingue la nostalgia; che la nostalgia, vale a dire, è un sentimento tutto interiore e nutrito in gran parte di fantasia. Ma quando gli porgo la parola poetica, gravida della sua universalità e della sua forbita semplicità, avverto un contatto profondo sia del paziente con se stesso, ciò che più conta, sia con me nel linguaggio condiviso dell’analisi.  

Ad un ‘dire poetico’, si accosta dall’altro lato un “ascolto poetico” (Di Benedetto, 2002), a cui fa riferimento anche Odgen richiamato da Nanni in apertura, a testimonianza, come detto all’inizio, di quanto la psicoanalisi contemporanea abbia saputo sviluppare ed ampliare l’attenzione da Freud rivolta al mondo dell’arte e della poesia, da inserirsi anche, come fa Odgen (2008) stesso, nelle supervisioni e nei training, per meglio allenare all’ “ear training”, all’addestramento di un ascolto libero, associativo ed il più possibile insaturo, non pregiudiziale, non precostituito e creativo per entrambi i partecipanti alla cura.  

La poesia purtroppo non gode di buona salute nel nostro mondo contemporaneo; grandi poeti scompaiono, e quasi nessuno li conosce, o li celebra. La poesia non fa spettacolo, non arricchisce nulla se non lo spirito, e tuttavia non muore.  L’immediatezza trasparente con cui la parola poetica fa accedere al cuore delle cose fornisce al medico dello psichico uno strumento prezioso, che fa bene a noi perché cura in parte le ferite che ci hanno fatto ambire a questa professione, e facilita l’accesso al simbolo e alla comprensione di sé a persone difficili da raggiungere, o sopraffatte dai bisogni e dalle cose o dai traumi. Abbiamo bisogno, terapeuti e pazienti, di trasfigurare la realtà, che troppo spesso è insopportabile, e attraverso i poeti “sognatori del reale” (Freud, 1911) che continuamente la modificano a loro piacimento, non siamo costretti a modificarla attraverso i sintomi. Tale è la funzione della poesia, e il suo uso nella cura: sognare la realtà senza ammalarsi. 

 

 

Bibliografia 

 

Di Benedetto A. (2002): Prima della parola. Franco Angeli, Milano 

 

Freud S. (1907): Il poeta e la fantasia. O.S.F., 5. Boringhieri, Torino 

 

Freud S. (1911): Dei due principi dell’accadere psichico. O. S. F., 7. Boringhieri, Torino 

 

Freud S. (1915): L’inconscio. O.S.F., 8. Boringhieri, Torino 

 

Odgen T. (2008): L’arte della psicoanalisi. Cortina, Milano 

 

Pazzagli P. (1992): Poesie. Einaudi, Torino 

 

Quinodoz D. (2003): Le parole che toccano. Borla, Roma 

 

Solms Mark (2018): La coscienza dell’Es. Cortina, Milano 

 

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