Il cinema di Rosi è cinema di confine; e non perché –come credono alcuni- lui faccia documentari. Finzione o documentario, è tutto cinema. Sempre. Identica la fatica del farlo e uguale la pellicola. Il cinema è cinema, e basta. I generi, solo una convenzione.
Il cinema di Rosi è cinema di confine, dunque, perché girato nello spazio stretto di un prima e un dopo; sia questo un luogo della geografia piuttosto che della vicenda umana.
Era di confine Sacro Gra (Leone d’oro, qui a Venezia, nel 2014) e continuava ad esserlo l’altrettanto straordinario Fuocoammare, trionfatore a Berlino tre anni più tardi. Erano confini il raccordo anulare del primo e l’ultimo sperone di Lampedusa del secondo. E confine lo è magnificamente e naturalmente adesso, in questo Notturno, in concorso qui a Venezia quest’anno, la labile frontiera che separa il Kurdistan, dalla Siria e dall’Iraq; luoghi di passaggio da un paese all’altro assolutamente convenzionali e arbitrari; disegnati per convenienza dai vecchi colonizzatori e resi ancora più tragicamente aleatori oggi dalle vicende di una tragica guerra che non termina, ma stermina quella gente.
Non ci si attenda però, in questo lavoro di Rosi, l’ennesimo reportage su quei massacri; quelli l’autore li lascia volentieri al giornalismo embedded. Rosi non fa quello; Rosi preferisce arrestare la macchina da presa prima della linea di fuoco; laddove la guerra è già assolutamente presente nel plotone di mezzi militari che attraversa la città; nell’eco dei bombardamenti che si avvertono non troppo lontani; nei lutti; nella disperazione di una madre per la figlia sequestrata; nei racconti dei bambini che hanno conosciuto e ora disegnano i campi dove vennero trattenuti. E’ in tutto ciò che la guerra già si mostra, per avere ulteriore bisogno di venire esibita.
Notturno è dunque lo spazio dove l’umanità, nonostante l’orrore, prova ancora a resistere.
Magari negli amoreggiamenti di una coppia che ha l’ardire di apprezzare la bellezza del cielo e delle stelle, anche quando quello è stuprato dal boato delle bombe; magari nel disperato tentativo di una madre che cerca un ultimo contatto con il figlio assassinato, accarezzando le mura screpolate di quella che fu la sua ultima cella; magari nell’uscita notturna di un pescatore, tra i canneti di quel grande fiume conteso da quei popoli, alla ricerca di qualcosa da mangiare il giorno dopo; magari persino nel ragazzo che per sostenere la famiglia rimasta senza padre, guadagna pochi soldi facendo il cane da riporto per chi caccia.
Notturno è un film quasi silente.
Pochissimi i dialoghi, se non quelli di una rappresentazione messa in scena in un’ospedale psichiatrico; unico luogo dove forse può ancora dimorare la parola quando è tutto il mondo ad essere impazzito.
Notturno è notturno, quasi certamente, perché più che mostrarci, ci consente solo di intravedere.
Bellissima la fotografia. Talmente bella che a tratti può sembrare un orrendo e osceno ossimoro, lì, in quei teatri di morte. Ma forse sbagliamo. Lì c’è pure chi non s’arrende e prova a sopravvivere.
Frutto di tre anni di viaggi, sopralluoghi e riprese, c’era grande attesa per questo ritorno di Rosi alla Mostra. E il nostro autore non l’ha affatto delusa.
0 commenti